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LA PRESIDENZIALIZZAZIONE DELLA POLITICA NEL REGNO UNITO ED IN ITALIA

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Premessa

In sede di ricerca politologica si sono fatte più forti le voci che sostengono l'esistenza di un processo di presidenzializzazione della politica nel senso di un sempre maggior rilievo dei capi di governo delle democrazie occidentali. Questa tendenza si inserisce nell'ambito di due grandi fenomeni di portata generale che secondo molti studiosi starebbero attraversando la politica: la trasfromazione dei partiti e la personalizzazione della politica.

Riguardo al primo aspetto, studi empirici rilevano una significativa diminuzione della capacità dei partiti politici di mobilitare l'elettorato e l'esistenza di un generale processo di partisan dealignment (Dalton e Wattenberg 2000a). La teoria dei partiti più recente interpreta questo cambiamento all'interno di un processo di allontanamento dei partiti dalla società, per dirigersi sempre più verso lo Stato, e che avrebbe tra le conseguenze una sempre maggiore autonomia del vertice del partito rispetto alla base (Katz e Mair 2006).

La personalizzazione della politica sarebbe per molti autori una risposta dei partiti ai cambiamenti sopra menzionati: essendosi ridotti i tradizionali legami d'appartenenza, i partiti ricorrono alle capacità d'attrazione del leader per muovere l'elettorato. La maggiore personalizzazione delle campagne elettorali, favorita dai cambiamenti nella struttura dei media, consente così ai leader di personalizzare il mandato di governo rivendicando dal partito più margine di manovra (McAllister 2007).

All'interno di questi cambiamenti si inserisce appunto il dibattito sulla presidenzializzazione della politica resosi più forte dagli anni novanta. Per cercare di intepretare il fenomeno Poguntke e Webb (2005a) hanno eleborato un framework che è stato sottoposto a verifica empirica tramite un'opera di comparazione che ha coinvolto numerosi esperti di politica nazionale e che ha interessato diverse democrazie occidentali, diverse tra loro per forma di governo e modello di democrazia. I risultati dello studio sono stati favorevoli alle tesi di Poguntke e Webb, anche se recenti critiche hanno messo in luce la necessità di maggiori approfondimenti in materia.

La presente tesi si propone di applicare lo scheme teorico di Poguntke e Webb allo studio della presidenzializzazione della politica in Italia e nel Regno Unito, nel periodo 1994-2007, e di fare una comparazione tra i due paesi.

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La prima parte, dal titolo dalla "Politica dei partiti alla politica dei presidenti", tratta dei fenomeni generali di trasformazione dei partiti politici e di personalizzazione della politica delle democrazie occidentali (capitolo 1) ed espone lo schema teorico di presidenzializzazione elaborato da Poguntke e Webb con le evidenze empiriche che lo sostengono (capitolo 2). La seconda parte, dal titolo "La presidenzializzazione di due democrazie parlamentari", dà ragione del metodo e dei casi scelti in questa tesi (capitolo 3), ed applica il framework di Poguntke e Webb al caso del Regno Unito (capitolo 4) e dell'Italia (capitolo 5). Alla fine viene fatta una comparazione delle presidenzializzazione nei due paesi (capitolo 6).

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PARTE PRIMA

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1. MUTAMENTI DEI PARTITI E PERSONALIZZAZIONE DELLA

POLITICA

Due tendenze importanti della politica contemporanea sono l'indebolimento della capacità dei partiti politici di mobilitare l'elettorato ed orientarne le scelte di voto e la personalizzazione della politica. Si tratta di due fenomeni spesso collegati fra di loro che tratteremo brevemente (e senza pretesa d'esaustività) in questo capitolo al fine di delineare a grandi linee il contesto in cui si inserisce il dibattito sulla presidenzializzazione.

Nella prima parte del capitolo ci soffermeremo sul primo fenomeno, cercando di capire in che cosa consista il presunto declino dei partiti e quali siano le evidenze empiriche al riguardo. In particolare ci soffermeremo brevemente su come il dibattito teorico sui modelli di partito abbia cercato di spiegare i mutamenti in corso.

Successivamente affronteremo il tema della personalizzazione della politica guardando a che cosa essa significhi, quali siano le sue implicazioni e le prove empiriche al riguardo.

TRASFORMAZIONI DEI PARTITI POLITICI

Declino dei partiti?

"Dopo un periodo, tra la metà degli anni '70 e l'inizio degli anni '90, di relativo disinteresse da parte degli studiosi nei confronti dei partiti politici e dei sistemi di partito, nell'ultimo decennio tali temi hanno riacquistato nella letteratura internazionale una notevole preminenza; questo malgrado il diffuso scetticismo sul ruolo dei partiti nelle democrazie contemporanee" (Bardi 2006a: 7).

"Paradossalmente, questa rivitalizzazione di interesse accademico nei partiti ha coinciso con le frequenti asserzioni che i partiti sono entrati in un irreversibile processo

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di declino" (Ramòn Montero e Gunther 2002: 3).

Le citazioni precedenti convergono nel rilevare come la ripresa d'interesse dei politologi sul tema dei partiti politici abbia coinciso con la messa in discussione del ruolo esercitato dagli stessi nelle democrazie contemporanee e con l'affermarsi, almeno in una parte della letteratura, del tema del declino dei partiti. Ma cosa si intende con tale espressione ?

Un risposta assai articolata a questa domanda ce la propone Daalder (2002) che fa una rassegna della letteratura sulla crisi dei partiti individuando al suo interno quattro differenti filoni.

1. La negazione del partito: è la posizione di chi nega la legittimità dei partiti e li descrive come una minaccia per la società; convergono su questa posizione, pur partendo da prospettive opposte, sia i sostenitori dell'autorità statale che i fautori della democrazia diretta.

2. Il rigetto selettivo del partito: è la posizione di chi, pur accettando l'esistenza dei partiti ne condanna alcune specifiche forme organizzative distinguendo così tra tipi di partiti "buoni" e tipi "cattivi".

3. Il rigetto selettivo dei sistemi di partito: per taluni alcuni sistemi di partito sono superiori ad altri; nella scienza politica è stata in passato piuttosto forte la convinzione della superiorità del sistema politico britannico rispetto a quelli degli altri paesi europei, convinzione ormai sotto molto aspetti ridemensionata ma ancora presente nel dibattito politico.

4. La ridondanza del partito: è forse il filone più discusso oggi, poiché si domanda quale sia la vera funzione e la rilevanza nelle democrazie contemporanee dei partiti e dei sistemi di partito. Daalder individua sei linee di argomentazione a proposito (la posizione di chi ritiene che i partiti abbiano avuto un ruolo storico cruciale nell'incorporare le masse nel corpo dello Stato ma sono ora irrilevanti; la posizione di chi ritiene che i partiti, per massimizzare il consenso, stiano perdendo la loro funzione di aggregare ed articolare proposte politiche; il dibattito sul fatto che i partiti non sono veramente importanti nell'elaborazione di politiche che sono più dettate da esigenze oggettive della società che dall'ideologia; le teorie neocorporativiste che danno poco peso al ruolo dei partiti; il punto di vista di chi vede perdere ai partiti il ruolo di primo canale di articolazione e aggregazione degli interessi per il crescente peso dei gruppi

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d'azione ad hoc; le posizioni dei sostenitori degli strumenti della democrazia diretta).

Da questa rassegna si ricava l'idea che spesso la crisi dei partiti sia un'espressione eufemistica per indicare "un'avversione dei partiti" (Daalder 2002: 55).

