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Implementazione del servizio podologico integrato con il modello di assistenza dei pazienti affetti da malattia cronica

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle

Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in

Scienze Riabilitative delle Professioni Sanitarie

Presidente: Prof. S. Marchetti

Tesi di Laurea

IMPLEMENTAZIONE DEL SERVIZIO PODOLOGICO

INTEGRATO CON IL MODELLO DI ASSISTENZA DEI

PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA CRONICA

Candidato

Relatore

Giacomo Baggiani Prof. Enzo Falossi

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INDICE

Introduzione...pag.3

Capitolo primo- Il piede nel diabetico

1.1 STADI DI EVOLUZIONE DELLA PATOLOGIA……….…………pag.4

1.2 NEUROPATIA DIABETICA…….………pag.5

1.3 MACROANGIOPATIA DIABETICA………...pag.7

1.4 INFEZIONI DEL PIEDE DIABETICO……….pag.10

1.5 PIEDE DI CHARCOT…….………..pag.12

1.6 CLASSIFICAZIONI DELLE ULCERE DIABETICHE………pag.14

Capitolo secondo- Identificazione del paziente a rischio e prevenzione

2.1 ISPEZIONE PERIODICA, ESAME DEI PIEDI, IDENTIFICAZIONE DEL RISCHIO………….pag.18 2.2 EDUCAZIONE DEI PAZIENTI, DELLE FAMIGLIE E DEGLI OPERATORI……….pag.19

2.3 CALZATURE APPROPRIATE………....pag.20

2.4 TRATTAMENTO DELLA PATOLOGIA NON ULCERATIVA………pag.21

Capitolo terzo- Modelli organizzativi per la gestione del piede diabetico

3.1 MODELLI ORGANIZZATIVI………...pag.23

3.2 PERCORSO “PIEDE DIABETICO” NELLA REGIONE TOSCANA………...pag.26 3.3 PRIMO LIVELLO DI ASSISTENZA: LA MEDICINA GENERALE E IL TERRITORIO………pag.27 3.4 SECONDO LIVELLO DI ASSISTENZA: AMBULATORIO/DAY SERVICE DI DIABETOLOGIA...

……….………pag.29

3.5 TERZO LIVELLO DI ASSISTENZA: CENTRO DIABETOLOGICO SPECIALIZZATO NELLA

CURA DEL PIEDE……….…………pag.31

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Capitolo quarto- Percorso diagnostico terapeutico presso l’ASL Toscana Centro

4.1 PERCORSO DIAGNOSTICO TERAPEUTICO ASSISTENZIALE DEL PIEDE DIABETICO IN AREA

VASTA TOSCANA CENTRO………pag.41

4.2 SERVIZI PODOLOGICI E POPOLAZIONE ASSISTITA………..…pag.46

Capitolo quinto- Organizzazione del servizio podologico nella ex ASL10 di Firenze

5.1 SERVIZIO AMBULATORIALE PER IL PIEDE DIABETICO………..pag.48

5.2 ANALISI DELLE CRITICITA’………pag.50

Capitolo sesto- Proposta di inserimento della figura professionale del podologo nelle Case

della Salute

6.1 RUOLO DEL PODOLOGO NELLE CASE DELLA SALUTE………...pag.51 6.2 QUANTIFICAZIONE DEL BISOGNO ASSISTENZIALE………...pag.55 6.3 ANALISI DEI COSTI E DEI RICAVI………...pag.56

Conclusioni...pag.58

(4)

Introduzione

Il ruolo del podologo nella gestione delle complicanze di malattie croniche a

livello degli arti inferiori si sta sempre più affermando, in quanto è in grado di

offrire un servizio sia in termini di prevenzione primaria e secondaria

(prevenzione delle lesioni, programmi di screening, educazione terapeutica),

sia di prevenzione terziaria (protocolli riabilitativi), allo scopo di individuare

la patologia, preservare e monitorare le condizioni di salute del paziente; ad

oggi trova la sua massima espressione in ambito diabetologico, nei centri

assistenziali di secondo e terzo livello.

Il progetto, limitato all’Area Vasta Centro, ma riproducibile su tutta la regione

Toscana, mira ad individuare possibili strategie organizzative che

garantiscano una efficace assistenza podologica integrata su territorio (primo

livello), in interazione con i Medici di Medicina Generale e personale

infermieristico, secondo il paradigma del Chronic Care Model.

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Capitolo primo

Il piede nel diabetico

1.1 STADI DI EVOLUZIONE DELLA PATOLOGIA

Il Documento di Consenso Internazionale definisce il piede diabetico come “una condizione di infezione, ulcerazione e/o distruzione di tessuti profondi associate ad anomalie neurologiche e a vari gradi di vascolopatia periferica degli arti inferiori”. Il piede diabetico risulta essere la conseguenza delle complicanze croniche del diabete a livello degli arti inferiori, con un danno d’organo peculiare, condizionato sia da aspetti biomeccanici locali sia dalle precarie condizioni sistemiche del paziente.

I fattori causali della patologia a livello del piede sono la neuropatia diabetica, la macroangiopatia periferica e l’immunopatia diabetica, che cooperano nel determinare una particolare suscettibilità del piede all’esposizione di traumi e microtraumi e allo sviluppo della lesione (fig.1). L’evoluzione della patologia attraversa solitamente un lungo periodo di induzione nel quale sono presenti i fattori di rischio, ma non ancora le alterazioni d’organo; poi, da una situazione medico-cronica, segue la fase chirurgica acuta in cui si manifesta la lesione a livello del piede, solitamente dopo un trauma banale con la calzatura o con un aumento dell’attività fisica: in questa fase l’ulcera (spesso complicata da infezione), risulta essere la manifestazione clinica più eclatante e rappresenta, in genere, il motivo per il quale il paziente si presenta alla visita.

Segue, infine, la fase post-ulcerativa (una volta che la lesione è andata incontro a guarigione) nel corso della quale il paziente è esposto ad un alto rischio di recidiva.

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In generale l’ulcera diabetica, sviluppatasi a livello dell’arto inferiore, può essere suddivisa in:

• neuropatica; • ischemica; • neuro-ischemica;

• fisiopatologia mista (presenza di quadri d'infezione, osteomielite, piede di Charcot). Di seguito sono analizzati i fattori patogenetici che concorrono allo sviluppo di una lesione ulcerativa.

1.2 NEUROPATIA DIABETICA

La neuropatia diabetica è definita come “la presenza di sintomi e/o segni di disfunzione dei nervi periferici in persone con diabete dopo l’esclusione di altre cause”. Alla base dello sviluppo di questa complicanza sembrerebbero concorrere alcuni fattori: ad esempio l’aumento della glicemia agisce direttamente sull’alterazione dei meccanismi di trasmissione dei segnali nervosi e indirettamente sul metabolismo del nervo (modifica della micro vascolarizzazione). La forma più comune di neuropatia periferica nel diabetico è la polineuropatia sensitiva-motoria simmetrica distale: sono interessate progressivamente dalla patologia tutte le fibre (sensoriali, motorie e autonomiche), bilateralmente, con un esordio distale (ha inizio a livello del piede).

La neuropatia sensoriale consiste nella riduzione della sensibilità (sintomi privativi) con perdita della sensazione di dolore, di percezione della pressione, temperatura e propriocezione, a cui possono associarsi anche sintomi positivi, tra cui parestesie disestesie, dolore. A causa della perdita di queste sensazioni, stimoli dannosi e microtraumi sono scarsamente percepiti dal paziente e la reiterazione del danno può dar luogo alla lesione ulcerativa.

L’alterazione della componente motoria, invece, è correlata a debolezza e ipotrofia muscolare: la neuropatia origina distalmente per cui sono coinvolti dapprima gli interossei e la muscolatura intrinseca del piede con la manifestazione caratteristica delle dita del piede arcuate e retrazione della fascia plantare (cavismo), a cui segue uno stato di ipotrofia dei muscoli della loggia posteriore della gamba con retrazione del tendine d’Achille; tutto ciò determina una camminata anomala e grossolana con alterato carico in particolare sulle teste metatarsali. Inoltre per un meccanismo legato alla glicazione delle capsule articolari,

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si assiste ad un progressivo quadro di irrigidimento, deformità o anchilosi delle strutture periarticolari. Ipercheratosi e lesioni ulcerative possono insorgere quindi nelle aree dell’avampiede esposte al sovraccarico.

