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Architettura in montagna / Architecture in the Mountains. Gino Valle in Carnia

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Academic year: 2021

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Architettura in montagna

Gino Valle in Carnia

Architecture in the Mountains

Gino V

alle in Car

nia

N

architecture

I S B N 8 8 - 9 0 1 4 5 7 7 « Il Municipio di Treppo Carnico è situato sul versante di una

montagna, è come l’insieme di più caverne collegate da gallerie che paiono scavate nel monte. L’edificio si apre verso la valle, il villaggio e il sole solamente sul fronte, mentre i lati sono chiusi da spessi muri di pietra locale, e invecchia meravigliosamente.

Ad Arta mi ricordai di un castello rinascimentale che avevo visto tra Firenze e Bologna e che m’aveva colpito per la sua unitarietà e complessità d’angoli retti ... Dai miei ricordi di Arta da bambino emerse invece un luogo avvolto dalla foschia e dalla pioggia. Desideravo che l’edificio ricordasse un castello, un complesso contenente tante funzioni. »

“The Town Hall of Treppo Carnico is on the side of a mountain, and is a group of caves, linked by communicating channels which you feel are somehow dug into the mountain. It is open to the valley, to the village and to the sun only on the front. Its sides are enclosed by very thick walls of local stone, and it ages beautifully.

In Arta I remembered a renaissance castle which I had seen on the road from Florence to Bologna. It had shocked me by its unity and complexity of right angles … It also sprang from my memory as a child of the site, full of mist and rain. I wanted the building to look like a castle, and like something which houses many functions.”

Gino Valle, Annual Discourse to the Royal Institute of British Architects, 7 April 1965

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Architettura in montagna

Gino Valle in Carnia

Architecture in the Mountains

Giovanni Corbellini

Alessandro Rocca

Elena Carlini (ed.)

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5 4

Questo libro è pubblicato in occasione della mostra / This book appears on the occasion of the exhibition

Architettura in montagna Gino Valle in Carnia Architecture in the Mountains

Galleria d’Arte Moderna ‹ Enrico De Cillia ›, Treppo Carnico ( U D ) 2 luglio – 25 settembre 2005

Ideazione e organizzazione / Concept and organization Comune di Treppo Carnico

Sindaco, Luigi Cortolezzis Assessore alla Cultura, Maurizia Plos Enti promotori / Funding institutions

Regione Friuli Venezia Giulia · Presidenza del Consiglio Regionale Provincia di Udine · Assessorato alla Cultura

Comunità Montana della Carnia · Assessorato alla Cultura Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone, in collaborazione con / in collaboration with Comune di Arta, Comune di Sutrio, Comune di Zuglio Federazione degli Ordini degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori del Friuli Venezia Giulia,

con il contributo di / with support from Fantoni spa, Osoppo Mostra a cura di / Exhibition curated by Giovanni Corbellini, Università di Trieste, Facoltà di Architettura

Un particolare ringraziamento allo / A special thanks to Studio Valle architetti, Udine, per aver messo a disposizione disegni, fotografie e documenti originali /for lending original drawings, photographs and documents from Gino Valle’s archive

Indice Contents

5 Introduzione Foreword Luigi Cortolezzis 7 Meno forma, più concetto

1960–65: la critica architettonica sull’opera di Gino Valle in Carnia Alessandro Rocca

10 Less form, more concept

1960-65: the architectural criticism of Gino Valle’s work in Carnia Alessandro Rocca

13 Astratto e contestuale. Gino Valle in Carnia Giovanni Corbellini

21 Abstract and Contextual. Gino Valle in Carnia Giovanni Corbellini

27 Progetti in Carnia Projects in Carnia 90 Progetti e publicazioni Projects and publications

92 Rigolato

94 Nota biograficaBiography 95 BibliografiaBiblography 96 (It.)About the authors

Introduzione

Foreword

Gino Valle, il grande maestro dell’architettura italiana recentemente scomparso, eseguì, tra gli anni ’50 e ’80 alcune delle sue opere più significative in Carnia, il territorio montano del Friuli Venezia Giulia nord-occidentale, la terra d’origine della sua famiglia dove il padre Provino, anch’egli architetto, aveva realizzato numerosi edifici pubblici. Un esempio lo abbiamo proprio a Treppo Carnico dove, a monte del municipio costruito da Gino nel 1958, vi sono le scuole disegnate dal padre una decina d’anni prima.