Più comunemente, il declino dei partiti si riferisce al fatto che essi sono meno determinanti nell'influenzare l'atteggiamento delle masse e delle élite e meno capaci di ispirare i comportamenti elettorali (Reiter 1989)

Dalton e Wattenberg hanno guidato uno studio basato su dati empirici, per verificare la sussistenza o meno di un declino dei partiti nelle democrazie dell'area OCSE (con l'eccezione di Spagna, Portogallo, Grecia, Islanda e Lussemburgo). L'approccio utilizzato (Dalton e Wattenberg 2000b) è di tipo funzionale perché guarda alle funzioni svolte dal partito nell'elettorato (semplificare le scelte di voto, educare i cittadini alla democrazia, generare simboli di identificazione e lealtà, mobilitare il popolo), dal partito come organizzazione (reclutare leadership politica per uffici governativi, prepare le élite politiche, articolare gli interessi politici, aggregare gli interessi), dal partito al governo (creare maggioranze di governo, organizzare il governo, implementare le politiche, organizzare il dissenso e l'opposizione, assumersi responsabilità dell'azione governativa, controllare governo ed amministrazione, assicurare stabilità di governo). Lo studio è volto a verificare come è cambiato il modo in cui i partiti esercitano queste funzioni in relazione ai cambiamenti sociali che gli autori distinguono tra cambiamenti di microlivello, di mesolivello e di macrolivello. Per cambiamenti di microlivello, gli autori intendono l'aumento del livello di istruzione e di informazione dell'elettorato, l'affermarsi di nuovi valori post-materilistici, l'aumentare della mobilità sociale. Sono invece cambiamenti di mesolivello i cambiamenti nel sistema dei media, il proliferare dei gruppi d'interesse, l'aumento della professionalizzazione e dell'istituzionalizzazione dei partiti politici. Sono infine cambiamenti di macrolivello l'affermarsi di nuovi strumenti tecnologici che hanno cambiato profondamente il modo di svolgersi delle campagne elettorali (come ad esempio i sondaggi), l'introduzione di nuove metodologie per la selezione delle élite politiche (si pensi ad esempio all'introduzione delle primarie dirette negli USA) e infine, più in generale, il fatto che la crisi dei partiti si inserisce in una più ampia crisi della democrazia. Alla fine dello studio, sulla base di vari dati empirici raccolti, Dalton e Wattenberg concludono che "c'è una forte prova di un deallineamento [dealignment] all'interno dell'elettorato, i partiti politici come organizzazioni si stanno adeguando a questa tendenza, e l'evidenza suggerisce che i partiti sono vivi e vegeti all'interno

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del processo di governo" (Dalton e Wattenberg 2000c: 273). Se da un lato viene così confermato il ruolo centrale dei partiti nelle democrazie rappresentative, dall'altro viene riconosciuta l'esistenza di cambiamenti rilevanti, in particolare il fenomeno del partisan dealignment con il quale si intende che diminuiscono tra gli elettori che si recano alle urne quelli con una stabile appartenenza partitica. Per la frammentazione e l'individualizzazione del comportamento elettorale, le scelte di voto finiscono infatti per essere più influenzate dalle preferenze sulle politiche, dal giudizio sui comportamenti passati e dall'immagine del candidato anzichè dall'identità politica, mentre i media giocano un ruolo sempre più centrale nelle campagne elettorali. I due studiosi vedono anche altre conseguenze. È compromessa la capacità dei partiti di integrare i cittadini nel processo democratico. "Il tradizionale partito politico di massa coinvolgeva i cittadini nelle politiche e legittimava il processo democratico attraverso la partecipazione nelle elezioni e nelle campagne. L'attaccamento partitico stimola il coinvolgimento degli elettori meno istruiti e dallo status più basso. Dato che questo attaccamento si indebolisce, è ragionevole aspettarsi che tali cittadini saranno lasciati indietro nel nuovo contesto politico" (Dalton e Wattenberg 2000c: 281). Se è vero che parallelamente al fenomeno del partisan dealignment aumenta il ricorso ad altre forme di partecipazione politica tali forme appaiono però ai due studiose meno alla portata dei ceti più bassi. Gli autori vedono inoltre compromessa anche la capacità dei partiti di articolare gli interessi. "La mancanza di stabili coalizioni elettorali, l'indebolimento dei legami coi gruppi sociali di sostegno, e le modifiche interne nei partiti politici stanno diminuendo la loro capacità di riunire i diversi interessi politici in un programma di governo " (Dalton e Wattenberg 2000c: 283). I due studiosi concludono affermando che per loro il partisan dealignment è una nuova realtà che i partiti devono accettare e che il futuro della democrazia dipende dal modo in cui essi sapranno rispondere ai cambiamenti in corso.

Sulle risposte dei partiti ai cambiamenti in atto si concentra, tra gli altri, Poguntke (2004). Egli individua tre cambiamenti principali: l'erodersi della capacità dei partiti (e delle loro organizzazioni collaterali) di aggregare interessi, la perdita sostanziale da parte degli stessi del controllo sulla comunicazione politica, il ridursi del loro ruolo di central policy-makers. Con riguardo al primo aspetto, lo studioso osserva come dagli anni ottanta ai novanta del secolo scorso si sono verificati profonde trasformazioni nelle società occidentali a seguito delle quali gli individui non si riconoscono più in ampi e ben identificabili gruppi d'interesse ma si trovano a far parte di una rete di interessi e bisogni spesso in contraddizione tra di loro. In merito al secondo punto viene osservato il declino della stampa di partito e il proliferare delle

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televisioni e delle radio private finiscono per minare il controllo dei partiti sulla comunicazione politica. Infine, fenomeni come l'internazionalizzazione e l'europeizzazione della politica portano molte delle decisioni politiche più importanti a livello sovranazionale cosicché i partiti si trovano spesso a dover ratificare in Parlamento le decisioni prese dagli esecutivi a livello di accordo intergovernativo. Il punto importante però è che i partiti non restano affatto inerti di fronte a questi cambiamenti. Il declino dell'affiliazione partitica come strumento di comunicazione spinge i partiti ad espandere la consultazione degli iscritti (membership ballot) come strumento per coinvolgerli maggiormente e ad espandere il ricorso ai moderni mezzi di comunicazione tecnica. Le crescenti difficoltà nell'aggregare gli interessi tentano di essere sopperite tramite ricerche di mercato e focus group di ricerca. L'internazionalizzazione della politica trova una risposta nella crescente personalizzazione della leadership politica. A proposito di queste risposte, Poguntke osserva:

"A prima vista, alcune di queste strategie di risposta sembrano assomigliare ad esercizi di limitazione del danno anzichè rappresentare un adattamento lungimirante alle condizioni della politica nel XXI secolo. Questa impressione può, tuttavia, dover molto a una tendenza tra gli studiosi del partito ad utilizzare (implicitamente) modelli del passato, soprattutto quelli del partito di massa, al momento di valutare i partiti politici contemporanei. Mentre essi non possono più valutare i partiti politici contemporanei" (Poguntke 2004: 5).

Calise è più categorico al riguardo, dividendo gli studiosi sui cambiamenti dei partiti tra "nostalgici" del vecchio partito di massa e "realisti" che "avanzano un dubbio di fondo sull'interpretazione dei nostalgici: ma perché i partiti dovrebbero restare inchiodati alla funzione per la quale, tanto tempo fa, sono nati ?" (Calise 2010: 23).

Oltre il partito di massa

Le precedenti osservazioni di Poguntke e di Calise suggeriscono l'idea che sia ancora radicata l'identificazione tra partito e partito di massa. E questo nonostante il fatto che la teoria dei partiti abbia già da tempo proposto modelli interpretativi diversi.

È del 1966 il modello del partito pigliatutto proposto da Otto Kirchheimer per spiegare le trasformazioni dei partiti d'integrazione di massa nel secondo dopoguerra. Sono l'affermarsi

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del secolarismo e il progressivo sfumarsi delle distinzioni di classe che spingono i partiti classisti di massa e i partiti confessionali di massa a diventare partiti pigliatutto. Anche i partiti borghesi, se vogliono assicurarsi la sopravvivenza, sono costretti a fare altrettanto.

"Questo mutamento comporta: a) una drastica riduzione del bagaglio ideologico del partito (...); b) un ulteriore rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice, le cui azioni e omissioni sono ora considerate dal punto di vista del loro contributo all'efficienza dell'intero sistema sociale, piuttosto che dell'identificazione con gli obiettivi della loro organizzazione particolare; c) una diminuzione del ruolo del singolo membro del partito, ruolo considerato come una reliquia storica, che può oscurare la nuova immagine del partito pigliatutto; d) una minore accentuazione della classe gardée, di una specifica classe sociale o di una clientela confessionale per reclutare invece elettori tra la popolazione in genere; e) assicurare l'accesso ai diversi gruppi d'interesse. Le ragioni finanziarie di ciò sono ovvie, ma non sono le più importanti (...). La ragione principale è di assicurare un sostegno elettorale attraverso l'azione dei gruppi d'interesse" (Kirchheimer 1979: 257).