La neuropatia autonomica, a livello degli arti inferiori, agisce prevalentemente sul sistema simpatico: induce uno stato di orripilazione, una ridotta o assente sudorazione (pertanto la pelle risulta secca, con crepe e fissurazioni), e riduzione della vasoregolazione; in particolare causa un’apertura continua degli shunt pre-capillari artero-venosi, favorendo un aumento fisso del flusso sanguigno (piede caldo e talvolta gonfio-edematoso).

Relativamente alla diagnosi di neuropatia diabetica agli arti inferiori, nella Consensus Conference di San Antonio sono stati definiti i parametri che devono essere esaminati: • sintomi;

• esame obiettivo;

• test quantitativi della sensibilità; • test per il sistema nervoso vegetativo; • elettrofisiologia.

I sintomi della neuropatia periferica comprendono ipo/iperestesia, bruciore, dolore, parestesie, sensazioni caldo/freddo, scarsa sudorazione, gonfiore, edema (alterazione vasomotoria).

L’esame clinico deve valutare le deformità podaliche, i riflessi (plantare, achilleo e rotuleo), il trofismo e la forza dei muscoli distali degli arti, oltre alle diverse forme di sensibilità cutanea. Per lo studio della sensibilità cutanea possono essere utilizzati il diapason (128 Hz) o il biotesiometro, un batuffolo di cotone, il monofilamento di Semmes-Weistein (10 g), una barra con le estremità costituite da materiali diversi ed un ago; il diapason, graduato a 128 Hz, potrebbe essere utilizzato come un'alternativa alla misurazione semi-quantitativa: in pazienti molto anziani la soglia di sensibilità vibratoria fisiologicamente si innalza, pertanto un suo valore alterato può non coincidere con la presenza di danno neurologico. Studi statistici hanno dimostrato che l’impossibilita di percepire il monofilamento da 10g sul dorso o sull’alluce del piede indica l’eventualità futura di ulcera; pertanto, gli esperti affermano che la prova effettuata con monofilamento da 10g sia utile a determinare il rischio di ulcerazione.

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L’esame (semi) quantitativo della sensibilità cutanea, nella maggioranza dei casi, si basa sulla valutazione della soglia di sensibilità vibratoria (VPT, acronimo inglese di Vibration Perception Threshold), vista anche la disponibilità di strumenti a basso costo e semplici da usare. Gli strumenti piu frequentemente adottati (biotesiometro e neurotesiometro) utilizzano una sonda che viene appoggiata sul dorso della prima testa metatarsale e sul malleolo laterale, la cui ampiezza di vibrazione viene fatta aumentare fino a che il paziente inizia ad avvertire la sensazione vibratoria (per una corretta interpretazione dei risultati è necessario disporre di valori di riferimento).

La valutazione della disfunzione della componente autonomica del sistema nervoso periferico è basata sulla ricerca di alcuni segni (cute secca, edema, temperatura aumentata, vasi turgidi), ma anche su alcuni test strumentali che consentono di svelare le anomalie funzionali del sistema nervoso vegetativo e l’esclusione di altre possibili cause di malattia. I principali test che esplorano la funzionalità del sistema nervoso vegetativo sono il passaggio dal clino all'ortostatismo (lying to standing), la valutazione della frequenza respiratoria profonda (Deep breathing) e la Manovra di Valsava. Questi test sono basati sulle variazioni della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca e hanno la caratteristica di essere semplici nell’esecuzione, non invasivi e ampiamente standardizzati.

L'esame elettromiografico (elettromiografia, EMG) è un potente strumento diagnostico per la valutazione delle malattie del sistema nervoso periferico dal punto di vista funzionale: comprende l’analisi dell'attività muscolare a riposo e durante attivazione volontaria mediante l'utilizzo di un ago-elettrodo (EMG propriamente detta) e lo studio della conduzione nervosa, motoria e sensitiva (elettroneurografia). Le indagini elettrofisiologiche sono un ausilio diagnostico fondamentale per la diagnosi differenziale con le neuropatie da compressione.

1.3 MACROANGIOPATIA DIABETICA

La malattia arteriosa periferica (PAD, acronimo inglese di Peripheral Arterial Disease) che causa insufficienza arteriosa è il fattore piu importante correlato all’esito di un’ulcera del piede diabetico. Mentre nel soggetto non diabetico l’arteriopatia con aterosclerosi insiste prevalentemente nel distretto iliaco-femorale (spesso monolaterale), nel diabetico è anche distale, multi distrettuale, asintomatica, con una capacità di compenso dei circoli collaterali pressoché nulla ed è associata a comorbidità. Oltre alle lesioni ateromatiche multiple si possono anche riscontrare calcificazioni tipiche della sclerosi di Moenckeberg.

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Come valutazione iniziale, nella diagnosi di vasculopatia a livello dell’arto inferiore, gli esperti consigliano di indagare sulla storia di claudicatio intermittens o dolore a riposo di tipo ischemico: il dolore ischemico agli arti inferiori si presenta tipicamente durante la marcia, nel momento in cui il reclutamento della muscolatura, coinvolta nel movimento, richiede un maggior afflusso di sangue al distretto, che risulta però deficitario. Nelle ischemie critiche il dolore può comparire anche a riposo: in questo caso il paziente ricerca una posizione dell'arto declive al fine di aumentare la perfusione e alleviare il dolore. In una prima valutazione clinica è sufficiente eseguire la palpazione dei polsi periferici, pedidio e tibiale posteriore e la misurazione della pressione sistolica alla caviglia con Doppler ad onda continua. E’inoltre possibile calcolare il rapporto pressorio caviglia/braccio (Ankle Brachial Index, ABI) il cui risultato può orientarci su un possibile stadio di patologia vascolare (fig.2).

Figura 2: Valori ABI.

Negli esami strumentali, l’ossimetria transcutanea (TcPO2) misura l’ossigenazione cutanea in condizioni di vasodilatazione termica indotta costante (circa 47°C). Essa esprime un dato funzionale complessivo dell’irrorazione del piede, indicativo della gravità dell’ipossia tissutale, sia che derivi da un deficit micro che macrocircolatorio o da entrambe. Piu alto è il valore ossimetrico, piu rapida sarà la guarigione.

La valutazione con Eco-Color-Doppler (ECD), nonostante sia operatore dipendente, è estremamente versatile e fornisce insieme due tipi di informazioni:

• di tipo morfologico sul tipo di ostruzioni presenti, stenosi o occlusioni, e sulla loro localizzazione prossimale o distale;

• di tipo funzionale sulle caratteristiche del flusso fornite dal segnale Doppler pulsato

(variazione del picco sistolico pari o superiore al 100% in corrispondenza di una stenosi >50%).

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La presenza di calcificazioni è un ostacolo anche per questa tecnica, che consente di valutare la suscettibilità ad una rivascolarizzazione endoluminale con un’accuratezza che va dall’84% al 94%. L’angiografia, infine, è lo strumento diagnostico gold standard, che risponde a pieno della necessità di una precisa definizione dell’esistenza, estensione, localizzazione e morfologia delle lesioni arteriose e viene attuata non solo a scopo diagnostico, ma anche terapeutico (ad esempio contestualmente ad un intervento di angioplastica, per rivascolarizzare un distretto).

Attualmente sono considerate indagini vascolari di eccellenza le immagini ottenute con angio-TC o angio-RM: tuttavia l’alto costo e la scarsa accessibilità della strumentazione non rendono al momento proponibile tale metodica per un uso routinario. Molto spesso la sola valutazione clinica della lesione può da sola fornire preziose indicazioni sulla procedura che dovrà essere seguita per gli approfondimenti diagnostici, e informazioni inerenti alla prognosi e al tipo di trattamento piu adeguato da attuarsi.