Gli edifici e i progetti di Gino Valle per la Carnia offrono uno spaccato dello sviluppo della poetica dell’architetto e stabiliscono molteplici legami con il paesaggio naturale e urbano. La Casa Quaglia e le Scuole a Sutrio, i Municipi di Treppo e Sutrio, le Terme e il Kursaal di Arta con l’asilo di Fielis di Zuglio sono riusciti esempi d’inserimento del linguaggio moderno nel paesaggio alpino e sono considerati tra i capisaldi dell’architettura italiana del secondo dopoguer-ra. L’amministrazione di Treppo Carnico rende omaggio al lavoro di Valle con una mostra d’interesse nazionale e internazionale che coinvolge diverse muni-cipalità della Comunità Montana della Carnia nel rendere noti i propri edifici pubblici. La Galleria d’Arte Moderna ‹ Enrico De Cillia ›, nuova realtà espositiva del Friuli Venezia Giulia, è il centro ideale per tale iniziativa in quanto geografica-mente vicina agli altri edifici realizzati da Valle. La mostra si propone dunque come inizio di un itinerario di valorizzazione dell’architettura moderna nel terri-torio regionale che spero abbia futuri sviluppi.

Nelle sue realizzazioni in Carnia, Valle rifugge uno stile unitario o un’attitudine mimetica: con atteggiamento autenticamente sperimentale, tenta diversi approcci che relazionino il progetto moderno all'ambiente naturale e agli insediamenti tradi-zionali ottenendo risultati di grande interesse. Lungi dall’essere datata, I’architet-tura di Valle in Carnia, offre un valido stimolo ai progettisti odierni in quanto evita la contrapposizione tra storico e contemporaneo, ricercando un dialogo continuo ed evolutivo tra nuove strutture e ambiente preesistente senza giungere a formule certe. Spero che questa continua ricerca serva da stimolo a promuovere lo svilup-po futuro del nostro territorio in un’ottica progressista ed europea.

Il Sindaco di Treppo Carnico, Luigi Cortolezzis

Between the 1950s and the 1980s, Gino Valle, the master of Italian architecture who recently died, designed some of his most significant buildings in the mount-ainous area of Friuli Venezia Giulia, Carnia, the region where his family originally lived. His father Provino realized many public buildings in this territory: an example is the Treppo Carnico school complex designed ten years before the town hall that Gino built in 1958. Gino Valle’s buildings in Carnia provide a record of the development of his poetics as an architect and establish many links with the surrounding natural and man-made landscape. The casa Quaglia and the School in Sutrio, the Town Halls of Treppo and Sutrio, the Baths and the Kursaal in Arta as well as the kindergarten in Fielis di Zuglio all successfully managed to insert a modern architectural language into an alpine context and are considered masterpieces of postwar Italian architecture. The Municipality of Treppo Carnico honours Valle’s work with an exhibit of national and interna-tional interest, in a collaborative effort with other Carnic towns to promote their public buildings. The ‘Enrico De Cillia’ Modern Art Gallery, a new exhibition venue in Friuli Venezia Giulia, is the ideal place for such an initiative because of its geographical proximity to Valle’s buildings. The exhibit aims at promoting modern and contemporary architecture in our region with the hope of encourag-ing further developments in the future.

In his Carnia buildings, Valle avoids a unitary style or a mimetic approach to the context: he makes a series of genuinely experimental attempts to relate the modern project to the natural environment and to the traditional settlements. Far from being outdated, Valle’s architecture is a valid example for today’s designers because it avoids the opposition of the ‘traditional’ and the ‘contemp-orary’, establishing instead a continuous dialogue between new structures and their environment. I hope that his search will be an example that will inspire in our territory future developments which have a progressive and European vision.

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Meno forma, più concetto

1960 – 65: la critica architettonica sull’opera di Gino Valle

in Carnia

Alessandro Rocca Il lavoro di Gino Valle ha sempre ottenuto una forte attenzione critica, è stato regolarmente pubblicato sulle più importanti riviste di architettura italiane e straniere e, anche se con un rilievo spesso inadeguato, nelle storie dell’archi-tettura contemporanea.

Nonostante fosse tutt’altro che ignorata, l’opera di Valle ha continuato negli anni a sottrarsi a qualsiasi definizione stabile per conformarsi gradualmente a quel giudizio di eclettismo, più o meno unanimemente accettato, sotto cui tra-pela l’impossibilità di cogliere il punto unificante di un’opera ormai compiuta.

