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Isolamento di un consorzio batterico in grado di degradare idrocarburi: possibile applicazione per il recupero di sedimenti di dragaggio.

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Academic year: 2021

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Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie Molecolari e

Industriali

Tesi di Laurea:

Isolamento di un consorzio batterico in grado di degradare

idrocarburi: possibile applicazione per la decontaminazione di

sedimenti di dragaggio.

Relatori

Candidata

Prof. Roberto Lorenzi Giovanna Siracusa

Dott.ssa Simona Di Gregorio

Correlatori

Dott.ssa Monica Ruffini Castiglione

Dott.ssa Claudia Vannini

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Abstract

Soil and sediment in environmental matrices are often contaminated by hydrocarbons pollutants, due to human activities, such as spills and industrial processes related to petroleum refining. The phenomena that lead to the degradation of diesel fuel in soil and sediments have been studied for a long time. In the polluted districts, selective pressure favors the growth and development of native microorganism in the soil, which can reduce the amount of the contaminants. The purpose of bioremediation techniques is to reduce the amount of the pollutants by using biological treatments. The present work is part of the project “Bio ResNova: Recovey and exploitation of

contaminated soils and Sediments by innovative Biotechnologies supported by physical – chemical processes ” that aims to offer innovative solutions in the field of the

decontamination and recovery of soils and sediments contaminated by anthropogenic activity.

More precisely, this work was related to the isolation and characterization of microbial candidates capable to degrade hydrocarbons constituting the main source of organic contamination of different environmental matrices with a particular interest to dredged sediments in urbanized area. The final goal is the exploitation of the mentioned candidates in the bioaugmentation of solid phase bioreactor dedicated to the decontamination of dredged sediments.

The first phase of the experimentation was dedicated to the isolation of native microbial population capable of transforming the contamination of interest from the dredged sediments of the Navicelli canal in Pisa. A microbial consortium has been isolated as capable to deplete gasoline in liquid culture. The microbial candidates composing the consortium were identified and dived in two bacteria genera. The quantitative analysis of the percentage of diesel oil depletion in liquid colture was carried out by GC – MS (Gas Chromatography coupled with Mass Spectrometry) analysis, in order to evaluate the depletion of the range of alkanes characterizing

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gasoline and eventually the depletion of different molecular structures that, composing the gasoline, constitute a putative source of contamination for the environment. The identification of the bacterial candidates was performed by the sequencing of the 16S rDNA. The bacterial candidates harboring the alkB gene encoding for alkane hydroxylase have been also identified. The characterization of the microbial candidates composing the consortium isolated for its capacity to utilize gasoline as a sole carbon source in liquid culture has, as final goal, the designing of a “minimal consortium” to be exploited in bioaugmentation of dredged sediments in dedicated solid phase bioreactor.

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Premessa

Il seguente lavoro di tesi si inserisce all’interno del progetto “Bio ResNova: Recupero e

valorizzazione di suoli e sedimenti contaminati per mezzo di biotecnologie innovative supportate da processi chimico – fisici”. Il progetto, finanziato dalla “Fondazione Pisa”,

è coordinato dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e vede la partecipazione di alcuni partner industriali locali quali Teseco Spa, che hanno contribuito alla ricerca mettendo a disposizione infrastrutture e competenze per il raggiungimento degli obiettivi previsti.

Si ringrazia in particolare la Fondazione Pisa e Teseco Spa che hanno reso possibile il raggiungimento dei risultati.

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Sommario

Abstract ... 2

Premessa ... 4

Capitolo 1: Introduzione ... 8

Sito di interesse in ambito al progetto ... 8

I sedimenti ... 9

Migrazione degli inquinanti dai sedimenti ad altre matrici ...10

Quadro normativo di riferimento ...10

Gli idrocarburi petroliferi (PHCs) ...15

La lavorazione del petrolio ...17

Gasolio ...17

Struttura chimica e proprietà degli alcani ...18

Vie di degradazione degli alcani ...20

La via aerobica di degradazione degli alcani ...22

Diversità delle alcano idrossilasi ...25

Citocromo P450 alcano idrossilasi ...26

Alcano monoossigenasi a lunga catena (almA) ...27

La via anaerobica di degradazione degli alcani ...28

Strategie di decontaminazione e tecnologie di bonifica ...29

Biostimolazione ...35

Bioaugmentation ...36

Caratterizzazione microbiologica della matrice contaminata ...37

Tecnologie culture - dependent...37

Tecnologie culture - independent ...39

Approccio PCR independent ...40

DGGE: Denaturing Gel Gradient Electrophoresis ...40

Amplified Ribosomal DNA Restriction Analysis ARDRA ...42

Capitolo 2: Scopo della tesi ...44

Capitolo 3: Materiali e Metodi ...46

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Analisi microbiologiche Culture dependent ...46

Terreni di coltura ...46

Terreno Luria Bertani (LB) ...46

Terreno minimo Basal Salt Medium ...46

Fonti di carbonio per Basal Salt Medium ...47

Soluzione fisiologica ...47

Isolamento dei ceppi microbici capaci di utilizzare gasolio come unica fonte di carbonio ...47

Conta microbica ...48

Prove di degradazione del gasolio in Basal Salt Medium ...48

Procedure chimiche analitiche per la determinazione dell’attività di degradazione dei ceppi isolati ...49

Metodo di analisi di substrati solidi ...49

Identificazione e quantificazione ...50

Ioni caratteristici originati dalla frammentazione delle molecole analizzate ...50

Preparazione del DNA genomico ...51

Caratterizzazione tassonomica dei ceppi isolati ...52

ARDRA: Amplified Ribosomal DNA restriction Analysis ...52

Estrazione DNA delle comunità microbiche da sedimento ...54

PCR: Polymerase Chain Reaction ...55

DGGE: Denaturing gradient gel electrophoresis ...58

Eluizione delle bande DGGE dal gel di Poliacrilammide...60

Amplificazione del DNA eluito dal gel di Poliacrilammide ...60

Purificazione del prodotto di PCR ...60

Presentazione dei dati ed Analisi Statistica ...61

Capitolo 4: Risultati ...62

Isolamento di ceppi microbici in grado di degradare gli idrocarburi ...62

Analisi della capacità degradativa del consorzio microbico ...63

Analisi della capacità degradativa dei diversi morfotipi in coltura axenica ...69

Analisi microbiologica colture – independent ...86

Identificazione dei morfotipi ...86

Più nel dettaglio ...86

Analisi della diversità microbica mediante DGGE ...88

Capitolo 5: Discussione e Conclusioni ...90

Capitolo 6: Prospettive Future ...99

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Capitolo 1: Introduzione

Sito di interesse in ambito al progetto

La rimozione di xenobiotici recalcitranti alle biodegradazioni, come i PHCs (Petroleum Hydrocarbons), oggi è associata quasi esclusivamente al conferimento in discarica della matrice da trattare. Questo tipo di intervento non è il più adatto vista l’eventuale ingente quantità di materiale da trattare, spesso non prevedibile a priori, con evidenti difficoltà nella gestione delle discariche e gli elevati costi di gestione del processo sia in termini economici che ambientali.

Nel caso dei sedimenti di dragaggio delle aree portuali marittime, dei fiumi e delle acque interne, la situazione è molto delicata in quanto la manutenzione degli acquiferi assume un ruolo cruciale sia per la salvaguardia del territorio e dell’ambiente acquatico, che per l’eventuale navigabilità delle stesse vie d’acqua.

Il progetto Bioresnova in cui il presente lavoro di tesi si inserisce, ha come scopo primario il risanamento dei sedimenti del Canale dei Navicelli ed una loro restituzione alla comunità come materia seconda mediante l'adozione di biotecnologie integrate a trattamenti chimico - fisici. Il progetto nasce dall'esigenza di gestire i sedimenti derivanti da opere necessarie per rendere funzionale il collegamento tra il Canale dei Navicelli e l’Arno attraverso l’Incile, incrementare la logistica del nuovo porto turistico di Bocca d’Arno, con la riqualificazione degli oltre 50 rimessaggi già presenti in Golena d’Arno.