La classificazione di Leriche-Fontaine (1900) distingue quattro stadi evolutivi della vasculopatia a seconda dell’entità del danno funzionale, in relazione alla compromissione della distanza di marcia con la comparsa di dolori muscolari o crampi a livello dell’arto inferiore. Particolare importanza è data, con la classificazione di Rutherford, alla perdita di tessuto più o meno profonda e/o estesa (fig.3). Il limite di queste classificazioni, applicate ad un soggetto diabetico, è rappresentato dal sintomo “dolore”, su cui si focalizzano: spesso, infatti, il diabetico con vasculopatia presenta anche una componente neuropatica che maschera il dolore ischemico. Per questo le più recenti classificazioni tendono ad indagare i segni e a valutare il soggetto in modo sempre più obiettivo, nell’individuazione del miglior trattamento.

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Figura 3: Classificazioni di Leriche-Fontaine e Rutherford a confronto.

1.4 INFEZIONI DEL PIEDE DIABETICO

L’infezione è definita come l’invasione e la moltiplicazione di microrganismi nei tessuti del corpo associata a una risposta infiammatoria o alla distruzione di tessuto.

L’infezione del piede nei pazienti diabetici di solito inizia in un zona di trauma cutaneo o di ulcerazione della pelle; se ad un quadro generale di ischemia, con lesione ulcerativa, subentra l’infezione, il rischio di amputazione è tre volte superiore rispetto al soggetto diabetico che non presenta le stesse condizioni. Tra i fattori predisponenti le infezioni, sono poco conosciuti la carenza immunitaria ed i disturbi immunologici generati dalla malattia: nello specifico, nei neuropatici, il controllo del sistema nervoso periferico, attraverso il riflesso asso-assonico, sul sistema immunitario viene meno; inoltre tutte le proteine vanno incontro ad un processo di glicazione, per cui gli anticorpi, le citochine e le proteine strutturali del tessuto connettivo o della parete dei vasi, perdono la propria forma tridimensionale e funzione. Studiosi hanno anche riscontrato anomalie nelle cellule fagocitarie, con una ridotta mobilizzazione leucocitaria, ridotta capacità battericida nei fagociti neutrofili e un difetto nella funzione battericida granulocitaria dei leucociti.

L’anatomia del piede e la presenza di compartimenti fibrosi favoriscono la diffusione in senso disto-prossimale di infezioni in tempi anche molto rapidi; in alcune aree lo spessore

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tra l’ambiente esterno e le strutture interne del piede è minimo, per cui facilmente una infezione superficiale dei tessuti molli si trasforma in una infezione profonda, osteomielite. Valutando attentamente la ferita, è necessario determinare la necessità di debridement, incisione e drenaggio o di altri interventi chirurgici.

Poichè tutte le ferite cutanee ospitano microrganismi (compresi i potenziali patogeni) l’infezione deve essere diagnosticata clinicamente, piuttosto che microbiologicamente. Se si sospetta uno stato infettivo, la microbiologia è essenziale per determinare l’agente eziologico. La presenza di segni di infezione sistemica (quali febbre, brividi, leucocitosi, elevati livelli di markers infiammatori), secrezioni purulente o due o più segni locali o sintomi di infiammazione (arrossamento, calore, gonfiore, dolore) suggeriscono una ferita infetta. In aggiunta, la presenza di cellulite, gangrena, necrosi o di un odore fetido indica il più delle volte la presenza d'infezione; ad ogni modo, nei pazienti diabetici con ulcera infetta, i segni di una reazione infiammatoria possono non essere così evidenti. I segni di tossicità sistemica sono sorprendentemente rari nelle infezioni del piede diabetico; molti pazienti non riferiscono dolore e più della metà, compresi quelli con infezioni gravi, non hanno febbre, non mostrano un aumentano dei globuli bianchi, e non hanno un elevato tasso di sedimentazione eritrocitaria (ESR) o proteina C-reattiva (PCR).

Ogni volta che si è in presenza di infezione è opportuno seguirla metodicamente e aggressivamente visto che può peggiorare rapidamente; tutte le ferite dovrebbero essere attentamente controllate, palpate e sondate e possono essere utili anche esami di imaging e di laboratorio. Le infezioni più spesso coinvolgono l’avampiede, in particolare le teste metatarsali e la superficie plantare (aree più soggette a microtrauma).

Criteri per classificare l’infezione al piede stimano l’entità dei tessuti coinvolti, valutano l'adeguatezza della perfusione arteriosa e la presenza di tossicità sistemica. Le infezioni “lievi” sono quelle che interessano solo la cute e il tessuto sottocutaneo: non coinvolgono le strutture profonde e presentano un alone di eritema con diametro compreso tra 0,5 cm e 2 cm intorno alla lesione (tra le infezioni superficiali ricordiamo le onicomicosi, perionichie suppurative, intertrigini). Le infezioni “intermedie” interessano le strutture profonde: tendini, fasci muscolari, articolazioni, con diametro dell’eritema perilesionale superiore a 2 cm (assenza di segni sistemici, che contraddistinguono invece le infezioni “gravi”): mentre le infezioni superficiali si diffondono solo per contiguità, quelle più profonde si possono diffondere, oltre che per contiguità, anche attraverso la rete linfatica sottocutanea.

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La valutazione della gravità delle infezioni aiuta a determinare la selezione ed il regime di somministrazione di un antibiotico, la necessità di ospedalizzazione, la tempistica di intervento chirurgico nonchè la probabilità di amputazione.

Le infezione ossee (osteomielite) del piede si determinano, in genere, dal passaggio dei patogeni dai tessuti contigui attraverso la cute che sovrasta i tessuti molli. La distruzione ossea causata da neuroartropatia (malattia di Charcot) può essere difficile da distinguere da un’infezione ossea. Non è semplice diagnosticare un quadro di osteomielite, tanto che si parla di probabilità, maggiore o minore, di infezione ossea: in particolare si tiene conto dell’esposizione di un segmento osseo nella lesione, della presenza di cellulite, dei risultati dati dalle colture, dai segni radiologici, dall’istologia. La biopsia ossea è il “gold standard” diagnostico: anche se la procedura espone teoricamente ad alcuni rischi è generalmente molto sicura ed in grado di fornire informazioni utili in casi complessi. Studi microbiologici suggeriscono che, nella maggior parte dei casi, l’osteomielite è a carattere polimicrobico: lo Stafilococcus aureus è l’agente piu comunemente isolato (~50%), seguito dallo Stafilococcus epidermidis (~ 25%), dagli streptococchi (~30%) e dagli enterobatteri (~ 40%).

1.5 PIEDE DI CHARCOT

La neuro-osteoatropatia (NOA), indicata anche come piede di Charcot, è tra le più devastanti complicanze del piede nelle persone con diabete. Si tratta di una condizione rara, che ha origine dalla neuropatia diabetica, che determina un sovvertimento progressivo della struttura osteoarticolare con distruzione e riassorbimento osseo; la patogenesi è formulata dall’integrazione di due teorie (neurotraumatica e neurovascolare) che vedono in comune uno stato infiammatorio cronico nocivo: questo contribuisce alla riduzione della consistenza dell’osso ed è alimentato dall’esposizione continua al traumatismo, a seguito della ridotta sensibilità. In fase acuta c’è uno stato infiammatorio con processi osteodistruttivi e di riassorbimento: il piede si presenta caldo, arrossato, gonfio, tumefatto e vi può essere un’elevazione di indici aspecifici di flogosi (VES, PCR); inoltre lo studio Rx eseguito al momento dell’insorgenza dei segni clinici può risultare negativo. In fase cronica (stato quiescente non prima dei 6-12 mesi dall’inizio della fase acuta) vi è la remissione dei segni di flogosi locali con deformità residue osteoarticolari a più livelli, con instabilità: si arriva a condizioni di appiattimento dell’arco longitudinale e speroni ossei (piede a dondolo). Mentre in fase acuta l’osso è fragile, nella cronica è rigido, con

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formazione di callo osseo e rischio di recidiva di fratture. In generale la Rx è la prima scelta diagnostica nel caso di sospetto rimaneggiamento osseo assieme alla RM, per ottenere informazioni morfologiche e funzionali.