Come ricorda Giovanni Corbellini nel saggio di questo volume, tanto il regio-nalismo propugnato da Kenneth Frampton che le molteplici gabbie critiche di Pierre-Alain Croset appaiono oggi insufficienti per definire in maniera efficace il lavoro di Valle. In attesa che si tenti nuovamente un discorso critico comples-sivo sul maestro udinese, un avvicinamento alle sue realizzazioni in Carnia offre l’occasione di rileggere, su un campione ridotto ma qualitativamente rappresen-tativo, la maniera in cui l’architettura di Valle è stata accolta e interpretata sulle pagine delle riviste che presentavano i sui lavori in presa diretta, nella temperie dei tempi.

La Casabella di Ernesto Rogers, la Domus di Gio Ponti, l’olivettiana Zodiac diretta da Bruno Alfieri (il futuro fondatore di Lotus International), le rassegne internazionali di Architectural Design e Lotus n. 8 (quest’ultima svolta nel 1974, in una condizione già retrospettiva) sono le riviste che hanno mostrato e discusso con attenzione le opere carniche di Gino Valle.

In ordine di tempo, il primo contributo si deve a Francesco Tentori che, con un testo intitolato Tre opere e un progetto dello studio Valle (Casabella 226, marzo 1959), introduce la pubblicazione del municipio di Treppo (1956 – 58) e di casa Quaglia, qui indicata come Casa d’abitazione a Sutrio (1953 – 54), a cui si aggiunge la casa con due appartamenti a Udine (1956 – 57) e il progetto per villa Zanussi a Pordenone (1958). I due progetti carnici, nella bella impaginazione di Gae Aulenti, sono presentati con enfasi: il municipio di Treppo è mostrato su cinque pagine con una grande planimetria generale, una pagina intera dedicata

ai disegni tecnici – due piante, due sezioni e dettagli del serramento – e ben quattordici fotografie, di cui cinque di grande formato. L’importanza attribuita a questo edificio è sostenuta dalla lettura di Tentori che lo indica come « l’opera più omogenea e più approfondita tra quelle che pubblichiamo », anche se in realtà appare più interessato a discutere casa Quaglia, intorno a cui ruota oltre la metà del testo. Tentori individua il nucleo del progetto in una doppia matrice composta da quelli che chiama « due aspetti che sembrerebbero – in un discor-so generale – quanto mai discosti, risultato di due tendenze inconciliabili ». Secondo Tentori, « si tratta della palese ricerca d’ambientamento con l’architet-tura spontanea e nello stesso tempo della rigida sommissione di tutto l’organis-mo a un principio razionale, inverato planimetricamente dalla maglia reticolare a base quadrata ». Questa annotazione, probabilmente debitrice della visione dialettica e inclusiva di Ernesto Rogers, rivela una chiave di lettura interessan-te, che potrebbe fissare un tratto tipico: una duplicità, una unione di opposti intrecciati fra loro in un’entità unica, ma allo stesso tempo dotati dei propri, intatti caratteri originari. Rispetto ad altri saggi di modernismo ibridato a ele-menti vernacolari (alcuni saggi montani: l’albergo di Franco Albini a Cervinia, 1949 – 50, i progetti alpini di Carlo Mollino a Cervinia, Sportinia e Courmayeur) la versione di Valle è più problematica perché conserva, o forse esalta, le tracce dei conflitti suscitati dalla compresenza di pulsioni contrastanti. In casa Quaglia, per esempio, lo sdoppiamento complementare è composto dallo schema strutturale, vistosamente modernista, e dall’uso ruvido e massiccio di materiali appartenenti alla tradizione locale. L’attenzione di Tentori prosegue con un ulteriore approfondimento, un breve saggio intitolato Dieci anni

d’attivi-tà dello Studio Valle e pubblicato nel numero 246 di Casabella (dicembre 1960).