Negli anni 2009 e 2010 sono state avviate delle campagne per caratterizzare i sedimenti dell’alveo dello Scolmatore, per la determinazione delle caratteristiche granulometriche e chimiche, con interesse agli inquinanti rilevati. Dalle analisi effettuate è emerso che i PHCs sono i contaminanti principali, in particolare gli oli paraffinici risultano i maggiori contaminanti dei sedimenti in studio, definendo il sito di interesse come sito contaminato da PHCs di origine antropica.

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9 I sedimenti

Con il termine sedimento si indicano tutti i materiali solidi che si depositano sul fondo di un corpo idrico andando a costituire il principale serbatoio dei composti organici e inorganici presenti nell’ambiente acquatico, sia di origine naturale che antropica. Il sedimento infatti è caratterizzato da:

 una componente inorganica quali silicati argillosi e non argillosi, carbonati, ossidi di ferro e manganese, fosfati, solfuri;

 sostanza organica di origine naturale per lo più è composta da materiale umico e fulvico, ma anche da amminoacidi, acidi nucleici e macromolecole derivate, nonché da organismi viventi. La componente organica dei sedimenti ha anche un origine strettamente antropica e di fatto presenta una significativa eterogeneità (Werner Stumm, 1996), riconducibile alle diverse attività industriali e civili in genere che hanno un ruolo determinante nella speciazione della componente organica dei sedimenti.

Da un punto di vista fisico la formazione dei sedimenti avviene quando l’apporto di materiale depositabile eccede la capacità del flusso di corrente dell’acquifero, ovvero dipende dalla capacità del moto di fondo di riportare il sedimentabile in sospensione. I sedimenti possono essere distinti in:

 sedimenti biogeni: composti essenzialmente da residui di origine vegetale ed animale, microrganismi planctonici, protozoi;

 sedimenti terrigeni: derivati dal trasporto e deposizione di materiale eroso dalla terra ferma;

 sedimenti definiti quali residuali di attività antropiche alla cui formazione partecipano tutte quelle attività che si svolgono in terraferma, e che producono scarichi contenenti materiali inerti ma anche residui organici, spesso tossici e di composizione e quantità variabili in funzione della densità di popolazione e delle attività produttive localmente esercitate.

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10 Migrazione degli inquinanti dai sedimenti ad altre matrici

Il sedimento è rappresentato da una matrice organica definita inerte ma che in realtà è capace di reazioni chimico – ambientali e interazioni col comparto d’acqua sovrastante che funge da tramite per il passaggio dei composti chimici. Esso si comporta come un nucleo iniziale a bassa reattività (ad esempio una particella di argilla) sulla quale si forma un primo strato di materiale per precipitazione o adsorbimento dell’acqua sovrastante.

La formazione dei sedimenti avviene per sovrapposizione di materiali erosi a livello molecolare, i quali si accumulano in maniera progressiva e cementificano dando luogo al processo detto “diagenesi”. La diagenesi è seguita da fenomeni di cristallizzazione del precipitato che generano il granulo maturo di sedimento, rendendolo meno solubile. Ad un certo punto il granulo di sedimento maturo inizia una condizione di stand-by nel senso che gli equilibri dei vari processi che si verificano in sistemi acquosi (acidità/basicità, precipitazione e dissoluzione,sistemi redox), implicano un passaggio di materia dal sedimento all'acqua e dall'acqua al sedimento senza la prevalenza di un processo rispetto all'altro. Quando, invece, il sistema viene alterato in termini di chimica ambientale, i processi possono favorire la dissoluzione di una specie chimica legata o adsorbita sul granulo ovvero una sua ulteriore stabilizzazione.

Il granulo di sedimento è quindi in grado di interagire con il comparto d’acqua anche negli strati più profondi rendendo biodisponibili i composti chimici anche se in misura minore rispetto agli strati più superficiali.

Quadro normativo di riferimento

La gestione dei sedimenti dragati manca di una disciplina unitaria nazionale esaustiva. Nelle opere di gestione dei sedimenti dragati si fa quindi riferimento alla normativa in merito alla bonifica di suoli contaminati che contiene le indicazioni per l’individuazione degli standard di qualità dei terreni, nell’ottica eventuale di un riutilizzo dei sedimenti stessi.

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I criteri per la definizione degli standard di qualità del suolo iniziano con l’elaborazione di metodi di screening volti a valutare il grado di contaminazione e di metodi sito – specifici per la scelta del metodo di risanamento in funzione della destinazione d’uso del terreno.

Il D.L. 5 febbraio 1997, “Decreto Ronchi”, identificava i sedimenti come “rifiuti” solo quando essi superano i limiti tabellari (tabella 2). Una direttiva Ministeriale del 2002 integrata come allegato al Decreto Ronchi, stabiliva le “Indicazioni per la corretta e piena applicazione del regolamento comunitario n. 2557/201 sulle spedizioni di rifiuti ed in relazione al nuovo elenco dei rifiuti”, identificando i sedimenti di dragaggio come contaminati a seconda o meno della presenza di sostanze pericolose, imponendo attività di gestione come il recupero, lo smaltimento, la bonifica o il riutilizzo. Il D.M. 471/99 segue il D.L. 02/97 e valutava sostanzialmente la concentrazione massima fissando dei limiti per i vari contaminanti (concentrazione limite accettabile), da confrontare con i dati ottenuti dal campionamento del sito in esame e definire il sito in analisi contaminato o meno, in caso di superamento dei limiti tabellari. Tale metodo nasce per definire la qualità di un suolo e fa coincidere i termini di Cnb (concentrazione di non bonifica; il superamento di tale limita impone l’avvio di interventi di bonifica ) e Cob (concentrazione obbiettivo; concentrazione da raggiungere dopo l’intervento di bonifica).

Sebbene il D.M. 471/99 sia di riferimento, dal 2006 è entrato in vigore il D. L. 152/06, che definisce i criteri e le procedure per la definizione di sito inquinato tenendo in considerazione l’analisi del rischio relativa al tipo di contaminazione in analisi. Il decreto definisce inoltre le tecniche di bonifica da intraprendere e i livelli minimi concessi dei contaminanti ambientali, in relazione alla caratteristica del terreno e alla sua destinazione. Il decreto pone maggiore attenzione ed interesse alle tecnologie di risanamento biologico, rispetto al precedente decreto. I valori di riferimento contenuti nel D. L. 152/06 sono quelli riportati nella tabella 1 (ISPRA, 2011a). I valori di riferimento del D.M. 471/99 sono riportati in tabella 2.

Il D.L. 152 del 2006 riporta, rispetto al D.M. del 1999, due tipi di soglie: la concentrazione soglia di contaminazione e la concentrazione soglia di rischio, abbreviate con le sigle CSC e CSR. I valori di CSC rappresentano le concentrazioni al di sopra delle quali è necessario effettuare la caratterizzazione e l’analisi del rischio sito

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specifica: vengono detti “valori di attenzione”, che conferiscono al sito lo stato di sito potenzialmente inquinato. I valori di CSR rappresentano, invece, le concentrazioni di accettabilità per un sito: per concentrazioni al di sopra di CSR un sito viene definito contaminato e si deve dunque procedere ad interventi di bonifica. Ne deriva che le attività di bonifica devono essere impostate in modo da riportare le concentrazioni dell’inquinante entro le soglie stabilite dalla legge.

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Legenda:

* I = valore imperativo; G = valore guida ** A1, A2, A3 Categoria delle acque

*** Per quanto riguarda gli scarichi in corpo idrico superficiale, nel caso di insediamenti produttivi con una portata complessiva giornaliera inferiore a 50m3, per il parametro indicato, le regioni e le province autonome nell’ambito dei piani di tutela, possono ammettere valori di concentrazione che non superano i valori indicati nell’allegato 2 del D.Lgs. 152/06, purché sia dimostrato che ciò non comporti un peggioramento della situazione ambientale e non pregiudica il raggiungimento degli obiettivi ambientali.