E’importante una chiara differenziazione clinica con le infezioni ossee per garantire un’adeguata presa in carico del paziente: l’osteomielite solitamente interessa un osso o una sua porzione esposta, in corrispondenza della lesione e quindi di un’area soggetta a carico; non necessariamente nello Charcot sussiste la lesione, invece, e più segmenti ossei sono coinvolti. La terapia è empirica e si basa sul riposo e la rigorosa limitazione al carico attraverso la realizzazione di un apparecchio gessato o gambaletto in fibra di vetro a contatto totale (total contact cast). Sono utilizzati anche i tutori rimovibili per consentire l'ispezione delle eventuali lesioni e l'igienizzazione dell'arto. Alcuni studi controllati hanno suggerito che il trattamento con bisfosfonati possa essere utile a controllare le fasi acute della patologia, ma si tratta comunque di studi preliminari; lo stesso vale per l’uso di calcitonina o di calcio e vitamina D, per i quali non è stata ancora accertata l'efficacia. Il trattamento con apparecchio gessato va continuato fino a quando la mancanza di differenza di temperatura tra i due piedi suggerisce che la fase infiammatoria della malattia sia in remissione: in questo caso è consigliabile effettuare una risonanza magnetica per verificare l'assenza di segni infiammatori della spongiosa e assenza di reazione periostale. I casi di sospetta neuro-osteoartropatia richiedono un’immediata valutazione specialistica nonchè un intervento immediato e si deve sempre far riferimento ad un servizio specialistico per il piede diabetico, dato che un ritardo nel trattamento può portare ad una progressiva e grave deformità del piede.

Sanders e Frykberg nel 1991 hanno realizzato una classificazione del piede di Charcot basandosi sulla localizzazione della lesione: questa classificazione prevede 5 modelli che identificano le zone colpite in senso disto-prossimale; successivamente Caravaggi apportò alcune modifiche aggiungendo caratteristiche cliniche e predittive di guarigione/amputazione sulla base dell'esperienza clinica (fig.4).

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Figura 4: Classificazione del piede di Charcot modificata da Caravaggi.

Si nota come la sede sia fondamentale dal punto di vista prognostico, in quanto più distali sono le lesioni e più c'è probabilità di guarigione, con minor riduzione dell'autonomia di marcia. Le lesioni piu prossimali invece sono quelle a più alto rischio amputativo tranne quella per l'interessamento del calcagno.

1.6 CLASSIFICAZIONI DELLE ULCERE DIABETICHE

L'interesse ad avere una classificazione clinica delle lesioni del piede diabetico risponde alla necessità di avere dei protocolli di trattamento comuni per stabilire un valore predittivo in termini di guarigione dell'ulcera. Ad oggi sono utilizzate principalmente la classificazione di Wagner (Meggitt/Wagner) e la classificazione della Texas University. La prima è basata su tre parametri, quali l’estensione della lesione, la localizzazione topografica, il grado di infezione e presenta 6 gradi, dallo 0 al 6 così suddivisi (fig. 6):

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Al grado 0 appartengono sia le lesioni pre-ulcerative che post-ulcerative, tutte condizioni nelle quali non vi sono lesioni attive, la cute non presenta soluzioni di continuità, ma vi possono essere delle deformità (alluce valgo, dita a martello) così come delle aree di ipercheratosi nelle zone di iperpressione ed eventuali aree di sofferenza da trauma da calzatura. Le unghie, specie se distrofiche e colonizzate da miceti, possono costituire un grosso problema, poichè è possibile che l’infezione si diffonda a partire dai margini dell’unghia distrofica (perionichia), con formazione, al di sotto del letto ungueale, di ascessi veri e propri, soprattutto in pazienti ischemici. Altre tipologie di lesione appartenenti a questo grado includono: edema, deformità, disidrosi.

I gradi successivi indicano un coinvolgimento progressivo delle diverse strutture anatomiche, con presenza o meno di infezione. Nel grado 1 la lesione è superficiale, anche se a tutto spessore: interessa infatti la cute ed il sottocute, fino allo strato muscolare superficiale, e non sono interessate strutture più profonde (un esempio è dato dall’ulcera a livello delle teste MT, causa iperpressione); non vi è cellulite perilesionale nè altri segni di infezione, il fondo dell’ulcera è deterso (senza detriti necrotici) e duro, in relazione al trauma pressorio. Nel grado 2 la lesione raggiunge strutture, quali tendini, capsula articolare o osso: la semplice ispezione con uno specillo metallico smusso consente di apprezzare sia l’estensione della lesione nei piani profondi, sia la presenza sul fondo di strutture cartilaginee o ossee, e l’eventuale integrità di queste o, viceversa, la loro frammentazione o distruzione. Nel grado 3 la lesione, superficiale o profonda, si è infettata, dando origine ad un flemmone o ad un ascesso, con produzione di abbondante pus che spesso non drena spontaneamente ma permane a formare raccolte nelle zone profonde: vi è frequentemente anche l’interessamento delle strutture osteo-articolari, con osteomielite o osteoartrite settica. La presenza di pus, cattivo odore, cellulite, edema e di calore locale sono i segni dell’infezione, cui si possono associare lo sviluppo di gas nel sottocutaneo, con crepitio percepibile alla spremitura, fratture patologiche da osteomielite, necrosi localizzate parcellari. L’estensione della cellulite è solitamente disto-prossimale con vie di propagazione dell’infezione attraverso le guaine tendinee, i legamenti, i setti fibrosi, tutte strutture scarsamente vascolarizzate, e perciò piu facilmente aggredibili dagli agenti infettivi. Nel grado 4 si ha la gangrena dell’avampiede (o tallone), che si verifica quando il processo infettivo determina un’ischemia critica prolungata a carico del territorio irrorato dalle arterie terminali dell’avampiede con necrosi delle zone distali. La necrosi di per sè rappresenta un terreno ideale per lo sviluppo di batteri, e tende perciò all’evoluzione

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“umida”, con coinvolgimento delle aree adiacenti. Anche il tallone ha un circolo per cui può andare incontro

caratterizzato dalla necros

conservativa deve tener conto di fattori diversi tra cui le condizioni generali rischio di una sepsi general

l’amputazione non deve essere considerato un trattamento destruente in queste circostanze, ma un’operazione che può salvare la vita del paziente.

Poichè la classificazione di Wagner non teneva in considerazione le condizioni locali e quindi la presenza o meno

l’evolutività delle lesioni, è

e classificazione che valuta in modo piu completo la

L'incremento dello stadio e la progressione nel grado è di amputazione e ad un tempo più

T.U. si sviluppa cioè secondo due assi che identificano lesioni di sull’asse delle ascisse la maggior gravita è

via più profonde (il grado 0 indi

il grado I lesione superficiale, il grado II un' articolare, il grado III un'ulcera profonda fi

delle ordinate la gravità crescente, da A a D, è

“umida”, con coinvolgimento delle aree adiacenti. Anche il tallone ha un circolo andare incontro più facilmente a gangrena localizzata. caratterizzato dalla necrosi umida estesa a tutto il piede: in questo caso conservativa deve tener conto di fattori diversi tra cui le condizioni generali

rischio di una sepsi generalizzata durante il trattamento, l’estensione della necrosi; non deve essere considerato un trattamento destruente in queste circostanze, ma un’operazione che può salvare la vita del paziente.

la classificazione di Wagner non teneva in considerazione le condizioni locali e quindi la presenza o meno di ischemia, fattore che condiziona

l’evolutività delle lesioni, è stato recentemente messo a punto un sistema di inquadramento e classificazione che valuta in modo piu completo la lesione (fig.7).

Figura 7: Classificazione T.U.

io e la progressione nel grado è associata ad un aumento del d un tempo più lungo per la riparazione della lesione.

secondo due assi che identificano lesioni di

lle ascisse la maggior gravita è rappresentata dal coinvolgimento di strutture via l grado 0 indica la non soluzione di continuo, lesioni pre/

e superficiale, il grado II un'ulcera profonda fino al tendine o alla capsula articolare, il grado III un'ulcera profonda fino all’osso o all’articolazione), mentre s

e ordinate la gravità crescente, da A a D, è costituita dalla presenza aggiuntiva di “umida”, con coinvolgimento delle aree adiacenti. Anche il tallone ha un circolo terminale,

a gangrena localizzata. Il grado 5 è n questo caso l’ipotesi conservativa deve tener conto di fattori diversi tra cui le condizioni generali del paziente, il izzata durante il trattamento, l’estensione della necrosi; non deve essere considerato un trattamento destruente in queste circostanze, la classificazione di Wagner non teneva in considerazione le condizioni vascolari di ischemia, fattore che condiziona maggiormente sistema di inquadramento

associata ad un aumento del rischio lungo per la riparazione della lesione. La classificazione gravità crescente: gimento di strutture via ca la non soluzione di continuo, lesioni pre/post-ulcerative,

ra profonda fino al tendine o alla capsula no all’osso o all’articolazione), mentre sull’asse

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infezione, ischemia, infezione + ischemia. In questo modo qualsiasi lesione viene identificata da un numero romano e da una lettera (ad esempio IA, IIC, IIID, ecc.). Il vantaggio di questo sistema è evidentemente quello di tener presenti non solo le caratteristiche locali della lesione, ma anche i fattori maggiormente condizionanti l’evoluzione delle lesioni.