In questo scritto Tentori sottolinea la qualità e la peculiarità del lavoro dello studio e mette in chiaro due concetti critici importanti che saranno convalidati anche dalle opere successive. Per il primo, l’empirismo, Tentori si avvale di una citazione tratta da un saggio di Joseph Rykwert, pubblicato in Architecture

and Building nel 1958: « L’architettura dello Studio Valle è solo indirettamente

programmatica: ossia, non è intesa a far scaturire nessun tipo di teoria dell’ar-chitettura con basi autonome ed estranee, ma è empirica fin dalle premesse. L’eleganza di una soluzione è il risultato di una esplorazione generale del pro-blema in esame e non ha nulla a che vedere con l’applicazione di preconcette nozioni formali ». Il secondo tema fissato da Tentori è una precisazione decisiva del concetto già espresso nell’analisi di casa Quaglia: « Il tema fondamentale

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Domus, n. 426, Maggio 1965

Esther McCoy, 10 Italian Architects, Los Angeles County Museum of Art, 1967: Veduta di Milano dalle guglie del Duomo verso la Torre Velasca (sinistra) View of Milano from the Cathedral spires towards the Velasca Tower (left)

Cover with Valle’s Zanussi factory elevation detail Architectural Design, n. 3, March 1964

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abitativa viene recuperata, al di là del suo aspetto schematico, come cavità naturale e protettiva ». A questo punto torna un altro argomento ricorrente: « L’accento qui è di un ordine naturalistico ben schietto e si avverte l’esistenza di una originale, effettiva, personale verifica delle qualità espressive dei termini linguistici adoperati ... ». Naturalismo, informale, sembrano le parole chiave antipolari ad altri termini: razionalismo, astrattismo, che pure sono ben presenti in questi progetti. Una dualità ricomposta solo in parte, una dialettica lasciata viva, una questione aperta che rende il progetto instabile, problematico, che ne fa un sistema complesso e incerto. Perché l’identificazione dei singoli fattori non ci dice poi molto sulla reale natura del progetto e della costruzione.

Il Valle carnico approda a Domus molti anni dopo, nel maggio del 1965, intro-dotto da due prestigiosi testi brevi. Il primo è un estratto da un saggio di Sir Patrick Abercrombie pubblicato nel 1925, sicuramente consegnato alla redazio-ne dallo stesso Valle, che spiega il concetto di Feng Shui. Nella traduzioredazio-ne funzionalista di Abercrombie il Feng Shui è un sistema per distribuire la popola-zione, che già allora era sovrabbondante, in modo armonioso. Ma è anche un concetto panico che trasforma ogni luogo in un sito specifico: « In ogni posto ci sono delle caratteristiche topografiche speciali (naturali o artificiali) che indica-no o modificaindica-no il respiro spirituale dell’universo ». Valle, citando Abercrombie, aggiunge al puzzle della sua complessa personalità un altro tassello importante, una attribuzione di significati e di potenzialità, al luogo del progetto, che anticipa non tanto, e non solo, il Genius Loci di impronta neoclassica disegnato, molti anni dopo, da Christian Norberg-Schulz, ma piuttosto il più operativo concetto di site specific così presente nell’arte moderna e contemporanea. D’altronde l’attenzione di Valle alla cultura americana ha prodotto un’influenza forte, anche se sembra impossibile distinguerne le fonti e i percorsi all’interno della perso-nalità complessa, e talvolta anche strategicamente reticente, del maestro friu-lano. Nella stessa pagina di Domus si trova, a fianco del corsivo di Abercrombie, una nota in cui Joseph Rykwert, con un testo fortemente elogiativo, prende posizione su alcune questioni già allora inevitabili. La prima, è già nell’incipit: « Nonostante il loro forte carattere gli edifici di Valle qui pubblicati non appaiono legati da una evidente unità di stile. E ciò potrebbe voler dire che Valle è sem-plicemente un organizzatore eccellente, che dirige un gruppo di assistenti di talento: ma non è così ». Valle è eclettico dunque, e Rykwert adombra ed elimi-na il primo inevitabile dubbio: Valle è un grande professionista, come scrive più avanti, ma questo non è un argomento che possa essere usato per ridurre

il calibro intellettuale del suo lavoro. Al contrario, l’assenza di una cifra perso-nale immediatamente riconoscibile è dovuta in parte alla nostra cecità, perché « l’unità stilistica sostanziale (degli edifici di Valle) apparirà chiara allo spettatore futuro », e in parte alla tensione sperimentale, come afferma nella chiusura della nota: « La sua opera a tutt’oggi esemplifica, nel modo più convincente, il detto di Kant: che l’arte è conoscenza al servizio della immaginazione ». Un altro appunto di Rykwert merita di essere ricordato, ed è l’esplicito dissenso rispetto all’interpretazione vernacolare per un’opera che « appartiene al filone più vasto e valido dell’architettura occidentale, senza localismi ». Casa Quaglia, il muni-cipio di Treppo, capitoli fondamentali dell’itinerario artistico di uno dei massimi architetti italiani del novecento, sono definitivamente inclusi nel regesto delle opere importanti dell’architettura italiana degli anni cinquanta e sessanta. della progettazione dei Valle, dal ’53, è rappresentato dalla dialettica, dalla