Composto chimico Sito ad uso industriale e commerciale (mg/ Kg)

Sito ad uso verde pubblico, residenziale e privato (mg/ Kg) Antimonio 30 10 Arsenico 50 20 Berillio 10 2 Cadmio 15 2 Cobalto 250 20 Cromo totale 800 150 Cromo VI 15 2 Mercurio 5 1 Nichel 500 120 Piombo 1000 100 Rame 600 120 Selenio 15 3 Stagno 350 1 Tallio 10 1 Vanadio 250 90 Zinco 1500 150 Cianuri 100 1

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14 Fluoruri 2000 100 Benzene 2 0,1 Etilbenzene 50 0,5 Stirene 50 0,5 Toluene 50 0,5 Xilene 50 0,5 Idrocarburi aromatici totali 1000 100

Benzo [a] antracene 10 0,5

Benzo [a] pirene 10 0,1

Benzo [b] fluorantene 10 0,5

Benzo [k] fluorantene 10 0,5

Benzo [g,h,i] perilene 10 0,1

Crisene 50 5

Dibenzo [a] pirene 10 0,1

Dibenzo [a,h] antracene 10 0,1

Indenopirene 5 0,1

Pirene 50 5

IPA totali 100 10

Tabella 2 Elenco dei composti chimici presi in esame nel D.M. del 1999 e valori soglia consentiti in base all'uso del terreno

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15 Gli idrocarburi petroliferi (PHCs)

Secondo la US Energy Information Administation (EIA), il fabbisogno mondiale di petrolio nel 2012 è stato di 88.9 milioni di barili al giorno. I trasporti globali e l’uso sia del petrolio che dei suoi derivati hanno reso i PHCs i contaminanti principali per diffusione e quantità nell’ambiente.

I PHCs contaminano l’ambiente attraverso i processi associati all’uso di benzina e combustibili derivati dal petrolio, fuoriuscita da pozzi petroliferi ma anche da effluenti industriali, produzione di pesticidi, detergenti, vernici e smalti. Essi sono composti tossici parzialmente solubili e volatili, che formano così uno dei principali inquinanti che determinano un serio rischio per la salute (Andreoni & Gianfreda, 2007).

I PHCs si dividono in strutture biodegradabili, altre recalcitranti, altre ancora hanno una biodegradabilità intermedia in funzione sia dalla loro struttura chimica che dalla loro natura fisica. I petroli greggi possono essere classificati in base ai gradi API (American Petroleum Institute):

[°API = (141,4/Peso specifico) – 131,5]

Convenzionalmente vengono definiti “oli pesanti” i componenti del greggio con un grado di API minore di 25, ovvero con peso specifico maggiore di 0,9; gli “oli leggeri” hanno una densità intorno ai 40° API, ovvero hanno un peso specifico di 0,83.

La maggior parte degli oli è di tipo paraffinico, di media densità e con basso contenuto di zolfo. Gli idrocarburi paraffinici hanno struttura CnH2n+2 a partire da n=1 fino a n=30 - 40, a struttura sia lineare sia ramificata; a temperatura ambiente quelli contenenti fino a 4 atomi di carbonio sono gassosi, quelli fino a 16 sono liquidi e quelli superiori ai C16 sono solidi. Inoltre possono essere di tipo aromatico – intermedio, molto più densi e con un eventuale tenore di zolfo più elevato dei precedenti. Gli idrocarburi aromatici sono rappresentati dal benzene e dai suoi derivati: BTEX (benzene, toluene, etilbenzene, orto- meta- para- xilene), nonché da idrocarburi a più anelli condensati e loro derivati che vanno a costituire la frazione naftalenica. Esistono anche gli oli naftenici , costituiti da idrocarburi ciclici, del tipo (CH2)n, con lunghe catene

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laterali; predominano i derivati del ciclopentano e del cicloesano, che sono le strutture cicliche più stabili.

Gli n-alcani (paraffine a catena lineare) sono presenti in diversi prodotti del petrolio raffinato ma non nel petrolio greggio (Al-Sahlawi, 1992; Matar, 1992; Matar et al., 1992). Il processo di cracking porta alla rottura delle lunghe catene degli idrocarburi a molti atomi di carbonio consentendo di ottenere molti prodotti sia saturi (alcani) sia insaturi (alcheni). Nonostante gli alcani, sia ciclici che lineari, siano i PHCs più facilmente biodegradabili, quelli con 5-10 atomi di carbonio sono tossici per molti microrganismi, in quanto possono distruggerne le membrane lipidiche (Bartha, 1986). Analogamente, i PHCs con catene di carbonio di 20 – 40 atomi, chiamati cere, sono dei solidi idrofobici a temperatura ambiente, causa della loro bassa biodegradabilità (Atlas, 1977); (Bartha, 1986). In tabella 3 è illustrata una classificazione dei petroli espressa come percentuale idrocarburica presente.

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17 La lavorazione del petrolio

Una volta estratto, il petrolio è soggetto ad una serie di lavorazioni dette “operazioni di raffineria” che si basano sulla distillazione frazionaria. Questo processo permette di ottenere frazioni diverse con proprietà chimico - fisiche diverse, come punto di ebollizione e contenuto in idrocarburi differenti. Ciò consente di selezionare tipi di petrolio differenti con destinazione d’uso diverse. In generale, quelli con un punto di ebollizione più basso e frazioni più leggere sono usati per la preparazione delle benzine (fino a 150°C), quelli con frazioni intermedie come lubrificanti e le frazioni più pesanti e con punto di ebollizione maggiore (oltre 340°C) sono usati come oli combustibili.

Gasolio

Il gasolio viene ottenuto a metà della frazione distillata, con una temperatura di ebollizione tra i 200° e i 320°C, con un’abbondanza di n-alcani con catena compresa tra i C12 e C35 , densità di 0,85 e presenza di idrocarburi aromatici e naftenici.

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In figura 4 è possibile osservare un esempio di un torrente d’acqua inquinato da oli pesanti. Si nota infatti una patina iridescente sulla superficie dell’acqua indice della presenza di gasolio.

Il gasolio è ottenuto per rettifica degli oli pesanti che provengono dalla distillazione primaria del petrolio (Garzanti, 1988). E’ usato principalmente come combustibile di impianti termici (di colore rosso), per motori Diesel e per il riscaldamento delle case (di colore giallo).

Il presente lavoro di tesi, si concentrerà sull’analisi dell’abbattimento del gasolio come miscela idrocarburica modello della contaminazione dei sedimenti in studio. Sarà quindi analizzata la degradazione di paraffine lineari o alcani con un numero di atomi di carbonio superiore a 12.

Struttura chimica e proprietà degli alcani

Gli alcani fanno parte dei composti alifatici, cioè composti a catena aperta o ciclici insieme agli alcheni e agli alchini. Sono composti con legame di tipo σ e quindi saturi. Gli atomi di carbonio sono tutti ibridati sp3. Sono anche chiamati paraffine ( dal greco “parum affinis” ) che sta ad indicare la loro bassa propensione a reagire, sia con gli acidi che con le basi forti. Alle paraffine appartengono anche i ciclo alcani.

Le principali reazioni a cui vanno incontro sono reazioni di sostituzione e reazioni con ossigeno e cloro. Questi composti possono trovarsi allo stato fisico liquido, gassoso o solido. La solubilità dei composti alifatici diminuisce rapidamente con l’aumento del peso molecolare (Figura 5).

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Figura 5 Proprietà fisiche di alcuni dei più rilevanti idrocarburi alifatici.

Gli alcani, specialmente i più leggeri, sono largamente impiegati per la produzione di carburanti per via dell’elevata entalpia di combustione per unità di massa e della notevole inerzia chimica. Gli alcani rappresentano circa il 50% dei costituenti del petrolio greggio, ma sono molecole largamente prodotte anche da organismi viventi quali piante, alghe verdi, batteri o animali (Labinger & Bercaw, 2002). Tra i produttori di alcani si annoverano i metanogeni (Ji et al., 2009). Piante ed animali possono invece produrre alcani, sottoforma di cere, per prevenire la disidratazione dei tessuti (Cheesbrough & Kolattukudy, 1988).

Gli alcani quindi sono presenti, seppur a basse concentrazioni, nella maggior parte degli ambienti del suolo e dell'acqua (Labinger & Bercaw, 2002).

Le proprietà degli alcani che possono incidere sulla possibilità di adottare approcci biotecnologici quali interventi dedicati alla loro rimozione da matrici ambientali sono la volatilità, la polarità, la solubilità e la biodegradabilità (Cole, 1994).

 La volatilità: nel petrolio e i suoi derivati, sono presenti composti volatili che tendono a migrare dalla fase liquida alla fase gassosa, mostrando un’elevata mobilità nei suoli insaturi.