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Capitolo secondo

Identificazione del paziente a rischio e prevenzione

Nel Documento di Consenso sul Piede Diabetico dell'IWGDF vengono identificate cinque“pietre miliari”per la prevenzione delle lesioni nel piede diabetico. Queste sono:

• Ispezione periodica ed esame dei piedi a rischio • Identificazione dei piedi a rischio

• Educazione dei pazienti, delle famiglie e degli operatori sanitari • Calzature appropriate

• Trattamento delle patologie non-ulcerative

2.1 ISPEZIONE PERIODICA, ESAME DEI PIEDI, IDENTIFICAZIONE DEL RISCHIO Secondo il parere degli esperti le persone con diabete dovrebbero essere esaminate per i potenziali problemi ai piedi almeno una volta l’anno e i soggetti, con fattori di rischio accertati, con una maggiore frequenza (circa ogni 1-6 mesi); inoltre l’assenza di sintomi non significa che i piedi siano sani a causa della neuropatia periferica. Il paziente dovrebbe essere visitato prima sul lettino, poi in ortostasi e ispezionate anche le sue calzature.

Durante la visita al piede, l'individuazione di fattori predisponenti la lesione è molto importante, al fine di poter procedere con l'assegnazione di un livello di rischio. Il Documento di Consensus identifica i seguenti fattori di rischio che possono essere identificati attraverso l’anamnesi e l’esame clinico:

• precedenti ulcere/amputazioni; • mancanza di rapporti sociali; • carenza di educazione;

• compromissione della sensazione di protezione (monofilamento); • compromissione della percezione vibratoria;

• assenza del riflesso achilleo; • callosità;

• deformità;

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Dopo l’esame clinico, il paziente viene inserito in una categoria di rischio, in accordo con il sistema di classificazione, e stabilita la frequenza di controllo; gli esperti coinvolti nella stesura del “Consenso sul piede diabetico” suggeriscono l’adozione del seguente sistema di classificazione del rischio (fig.1).

Figura 1: Classificazione del rischio.

2.2 EDUCAZIONE DEI PAZIENTI, DELLE FAMIGLIE E DEGLI OPERATORI

Le persone con diabete dovrebbero imparare a riconoscere i potenziali problemi ai piedi, le situazioni di pericolo ed essere consapevoli delle misure da adottare; l’istruzione deve essere fornita in varie sessioni nel corso del tempo e preferibilmente utilizzando una miscela di metodi: è essenziale che l’operatore/educatore sanitario si accerti che il messaggio sia stato ricevuto, interpretato e che il paziente sia motivato a collaborare e controllare quotidianamente lo stato del piede. Ad ogni modo, si raccomanda che, come parte di un programma di cura dei piedi, l’educazione sia destinata in primis a categorie di pazienti ad alto rischio, in particolare quando le risorse sono scarse (anche se dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione interessata). Se da una parte i soggetti con piede diabetico, assieme ai familiari, devono raggiungere una vera consapevolezza dei rischi e attuare misure di cautela e prevenzione (per esempio l’aderenza ai consigli per la cura dei piedi, processi di auto-cura, evitare condizioni di pericolo e di possibile trauma, cercare aiuto specialistico nel sospetto di una lesione), è responsabilità dei professionisti sanitari il riconoscimento di piedi a rischio e di lesioni precoci.

L’educazione deve essere semplice, pertinente, coerente e ripetuta piu volte; bisogna inoltre che il personale sia adeguatamente capace di rapportarsi al paziente a seconda del suo grado d'istruzione. Medici, infermieri, podologi, devono ricevere una formazione periodica per il rafforzamento delle capacità di gestione del diabete e in particolare per migliorare la presa in carico di persone ad alto rischio di sviluppare complicanze a livello del piede. Allo stato attuale, non vi sono dati sufficienti per la scelta più appropriata delle

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tecniche di formazione. L’effetto di una sessione di formazione è stata valutata in due studi, con risultati contrastanti: lezioni frontali di tipo scolastico per la cura del piede hanno dimostrato di migliorare la conoscenza, ma con scarso effetto sulla effettiva auto-cura del piede; programmi volti ad aumentare la motivazione e le competenze, in cui la formazione sia fruibile in diverse sessioni nel corso di un periodo di tempo, sono apparse piu promettenti; a tal proposito lo studio di Praxel et al. ha riportato come ci sia stata una riduzione di errate valutazioni e ritardi nella diagnosi, con conseguente decremento del numero di problematiche ai piedi che necessitano di trattamento, in uno staff adeguatamente formato. Da quanto sopra esposto se ne deduce che idealmente, la formazione dovrebbe essere parte di un programma di cura dei piedi che abbraccia sia le cure primarie sia quelle ospedaliere specialistiche. Le tecniche utilizzate per l’educazione, erogata dalle figure sanitarie (medici, infermieri, podologi, specialisti), potranno dipendere dalle circostanze locali e l’accento dovrebbe essere posto sulla partecipazione all’apprendimento, piuttosto che su tradizionali lezioni istruttive ex cathedra; anche se vi è una varietà di tecniche educative, è probabile che l’approccio piu efficace comporti una combinazione di metodi audiovisivi, apprendimento attivo, letture. Particolare è l’attenzione ai pazienti più anziani che, a causa della visione scarsa e della ridotta mobilità, potrebbero non essere fisicamente in grado di esaminare i propri piedi ogni giorno. In questo caso, dovrebbe essere possibile chiedere aiuto ai familiari o altri operatori socio-sanitari. Fattori socio-economici e culturali dovrebbero essere presi in considerazione anche quando, per esempio, si invita all’uso delle calzature che sono state prescritte. 2.3 CALZATURE APPROPRIATE

La scarpa protegge il piede diabetico dai traumi, dalle temperature estreme e dalla contaminazione. I pazienti senza perdita di sensibilità possono scegliere calzature standard (a patto che non abbiano cuciture interne, o che siano troppo strette o a punta), mentre devono essere soddisfatti requisiti extra nella realizzazione di scarpe per i soggetti con neuropatia o vasculopatia, soprattutto se sono presenti malformazioni (ad esempio l’extraprofondità, la calzata maggiore, altezza della calzatura, punto di rotolamento, tomaia elastica automodellante).

Esiste un algoritmo (fig.2) per la scelta della calzatura sulla base delle condizioni cliniche e classe di rischio (l’ortesi plantare è sempre consigliata): con la sola perdita di sensibilità è richiesta un’altezza della calzatura bassa, suola standard, nessun punto di rotolamento; se

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la mobilità articolare è limitata è necessaria una suola rigida con punto di rotolamento; ad un piede cavo con dita a martello corrisponde una calzatura ad altezza media, punto di rotolamento precoce, suola rigida, mentre ad un piede piatto con alluce valgo il punto di rotolamento è in posizione standard. Infine, se il piede ha subito amputazioni o è andato incontro a pregresse ulcere, è prescritta una scarpa alta, suola rigida, punto di rotolamento precoce.

Figura 2: Algoritmo prescrittivo per la ortesizzazione del piede diabetico nella fase cronica.

2.4 TRATTAMENTO DELLA PATOLOGIA NON ULCERATIVA

Il trattamento delle condizioni pre-ulcerative, volto a prevenire l’insorgenza di una prima lesione (prevenzione primaria) o di recidive (prevenzione secondaria) prevede la cura di ipercheratosi, secchezza della cute, micosi, correzione di deformità, normalizzazione del complesso ungueale.