Il partito pigliatutto mira ad attrarre il massimo numero di elettori possibili e per farlo propone una "marca" che lo distingue sì dagli altri partiti ma con riguardo al fatto che "il grado di differenziazione non deve mai essere tanto grande da far temere al consumatore potenziale di uscire dai confini" (Kirchheimer 1979: 259). I rapporti con i gruppi d'interesse saranno articolati in modo da non allontanare preventivamente elettori legati a gruppi diversi. D'altra parte i gruppi d'interesse staranno attenti a non legare le loro sorti ad un solo partito. Il partito pigliatutto paga così la possibilità di poter attrarre un elettorato più vasto con una minore intensità d'impegno da parte dei suoi sostenitori e con il fatto di esporsi "a tutte le incertezze dei fornitori di beni di consumo non durevoli: la concorrenza di una marca che presenta in modo più attraente un prodotto quasi identico" (Kirchheimer 1979: 261). I programmi elettorali sono infatti più generali ed indeterminati, frutto di compromessi tra i diversi gruppi che mirano ad ampliare i sostenitori evitando fuoriuscite dal partito. Nella definizione della linea politica il contributo principale del partito pigliatutto consiste "nella mobilitazione degli elettori per qualunque linea di azione concreta che i dirigenti siano capaci di stabilire, piuttosto che in decisioni prese a <<a priori>>" (Kirchheimer 1979: 264). Assume pertanto particolare rilievo la selezione dei candidati per gli uffici pubblici, che diventa la funzione principale del

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partito. Complessivamente il ruolo del partito politico diventa più limitato. "Nei suoi ruoli governativi funziona come coordinatore e come arbrito tra gruppi funzionali di potere. Nei suoi ruoli elettorali produce quella quantità limitata di partecipazione ed integrazione popolare richiesta per il funzionamento delle istituzioni politiche pubbliche" (Kirchheimer 1979: 266). Agli inizi degli anni ottanta Angelo Panebianco aggiunse ulteriori elementi al modello delineato da Kirchheimer, in particolare quello della "progressiva professionalizzazione delle organizzazioni di partito" (Panebianco 1982: 480). Le differenze tra il partito di massa e quello che Panebianco definisce partito professionale elettorale sono riassunte nella tab. 1.1.

Tab. 1.1. Partito di massa e partito professionale elettorale.

Partito burocratico di massa Partito professionale elettorale

a) centralità della burocrazia (competenza politico-amministrativa)

a) centralità dei professionisti (competenze specialistiche)

b) partito di membership, legami organizzativi verticali forti, appello all'elettorato

di appartenenza

b) partito elettorale, legami organizzativi verticali deboli, appello all'elettorato di opinione

c) preminenza dei dirigenti interni, direzioni collegiali

c) preminenza dei rappresentanti pubblici, direzioni personalizzate

d) finanziamento tramite tesseramento ed attività collaterali

d) finanziamento tramite gruppi d'interesse e fondi pubblici

e) accento sulla ideologia, centralità dei credenti entro l'organizzazione

e) accento sulle issues e sulla leadership, centralità dei caratteristi e dei gruppi d'interesse dentro l'organizzazione

Fonte: Panebianco (1982: 481).

Nel 1995 Richard Katz e Peter Mair elaborarono un nuovo modello di partito: il cartel party. L'articolo dei due studiosi (Katz e Mair 2006) mette in discussione l'idea che i partiti debbano essere classificati in base al loro rapporto con la società civile, idea che porta a prendere il partito di massa come punto di riferimento rispetto al quale giudicare i mutamenti successivi. In questa prospettiva gli autori respingono espicitamente la tesi del declino dei partiti. Lo sviluppo dei partiti nelle democrazie occidentali è visto come "un processo dialettico, in cui

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ogni nuovo tipo di partito provoca una reazione che stimola ulteriori sviluppi, portando quindi ad un nuovo tipo di partito e ad un'altra serie di reazioni e così via. In quest'ottica, il partito di massa è semplicemente uno stadio di un processo permanente" (Katz e Mair 2006: 33). Inoltre, i due sottolineano l'importanza del rapporto tra i partiti politici e lo Stato. Ripercorrendo le fasi dello sviluppo dei partiti politici, i due politologi individuano un progressivo movimento dalla società civile allo Stato che porta i partiti a diventare parte dell'apparato statale stesso. Il declino della partecipazione all'attività del partito da un lato, l'aumento del costo delle attività di partito dall'altro, spingono i partiti a cercare sempre di più le risorse statali. Del resto sono i partiti stessi a stabilire le regole di attribuzione dei finanziamenti pubblici come anche le modalità di accesso ai media. E dato che in genere le regole di accesso alle sovvenzioni pubbliche e agli spazi tv sono legati a precedenti risultati elettorali, tali regole favoriscono i partiti esistenti creando barriere all'ingresso di nuovi competitori. "Lo Stato, in questo senso, diventa una struttura istituzionalizzata di sostegno, che agisce a favore di chi è dentro ed esclude chi è fuori. Non più semplicemente mediatori fra la società civile e lo Stato, i partiti vengono ora assorbiti dallo Stato. Dopo aver avuto dapprima il ruolo di fiduciari, poi di delegati, poi di imprenditori, all'epoca del partito pigliatutto, i partiti diventano agenzie parastatali" (Katz e Mair 2006: 46). L'accesso alle risorse pubbliche è ora essenziale per la sopravvivenza dei partiti, che vanno a formare un "cartello" per spartirsi le risorse. Ecco allora affermarsi "un nuovo tipo di partito, il cartel party, caratterizzato dalla compenetrazione del partito e dello Stato e anche da un modello di collusione interpartitica" (Katz e Mair 2006: 47)1. Tutto questo sviluppo ha implicazioni importanti per la democrazia

che "cessa di essere considerata un processo alternativo attraverso il quale vengono posti limiti e controlli allo Stato dalla società civile, per diventare invece un servizio fornito dallo Stato alla società civile. La leadership politica deve essere rinnovata e le elezioni costituiscono un tranquillo rituale per farlo. Il feedback è necessario affinché i governanti possano fornire una guida generalmente accettabile, e le elezioni competitive, che segnalano un favore o lo scontento pubblico per la linea politica e i suoi risultati, forniscono quel feedback. Così lo Stato fornisce elezioni competitive. E poiché elezioni democraticamente competitive, almeno nel senso corrente, richiedono partiti politici, lo Stato fornisce anche (o garantisce che possano esistere) i partiti politici. In fondo, ovviamente, sono i partiti al potere a costituire lo Stato e a 1 Si tenga comunque presente che Katz e Mair non vogliono suggerire uno sviluppo obbligato di tutti i partiti verso un unico modello ma bensì "considerano ciascun modello come parte di un repertorio di soluzioni organizzative dal quale gli attori politici possono fare le loro scelte, pur sempre influenzate dalle circostanze istituzionali e societarie all'interno delle quali essi si trovano ad operare." (Bardi 2006a: 13).

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fornire tale servizio, e quindi è la loro esistenza quella che garantiscono" (Katz e Mair 2006: 54-5).

In conclusione, i partiti hanno subito nel secondo dopoguerra dei profondi cambiamenti. Che si preferisca parlare di declino dei partiti o dell'affermarsi di nuovi modelli di partiti, si deve comunque fare i conti con una nuova realtà e con un nuovo modo di articolarsi dei rapporti tra partiti e società. Si tratta di un fenomeno caratteristico del nostro tempo che si accompagna ad un altro che sarà oggetto d'attenzione nelle prossime pagine del capitolo: la personalizzazione della politica.

LA PERSONALIZZAZIONE DELLA POLITICA

Personalizzazione ed americanizzazione

Il fenomeno del partisan dealignment e il crescente ruolo dei media nelle campagne elettorali hanno portato una parte sempre maggiore della letteratura a ritenere il ruolo degli attori politici individuali sempre più rilevante nel processo politico. Si parla perciò di personalizzazione della politica.