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20  La polarità e la solubilità: La solubilità e la velocità di ripartizione dei contaminati organici alla fase acquosa ha una stretta correlazione con la velocità di biodegradazione. Infatti, composti non polari tendono ad essere immiscibili in acqua e si trovano ripartiti nei materiali organici della zona vadosa. Questo porta ad avere una ridotta mobilità nelle acque sotterranee e nei suoli ma rappresenta anche un limite per la realizzazione dei processi di biodegradazione che richiedono la presenza dei contaminati in soluzione, poiché i microrganismi hanno come habitat la fase acquosa che fornisce loro i macro e micro nutrienti (Eweis, 1998).

 Biodegradabilità: Normalmente, i composti organici non tossici per i microrganismi vengono ossidati nella zona vadosa con molta più rapidità rispetto ad altri composti. Oltre alla solubilità e alla polarità, influiscono sul processo di biodegradazione, il grado di ramificazione della catena di alcani e la loro isomeria. Molecole con la stessa formula bruta ma isomeria differente come l’iso-ottano e l’n-ottano hanno velocità di degradazione differenti. L’n-ottano è degradato più facilmente (Pasteris et al., 2002).

Vie di degradazione degli alcani

Nel 1965, Alexander enunciò il principio di infallibilità metabolica, il quale afferma che nessun composto organico è totalmente recalcitrante alla biodegradazione, se le condizioni ambientali sono favorevoli. I microrganismi, infatti, si sono evoluti in presenza delle strutture organiche che oggi sono in grado di trasformare ed hanno quindi acquisito i tratti metabolici di riferimento durante la loro stessa evoluzione, non fanno accezione il petrolio e i suoi derivati come gli idrocarburi alifatici.

La biodegradabilità delle molecole organiche di interesse dipende dalla loro struttura chimica. Per quanto riguarda il petrolio, sono maggiormente degradabili composti con struttura semplice come gli alcani, meno degradabili risultano essere composti come quelli aromatici che richiedono l’apertura dell’anello aromatico.

La recalcitranza alla biodegradazione degli idrocarburi alifatici del petrolio varia con il variare delle proprietà chimico – fisiche.

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Gli alcani rivestono un ruolo essenziale nell’esistenza degli esseri viventi, non ultimo l’uomo. Tuttavia la loro inerzia e viscosità, specialmente per gli alcani a più alto peso molecolare, costituiscono un ostacolo significativo per la loro rimozione dall’ambiente quando si verificano, ad esempio, svasamenti accidentali (Ji et al., 2009).

Molti microrganismi sono in grado di degradare gli alcani, utilizzandoli come fonte di carbonio (van Beilen et al., 2005a; Wentzel et al., 2007). La biodegradazione degli alcani o la loro trasformazione in intermedi meno recalcitranti attualmente risulta la strategia più promettente per la riduzione in termini quantitativi di hot spot accidentali nell’ambiente e nei diversi ecosistemi. Molti microrganismi sono infatti corredati dell’assetto enzimatico per la trasformazione e metabolizzazione degli alcani. Tra questi, alcuni sono definiti idrocarburoclastici o comunque risultano essere ceppi microbici capaci di mineralizzare le strutture di interesse (Harayama et al., 2004). Un esempio per tutti l’Alcalinovorax borkumensis, un batterio marino che ossida alcani lineari e ramificati (iso - alcani) ma è sostanzialmente incapace di utilizzare altri idrocarburi o fonti alternative di carbonio come zuccheri o amminoacidi (Schneiker et

al., 2006; Yakimov et al., 2004). In aree geografiche non contaminate, A. borkumensis,

non è numericamente molto rappresentato, probabilmente in assenza di svasamenti di alcani sopravvive a carico degli alcani prodotti da altri microrganismi a basse concentrazioni.

L’assetto enzimatico di questi microrganismi ha delle ricadute importanti sul mantenimento della resilienza dell’ambiente e lo studio dei suddetti risulta essere cruciale in ambito alle biotecnologie ambientali.

La solubilità degli alcani è al di sotto della micromolarità in ambiente acquoso (1.4 10-4 M per l’esano , 2 10-10 M per l’esadecano) (Rojo, 2009). Questo rende poco chiaro come gli alcani permeino le membrane plasmatiche della cellula. Per gli alcani a basso peso molecolare un ingresso diretto attraverso la membrana plasmatica è plausibile, per quelli a più alto peso molecolare, l’accesso alla cellula microbica potrebbe essere mediato dalla produzione di surfattanti, prodotti dalla maggior parte dei batteri alcano – degradatori al fine di facilitare l’emulsione degli idrocarburi alifatici (Hommel, 1990; Ron & Rosenberg, 2002).

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22 La via aerobica di degradazione degli alcani

Gli alcani vengono considerati come gli idrocarburi più facilmente degradabili ma la loro degradazione richiede grandi quantità di ossigeno. L’O2 viene considerato infatti come reagente essenziale all’attivazione della molecola stessa, ovvero per la trasformazione della stessa in una struttura chimica instabile (Ji et al., 2009). Nella via aerobica di degradazione degli alcani, enzimi alcano – attivanti, quali le monoossigenasi, introducono un atomo di ossigeno (specie reattiva dell’ossigeno) all’alcano di partenza (Ji et al., 2009).

I pathway di degradazione degli alcani fino ad ora individuati sono quattro (Figura 6):

 Ossigenazione mono – terminale o terminale: è tipica di diversi generi microbici dove l’alcano viene convertito nell’alcol primario corrispondente, successivamente ossidato in aldeide e convertito infine in un acido grasso. La molecola appena generata può seguire la via di degradazione classica degli acidi grassi, cioè la β – ossidazione, che taglia gli acidi grassi in molecole a due atomi di carbonio, portando alla produzione di Acetil – CoA, che entra nel ciclo di Krebs (ciclo degli acidi tricarbossilici), acqua e anidride carbonica (Van Hamme

et al., 2003; Watkinson & Morgan, 1990; Wentzel et al., 2007) (Figura 6 A).  Ossigenazione bi – terminale: da origine ad un acido bicarbossilico che

comunque entra nella β – ossidazione (Figura 6 C).

 Ossigenazione sub – terminale: il primo prodotto generato, un alcol secondario, viene convertito in chetone ad opera di una deidrogenasi, una monoossigenasi trasforma il chetone in estere. Quest’ultimo, ad opera di una esterasi, viene scisso in due molecole differenti: un alcol primario, che entra nel pathway della ossigenazione mono - terminale e va verso una beta-ossidazione; un acido grasso anch’esso veicolato verso la β – ossidazione (Rojo, 2009) (Figura 6 B).

 Ossigenazione di alcani a lunga catena: attualmente descritta solo in

Acinetobacter sp. strain HO1-N. Una diossigenasi trasforma l’alcano in n-alchil

idrossiperossido e quindi in acido, in aldeide ed infine in acido grasso anch’esso veicolato in β – ossidazione (Ji et al., 2009) (Figura 9 D).

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23

Mentre gli enzimi della β – ossidazione sono ubiquitari in cellule metabolicamente attive, gli enzimi correlati all’attivazione metabolica degli alcani sono più rari. Questi ultimi, ad oggi, sono riconducibili a diverse famiglie geniche con diversa affinità di substrato. I degradatori di C2 - C4 sono caratterizzati da ossigenasi o idrolasi simili alla monossigenasi descritta nei metanogeni, caratterizzati da enzimi integrali di membrana ed enzimi solubili citoplasmatici (Dubbels et al., 2007; Hamamura et al., 1999). I microrganismi in grado di ossidare C5 - C11, ma anche alcani ad alto peso molecolare, hanno una ferro dipendente non - eme monoossigenasi integrale di membrana simile alla ben caratterizzata monoossigenasi della Pseudomonas putida GPo1 AlkB alcano idrossilasi (van Beilen & Funhoff, 2005).