Le ipercheratosi si presentano in aree di sovraccarico o di attrito come semplice meccanismo di difesa; se non trattate però, assumono una consistenza tale da agire come corpo estraneo e provocare un danno tissutale con formazione di ematoma subcheratosico, a cui segue la lesione: è consigliabile una rimozione con bisturi/lama da parte dello specialista con applicazione di uno scarico (transitorio ed eventualmente permanente). La secchezza della cute, legata alla neuropatia autonomica, può determinare l’insorgenza di possibili ragadi, e quindi deve essere opportunamente idratata. Un ispessimento ungueale può generare, attraverso il trauma continuo con la calzatura, un ematoma subunguale o favorire uno stato di infiammazione dei tessuti perilaminari, magari associato a micosi; anche condizioni di ipo-atrofia dell’unghia con spicole o bordi irregolari possono innescare una perionichia: per questo la regolarizzazione della lamina ungueale tramite appositi strumenti è di fondamentale importanza, in quanto anche una piccola lesione può facilitare l’accesso a microrganismi patogeni. Infine l’ispezione e individuazione di una adeguata

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calzatura, assieme alla prescrizione di ortesi plantari di tipo accomodativo (con presa d’impronta su schiuma fenolica), favoriscono una distribuzione dei carichi non patologica. Ortesi digitali in silicone possono essere applicate a scopo protettivo, correttivo e riempitivo in caso di amputazione.

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Capitolo terzo

Modelli organizzativi per la gestione del piede diabetico

3.1 MODELLI ORGANIZZATIVI

Il Documento di Consenso sul piede diabetico propone un modello di come organizzare un servizio di gestione delle complicanze del piede per pazienti diabetici. Questo modello si struttura su tre livelli, sulla base del personale coinvolto e sui servizi erogati. Si parla quindi di:

• modello minimo; • modello intermedio;

• centro di eccellenza di terzo livello.

Il modello minimo si pone l’obiettivo base di prevenire lesioni del piede diabetico e trattare piccole problematiche impedendo che diventino molto gravi; in particolare prevede l’esame del piede con risoluzione di problematiche ungueali, callosità, piccole ulcere, un primo screening, educazione sulla cura del piede e sulle calzature da indossare, la prevenzione dei traumi. Se si presentano lesioni, con un quadro clinico più complesso, il paziente dovrebbe, se possibile, essere spostato in un centro che sia in grado di affrontare il problema specifico. L’impostazione (modello minimo) può essere nell’ambulatorio del medico di medicina generale, in una community clinic o in un piccolo ospedale locale; il team è composto da un medico, un infermiere e un podologo (è auspicabile che uno o tutti i membri del team frequentino un riconosciuto centro di eccellenza per acquisire esperienza pratica). Il livello minimo (fig.1) presenta tuttavia alcune criticità: nonostante siano richieste capacità, da parte degli operatori sanitari, di esaminare obiettivamente un piede e di eseguire trattamenti base, nella realtà dei fatti la figura del podologo non compare. Essendo il podologo una figura professionalmente competente e formata sulla cura e gestione delle patologie podaliche, un suo impiego nel modello minimo garantirebbe un miglior controllo degli stadi pre-ulcerativi del piede diabetico, rispetto alle competenze più generiche di un infermiere (il cui supporto resta comunque fondamentale): tuttavia la scarsità delle risorse economiche non permettono di collocare il podologo nel primo livello, ma la sua attività è una “esclusiva” della diabetologia al momento.

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Figura 1: Modello minimo.

Il modello intermedio si occupa allo stesso modo dell’esame del piede e risoluzione di tutte le condizioni patologiche (ipercheratosi, distrofie ungueali, piede d’atleta, lesioni ulcerative), screening completo del piede a rischio, prevenzione ed educazione sulla cura del piede, trattamento di tutti i tipi di ulcere, infezioni ed educazione sull’autogestione di tali problematiche. La clinica del piede di livello medio (fig.2) utilizza alcuni consulenti provenienti da altri ambulatori/reparti e il numero dei membri del personale aumenta; un membro del gruppo svolge il ruolo di coordinatore e ha la responsabilità di attirare nuovi e ben motivati colleghi, tra cui un diabetologo, un chirurgo (generale, vascolare, ortopedico o plastico), un infermiere e/o podologo e/o tecnico ortopedico. Tale clinica di solito trova una collocazione in ospedale o in un grande centro specialistico ambulatoriale. Lo scambio di esperienze con altri centri del piede diabetico è fondamentale; sono aspetti importanti del lavoro di team anche le regolari riunioni del personale per discutere i casi di pazienti e i turni di reparto. I rapporti con gli amministratori ospedalieri e con il personale di altri reparti all’interno della struttura sanitaria dovrebbero essere curati e promossi, così come i contatti con strutture esterne a quella ospedaliera, come i poliambulatori dove svolgono la propria attività i medici di medicina generale, case di cura, strutture per la riabilitazione.

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Figura 2: Modello intermedio

L’obiettivo del centro di eccellenza del piede diabetico (fig.3) non è solo quello di garantire il massimo in termini di diagnosi e cura, ma anche di fornire agli operatori del settore esempi di presa in carico del paziente, lavoro in equipe, trattamenti specifici e favorire il miglioramento dei servizi per il piede diabetico in tutto il mondo; il personale sarà formato nel campo d’intervento, effettuando lavori scientifici, scrivendo e pubblicando risultati, per fornire esperienza agli altri. Le persone che ricevono il trattamento non provengono solo da località limitrofe o dalla regione, ma possono provenire da più lontano o addirittura dall’estero per ricevere cure altamente specializzate. Casi più complessi con difficoltà di rivascolarizzazione o con neuro-osteoartropatia (Charcot) sono presi in cura presso il terzo livello: in questa fase avanzata, tutti i trattamenti sono disponibili nel centro. Il team proviene da ambiti di altissima specializzazione nelle varie discipline, compresa la diabetologia, chirurgia vascolare e ortopedica, fisioterapia, microbiologia, dermatologia, psichiatria, infermieristica, podologia (il numero dei membri e la composizione del team dipenderà dalle risorse locali).

L’obiettivo generale del modello di eccellenza è quello di ridurre i tassi di amputazione e mortalità anche in presenza di lesioni podaliche di grado elevato (secondo le classificazioni Wagner e T.U.), complicate da eventuale infezione batterica. Inoltre, come centro

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specializzato, ha la responsabilità di istituire un organismo capace di svolgere un più importante ruolo regionale, nazionale o forse anche internazionale.

Figura 3: Centro di eccellenza di terzo livello.

3.2 PERCORSO “PIEDE DIABETICO” NELLA REGIONE TOSCANA

Il Piano Nazionale Diabete (PND) pone il piede diabetico tra le aree suscettibili di miglioramento nell’assistenza diabetologica. Nel rispetto dello spirito dell’intero PND, anche per il piede diabetico vengono date indicazioni per l’assistenza integrata e la presa in carico da parte del team plurispecialistico dei casi complessi. Al fine di soddisfare questo obiettivo, la regione Toscana ha proposto e diffuso un modello organizzativo per la gestione del piede diabetico a partire dall'esame di un’indagine conoscitiva sulle realtà assistenziali del territorio regionale effettuata dalla Commissione per le Attività Diabetologiche, in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità (MeS) della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. L'indagine fu svolta attraverso l'autocompilazione di un questionario da parte delle strutture diabetologiche al quale seguirono visite ed

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interviste di approfondimento nelle varie realtà locali: l’analisi dei risultati mostrò difformità nell’organizzazione delle cure e fece emergere varie aree di possibile miglioramento. La regione, attraverso la realizzazione di un modello di gestione integrata del diabete, basato sulla centralità della persona e sulla presa in carico olistica dei suoi problemi, ha individuato come elementi chiave l’approccio multidisciplinare integrato e l’adozione di un protocollo terapeutico condiviso. I percorsi diagnostico-terapeutici forniscono una visione completa del processo di cura, di terapia e assistenza integrata e descrivono, attraverso l’azione del team diabetologico, la valutazione e la cura di base, così come la gestione specialistica del problema “piede diabetico”. Il team è governato da chi ha in carico il problema in quella specifica fase del processo, mentre il diabetologo possiede tutte le caratteristiche necessarie per essere il team leader del percorso “piede diabetico” attraverso la conoscenza dell’intero processo.