diversa orchestrazione di due componenti: una naturalistica (il mucchio di terra-mattone – o di sassi che, al limite, diviene il pilone e poi il pilone scanalato per le condutture e infine cavo) e l’altra astratta (la struttura continua nelle due dimensioni orizzontali o anche nelle tre dimensioni). Entrambi queste compo-nenti, sostanzialmente, sono informali. » Il corsivo rafforzativo mette in evidenza il rapporto tra la sperimentazione di Valle e i coevi tracciati dell’arte, negli anni i cui l’astrattismo volgeva ormai completamente verso l’informale. L’inserimento del percorso di Valle nel circuito delle tendenze artistiche a scala internazionale è un passo obbligato – Valle è tra i pochi architetti italiani che hanno saputo essere fin dagli inizi cosmopolita, e nello stesso tempo tra i più radicati alla terra d’origine – e ha valore strategico, perché permette di sottrarre i progetti carnici all’ingiusta riduzione marginale operata da Frampton per introdurli con maggior peso nel dibattito teorico e tecnico della loro epoca.

Le intuizioni di Tentori sono riprese, nell’ottobre del 1963, da Giuseppe Mazzariol, che sul numero 12 di Zodiac presenta un quadro sintetico dell’opera di Valle. L’incipit è perentorio, « Il carattere più evidente della produzione di Gino Valle è l’antiformalismo », ed è corroborato dalla citazione del medesimo frammento di Rykwert contenuto nel saggio breve di Tentori. Tuttavia, Mazzariol si distanzia dalla prospettiva architettonica di Casabella e richiama altri argo-menti, organici agli ideali olivettiani di Comunità: « L’antiformalismo di Valle è prima di tutto una componente fondamentale della sua personalità morale; egli è un laico convinto. Le ideologie socioeconomiche sono valide per lui quando siano democraticamente produttive, e vanno considerate come ipotesi di lavoro, non come dogmi di fede. Vi è una istanza sempre presente nell’azione di Valle, e che si potrebbe definire semplicemente ansia di libertà, superamento degli schemi, applicazione delle formule su nuovi contenuti per dimostrarne, con spregiudicata intelligenza, l’efficienza e l’inattualità ». Se quest’ultimo punto è piuttosto oscuro, bisogna ammettere che le note di Mazzariol colgono senz’altro alcuni tratti specifici della personalità del maestro, come la vivacità e l’autonomia intellettuale, il senso critico e la tensione innovativa. Mazzariol rileva queste attitudini proprio nei due progetti carnici, casa Quaglia e munici-pio di Treppo, che considera « i due incunaboli dell’architettura di Gino Valle » in cui « è latente l’istanza di risolvere in un continuum spazio-temporale un fatto primario di ordine plastico: il pilastro sentito come casuale mucchio di terra o sperone di roccia; il tetto come lunga falda naturale, sotto la quale la scatola

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Alessandro Rocca Meno forma, più concetto

Esther McCoy, 10 Italian Architects, Los Angeles County Museum of Art, 1967

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sions). Both these components are substantially informal.” The reinforcing ital-ics draw attention to the relationship between Valle’s experimentation and the contemporary directions of art in the years in which abstractism was by now turning completely towards the informal. The placing of Valle’s approach within the circuit of international artistic tendencies is an obligatory step—he is one of the few Italian architects who knew how to be cosmopolitan from the start and, at the same time, one of those most rooted to his home place. This has a strategic importance because it removes the projects in Carnia from the unjust marginal reduction carried out by Frampton introducing them more success-fully into the theoretical and technical debates of their time.