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24 Figura 6 Biodegradazione degli alcani in condizioni aerobie

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25 Diversità delle alcano idrossilasi

La famiglia maggiormente caratterizzata di monoossigenasi coinvolte nella trasformazione degli alcani è di fatto quella trascritta dal plasmide OCT di P. putida GPo1. Le proteine integrali di membrana AlkB, sono (di)ferro non - eme monoossigenasi e permettono ad una vasta gamma di microrganismi di crescere in presenza di n-alcani con lunghezza di catene di carbonio da C5 a C16 (Wentzel et al., 2007). L’enzima necessita di due proteine solubili per il sistema di trasporto degli elettroni, quali una rubredossina codificata dal gene alkG e una rubredossina reduttasi NADH - dipendente codificata rispettivamente da alkT e alkF (Belhaj et al., 2002). Quest’ultima, mediante il cofattore FAD, trasferisce gli elettroni dal NADH alla rubredossina che li trasferisce a sua volta alla monoossigenasi. Non è nota tutt’oggi la struttura della monoossigenasi terminale; tuttavia sembra che tutti i componenti di questa famiglia abbiano otto residui di istidina altamente conservati, coinvolti nel coordinamento del ferro (van Beilen & Funhoff, 2005).

Il gene alkB di GPo1 non è in grado di attivare alcani più lunghi di C13. Tuttavia una sostituzione amminoacidica nel sito attivo dell’enzima può, con molta probabilità, determinare la capacità del dello stesso di ospitare strutture idrocarburiche più lunghe. Più di 60 sequenze omologhe AlkB-like sono state individuate fino ad ora. Le sequenze sono state individuate sia in batteri Gram+ che in Gram– e sono significantemente divergenti (van Beilen & S.B., 2005). La presenza di alkB sembra essere dipendente anche dal tipo di matrice ambientale (Sutton et al., 2012). Livelli di respirazione microbica elevati e buona efficienza di biodegradazione degli n – alcani sono stati riscontrati in matrici ambientali caratterizzati da alta biodisponibilità di O2 (Sutton et al., 2012).

In uno studio condotto nel 2010 da Perez et al., è stata valutata l’abbondanza e la diversità di batteri degradanti gli n-alcani tramite tecnologia colture – independent. In particolare, è stata valutata la capacità degradativa di ceppi batterici presenti in un suolo boschivo contaminato da oli pesanti. Come marcatore molecolare è stato utilizzato il gene alkB (Perez-de-Mora et al., 2011). Da tale studio si evince che il numero di copie del gene alkB era simile sia nell’area contaminata che in aree limitrofe

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non contaminate, tuttavia la contaminazione era caratterizzata da una bassa biodiversità della comunità microbica.

In un altro studio, ceppi di P. aeruginosa ambientali isolati in Marocco dal gruppo di ricerca di Belhaj et al. (2002), hanno riportato la presenza di diversi enzimi della famiglia delle alcano idrossilasi. Operoni codificanti per alkB divergenti sono stati clonati in diversi generi microbici (Belhaj et al., 2002), la presenza di più sequenze che codificano per le monossigenasi di riferimento rendono il microrganismo capace di degradare alcani appartenenti a diversi livelli di ramificazione (Belhaj et al., 2002).

Citocromo P450 alcano idrossilasi

Tra le idrolasi in grado di ossidare C10-C20 sono stati descritti enzimi che appartengono ad una famiglia distinta, quella delle monoossigenasi citocromo P450 (Maier et al., 2001). Gli enzimi citocromo P450 sono monoossigenasi terminali presenti sia a livello di specie eucariotiche, come i lieviti, che procariotiche, come Pseudomonas putida. La loro ubiquitarietà li rende attivi contro una vasta gamma di substrati come acidi grassi, steroidi, prostaglandine così come sostanze esogene come farmaci, anestetici, solventi organici, etanolo, idrocarburi, pesticidi e sostanze cancerogene (Bernhardt, 2006). Sulla base di differenze riscontrate a livello sistemico, le monoossigenasi citocromo P450 possono essere raggruppate in due famiglie enzimatiche. Le monoossigenasi P450 di Classe I isolate in batteri e mitocondri. In questi enzimi, il trasferimento degli elettroni passa dal NAD(P)H, tramite una reduttasi che contiene FAD (che accetta elettroni dal NAD(P)H) e una proteina Fe – S (che trasporta gli elettroni dalla reduttasi al substrato (Huang & Kimura, 1973).

I citocromi P450 di Classe II appartengono ad una famiglia di enzimi microsomiali, caratteristica di molti lieviti, prevede la ricezione degli elettroni all’enzima dal NAD(P)H tramite una FAD e Flavin mononucleotide (FMN) reduttasi che contiene il citocromo P450 (van Beilen & Funhoff, 2005).

I citocromi P450 di Classe I sono principalmente solubili al contrario di quelli di Classe II generalmente legati alla membrana, rendendo più difficoltosi gli studi a riguardo.

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Fino al 2005 erano noti più di 4000 monoosigenasi P450 (van Beilen et al., 2005b). Tuttavia il numero di P450 in grado di degradare gli alcani è molto più contenuto. Enzimi CYP153 sono monoossigenasi P450 di Classe I e sono proteine che richiedono la presenza di un sistema trasporto degli elettroni mediato da proteine come ferredossina e ferredossina reduttasi. CYP153 si presenta come una proteina solubile la quale esercita un'attività idrossilante nei confronti degli alcani in posizione terminale (Scheps et al., 2011).

Primers degenerati disegnati per la famiglia dei citocromi P450 CYP153 sono stati utilizzati con successo per il monitoraggio di alcanoclasti e/o batteri competenti per l’ossidazione degli alcani in ambienti oligotrofici marini (Wang et al., 2010).

Alcano monoossigenasi a lunga catena (almA)

Diversi ceppi batterici possono ossidare alcani con un numero di carboni superiore a C20. Questi ceppi, di solito, contengono diverse alcano idrossilasi contemporaneamente attive, comprese le alkB coinvolte nella degradazione di alcani di lunghezza minore. Gli enzimi che ossidano alcani più lunghi di C20 sembrano essere totalmente diversi (Rojo, 2009). Per esempio, Acinetobacter sp. M1, che può crescere su mezzi contenenti alcani a catena C13-C44, contiene una alcano idrossilasi solubile, Cu2+ dipendente attiva su alcani con un numero di atomi di carbonio tra 10 e 30 (Rojo, 2009).

Un ceppo differente di Acinetobacter, il DSM 17874, può usare come unica fonte di carboni n – alcani con catena di atomi di carbonio compresa tra C10 e C40 (Throne-Holst

et al., 2007). Il gene almA codifica per una flavina - monoossigenasi, che ossida alcani a lunga catena. I geni omologhi di alma sono stati identificati in numerosi altri ceppi capaci di degradare alcani a lunga catena, inclusi Acinetobacter sp. M1 e A.

borkumensis SK2.

Utilizzando primer altamente degenerati, Liu et al. (2011) sono riusciti ad amplificare il gene almA del batterio marino Alcalinovorax B5, in grado di degradare n-alcani con catena di atomi di carbonio compresa tra C22 e C36 (Liu et al., 2011). In diversi ceppi,

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possono essere contemporaneamente presenti ed attive monoossigenasi come AlmA, AlkB e citocromo P450.

Studi condotti secondo il modello di Liu et al. nel 2011, hanno dimostrato che i geni

almA vengono ritrovati principalmente in batteri marini alcano degradanti, il che

dimostra che il gene almA è altamente importante per la degradazione degli alcani a lunga catena del gasolio in ambiente marino (Wang et al., 2010).

Una diversa alcano idrossilasi a lunga catena, (Lada), è stata caratterizzata in

Geobacillus thermodenitrificans NG80-2 (Feng et al., 2007). Questo enzima ossida

alcani da C15-C36, generando alcoli primari. L’analisi strutturale ha dimostrato che è composta da una ossigenasi flavina - dipendente appartenente alla famiglia delle luciferasi batteriche (Li et al., 2008) .

E’ ragionevolmente prevedibile che diversi ceppi batterici possano degradare alcani con catene di carbonio più lunghe di C20 utilizzando sistemi enzimatici che non sono ancora stati caratterizzati e che potrebbero includere nuove proteine non correlate a quelle attualmente note.

La via anaerobica di degradazione degli alcani

Ad oggi , sono conosciuti due meccanismi di degradazione anaerobica degli n-alcani (Figura 7).