Il percorso del piede diabetico della regione Toscana si articola su tre livelli, identificando nella medicina generale, negli ambulatori e day service di diabetologia e nei centri diabetologici specializzati sulla cura del piede diabetico i principali attori. Analizziamoli quindi nel dettaglio:

la medicina generale (preferibilmente attraverso le forme associate) provvede all’educazione in prevenzione primaria e alla prima rilevazione della presenza di lesioni al piede da inviare sollecitamente alle strutture di livello superiore. Partecipa inoltre al follow-up successivo, in collaborazione con gli infermieri del territorio; ambulatori e day service di diabetologia provvedono ad una prima valutazione delle lesioni al piede, all’inquadramento generale clinico metabolico del paziente ed alla cura di casi semplici o intermedi, inviando quelli piu complessi alle strutture di terzo livello;

i centri diabetologici specializzati provvedono invece alla cura dei casi complessi, interfacciandosi con i vari specialisti nell’ambito del team multidisciplinare precostituito e con i reparti di degenza.

3.3 PRIMO LIVELLO DI ASSISTENZA: LA MEDICINA GENERALE E IL TERRITORIO

La medicina generale, là dove viene erogata l’assistenza per il Chronic Care Model, ha il compito essenziale di provvedere all’educazione terapeutica per la prevenzione delle

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lesioni al piede. E’di primaria importanza che siano fornite informazioni generali sulle possibili complicanze fin dall’esordio della malattia, in modo da sensibilizzare il paziente al problema e permetterne una precoce individuazione. I pazienti con condizioni di maggior classe di rischio (CdR 1-2-3) dovranno ricevere informazioni più dettagliate e puntuali rinforzi motivazionali. Tutti i soggetti diabetici devono essere sottoposti ad esame clinico dei piedi ad ogni accesso con il rilievo della presenza o meno dei polsi arteriosi. In caso di comparsa di una lesione al piede, sarà cura del medico di medicina generale (MMG) l’invio sollecito all’ambulatorio di diabetologia di secondo livello con richiesta di visita urgente, da effettuare entro 48 ore per una prima valutazione della lesione, provvedendo comunque ad una medicazione di copertura e prescrizione di eventuale terapia antibiotica ad ampio spettro. Una volta raggiunta la guarigione, sarà necessario provvedere a rinforzi educativi per la prevenzione delle recidive e ad esame obiettivo dei piedi ad ogni accesso. Di seguito il diagramma di flusso dell'organizzazione ambulatoriale secondo il Documento di Consensus sul piede diabetico (fig.4).

Figura 4: Diagramma di flusso dell'organizzazione ambulatoriale secondo il Documento di Consensus sul piede diabetico.

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3.4 SECONDO LIVELLO DI ASSISTENZA: AMBULATORIO/DAY SERVICE DI DIABETOLOGIA

Come da proposta della regione, il percorso prevede dei requisiti minimi per l’attività dell’ambulatorio/day service di diabetologia, che di solito è collegata ad una U.O. di diabetologia o di medicina interna. Questi sono:

• disponibilità di spazi dedicati ed organizzati, personale idoneo per interventi d’urgenza e medicazioni di lesioni al piede;

• dotazione di materiali per medicazioni di base, medicazioni avanzate e di strumentazione chirurgica di base;

• individuazione chiara dei ruoli di ogni componente del gruppo dedicato (es. chi effettua un drenaggio urgente), con creazione di possibili collaborazioni specialistiche strutturate (es. podologo);

• prescrizione o confezionamento di scarichi idonei;

• presenza di agende dedicate per il PD, che comprendano spazi riservati alle urgenze;

• capacita di misurare l’indice caviglia/braccio (ABI) e di effettuare almeno un test per lo screening della neuropatia (preferibilmente la biotesiometria);

• disponibilità di un laboratorio microbiologico che possa effettuare esami colturali su campioni prelevati dalla lesione;

• percorsi integrati concordati per la diagnostica vascolare non invasiva e la radiologia di primo livello;

• disponibilità di programmi educativi idonei per la prevenzione delle lesioni al piede e delle loro recidive.

Il servizio di diabetologia partecipa alla prevenzione primaria delle lesioni attraverso l’educazione terapeutica preferibilmente strutturata in gruppi gestiti da personale addestrato (infermiere, podologo); opportuni rinforzi educativi dovranno essere effettuati in occasione della diagnosi di neuropatia e/o arteriopatia. Programmi specifici per la prevenzione delle recidive dovranno essere sviluppati per i pazienti con pregresse lesioni, che sono a rischio piu elevato. L’accesso ai servizi della diabetologia (secondo livello) può avvenire per:

• a) invio da parte del MMG

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• c) invio dal pronto soccorso o da reparti di degenza • d) accesso diretto

Tutti i pazienti diabetici ricoverati in un qualsiasi reparto che presentino lesioni ulcerative al piede, anche quando queste non sono il motivo primario del ricovero, devono essere necessariamente sottoposti all’attenzione dell'ambulatorio di diabetologia per un inquadramento. L’accesso diretto da parte del paziente non va incoraggiato, ma neppure escluso, in quanto l’eventuale ritardo nell’invio potrebbe avere conseguenze assai negative sull’esito finale. Nei pazienti così pervenuti alla struttura, il diabetologo effettua, assieme all’infermiere e al podologo della struttura, un inquadramento generale comprendente:

• inquadramento clinico-metabolico; • valutazione dell’arteriopatia; • valutazione della neuropatia; • trattamento locale e medicazione; • prescrizione della terapia antibiotica;

• educazione terapeutica per la gestione del problema attivo e per la successiva prevenzione delle recidive ed eventuale prescrizione delle ortesi;

• possibilità di prenotazione di accertamenti strumentali utili alla diagnosi.

Secondo il modello della regione Toscana, il servizio di secondo livello dovrà inviare tempestivamente il paziente al servizio di terzo livello (specializzato in PD) nei casi di: a) lesioni richiedenti monitoraggio e medicazioni con particolare complessità chirurgica, che si presentano nello stesso paziente con elevata frequenza;

b) necessità di rivascolarizzazione;

c) necessità di chirurgia locale di maggior impegno (incisione e drenaggi di ascessi, escarectomie, interventi richiedenti anestesia locale, ecc.);

d) necessità di terapie antibiotiche endovenose e/o in presenza di infezioni sostenute da germi “difficili”;

e) possibile opportunità di interventi ortopedici correttivi per la prevenzione delle recidive; f) prescrizione e controllo di ortesi di cura e prevenzione delle recidive in casi complessi. Nei casi restanti, il servizio di secondo livello provvederà autonomamente alla cura della lesione ed al successivo follow-up, interfacciandosi per le medicazioni con le strutture

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infermieristiche territoriali dedicate (se presenti), fino alla guarigione. Prima del rinvio alla medicina generale, provvederà anche all’educazione per la prevenzione delle recidive; tale attività potrà essere meglio effettuata attraverso la fattiva collaborazione con le Associazioni dei pazienti, che possono fornire proprio personale volontario opportunamente addestrato.

Il podologo ha un ruolo attivo in tutte le fasi del percorso; di seguito, il diagramma di flusso del modello di gestione del paziente ricoverato secondo il Documento di Consensus sul piede diabetico (fig.5).

Figura 5: Diagramma di flusso del modello di gestione del paziente ricoverato.

3.5 TERZO LIVELLO DI ASSISTENZA: CENTRO DIABETOLOGICO SPECIALIZZATO NELLA CURA DEL PIEDE

Sono previsti requisiti minimi per l’attività della diabetologia come struttura di terzo livello per il PD, quali:

a) spazi attrezzati e dedicati alle medicazioni, accesso alle sale operatorie, con spazio dedicato ed aumentabile in caso di necessità;

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b) disponibilità di accesso a tecnologia specifica (terapia a pressione negativa VAC, monitoraggio ossimetrico transcutaneo, ingegneria tissutale, cellule staminali...);

c) disponibilità di spazi idonei per terapie endovenose protratte in regime di day Hospital/day Service (antibiotici, prostanoidi...);

d) disponibilità di spazi dedicati (all’interno della struttura o tramite accordi con strutture vicine dello stesso ospedale) alla diagnostica vascolare non invasiva (eco-color-Doppler) e radiologica (radiografia, risonanza magnetica...);

e) accessi dedicati a diagnostica vascolare avanzata (angio-TC e angio-RM); f) rapporto strutturato con chirurgo generale/ortopedico;

g) rapporto strutturato con radiologo/cardiologo interventista/chirurgo vascolare; h) rapporto strutturato con il nefrologo e con l’infettivologo;

i) percorsi preferenziali per il ricovero in degenza ordinaria.