"Il cuore dell'ipotesi di personalizzazione è la nozione che i singoli attori politici sono diventati più importanti a scapito dei partiti e delle identità collettive. Questo concetto centrale denota un processo di cambiamento nel tempo: a t la politica era meno personalizzata rispetto a t +1" (Karvonen 2010: 4).

Il passaggio da una politica incentrata su partiti ed identità collettive ad una centrata sulle persone è stata sostenuta tra gli altri da Bernard Manin nella sua famosa opera sul governo rappresentativo, come si evince dalla seguente citazione.

"Talvolta si sostiene che nei paesi occidentali la rappresentanza politica stia vivendo una crisi. Per molti anni la rappresentanza sembrò essere fondata su un rapporto di fiducia forte e stabile fra i votanti e i partiti politici, per cui la stragrande maggioranza dei votanti si identificava con un particolare partito e gli rimaneva fedele. Oggi, invece, sempre più persone cambiano il modo di votare da un'elezione all'altra e i sondaggi

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d'opinione rivelano un numero crescente di persone che rifiutano di identificarsi con un qualsiasi partito esistente. Le differenze fra i partiti una volta sembravano essere un riflesso delle divisioni sociali. Al giorno d'oggi, invece, si ha l'impressione che siano i partiti a imporre delle distinzioni all'interno della società, che i commentatori deplorano in quanto <<artificiali>>. In passato ciascun partito proponeva all'elettorato un programma dettagliato di misure che prometteva di implementare nel caso in cui fosse tornato al potere. Oggi invece le strategie elettorali dei candidati e dei partiti sono basate sulla costruzione di immagini vaghe, in cui svolge un ruolo preminente la personalità dei leader. Infine, coloro che oggi si muovono nei circoli politici sono distinti dal resto della popolazione per via della loro occupazione, della loro cultura e del loro modo di vivere. La scena pubblica è sempre più dominata dagli specialisti dei media, dai sondaggisti e dai giornalisti, che possono essere considerati come un'immagine tipica della società. Generalmente i politici raggiungono il potere grazie alle loro abilità mediatiche e non perché assomiglino ai loro elettori dal punto di vista sociale o siano vicini a essi. Il solco fra il governo e la società, fra i rappresentanti e i rappresentati, sembra allargarsi" (Manin 2010: 215).

Manin vede allora l'affermarsi, dagli anni '70 del secolo scorso, di quella che lui definisce democrazia del pubblico, vista come ultima fase di sviluppo del governo rappresentativo dopo i precedenti momenti del parlamentarismo e della democrazia dei partiti. Una delle sue caratteristiche principali è proprio la personalizzazione della politica. La tab. 1.2 riassume le diverse caratteristiche delle tre fasi.

In Italia, le tesi di Manin sono state criticate da Sergio Fabbrini. Anzitutto l'autore italiano ridimensiona la portata della personalizzazione nelle democrazie europee:

"... è vero che vi sono delle pressioni culturali e tecnologiche (condizione incentivante) verso la personalizzazione della politica, tuttavia è altrettanto vero che tali pressioni debbono essere facilitate (condizione facilitante) dal sistema elettorale e partitico ai fini della loro istituzionalizzazione" (Fabbrini 1999: 131).

Fabbrini distingue tra personalizzazione elettorale e personalizzazione del potere. Per quanto riguarda la prima, sebbene ritienga che in Europa e negli Stati Uniti sussistano le stesse condizioni incentivanti, sottolinea però che non vi sono le stesse condizioni facilitanti. Infatti

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Tab. 1.2. Principi e varianti del governo rappresentativo

Parlamentarismo Democrazia dei partiti Democrazia del pubblico

Elezione dei rappresentanti

-scelta di una persona di fiducia -espressione di legami locali -fedeltà a un partito -espressione dell'appartenenza a una classe -attivista/burocrate di partito

-scelta di una persona di fiducia

-risposta ai termini dell'offerta elettorale

-esperto dei media

Parziale autonomia dei rappresentanti

-il deputato vota secondo coscienza

-i leader di partito sono liberi di determinare le priorità all'interno del programma

-elezione sulla base dell'immagine Libertà dell'opinione pubblica -l'opinione pubblica e l'espressione elettorale non coincidono

-la voce del popolo <<alle porte del parlamento>> -l'opinione pubblica e l'espressione elettorale coincidono -opposizione -l'opinione pubblica e l'espressione elettorale non coincidono -sondaggi d'opinione

Prova della discussione - parlamento -dibattito all'interno del partito -negoziazioni intrapartitiche -neocorporativismo -negoziazioni fra il governo e i gruppi d'interesse

-dibattito nei media / elettori mobili Fonte: Manin (2010: 261)

affinché il voto sia influenzato dalla persona bisogna che l'eletto possa disporre di una certa discrezionalità decisionale nell'istituzione in cui agisce. Ma mentre questa condizione si verifica negli USA sia per l'elezione del presidente (organo monocratico ed effettivo titolare del potere esecutivo) che per l'elezione dei congressisti (in virtù del forte decentramento istituzionale e partitico del Congresso americano), diversa è invece la situazione europea, dove i partiti controllano le votazioni parlamentari e i governi sono espressione del Parlamento (con la parziale eccezione francese). Per quel che concerne poi la personalizzazione del potere, Fabbrini ritiene che per parlare di "potere personale" debbano sussistere contemporaneamente, in un regime democratico, quattro condizioni vincolanti: "in primo luogo (requisito della fonte), esso deve risultare da una investitura diretta di autorità politica nel leader da parte degli elettori; in secondo luogo (requisito della motivazione), tale investitura deve riguardare la persona e le sue personali posizioni politiche; in terzo luogo (requisito della durata), sono i cittadini, in quanto corpo elettorale, che delimitano temporalmente l'uso del potere che deriva

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da quell'investitura; in quarto luogo (requisito dell'esercizio) il leader così eletto deve essere in grado di monopolizzare la decisione governativa" (Fabbrini 1999: 133-4). Sulla base di questa definizione Fabbrini ritiene pertanto che neppure negli Stati Uniti, dove si realizzano le prime tre condizioni ma non la quarta (poiché il presidente deve dividere il governo con il Congresso), si possa parlare di potere personale.

Fabbrini discute anche la tesi della personalizzazione come sintomo dell'americanizzazione, intesa come omogenizzazione dell'Europa agli USA. Fabbrini individua due debolezze analitiche nella tesi dell'americanizzazione: quella di non saper spiegare perché l'influenza politico-culturale degli USA non ha avuto conseguenze politico-istituzionali sulle democrazie europee e quella di non saper distinguere tra cambiamenti derivanti da una consapevole volontà degli attori di seguire modelli americani e quelli derivanti da un obiettivo processo di modernizzazione2. Per lo studioso italiano infatti è più corretto parlare di una convergenza tra

le condizioni incentivanti del processo politico negli Stati Uniti e in Europa piuttosto che di un'egemonia dei primi sulla seconda. Guardando agli anni Ottanta del secolo scorso, Fabbrini osserva che "in quel decennio, i processi di de-allineamento (coi loro effetti di crescita della volatilità e dell'indipendenza elettorali) si sono intrecciati con quelli relativi alla tecnologizzazione della competizione politica, creando così un clima favorevole alla candidate politics. Ed è proprio in quel decennio che alcuni leader governativi, acquisendo una sensibile indipendenza dai rispettivi partiti di provenienza, hanno potuto perseguire strategie comportamentali assimilabili a quelli statunitensi della personalizzazione" (Fabbrini 1999: 150). La tendenza alla "personalizzazione dell'azione esecutiva" (Fabbrini 1999: 160) accomuna le esperienze di Ronald Reagan negli Stati Uniti, Margaret Thatcher nel Regno Unito, François Mitterrand in Francia e Bettino Craxi in Italia. Tali esperienze hanno però trovato un punto d'arresto nei vincoli dei rispettivi sistemi istituzionali. Ma se in America la preminenza del presidente dentro l'esecutivo non può essere messa in discussione, nelle democrazie parlamentari europee il capo del governo può sempre essere disarcionato dai partiti della sua maggioranza come dimostrano le esperienze di Craxi e della Thatcher. Quella francese è un'eccezione solo parziale dato che il governo può comunque essere sfiduciato dall'Assemblea Nazionale ed il potere esecutivo del presidente della Repubblica può essere notevolmente ridimensionato nei periodi di coabitazione, come ebbe modo di sperimentare a sue spese Mitterrand. Alla luce di tutte queste considerazioni, Fabbrini polemizza apertamente 2 La plurità di accezioni del termine è confermata da Pasquino che sottlinea come il processo di americanizzazione "può avere tre componenti o, meglio, può comportare tre diversi processi: la modernizzazione, l'imposizione, l'imitazione" (Pasquino 2005: 4).