Giuseppe Mazzariol developed Tentori’s intuitions in Zodiac (number 12) October 1963, presenting a synthetic overview of Valle’s work. The incipit is peremptory: “The most evident characteristic of Gino Valle’s work is its anti-formalism”. This is backed up by the citation of the same fragment by Rykwert that was contained in Tentori’s brief article. However Mazzariol distances him-self from the architectonic prospective offered in Casabella and draws attention to other aspects which are sympathetic with Olivetti’s ideals of Comunità. Valle’s ‘antiformalism’ is, above all, a fundamental component of his personal moral: he is a convinced layperson. He believes socio-economic ideologies are valid when they are democratically productive and are treated as working hypo-theses rather than dogmas. There are ever present elements in Valle’s work that might be defined as anxiety for freedom, the overcoming of clichés, the applic-ation of formulas on new contents to demonstrate, with limitless intelligence, efficiency and lack of regard for fashion”. Even if this last point is rather obscure, Mazzariol’s view does bring together some specific aspects of Valle’s personal-ity, such as his liveliness, his intellectual autonomy, his critical sense and his innovative tension. Mazzariol draws attention to these traits in the two Carnic projects, casa Quaglia and the Treppo Town Hall, which he considers “the two incunabula of Gino Valle’s architecture” in which “the need to develop architec-ture as a spatial-temporal continuum is latent”: the pillar is felt as a casual pile of earth or a stone strut; the roof as a long natural sheet, under which the living box is recovered, over and above its schematic aspect, as a natural and protective cavity”. Another recurring argument is raised at this point: “The stress here is on pure naturalistic order and one can note the existence of original, effective, personal control of the expressive qualities of the linguistic terms chosen. Naturalism and informal, seem to be key terms, poles apart from the

rationalism and abstractism that are also very present in these projects. This duality is only partly resolved, it is a dialectic that is left open, an open question that renders the project unstable, problematic, that makes of it a complex and uncertain system. Because the identification of the single factors does not tell us much about the actual overall nature of the project and of its construction. Valle’s work in Carnia was featured in Domus many years later in May 1965, in two short but prestigious essays. The first was an extract from a book by Sir Patrick Abercrombie published in 1925, which was certainly given to the maga-zine by Valle himself and which explained the concept of Feng Shui. In Aber-crombie’s functionalist translation, Feng Shui was a system for harmoniously distributing the population, which was already over abundant. But it was also a panic concept which transformed each place into a specific site: “Each place has special topographical features (natural or artificial) that indicate or change the spiritual breath of the universe”. Valle, citing Abercrombie, added another important element to the complex puzzle, to the location of the project. This anticipated, and not only, Christian Norberg-Schulz’s much later neo-classical idea of the Genius Loci but even more it anticipated the concept of site specific intervention which is so present in modern and contemporary art. On the other hand, Valle was strongly influenced by American culture though it seems im-possible to distinguish the sources of and routes into his complex personality, which sometimes seems strategically reticent. A note by Joseph Rykwert is also to be found in the same pages of Domus alongside Abercrombie’s piece. It is an eulogistic text which takes stances on some by now inevitable questions. The first is already to be found in the incipit: “Despite their strong character, Valle’s buildings, published here, do not appear to have a unifying style. And this could lead us to say that Valle is simply an excellent organizer, who directs a group of talented assistants: but it is not so”. Valle is, therefore, eclectic, and Rykwert outlines and eliminates the first inevitable doubt: Valle is a great pro-fessional, as he will later write, but this is not an argument that can be used to reduce the intellectual calibre of his work. On the contrary, the absence of an immediately recognisable personal style is due in part to our blindness, because “the substantial stylistic unity (of Valle’s buildings) will appear clearly to future viewers”, and it is also due to experimental tension, as he claims in the closing note: “Still today his work convincingly exemplifies Kant’s saying that art is conscience at the service of the imagination”. Another of Rykwert’s points should be recalled. It is his explicit dissent from any indigenous interpretation for a

11 Less form, more concept

Gino Valle’s work has always been the target of critical attention, published regularly in the most important Italian and foreign architectural periodicals. Although never given adequate space it is also present in the histories of con-temporary architecture.

Over the years, Valle’s work has resisted any stable definition and gradually come to be seen as eclectic by most critics, a description, this, which reveals the impossibility of identifying a unifying strand in his by now entirely complet-ed output.

As Giovanni Corbellini shows in his essay in this volume, Kenneth Frampton’s regionalism and Pierre-Alain Croset’s many critical frameworks both appear to fall short of providing an adequate definition of Valle’s work. In the absence of any new overall critical approach, a closer look at Valle’s output in Carnia offers the opportunity to make a reading, based on a reduced but qualitatively repre-sentative sample, of the way in which his architectural style has been received and interpreted in the pages of the periodicals that have presented his works while they were being built.

The reviews that showed and carefully discussed Gino Valle’s work in Carnia are Ernesto Roger’s Casabella, Gio Ponti’s Domus, Olivetti’s Zodiac, edited by Bruno Alfieri (future founder of Lotus International ), the international views of

Architectural Design and Lotus n. 8 (the latter in 1974, already as a retrospective).