Gli specialisti che collaborano con il diabetologo nella gestione della cura al piede vanno a costituire un team multidisciplinare stabile nel tempo, che si riunisce periodicamente per le valutazioni organizzative sul percorso diagnostico-terapeutico dei singoli casi.

Nel momento in cui è necessario il ricovero e se la struttura non dispone di un proprio reparto di degenza, dovrà comunque esistere un percorso prefissato che permetta l’accesso rapido e coordinato a degenze di area medica, con un livello di intensità adeguato alle esigenze dei singoli pazienti; durante la degenza sarà cura del diabetologo provvedere a seguire il paziente per i problemi concernenti il piede disegnandone il percorso assistenziale del quale renderà edotti i colleghi, seguirà il controllo metabolico e le eventuali altre complicanze.

Il centro di terzo livello riceve invii dai servizi di secondo livello, cui rimanda i pazienti una volta conclusa la fase piu complessa della cura (a meno che non funzioni esso stesso anche come servizio di secondo livello, nel qual caso si fa carico dell’intero percorso diagnostico-terapeutico fino alla guarigione). La condivisione dei dati relativi ai pazienti inseriti nel percorso fra i vari attori che si alternano nei diversi livelli di cura, è elemento essenziale per la garanzia di continuità dell’assistenza ed integrazione degli interventi, oltre a dare la possibilità di valutare periodicamente in modo univoco e omogeneo i risultati. Per questi motivi è auspicabile la realizzazione di strumenti preferibilmente informatici, che consentano comunicazione diretta fra i vari operatori. Il modello regionale propone almeno un centro di terzo livello per Area Vasta che abbia le caratteristiche complete; è preferibile

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l’unitarietà fisica del centro di riferimento del piede diabetico, ma comunque, se vi sono dei limiti per le strutture ospedaliere e vi è una dispersione dei servizi, è obbligatoria un'attività completamente integrata e il tutto deve funzionare come un centro unico. Tutte le strutture di primo, secondo, terzo livello, devono operare in una rete assistenziale strettamente collegata, che sia organizzata in modo che al paziente sia assicurata l'appropriatezza e la tempestività delle cure.

3.6 LA GESTIONE DELLE CRONICITA' SECONDO IL CHRONIC CARE MODEL Il Chronic Care Model (CCM) è un modello di assistenza integrata ospedale-territorio basato sulla presa in carico pro-attiva del paziente affetto da patologie croniche, tale da offrire servizio territoriale ai casi di cronicità lasciando all'ospedale essenzialmente gli interventi per riacutizzazioni ed emergenze. Rappresenta un’evoluzione del sistema delle cure primarie, o assistenza sanitaria di base/essenziale, intesa come la forma di assistenza sanitaria più vicina agli individui, alle famiglie e alla collettività, che costituisce il primo elemento di un processo continuo di protezione sanitaria.

Per le cure primarie a prevalere è il cosiddetto paradigma dell' “iniziativa" con il quale si intende un pattern assistenziale orientato alla promozione attiva della salute e al rafforzamento delle risorse personali (auto-cura, family learning) e sociali (reti di prossimità e capitale sociale) a disposizione dell'individuo, specie se affetto da malattie croniche o disabilità. Il servizio ospedaliero è invece improntato sul paradigma dell' “attesa", con il quale si evidenzia un pattern assistenziale ad elevata standardizzazione ed intensività tecnico-assistenziale, che si attiva e si mobilita in presenza di un evento "nuovo" e con caratteristiche prevalentemente di acuzie, di urgenza od emergenza. Due paradigmi che identificano bisogni e fasi diverse (fig.6) ma che in ogni caso, per essere entrambi centrati sulla persona e riuscire a garantire presa in carico e continuità nelle cure, devono necessariamente integrarsi tra loro in una unica rete assistenziale.

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Figura 6: Differenze tra Sistema ospedaliero e Sistema delle cure primarie.

Elementi fondamentali dell'area delle cure primarie sono dunque l'estensività ed equità nell'assistenza e nell'accesso alle cure, la prossimità delle cure ai luoghi di vita dei cittadini, l'integrazione tra attività sanitaria e sociale, la valorizzazione del capitale umano e sociale a disposizione dell'individuo e la partecipazione della comunità locale e dei cittadini alla programmazione dei servizi e alla valutazione delle attività e dei risultati di salute. A tal proposito sono stati delineati alcuni principi:

realizzazione della presa in carico del cittadino attraverso la istituzione in ogni presidio sanitario territoriale del punto unico di accesso ai servizi. La creazione di uno sportello unico per le prestazioni sociali e sanitarie darebbe finalmente certezza al paziente, portatore di problematiche spesso complesse, di ottenere una risposta tempestiva ed adeguata alle sue effettive necessità. Il punto unico di accesso dovrebbe rappresentare la porta attraverso la quale si realizza la presa in carico da parte del SSN o l'affido del paziente all'equipe che ne ha la specifica competenza. Cesserebbe, così, la dispersione e la frammentazione degli interventi o, quel che è peggio, il "palleggio" di responsabilità che spesso si verifica, anche in contrasto con la stessa volontà degli operatori, nei confronti di pazienti "difficili". Una presa in carico effettiva del paziente, attraverso la definizione di precisi percorsi assistenziali, comporterebbe ripercussioni importanti anche sui livelli di appropriatezza delle prestazioni e sulla accessibilità dei servizi;

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estensione della continuità assistenziale a 24 ore al giorno e a sette giorni su sette. La realizzazione di un'assistenza continua è sicuramente l'esigenza più avvertita dai cittadini ed è l'unico mezzo in grado di disincentivare l'uso inappropriato del pronto soccorso ospedaliero;

istituzione del dipartimento delle cure primarie. Nell'ottica, già più volte richiamata, di una forte integrazione tra le attività sanitarie, la costituzione di un dipartimento delle cure primarie all' interno di ogni singola azienda sanitaria ed articolato per distretto sanitario, acquista un significato del tutto particolare, pratico e simbolico al tempo stesso. Solo attraverso un dipartimento unico è possibile realizzare un "governo" effettivo del complesso delle attività di assistenza primaria i cui momenti fondamentali passano attraverso la predisposizione di piani di intervento specifici per le diverse aree assistenziali e la gestione unitaria delle risorse umane e professionali, con la possibilità di programmare e verificare efficacemente accessibilità, qualità ed adeguatezza delle prestazioni. Il dipartimento dovrebbe essere integrato a matrice con il distretto che resterebbe in ogni caso il titolare del Piano, degli indirizzi, del bilancio di quello specifico ambito territoriale e del controllo dei risultati;

promozione delle "case della salute". Nell'ambito delle aree elementari del distretto (per un bacino corrispondente a circa 5-30.000 abitanti) dovrebbe trovare collocazione una struttura polivalente e funzionale in grado di erogare materialmente l'insieme delle cure primarie e di garantire la continuità assistenziale e le attività di prevenzione. Questa struttura rappresenta il luogo di tale ricomposizione, il contesto in cui può essere realizzato il lavoro multidisciplinare ed in team degli operatori e in cui dunque può operare, superando le precedenti divisioni, l'insieme del personale del distretto (tecnico-amministrativo, infermieristico, della riabilitazione, dell'intervento sociale), i medici di base (che vi eleggeranno il proprio studio associato) gli specialisti ambulatoriali. Qui si persegue la prevenzione primaria, secondaria e terziaria, si attiva un'assistenza domiciliare delle cure a forte integrazione multidisciplinare ed infine si garantisce la partecipazione dei cittadini che viene disciplinata attraverso procedure certe, codificate e periodicamente verificate;

promozione di forti forme associative dei medici di medicina generale e degli altri professionisti sanitari;

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