La prima via è quella del fumarato e la seconda è la via della carbossilazione. In entrambe le vie di degradazione, la prima tappa consiste nell’aggiunta di ione carbonato e la rimozione di due atomi di carbonio dalla catena dell’alcano, portando alla formazione di un acido grasso più corto dell’alcano di partenza.

La via del fumarato prevede l’aggiunta del fumarato al carbonio C2 della catena dell’alcano, portando alla formazione di alchilsuccinato. L’alchilsuccinato è ulteriormente degradato tramite riarrangiamento dello scheletro carbonioso e tramite la β - ossidazione. Questa via è stata ritrovata sia in batteri solfato – riduttori che in consorzi nitrato – riduttori.

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29 Figura 7 Via di degradazione anerobica degli n-alcani

Strategie di decontaminazione e tecnologie di bonifica

Le strategie di decontaminazione che portano al risanamento di una matrice ambientale sono molteplici. Tra i vari approcci, quelli che hanno avuto maggiore impiego negli anni sono quelli chimico – fisici; questi metodi possono essere in grado di eliminare la sostanza inquinante ma non riescono ancora a superare limiti quale l’elevato costo dell’intervento, l’efficacia e l’impatto dell’intervento stesso sugli ecosistemi di riferimento. Le tecnologie di biorisanamento si contrappongono ai metodi chimico – fisici soprattutto per la qualità della matrice risanata, i costi più contenuti e l’impatto sull’ecosistema.

Il biorisanamento può rappresentare una valida scelta tra le diverse tecnologie a disposizione per la rimozione del gasolio da suoli e sedimenti. La scelta della tecnologia

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da applicare ricade principalmente sulle caratteristiche del sito, del sottosuolo e degli ecosistemi circostanti oltre che sulla concentrazione e la tipologia dell’inquinante in esame. In Italia, ad esempio, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) nel 2011, ha avviato programmi volti all’identificazione e alla valutazione della misura degli idrocarburi petroliferi totali e di origine naturale presenti in diverse matrici ambientali come suoli, sedimenti e acque superficiali. Il programma nasce a causa dell’aumento del numero dei siti inquinati, su tutto il territorio nazionale, da PHCs. L’analisi ha lo scopo di poter valutare in seguito gli approcci adottabili per un processo di biorisanamento (ISPRA, 2011b).

Gli approcci metodologici applicabili, come detto in precedenza, possono essere distinti in:

 approcci chimico – fisici

 approcci biologici

Trattamenti Chimico – fisici per sostanze organiche

I principali metodi di trattamento chimico - fisici sono riassunti nella figura 8. In generale, si suddividono in trattamenti in situ ed ex situ di cui i primi prevedono il risanamento della matrice direttamente in loco, i secondi necessitano di interventi di escavazione che consentono il trasporto della matrice da trattare in impianti dedicati. Normalmente i trattamenti chimico – fisici non rappresentano una soluzione definitiva al problema, in quanto spesso i contaminati non vengono del tutto rimossi dalla matrice e portano alla formazione di sostanze tossiche difficili da eliminare. I trattamenti chimico - fisici, quando applicati a matrici quali i suoli e i sedimenti, determinano un cambiamento nella composizione chimico - fisica del terreno che non può essere più ripristinata.

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31 Figura 8 Tabella riassuntiva delle principali tecnologie chimico – fisiche.

Strategie di

bonifica

Ossidazione chimica

Utilizzo di agenti ossidanti come H2O2 per convertire gli inquinanti in

molecole più stabili

Soil washing

Tecnologia ex situ che si basa sul lavaggio con acqua, tensioattivi e agenti chelanti utili alla rimozione

del contaminante

Soil flushing

Tecnologia in situ che prevede il lavaggio con acqua e tensioattivi iniettati nel terreno per favorire la

lisciviazione

Soil vapour axtraction

Tecnologia i situ per rimuovere gli agenti voltaili tramite pozzi scavati nel terreno per creare un gradiente di

pressione per favorire l'estrazione.

Air sparging

Tecnologia rivolta ad agenti volatili e semivolatili accoppiata spesso a Soil

vapuor extraction. Prevede gorgogliamento di aria nella matrice

per il desorbimento e la volatilizzazione dei contaminanti.

Elettrocinesi

Tecnologia in situ per metalli pesanti e contaminanti organici tramite applicazione di campo elettrico per

muovere gli ioni in base alla loro carica.

Solidificazione/in ertizzazione ex

situ

Tecnologia che prevede l'uso di gessi,cementi e calce per legare l'agente

contaminate e destinare poi l'uso edilizio o in discarica.

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32 Trattamenti biologici

L’approccio alternativo ai trattamenti chimico – fisici per sostanze organiche è il

biorisanamento, sia in situ che ex situ (a sua volta classificabile sia in on site che off site), che ha guadagnato una meritata attenzione, data la sostenibilità in termini di

costi degli interventi (Swannell et al., 1996).

I processi biologici o bioremediation, offrono inoltre una serie di vantaggi, tra i quali la restituzione a fine processo di una matrice trattata che mantiene le caratteristiche chimico – fisiche di partenza. Nel caso dei suoli si assiste ad un ripristino e/o miglioramento delle caratteristiche pedologiche dello stesso. I processi di

bioremediation si basano sulla degradazione dell’inquinate organico tramite l’utilizzo

della flora microbica eventualmente autoctona costituita da funghi e batteri. Di norma, affinché il trattamento abbia la sua efficacia, si forniscono nutrienti alla matrice in trattamento e si assicurano le condizioni chimico - fisiche adatte alla crescita dei microrganismi competenti per la biodegradazione dell’inquinante. La flora microbica necessita infatti di pH, temperatura e fonti di carbonio e azoto adeguate. Il ripristino del giusto rapporto tra carbonio e azoto (10:1) è uno dei principali interventi attuati nei siti contaminati, in quanto in caso di contaminazione da organici il rapporto tra i macronutrienti è spostato verso una maggiore concentrazione di carbonio organico, riconducibile alla contaminazione stessa, rispetto alla concentrazione di azoto totale. Uno dei principali vantaggi nella scelta dei trattamenti biologici è la possibilità di poter ricollocare le matrici risanate nell’ambiente, proprio in virtù del fatto che un trattamento biologico non solo ha quale scopo l’abbattimento della contaminazione, ma molto spesso è accompagnato da processi di ripristino/miglioramento delle caratteristiche pedologiche della matrice in trattamento in seguito al ripristino di una corretta ecologia microbica in grado di garantire la resilienza della matrice suolo/sedimento trattato.

Nella tabella 4 sono indicati i principali metodi di trattamento biologico per la decontaminazione dei suoli e dei sedimenti.

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Trattamento Generalità

Bioventing

Tecnologia in situ per rimuovere contaminati organici, pesticidi e solventi tramite microrganismi degradanti presenti nel terreno ai quali viene fornito ossigeno, nutrienti e acqua per accelerare la degradazione.

Biostimulation

Tecnologia in situ per risanare siti contaminati da pesticidi o

contaminanti come il gasolio che si basa sulla stimolazione della flora microbica autoctona con aggiunta di nutrienti.

Phytoremediation

Tecnologia in situ che ricorre all’uso di piante per rimuovere dal terreno contaminati come metalli pesanti che si accumulano nei tessuti della pianta.

Landfarming

Tecnologia di bonifica in situ usata per rimuovere contaminanti come idrocarburi ad alto PM e prevede che il suolo sia rivoltato per favorire l’areazione e i processi di degradazione.

Biopila

Strategia ex situ per la decontaminazione di siti contaminati da PHCs e IPA. Prevede la raccolta dei terreni in cumuli in cui temperatura e umidità sono controllati. E’ presente un sistema di aerazione per il controllo dell’ossigeno e l’aggiunta di nutrienti.

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34 Bioreattore

Tecnologia ex situ che prevede l’uso di reattori in cui il

contaminante è mantenuto in sospensione per favorire l’attacco da parte dei microrganismi.

Tabella 4 Tabella riassuntiva dei principali trattamenti biologici

Il landfarming è uno dei trattamenti biologici utilizzati per il biorisanamento di sedimenti. Il landfarming, di per se spesso non è spesso applicabile a causa della natura del contaminate e della matrice da trattare, per cui è necessario abbinarlo a tecnologie di bonifica come il Passive – landfarming ( che consiste in minime attività di gestione applicabili solo quando non sono necessari tempi brevi di risanamento) (Sims R.C., 2005).