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con le tesi di Manin e di chi come lui sottovaluta il peso delle istituzioni:

"... molte delle caratteristiche della politica contemporanea che Manin individua (ed in particolare la formidabile pressione ad una personalizzazione della politica) sono facilmente rilevabili nelle nostre democrazie. Tuttavia c'è un <<ma>>. E il <<ma>> è il seguente: una tendenza non è un fatto. E non lo è per la ragione (appunto) che una tendenza (la personalizzazione della politica) viene filtrata da un dato sistema istituzionale. E, nelle democrazie contemporanee, nessun sistema istituzionale (neppure quello statunitense) è strutturato per favorire quella tendenza al punto di trasformarla in un regime politico" (Fabbrini 1999: 163).

Prove empiriche della personalizzazione

Ma quali sono le prove empiriche a sostegno della tesi della presidenzializzazione? Ci sono molti studi in materia, ma la portata del fenomeno rimane materia di contrasto tra gli studiosi. McAllister (2007) fa una rassegna di numerosi studi che portano evidenze a sostegno della tesi della personalizzazione della politica con riferimento a diversi paesi. Secondo l'autore ci sarebbero molto prove della maggior importanza dei leader nelle società democratiche, sebbene riconosca che gli studi in materia sono riferiti per lo più a singoli paesi ed hanno spesso carattere impressionistico, date le difficoltà metodologiche con cui si scontrano, difficoltà relative alla raccolta dei dati ed ai continui cambiamenti delle personalità dei leader e delle circostanze in cui questi si muovono. Nel complesso l'autore è però convinto che ci siano pochi dubbi in merito ad un aumento della personalizzazione della politica e che questa sia molto pronunciata nelle democrazie parlamentari, con particolare riferimento allo stile delle campagne elettorali, alla presentazione e alla promozione delle politiche ed al ruolo del capo del governo. Per quanto riguarda le conseguenze di tutto ciò, McAllister sostiene che sul piano elettorale la personalizzazione accentua il declino dei partiti poiché la mobilitazione elettorale dipende sempre meno dai programmi e sempre più dalla personalità del leader, mentre sul piano governativo la personalizzazione del mandato aumenta l'autonomia del leader e nelle democrazie parlamentari aumentano le pressioni ad adattare le istituzioni a questa tendenza.

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McAllister ignora la letteratura contraria alla tesi della personalizzazione. Lo studioso finlandese ha condotto lui stesso uno studio empirico sulla personalizzazione delle democrazie parlamentari. Karvonen verifica l'ipotesi della personalizzazione con riferimento a quattro aree di ricerca: personalizzazione ed istituzioni, il ruolo dei candidati, il ruolo dei leader di partito, il modo in cui la politica è presentata. Dall'analisi delle diverse aree, il politologo giunge a constatare che l'esame dei "diversi aspetti della personalizzazione porta a conclusioni in parte diverse sul fenomeno" (Karvonen 2010: 101). La conclusione del politologo è infatti che non si può sostenere l'esistenza di una generale tendenza verso la personalizzazione della politica nelle democrazie parlamentari, ma che ci sono comunque delle prove che in molte democrazie le persone giocano un ruolo più importante nelle istituzioni (gli esecutivi) e nelle campagne elettorali. La tab. 1.33 riassume i risultati del lavoro di Karvonen paese per paese.

Tab. 1.3. Casi positivi, misti e negativi di personalizzazione secondo Karvonen

Casi positivi Casi misti-positivi Casi misti-negativi Casi negativi

-Belgio -Finlandia -Irlanda -Danimarca -Israele -Italia -Olanda -Nuova Zelanda -Svezia -Regno Unito -Austria -Germania -Malta -Canada -Giappone -Norvegia

Fonte: Karvonen (2010: 102-5) ; la classificazione dei paesi è fatta da Karvonen stesso, la tabella è dell'autore.

Ora che abbiamo delineato a grandi linee due delle tendenze più rilevanti della politica contemporanea, tra loro collegate, possiamo addentrarci, a partire dal prossimo capitolo, in quello che è l'oggetto di questa tesi: la presidenzializzazione della politica ovvero il ruolo sempre più predominante dei capi degli esecutivi nelle democrazie contemporanee. Tale fenomeno si inserisce pienamente all'interno del contesto delineato in questo capitolo.

Gli studi di Kirchheimer, Panebianco, Katz e Mair convergono nel delineare un fenomeno per cui il potere nel partito finisce sempre più per accentrarsi nei leader del partito. "Perché? Principalmente perché i leader e i loro consiglieri più vicini richiedono la massima autonomia per adeguare la strategia del partito al fine di conquistare in maniera più efficace il sostegno 3 Non tutti i paesi sono stati analizzati in maniera uniforme. Altri paesi analizzati (Australia, Islanda, Lussemburgo, Portogallo, Spagna) non vengono classificati da Karvonen (2010) perché ne ha trattato solo un singolo aspetto.

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degli oscillanti elettori chiave che decidono i risultati delle elezioni e che mancano di stretti legami o lealtà per particolari partiti" (Webb e Poguntke 2005: 353).

D'altro lato, gli studi sulla personalizzazione evidenziano come sia sempre maggiore l'enfasi sul capo del governo all'interno dell'esecutivo e come le campagne elettorali tendano sempre di più ad essere incentrate sulla sua persona (sebbene Karvonen ci metta in guardia che non si tratta di tendenze del tutto univoche).

Preminenza del leader sul partito, preminenza del capo del governo nell'esecutivo, enfasi sul candidato presidente/primo ministro nel momento elettorale sono proprio, lo approfondiremo nelle prossime pagine, le caratteristiche principali della presidenzializzazione della politica.

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2. LA PRESIDENZIALIZZAZIONE

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, nelle odierne democrazie occidentali si verificano due fenomeni diversi ma fra loro collegati: da una parte c'è un generale processo d'indebolimento del rapporto tra la società e i partiti, dall'altra aumenta il rilievo assegnato alle personalità dei singoli attori politici. In questo contesto (e per certi versi come conseguenza di esso) si inserisce il dibattito sul ruolo sempre più predominante che giocano i capi di governo soprattutto, ma non solo, nelle democrazie parlamentari. A proposito di ciò, si parla di presidenzializzazione della politica.

La riflessione politologica sulla presidenzializzazione si fa particolarmente intensa negli anni novanta, con particolare riguardo al caso del Regno Unito. Ad oggi, lo studio più ambizioso sul fenomeno è però quello realizzato nel 2005 da Thomas Poguntke e Paul Webb con la collaborazione di vari esperti nazionali (Poguntke e Webb 2005a). Il volume curato da Poguntke e Webb:

• offre una definizione ampia del concetto di presidenzializzazione, che copre il complesso di fenomeni che essa comporta nei governi, nei partiti e nelle campagne elettorali;

• sottolinea come la portata del fenomeno non riguardi solo le democrazie parlamentari ma anche quelle presidenziali e semipresidenziali e spiega come essa possa operare tanto nelle democrazie maggioritarie quanto in quelle consensuali;

• pone l'attenzione sulle cause strutturali del fenomeno comuni ai diversi stati nazionali, cercando di andare oltre ad una visione orientata esclusivamente all'emergere di personalità politiche notevoli nei singoli paesi;

• individua degli indicatori rispetto ai quali valutare la sussistenza o meno del fenomeno nei diversi stati;

• verifica, tramite il metodo comparato, la sussistenza empirica del fenomeno;

• fornisce delle indicazioni sulle trasformazioni delle democrazie contemporanee che, secondo i due studiosi, vanno verso un tipo di democrazia elitista ma al tempo stesso plebiscitaria.