Proceeding in chronological order, the first piece, entitled Tre opere e un

pro-getto dello studio Valle (Casabella 226, Marzo 1959), and written by Francesco

Tentori, studied the Treppo Town Hall (1956 – 58) and the casa Quaglia, identi-fied here as Casa d’abitazione a Sutrio (1953 – 54), as well as the two-apartment house in Udine (1956 – 57) and the project for villa Zanussi in Pordenone (1958). The two projects in Carnia are emphasised in Gae Aulenti’s lovely impagination: the Treppo Town Hall is shown on six pages with a large overall design plan, an entire page given to technical drawings, two sections and details of the door and window frames, fourteen photographs of which five are large scale. The importance attributed to this building is reinforced by Tentori who describes it

as “the most harmonious and expert work that we are publishing”, even if in reality he seems more inclined to discuss casa Quaglia, to which more than half his text is dedicated. Tentori identifies the nucleus of the project in a double matrix composed of what he calls “two aspects that would in a general discus-sion seem totally separate, the result of two unreconcilable tendencies”. In Tentori’s view “they are the signs of a clear attempt to settle down with a spont-aneous form of architecture and at the same time of a rigid submission of the entire organism to a rational principle, made real planimetrically by the reticulat-ed square basreticulat-ed structure”. This note, which probably owes a debt to Ernesto Roger’s dialectical and inclusive vision, reveals an interesting approach, which perhaps identifies a typical trait: a duplicity, a union of intertwined opposites, each of which has its own intact originary features. Compared to other hybridiz-ed modernist works with indigenous elements (some mountain works: Franco Albini’s in Cervinia, 1949 – 50, Carlo Mollino’s alpine projects in Cervinia, Sport-inia and Courmayeur ) Valle’s version is more problematic because it preserves, or perhaps, exhalts, the traces of conflict provoked by the co-presence of com-peting impulses. In the casa Quaglia, for example, the complementary duplica-tion is formed by the showily modernist structural scheme, and by the rough and massive use of materials belonging to local tradition. Tentori’s analysis continues with a further investigation in a brief work entitled Dieci anni d’attività

dello Studio Valle and published in issue 246 of Casabella (December 1960).

Here Tentori underlines the qualities and the peculiarities of the studio’s work and clearly identifies two important critical concepts that will be convalidated in Valle’s subsequent work. For the first, ‘empiricism’, Tentori quotes from an essay by Joseph Rykwert, published in Architecture and Building in 1958: “The architecture of Studio Valle is only indirectly programmatic: that is, it does not intend to give rise to any type of architectural theory with an autonomous and extraneous base, but it is empirical in its premises. The elegance of a solution is the result of a general exploration of the problem at hand and has nothing to do with the application of preconceived formal notions”. The second element described by Tentori is a decisive clarification of the concept already expressed in the analysis of casa Quaglia: “The fundamental theme of Valle’s designs from ’53 on, is represented in the dialectic, in the different orchestration of two com-ponents: one naturalistic (the pile of earth, bricks or stones at the edge, beco-mes the pillar and then the fluted pillar for the pipes and finally cable) and the other abstract (the structure continues in two horizontal or even three

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Less form, more concept

1960-65: the architectural criticism of Gino Valle’s work

in Carnia

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1 Bisogna immergersi nel tempo, intervista

a Gino Valle, 29 aprile 1995, in Giovanni Corbellini, Grande e veloce, Officina, Roma 2000, p. 231. Sugli ‹ elefanti in costume › vedi anche Pierre-Alain Croset, Gino Valle.

Progetti e architetture, Electa, Milano 1989,

p. 72; Gino Valle, L’architettura come pratica

progettuale, in Casabella, n. 450, settembre

1979; Sandro Marpillero, Gino Valle,

Inter-vista, in Lotus navigator, n. 1, 2000, p. 67.

2 L’analisi di Croset è naturalmente molto più ampia e articolata. Vedi Pierre-Alain Croset, Gino Valle. Progetti e architetture, cit., pp. 21 sgg.

3 « Ci sono critici che vorrebbero classifi-care il lavoro degli architetti, credendo di poterlo fare sparando a destra e sinistra, come se fossero a caccia. Per questi ciechi involontari ma cronici, io sono e voglio restare come un indiano con le piume sulla testa, ossevabile da lontano ma non cattu-rabile ». Sandro Marpillero, Gino Valle,

Inter-vista, cit., p. 88.