Anche la phytoremediation viene impiegata per il biorisanamento di sedimenti contaminati. In particolar modo viene utilizzata per la decontaminazione di siti inquinati da metalli pesanti e composti organici polari (Harmsen et al., 2007).

I lunghi tempi di trattamento rappresentano un limite non trascurabile nella valutazione della scelta della tecnologia di biorisanamento da applicare.

Tra i trattamenti appena descritti in tabella, quelli presi in esame in questo lavoro di tesi per il biorisanamento dei sedimenti inquinati da PHCs, sono:

Biostimulation Bioaugmentation

Bioaugmentation e biostimulation sono tecnologie di risanamento biologico che

consentono di ottenere in tempi relativamente brevi di trattamento una matrice riutilizzabile ai fini sia urbanisti che paesaggistici, in grado di mantenere le caratteristiche pedologiche di partenza, con una flora microbica che garantisce la resilienza della matrice, andando quindi a rappresentare tecnologie sostenibili anche in termini economici.

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Biostimolazione

La degradazione operata dalle popolazioni microbiche autoctone di un suolo inquinato può essere lenta e poco apprezzabile. Per una buona riuscita del processo è necessario fornire ai microrganismi le condizioni ottimali di crescita e sviluppo. Tale processo prende il nome di biostimolazione (o biostimulation in inglese) (Li et al., 2010). Questa tecnica si basa sulla stimolazione della flora microbica autoctona mediante somministrazione di macronutrienti quali azoto e fosforo, e monitoraggio dei parametri di crescita dei microrganismi. Le condizioni ambientali rappresentano uno dei fattori chiave per un corretto sviluppo della popolazione microbica e di conseguenza dei processi degradativi da essa catalizzati.

L’utilizzo della biostimulation come tecnologia di bonifica è un passaggio interessante per il biorisanamento dei sedimenti contaminati da PHCs. E’ infatti ragionevole considerare che i sedimenti siano caratterizzati da una popolazione microbica autoctona con capacità degradative nei confronti dei contaminanti che caratterizzano la matrice derivanti molto spesso da situazioni di contaminazione storica. Tuttavia è ragionevole pensare che sia necessario stimolare il metabolismo della flora microbica autoctona ricreando le condizioni minime per l’attivazione del loro metabolismo. E’ stato osservato che la degradazione degli alcani da parte di un consorzio microbico autoctono, è favorita dall’aggiunta di specifici nutrienti nel terreno (Nikolopoulou & Kalogerakis, 2008). Gli idrocarburi del gasolio rappresentano una fonte di carbonio per i microrganismi autoctoni nel sedimento da trattare. La biostimolazione accelera così il tasso di decontaminazione con la semplice aggiunta di nutrienti che va a ripristinare un rapporto quantitativo tra macro e micronutrienti, ottimale per l’attivazione dei processi metabolici microbici (Nikolopoulou & Kalogerakis, 2008); (Prince, 1993). La biostimulation rappresenta una metodica semplice e poco costosa per potenziare la biodegradazione naturale degli inquinanti presenti nel terreno e può essere applicata per esempio nelle tecniche di bonifica biologica come le biopile e il landfarming.

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Bioaugmentation

Un secondo approccio molto efficace per il risanamento di suoli e sedimenti inquinati da gasolio è la bioaugmentation. Come la biostimulation, viene impiegata per migliorare la cinetica di degradazione dei contaminanti.

La bioaugmentation è definita come la tecnica di trattamento nella quale batteri autoctoni o alloctoni capaci di trasformare e/o mineralizzare i contaminanti di interesse, vengono inoculati massivamente nella matrice in trattamento. Le strategie maggiormente utilizzate ad oggi hanno previsto l’inoculo di un singolo genere microbico o di un eventuale consorzio microbico comunque alloctono alla matrice in trattamento (Bento et al., 2005; Thompson et al., 2005). In studi lab - scale sono stati descritti gli effetti dell’inoculo di batteri geneticamente modificati e l’aggiunta di costrutti plasmidici contenenti geni di origine batterica, codificanti enzimi coinvolti nella trasformazione dei principali contaminati ambientali per la biodegradazione dell’inquinante (El Fantroussi & Agathos, 2005).

L’utilizzo di consorzi microbici, anziché singoli ceppi, è preferito, in quanto la plasticità del metabolismo è maggiore rispetto a quello riferibile ad un singolo ceppo. I consorzi autoctoni nella matrice da trattare hanno più probabilità di successo, in quanto già adattati alle condizioni ambientali di crescita, eventualmente ostili e che incontreranno durante il processo di bonifica. Per gli interventi sul campo si preferisce fare uso di microrganismi autoctoni, già adattati al contaminante ed alla nicchia ecologica presente (Rahman et al., 2002). Inoltre, la bioaugmentation attuata tramite l’inoculo di flora microbica autoctona può risultare utile anche quando la concentrazione degli inquinanti da rimuovere è troppo elevata e, quindi, può indurre effetti tossici sulla biomassa alloctona.

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37 Caratterizzazione microbiologica della matrice contaminata

Matrici ambientali come il suolo e i sedimenti sono popolate da specie autoctone quali batteri, funghi e alghe che hanno il compito di mantenere uno stato di equilibrio dell’ecosistema al fine di svolgere compiti come il ciclo degli elementi e garantire la resilienza della matrice. I microrganismi non si distribuiscono in maniera omogenea nel terreno, tendono a distribuirsi in funzione della presenza dei nutrienti. La maggior parte di essi, tende ad aggregarsi e a formare biofilm, ovvero modalità di crescita più vantaggiose per la popolazione di riferimento. Le cellule in forma libera compaiono quando vi è la necessità di spostarsi dal sito di nascita per cercare nutrienti. Un fenomeno simile è attuato dai funghi tramite il rilascio di corpi fruttiferi o con il prolungamento delle ife.

Studiare la popolazione microbica del sito d’interesse per comprendere le relazioni tra habitat e popolazioni autoctone e individuare quali specie sono in grado di determinare processi di biodegradazione è essenziale per avviare un processo di bioremediation.

I metodi per l’analisi delle comunità microbiche e dei microrganismi presenti in una matrice ambientale si suddividono in metodi:

Culture – dependent Culture – independent.

Tecnologie culture - dependent

Le tecnologie culture – dependent sono metodologie di base che permettono l’isolamento dei microrganismi mediante l’impiego di terreni di coltura selettivi specifici. L’isolamento è seguito dalla caratterizzazione mediante saggi fisiologici e metabolici.

Con le tecnologie culture – dependent, convenzionalmente chiamate anche “tecniche di procedura standard”, è possibile identificare solo quei microrganismi che sono in

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grado di crescere su determinati terreni selettivi, che in generale rappresentano una frazione compresa tra l’1% e il 10% delle specie microbiche presenti nella matrice. Le tecniche di coltivazione standard però sono le uniche che consentono di avere a disposizione il microrganismo isolato, permettendo di poter condurre studi di tipo fisiologico e metabolico. Esse prevedono l’isolamento in coltura pura. A partire dal campione prelevato dal sito da decontaminare, si ottiene una sospensione cellulare che viene piastrata, a differenti diluizioni, su terreni di coltura idonei e poi incubati per favorirne la crescita delle colonie. Gli isolati microbici devono essere mantenuti in presenza del contaminate da rimuovere dalla matrice in trattamento.

Successivamente si procede con la caratterizzazione fenotipica delle colonie formate, le quali vengono analizzate sia da un punto di vista quantitativo, per ottenere informazioni numeriche circa la quantità di specie microbiche presenti, sia da un punto di vista qualitativo tramite analisi morfologica e biochimica. L’analisi biochimica è utilizzata per vagliare la capacità di utilizzare diverse fonti di crescita o per constatare la capacità di condurre determinate reazioni grazie alla presenza di enzimi specifici. Una seconda possibilità è selezionare specifici microrganismi a partire dal campione ambientale utilizzando terreni minimi dotati di una fonte di carbonio a scelta dell’operatore.

Solo con le tecnologie culture – dependent è possibile ottenere una coltura pura o axenica.