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Questo capitolo è diviso in tre parti. Nella prima parte è esposto lo schema teorico elaborato da Poguntke e Webb che definisce il fenomeno della presidenzializzazione e ne individua la dinamica e le cause (Poguntke e Webb 2005b). Nella seconda sono riportate le prove empiriche a riguardo frutto di un'opera di comparazione che ha riguardato quattordici democrazie occidentali e che ha coinvolto esperti di politica di diversa nazionalità (Webb e Poguntke 2005). Infine, prenderemo in considerazione alcune delle critiche che sono state avanzate all'opera dei due studiosi.

LO SCHEMA TEORICO

Il concetto

"Ma cos'è esattamente il fenomeno a cui siamo interessati? Ai nostri occhi, presidenzializzazione denomina un processo per cui i regimi stanno diventando più presidenziali nella loro pratica effettiva senza, nella maggior parte dei casi, cambiare la loro struttura formale, ossia, la loro forma di governo" (Poguntke e Webb 2005b: 1).

Alla luce della citazione precedente si pone allora il problema di spiegare cosa significhi diventare "più presidenziali". Poguntke e Webb osservano che ad una simile questione è possibile rispondere in due modi. Empiricamente, è possibile prendere come metro di paragone il caso degli Stati Uniti, inteso "come il primo esempio di una pura democrazia presidenziale" (Poguntke e Webb 2005b: 2). I due studiosi scelgono invece un approccio idealtipico analizzando i meccanismi inerenti dei sistemi presidenziali, focalizzandosi poi su incentivi e costrizioni che risultano dalla configurazione degli elementi costituzionali essenziali. La sussistenza o meno di una tendenza alla presidenzializzazione non viene pertanto considerata nei termini di una maggiore o minore americanizzazione del sistema politico ma bensì nei termini di una maggiore o minore vicinanza al modo di lavorare dei regimi presidenziali (tenuto conto che gli Stati Uniti non sono l'unico caso di democrazia presidenziale).

Gli autori passano allora ad esaminare la principali forme di governo dei paesi democratici per individuarne le caratteristiche chiave, sulla base della letteratura scientifica in materia (Poguntke e Webb 2005b: 2-4). Le caratteristiche chiave del presidenzialismo individuate dai due studiosi sono l'irresponsabilità politica dell'esecutivo rispetto al Parlamento, l'elezione

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popolare del capo del governo, la responsabilità del solo presidente per l'azione dell'esecutivo. Di contro, le caratteristiche chiave del parlamentarismo sono il fatto che l'esecutivo "emerge" dal Parlamento e vi è un rapporto di fiducia tra i due organi e il fatto che l'esecutivo è responsabile collettivamente. Poguntke e Webb considerano anche il semipresidenzialismo, visto come una forma di governo a sé stante (per un'impostazione diversa, ad esempio, Lijphart 2001), caratterizzata da un esecutivo bicefalo o diarchico4: il potere esecutivo è

diviso tra un presidente della Repubblica eletto dal popolo, non responsabile verso il Parlamento e con un certo grado di potere, ed un primo ministro che è formalmente il capo del governo, "emerge" dal Parlamento ed è legato da un rapporto di fiducia ad esso.

Sulla base di quanto ricavato dall'analisi delle forme di governo, Poguntke e Webb individuano tre effetti della logica interna della presidenzializzazione. Il primo riguarda le risorse di potere di leadership (leadership power resources). La logica del presidenzialismo consente al capo dell'esecutivo di governare senza molte interferenze esterne in virtù del fatto che non è politicamente responsabile verso il Parlamento, è generalmente eletto dal popolo e può formare il Gabinetto senza significative interferenze di altre istituzioni. Il secondo effetto investe invece il piano dell'autonomia della leadership (leadership autonomy): la separazione dei poteri protegge il capo dell'esecutivo dalle pressioni del suo partito ma è anche vero l'opposto; la capacità del capo del governo di guidare il suo partito è collegata al suo consenso popolare ma non al suo controllo sull'organizzazione. Infine, il terzo effetto è la personalizzazione delle campagne elettorali che vengono modulate sulla personalità del candidato. In considerazione di tutto ciò, i due studiosi sostengono che la presidenzializzazione de facto5:

"... può essere compresa come lo sviluppo di (a) sempre più risorse di potere di leadership e di autonomia sia nel partito che nell'esecutivo politico, e (b) un processo elettorale sempre più incentrato sulla leadership" (Poguntke e Webb 2005b: 5).

Poguntke e Webb giungono così ad individuare tre facce della presidenzializzazione, che fanno riferimento alle tre arene in cui si svolge il processo in questione: la faccia dell'esecutiva, la faccia del partito e la faccia elettorale.

Uno degli aspetti più interessanti del modello di Poguntke e Webb è che il processo di 4 La tesi del semipresidenzialismo come esecutivo bicefalo è di Giovanni Sartori (1995).

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presidenzializzazione non è limitato solo alla forma di governo parlamentare ma interessa tutte le principali forme di governo. Gli studiosi parlano dunque di presidenzializzazione con riferimento anche a paesi con forme di governo presidenziali e paesi con forme di governo semipresidenziali. L'idea è che le democrazie parlamentari, presidenziali e semipresidenziali oscillerebbero tutte (seppur con gradazioni diverse) tra fasi di governo partitizzato (partified government) e fasi di governo presidenzializzato (presidentialized government). L'oscillazione tra un polo ed un altro è determinata per i due politologi sia da fattori strutturali, intesi come cambiamenti duraturi diversi da modifiche costituzionali, che da fattori contingenti legati agli attori ed al contesto. Le costituzioni formali costringono però i movimenti possibili, poiché dotano gli attori e le istituzioni di risorse di potere differenti. La presidenzializzazione della politica può infatti raggiungere il suo punto più alto solo nei sistemi presidenziali. La fig. 2.1 dà una rappresentazione grafica del tutto.

Fig. 2.1. Presidenzializzazione e forma di governo. Fonte: Poguntke e Webb (2005b: 6).

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Nella figura la dimensione orizzontale distingue tra le diverse forme di governo. I confini tra loro sono impermeabili. La dimensione verticale è una linea continua che sta ad indicare come le diverse forme di governo oscillino tra il governo presidenzializzato ed il governo partitizzato. La posizione lungo il continuum "è determinata da un trasferimento di risorse politiche di potere ed autonomia a beneficio di leader individuali con concomitante perdita di potere ed autonomia degli attori collettivi quali gabinetti e partiti politici" (Poguntke e Webb 2005b: 7). Con la presidenzializzazione aumentano infatti l'autonomia ed il potere dei capi di governo. Più autonomia significa che aumentano le decisioni che questi possono prendere senza subire interferenze. Più potere significa che aumentano le risorse che consentono di superare le interferenze altrui6.

Il processo di presidenzializzazione avviene con modalità diverse nelle tre facce della presidenzializzazione: esecutiva, partitica ed elettorale.

Nella faccia esecutiva la maggiore autonomia può essere sia il frutto di modifiche della Costituzione formale o dello statuto del partito che diano maggiori poteri al capo di governo o al leader del partito, sia il risultato della capacità del leader di sfruttare il proprio consenso elettorale personale. Sul piano delle risorse di potere un aspetto importante è la capacità di controllare i media, con la connessa capacità di influire sulla percezione delle scelte possibili. La capacità del leader di definire le alternative in campo è favorita dall'internazionalizzazione della politica, dato che difficilmente le scelte prese in sede intergovernativa possono essere ridefinite in sede nazionale. La presidenzializzazione nell'arena esecutiva verte sul rapporto leader-partito, cioè sulla misura in cui l'esercizio del potere del primo è vincolato dal secondo. La presidenzializzazione dell'arena esecutiva avviene pertanto sia tramite l'aumento del potere del capo dell'esecutivo all'interno dell'esecutivo, che per mezzo di una maggiore indipendenza dell'esecutivo dal suo partito. Con riferimento alla presidenzializzazione dell'arena esecutiva nelle diverse forme di governo, è chiaro che le diverse costituzioni incidono molto poiché forniscono il capo di governo di risorse di potere e spazi di autonomia molto diversi: il presidente di una democrazia presidenziale, organo monocratico e indipendente dal Parlamento, gode di risorse ed autonomia certamente maggiori di un primo ministro di una democrazia parlamentare, che fa parte di un organo collegiale ed è politicamente responsabile verso il Parlamento.