Questo approccio non è applicabile indifferentemente a qualsiasi specie microbica. Necessita quindi di essere adattato e ottimizzato di volta in volta sulla base della matrice ambientale da analizzare e dei ceppi microbici in studio. I limiti principali ricadono principalmente sulle tecniche della tassonomia fenotipica che possono fornire risultati a volte incerti e di difficile interpretazione. Inoltre i microorganismi coltivabili, quindi isolabili in una matrice, rappresentano solo una parte dell’intera comunità microbica. Per esempio in una matrice ambientale i coltivabili sono < 10% del totale. La maggior parte di quelli presenti nel suolo non sono coltivabili e quindi scarsamente conosciuti (Kirk et al., 2004). Questo perché non esistono mezzi di coltura o condizioni standard per la crescita in laboratorio di tutti i microrganismi della comunità; alcuni possono presentare particolari richieste metaboliche, altri hanno

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lunghi periodi di latenza prima di avviare la crescita, altri ancora si mantengono in una forma vitale ma non coltivabile.

È importante cercare di ottimizzare le tecniche di pre - arricchimento e arricchimento selettivi per riuscire a recuperare le popolazioni microbiche meno dominanti, stressate e non coltivabili, che sono presenti a bassa carica.

Tecnologie culture - independent

I metodi culture – independent sono tecniche applicabili a prescindere dalla coltivabilità in laboratorio dei microrganismi. Consentono di monitorare la composizione e le dinamiche di popolazione delle comunità microbiche presenti nella matrice da trattare, senza ricorrere all’isolamento in coltura dei microrganismi. Le tecniche molecolari permettono la caratterizzazione di microrganismi sia della frazione coltivabile sia di quella non coltivabile di un campione ambientale. Consentono di seguire l’evoluzione e il comportamento dei consorzi microbici presenti in matrice nel tempo, permettendone di valutare la sicurezza microbiologica tramite monitoraggio in

situ di microrganismi patogeni.

Le tecniche culture independent sono basate su due approcci: uno PCR dependent ed uno PCR independent.

Approccio PCR dependent

La reazione di PCR, permette di amplificare molecole di DNA d’interesse in modo tale da ottenere tante copie da poter usare in esperimenti successivi.

Nel monitoraggio delle popolazioni batteriche e fungine presenti in un campione ambientale è possibile amplificare i geni che codificano per le subunità ribosomali, rDNA, che costituiscono la parte non proteica dei ribosomi e sono elementi chiave della sintesi proteica; in particolare quelle che codificano per la subunità piccola del ribosoma, 16 S nei procarioti e 18 S negli eucarioti rappresentano le molecole di elezione per l'analisi della diversità microbica; sono, in effetti, geni ribosomali che rappresentano i marker molecolari più usati per la classificazione tassonomica dei microrganismi e lo studio della filogenesi.

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Questi geni sono dotati di regioni conservate universali, regioni semiconservate e regioni variabili e sono considerati un importante orologio evolutivo per i batteri (Woese, 1987). L’analisi delle regioni variabili può essere utilizzata per identificare organismi appartenenti a generi diversi e per individuare le relazioni filetiche tra questi mediante analisi comparative.

Approccio PCR independent

Le tecniche molecolari PCR independent si basano sull’analisi diretta del DNA metagenomico e non prevedono l’amplificazione del DNA mediante reazioni di PCR. L’efficacia delle tecniche PCR dependent è infatti legata alla disponibilità di primer specifici in grado di riconoscere le sequenze da amplificare, mentre le metodiche PCR

independent non richiedono conoscenze a priori sulla comunità microbica in esame.

Alcune tecniche PCR independent di recente sviluppo comprendono i DNA Microarray e la costruzione di librerie metagenomiche.

DGGE: Denaturing Gel Gradient Electrophoresis

L’elettroforesi su gel con gradiente denaturante, DGGE, è una tecnica che fornisce informazioni sulla complessità della microflora di una matrice ambientale. Questa tecnica permette di separare frammenti di DNA a doppio filamento di stessa lunghezza, intorno alle 150 bp, ma diversa sequenza. La separazione avviene grazie ad un gel di poliacrilammide contenente un gradiente di denaturazione lineare; il gradiente è ottenuto dalla combinazione di sostanze chimiche quali urea e formammide e permette di denaturare frammenti di DNA a doppio filamento (Muyzer

et al., 1993). La denaturazione delle molecole di DNA dipende dalla loro sequenza

nucleotidica; la forza di denaturazione è direttamente proporzionale all’energia di legame tra i due filamenti e dipende dal contenuto in GC della sequenza. Maggiore è la quantità di coppie GC, e maggiore sarà la forza necessaria per denaturare la molecola, perché guanina e citosina sono tenute insieme da 3 legami a idrogeno rispetto ai 2 di adenina e timina.

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Dal punto di vista analitico, la DGGE, nel nostro caso, ha previsto l’amplificazione della regione ipervariabile V3 del gene 16 S rDNA; il gene contiene sia regioni estremamente conservate, sia regioni variabili la cui diversità viene sfruttata per distinguere specie batteriche. Le regioni V3 presentano una composizione unica di nucleotidi e possono essere separate le une dalle altre utilizzando un gel con gradiente denaturante. L’amplificazione viene eseguita utilizzando primer complementari alle sequenze fiancheggianti la regione V3 che sono invece conservate: in questo modo, utilizzando una coppia di primer, è possibile amplificare il DNA di tutti i microrganismi presenti nel campione. I primer presentano una peculiarità, all’estremo 5’ sono dotati di una regione di 30 - 40 nucleotidi con un alto contenuto in GC. Questa regione, definita

GCclamp impedisce la completa denaturazione del filamento durante l’elettroforesi e

determina la formazione di strutture semidenaturate più stabili che arrestano la migrazione della molecola nel gel di Poliacrilammide.

Il prodotto di PCR viene quindi caricato sul gel di Poliacrilammide dotato di uno specifico gradiente denaturante. Durante l’elettroforesi, la molecola di DNA migrerà finché non raggiunge la concentrazione di agente denaturante che ne induce la denaturazione: l’apertura della doppia elica determina l’arresto della migrazione. Sfruttando il gradiente denaturante è possibile quindi separare più molecole di DNA appartenenti a microrganismi diversi grazie alla differente sequenza nucleotidica che li caratterizza. Al termine della corsa elettroforetica sarà possibile analizzare le bande ottenute che corrispondono a microrganismi di specie diverse. I profili della DGGE possono essere utilizzati per definire differenti unità tassonomiche che esprimono la complessità della microflora. L’identificazione delle specie, utilizzando la PCR DGGE, viene eseguita attraverso il confronto dei profili generati da specie note di riferimento. Per un’identificazione corretta è necessario prelevare le sequenze dal gel per riamplificarle e sequenziarle.

Il principale vantaggio di questa metodica riguarda la possibilità di monitorare le variazioni temporali della comunità microbica, fornendo una visione semplice e chiara della struttura della microflora e della presenza di specie microbiche dominanti (Malik S., 2008).

L’analisi DGGE è una tecnica semiquantitativa che permette di valutare la complessità delle popolazioni microbiche presenti nella matrice d’interesse, ma i profili DGGE possono essere analizzati anche da un punto di vista quantitativo interpretando

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l’intensità delle lane ottenute che forniscono informazioni circa le specie numericamente più rappresentate nel

campione.

Figura 9 Fasi delle DGGE

Amplified Ribosomal DNA Restriction Analysis ARDRA

L’analisi della diversità microbica presente in un campione ambientale può essere eseguita valutando i profili di restrizione dei geni 16 S rDNA e 18 S rDNA amplificati. Il prodotto di PCR viene trattato con enzimi di restrizione, endonucleasi che riconoscono e tagliano specifiche sequenze di 4 - 6 paia di basi; il risultato della digestione è una serie di frammenti che possono essere separati e visualizzati mediante una corsa elettroforetica in gel d'agarosio. La combinazione dei frammenti rappresenta il pattern di restrizione enzimatica specifico per la sequenza e può essere utilizzato per distinguere microrganismi diversi. L’analisi di restrizione non risulta sempre specie specifica, poiché microrganismi diversi possono condividere gli stessi siti di restrizione; profili di restrizione ottenuti possono essere raggruppati in Operational Taxonomic

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