La presidenzializzazione dell'arena partitica comporta un aumento del potere del leader dentro 6 Il riferimento per Poguntke e Webb è la nota definizione di potere di Weber, inteso come capacità di

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il partito, che può avvenire anche tramite il ricorso all'elezione diretta della carica monocratica di vertice o tramite il ricorso a metodi di comunicazione plebiscitari; tutti strumenti questi che consentono al leader di raggiungere direttamente l'elettorato scavalcando i militanti. Il fatto che poi le campagne elettorali siano sempre più incentrate sui leader che sui partiti, dà al leader stesso la possibilità di rendersi più autonomo dal partito nella realizzazione del proprio programma. È possibile che tutto ciò si accompagni a modifiche statutarie, ma per Poguntke e Webb la presidenzializzazione non porta tanto ad un maggior controllo sull'organizzazione del partito da parte del leader, ma piuttosto al fatto che quest'ultimo assuma in sé il coordinamento della campagna elettorale e delle attività pubbliche. Poguntke e Webb sottolineano poi che la personalizzazione della leadership del partito è tanto forte quanto dura il successo elettorale ma diventa molto vulnerabile in caso di sconfitta.

La presidenzializzazione dell'arena elettorale è data dalla maggiore enfasi sulla personalità del leader nel momento elettorale, dalla crescente attenzione dei media sui candidati presidente/premier e dalla convinzione che il comportamento del leader abbia effetto sull'esito del voto.

Come si evince da quanto detto sopra, le tre facce della presidenzializzazione sono tra loro collegate. Sebbene per Poguntke e Webb la presidenzializzazione di un regime democratico possa riguardare anche una sola faccia, essi ritengono improbabile che i cambiamenti in una faccia non si accompagnino a dei cambiamenti nelle altre.

La dinamica

A proposito della dinamica della presidenzializzazione, Poguntke e Webb (2005b: 11-3) osservano che la presidenzializzazione si svolgerà diversamente nei sistemi di democrazia consensuale che in quelli di democrazia maggioritaria.

La distinzione tra i due modelli di democrazia è di Arend Lijphart per il quale "il modello maggioritario concentra il potere politico nelle mani di una semplice maggioranza (...) mentre il modello consensuale tende a dividere, disperdere e limitare il potere in una varietà di modalità. (...) il modello maggioritario è esclusivo, competitivo e avversariale, mentre quello consensuale è caratterizzato da inclusività, negoziazione e compromesso" (Lijphart 2001: 20). Lijphart individua dieci variabili, riconducibili a due dimensioni, che differenziano i due modelli. La maggioranza delle democrazie reali, comunque, sono spesso maggioritarie per alcune variabili, consensuali per altre. Le differenze tra i due modelli sono riassunte nella tab.

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2.1 .

Tab. 2.1. Differenze tra modello maggioritario e modello consensuale di democrazia

Dimensione partiti-esecutivi Dimensione federale-unitaria Mod. maggioritario Mod. consensuale Mod. maggioritarie Mod. consensuale Governi a maggioranza

monopartitica

Governi di coalizioni Sistemi unitari e accentrati

Sistemi federali e decentrati

Predominio esecutivo sul legislativo

Equilibrio tra esecutivo e legislativo

Potere legislativo accentrato in una sola camera

Potere legislativo diviso tra due camere elette ma composte diversamente Bipartitismo Multipartitismo Costituzioni flessibili Costituzioni rigide Sistema elettorale maggioritario Sistema elettorale proporzionale Assenza di controllo giurisdizionale sulle leggi Presenza di controllo giurisdizionali sulle leggi Sistema di rappresentanza d'interessi pluralisti

Sistemi neocorporativi Banche centrali dipendenti

dall'esecutivo

Banche centrali

indipendenti dall'esecutivo Fonte: Lijphart (2001), tabella dell'autore.

Ritornando al tema della presidenzializzazione, per Poguntke e Webb, il capo dell'esecutivo di una democrazia maggioritaria dispone di un'ampia zona d'autonomia ma il suo potere dipende dall'appoggio del proprio partito. La presidenzializzazione dà più risorse al capo del governo per difendersi dalle pretese del partito, ma molto dipenderà dal suo seguito elettorale. Una volta perso quest'ultimo, il leader perderà, in genere, sia il controllo dell'esecutivo che quello del partito. Viceversa, il capo dell'esecutivo di una democrazia consensuale ha meno autonomia ed il proprio potere dipende dalla capacità di muoversi tra i diversi poteri di veto. Ma la sua posizione è meno minacciata dal partito poiché può giustificare le proprie decisioni imputandole alle costrizioni impostegli da altri attori. Per ragioni simili, la stessa posizione è generalmente meno influenzata dai risultati elettorali del partito poiché questi dipendono di meno dall'azione personale del capo del governo.

Le cause

Poguntke e Webb (2005b: 13-7) distinguono tra cause strutturali e cause contingenti della presidenzializzazione. Sono cause strutturali l'internazionalizzazione della politica, la crescita della complessità dello Stato, i cambiamenti nei metodi di comunicazione di massa, l'erosione

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delle tradizionali fratture (cleavages) sociali della politica. Sono invece cause contingenti la personalità del leader ed il contesto politico. I due studiosi si soffermano soprattutto sulle cause strutturali.

L'internazionalizzazione della politica: si è già visto nel capitolo precedente come Poguntke (2004) individui nella personalizzazione della leadership politica una risposta dei partiti all'internazionalizzazione della politica. Per internazionalizzazione della politica Poguntke e Webb intendono riferirsi al fatto che molti dei problemi chiave dei nostri tempi richiedono di essere affrontati a livello internazionale. Si pensi a tematiche di grande portata come l'inquinamento, i fenomeni migratori, la stabilità dei mercati finanziari... Ciò porta ad intensificare i vertici internazionali, all'interno dei quali i governi prendono impegni solenni per conto del proprio paese. Vertici in cui la fanno da padroni proprio i capi degli esecutivi che diventano così, almeno all'occhio dell'opinione pubblica, i veri artefici della politica estera del paese. Questo processo è particolarmente significativo nell'Unione Europea, dove si parla di europeizzazione della politica. Le decisioni prese dai governi europei a livello europeo difficilmente possono essere modificate in patria, cosicché i partiti ed i parlamenti nazionali sono in qualche modo costretti a subire decisioni prese altrove. A proposito Johansson e Tallberg (2010) hanno sottolineato l'importanza dell'istituzionalizzazione del Consiglio Europeo (che in origine era un organismo informale) nel rafforzare l'esecutivo nei confronti del legislativo, ma anche il capo di governo rispetto agli altri membri dell'esecutivo.

La crescita dello Stato: Poguntke e Webb riprendono questo aspetto da un precedente saggio di Peters et al. (2000). I tre studiosi osservano che è in atto un processo di ristrutturazione dello Stato che per certi versi è paradossale: a fronte di una generale erosione del potere decisionale degli stati nazionali (per l'agire di fattori quali la globalizzazione economica ed il crescente decentramento territoriale), si verifica un rafforzamento del "cuore dell'esecutivo" e al suo interno del capo dell'esecutivo. Ciò deriva da vari fattori tra cui la crescente richiesta di coordinamento delle politiche a fronte del fenomeno della crescente complessità dello Stato. Peters et al. definiscono la crescita dello Stato come il risultato di due processi: la differenziazione e la pluralizzazione istituzionale. Il primo processo indica che aumentano i tipi di

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organizzazioni statali, il secondo che aumenta il numero di organizzazioni dello stesso tipo. Tutto ciò accresce l'esigenza di coordinamento dell'esecutivo, a cui si chiede allora di "rompere i problemi complessi in parti più maneggiabili" (Peters et al. 2000: 8); ciò, per Poguntke e Webb, è rilevante per il processo di presidenzializzazione. Un'ulteriore spinta verso il coordinamento centrale individuata da Peters et al. e giudicata da Poguntke e Webb rilevante per la presidenzializzazione, è l'indebolimento, causa la settorializzazione, del ruolo del governo come decisore collettivo a vantaggio dei contatti bilaterali tra il capo dell'esecutivo ed i ministri più importanti. In particolare Peters et al. sottolineano nel loro saggio l'importanza, soprattutto per i paesi dell'Unione Europea, del rapporto tra il capo dell'esecutivo ed il ministro dell'economia (a causa dei vincoli di bilancio imposti dall'UE).

I cambiamenti nella struttura dei media: dagli anni sessanta è sempre più rilevante il ruolo dei media elettronici, in particolare quello della televisione, nelle campagne elettorali. La TV tende a focalizzare la sua attenzione più sulle persone che sui programmi, riducendo così la complessità del discorso politico. I leader politici tendono allora ad adattarsi alla logica del mezzo di comunicazione, cercando di sfruttarla a proprio vantaggio. L'uso delle moderne tecniche di comunicazione può diventare così un modo per scavalcare i partiti politici e gli altri attori, definendo l'agenda politica del paese7.

L'erosione delle tradizionali fratture sociali: come visto nel capitolo 1, le appartenenze di classe, religione, etnia non sono più le determinanti principali nelle scelte di voto degli elettori. La politica è sempre meno scontro tra blocchi sociali ed ideologici contrapposti ed il voto diventa sempre più volatile. In questo contesto acquistano importanza fattori diversi, come le qualità personali del capo del governo.

Le cause strutturali e contingenti sopra elencate, interagiscono con le tre facce della presidenzializzazione. Sebbene i due studiosi non considerino i tre processi della presidenzializzazione come simultanei, sono però convinti che si influenzino tra di loro. L'internazionalizzazione della politica e la crescita della complessità dello Stato incidono sulla presidenzializzazione dell'esecutivo. L'erosione delle tradizionali fratture sociali incide sulla

7 Va comunque anche considerato che i media rappresentano oggi un ostacolo maggiore rispetto al passato per l'azione di governo per la maggiore importanza dei media privati e per la minore deferenza dei giornalisti nei confronti del potere politico (Helms 2008).

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presidenzializzazione del processo elettorale. Infine i cambiamenti nella struttura dei media incidono su tutte e tre le facce della presidenzializzazione.

Gli indicatori

Ma quali sono, in concreto, gli indicatori della presidenzializzazione ?

Poguntke e Webb ritengono non si possa dare una risposta univoca a questa domanda, poiché tali indicatori possono variare da paese a paese, ma ne forniscono comunque una lista indicativa, comprensiva dei più rilevanti, per ciascuna faccia della presidenzializzazione (Poguntke e Webb 2005b: 19-21), come riportato di seguito.

Indicatori della presidenzializzazione dell'esecutivo:

• crescita risorse a disposizione del capo dell'esecutivo;

• tendenza verso una strategia di comunicazione integrata, controllata dal capo dell'esecutivo, che consente a quest'ultimo di definire le alternative politiche;

• tendenza alla crescita del controllo e del coordinamento delle politiche nel capo dell'esecutivo;

• tendenza del capo dell'esecutivo a ricorrere a sondaggi per misurare la popolarità personale ed il consenso elettorale;

• crescente tendenza del capo dell'esecutivo a nominare tecnocrati o a promuovere politici privi di un significativo seguito nel partito;

• si hanno più rimpasti nella compagine di governo, senza che cambi il capo dell'esecutivo;

• il capo dell'esecutivo ricorre sempre più al mandato personale ricevuto dagli elettori anche per assumere il controllo di importanti decisioni.

Indicatori della presidenzializzazione del partito:

• cambiamento nelle regole del partito che conferiscono più poteri al leader; • aumento dei fondi e del personale dell'ufficio del leader;

il leader è capace di determinare il programma in modo autonomo rispetto al proprio partito;

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il leader ricorre a metodi plebiscitari di comunicazione e di mobilitazione, scavalcando i notabili del partito e gli attivisti;

• evidenza nella personalizzazione del mandato, nel senso che politici di lungo corso del partito sono scavalcati da politici con più consenso elettorale;

• ricorso all'elezione diretta del leader.

Indicatori della presidenzializzazione del processo elettorale:

la copertura dei media è sempre più concentrata sul leader (leader-centred); • i partiti politici adattano le loro campagne elettorali focalizzandole sul leader; • ci sono prove dell'effetto del leader sull'esito del voto.

LE EVIDENZE EMPIRICHE

I risultati della ricerca comparata

Il metodo utilizzato da Poguntke e Webb per testare la validità del loro schema teorico è il metodo comparato. I due curatori hanno chiesto a vari esperti di politica di verificare o meno la sussistenza del fenomeno della presidenzializzazione in quattordici stati dell'occidente democratico. I paesi considerati sono Regno Unito, Germania, Italia, Spagna, Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia, Canada, Francia, Finlandia, Portogallo, Israele, Stati Uniti d'America. Nel capitolo conclusivo del loro volume, Webb e Poguntke (2005) si sono presi l'onere di tracciare un quadro complessivo del fenomeno studiato. I risultati finali, paese per paese, sono riassunti nella tab. 2.2.

Riguardo alla faccia esecutiva della presidenzializzazione, Webb e Poguntke ritengono che sia abbastanza evidente una crescita del potere del capo dell'esecutivo rispetto agli altri membri del governo, accompagnata da una crescente autonomia dell'esecutivo stesso nei confronti del partito o della coalizione di partiti. Gli autori distinguono tra una presidenzializzazione contingente (contingent presidentialization) ed una strutturale (structural presidentialization). Gli esperti nazionali, infatti, spesso rilevano come la presidenzializzazione nel paese esaminato sia stata favorita da fattori contingenti e di breve termine come l'emergere di leader

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Faccia esecutiva Faccia partitica

Indicatori della

presidenzializzazione

Divisione del potere nell'esecutivo a beneficio del leader

Aumento dell'autonomia del leader dell'esecutivo dal partito

Divisione del potere nel partito a beneficio del leader

Aumento dell'autonomia del leader dai detentori di potere interni al partito

Belgio + + + +

Canada + 0 (sempre alta) 0 (sempre alta) +

Danimarca +I + + +

Finlandia + + + +

FranciaII + 0 (sempre alta) + +

Germania + + + + Israele (pre-1996) + + + + Israele (1996-2003)III 0 - + + Italia + + +IV +V Olanda + + + +VI Portogallo +VII + + + Spagna + + + + Svezia + + + +

Regno Unito + + +VIII +IX

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Indicatori della presidenzializzazione

Crescita della copertura mediatica del leader

Strategie di campagne elettorali sempre più centrate sulla leadership

Crescita dell'effetto leader sul comportamento elettorale

Belgio + + + Cambiamento moderato

Canada + 0 (sempre alta) - Piccolo cambiamento, alto

livello di presidenzializzazione throughout

Danimarca +i + u Cambiamento moderato; forti

costrizioni partitiche

Finlandia + + + Cambiamento moderato

Francia 0 (ma alta) 0 (ma alta) 0 (ma alta) Piccolo cambiamento; alto

livello di presidenzializzazione durante tutta la Quinta Repubblica

Germania + + + Forte cambiamento

Israele (pre-1996) + + + Forte cambiamento

Israele (1996-2003)X + + + Forte cambiamento

Italia + + + Forte cambiamento

Olanda + + + Cambiamento moderato

Portogallo + + 0 (sempre alta) Cambiamento moderato

Spagna 0 (sempre alta) 0 (sempre alta) 0 (sempre alta) Cambiamento moderato

Svezia + + u Cambiamento moderato

Regno Unito + + + Cambiamento moderato

Stati Uniti + + + Cambiamento moderato

Note: +: cambio nella direzione attesa; 0: nessun cambio; -: cambio in direzione contraria alle attese; u evidenze incerte e contraddittorie.

I Partenza da un livello basso. II Riferita ad entrambi i capi degli esecutivi (presidente e primo ministro). III Dopo il 2003 c'è un tendenziale ritorno al pre-1996. IVSoprattuto

AN e FI. VSoprattuto AN e FI. VISoprattuto PvdA. VIIPartenza da livello basso. VIIISoprattuto i laburisti. IXSempre alta nei conservatori. XDebole inversione dopo il 2003.

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