4 Kenneth Frampton, Anti-tabula rasa. Verso un regionalismo critico, in Casabella,

n. 500, 1984.

5 Kenneth Frampton, El regionalismo crítico: arquitectura moderna e identidad cultural, in A & V, n. 3, 1985, p. 23.

A metà degli anni cinquanta, Gino Valle progetta la torre di via San Francesco a Trieste (1955 – 57) in aperta opposizione alla Velasca di Milano (1951–58) e al tentativo operato dai BBPR di risolvere l’inserimento di un grattacielo all’interno del tessuto storico imitandone il linguaggio. Ricordando l’amichevole polemica con Rogers che ne era seguita, sintetizzava la questione in una battuta: « Se vuoi portare gli elefanti in città, non puoi travestirli da cittadini »1.

Poche parole particolarmente rappresentative del suo modo lucido e diretto di affrontare le cose, dalle quali emerge la centralità del rapporto fra architettura e luogo. Un rapporto non banale, continuamente reinventato da Valle, autore di interventi strettamente legati ai caratteri contestuali e alla memoria così come di gesti astratti segnati da una potente autonomia costruttiva in tensione con l’intorno, le preesistenze e il paesaggio.

La sperimentalità delle sue opere emerge con evidenza anche in un territorio limitato e fortemente caratterizzato come la Carnia. Terra di montagna e di con-fine, posta all’estremo nord-est dell’Italia, segnata da marcati contrasti fra identità e differenze (ancora oggi ogni valle, ogni paese si distingue per un suo peculiare modo di parlare), fra aperture verso l’esterno (determinate anche da antiche necessità migratorie) e inevitabili riferimenti alla propria specificità locale. Qui, nell’arco di circa trent’anni, Valle ha prodotto significative proposte progettuali sia alla scala edilizia che a quella urbana, in grado di chiarire aspetti nodali del suo modo di lavorare e insieme di parlarci di questo territorio secondo prospettive inaspettate. Il rapporto dell’architetto udinese con la Carnia affonda le sue radici in una lunga consuetudine, dalle estati passate da bambino nella casa di famiglia a Priola ai primi edifici realizzati in collaborazione con il padre Provino. Origini carniche decisive nel costruire il tessuto di relazioni necessario al suo lavoro di architetto e nell’affinarne l’istintiva attitudine a interpretare i luoghi. È anche grazie a questa familiarità che Valle riesce a cogliere tutte le occasioni di un paesaggio così articolato, affrontando con successo le difficoltà di operare in ambiente montano, di confrontarsi con l’asprezza delle condizioni climatiche e insediative e soprattutto con la diffidenza conservatrice per tutto

ciò che è nuovo o viene da fuori. Non a caso è tra i pochissimi ad aver portato l’architettura contemporanea in questi luoghi, cosa che non è riuscita ad altri esponenti di una pur molto fortunata generazione di architetti udinesi, come D’Olivo o Masieri, e in definitiva nemmeno ad Avon, i cui rari interventi carnici (per lo più ristrutturazioni) non sono comparabili né per presenza sul territorio né per risonanza nazionale e internazionale.

La contemporaneità dell’architettura di Valle – al di là di ogni caratterizzazio-ne estetica – sta caratterizzazio-nella capacità di trasformare le problematicità di un ambiente così complesso in potenzialità generative, dimostrando che per essere realmen-te conrealmen-testuali non si può prescindere dal progetto moderno, anche e soprattutto in montagna. La sua attenzione alle relazioni tra oggetti e spazi, tra modifica-zioni e contesti, non obbedisce infatti a regole fisse. Valle si sposta continua-mente sia dai percorsi già battuti che dalle posizioni nelle quali la critica ha pro-vato a collocarlo. Approccio che ha prodotto valutazioni diverse e in qualche misura ‹ distaccate ›, come evidenziato da Pierre-Alain Croset che ne ripercorre le questioni principali attraverso le categorie del ‹ professionismo › (visto come pragmatica attenzione agli interessi del cliente), ‹ eclettismo › (Valle non ha mai voluto costruirsi una cifra personale: usava i linguaggi senza esserne usato), ‹ antiintellettualismo› (dovuto a un materialismo lontano da coloriture ideologi-che) e ‹ regionalismo› (per aver operato prevalentemente, almeno fino a un certo momento, in un’area definita e, soprattutto, periferica )2.

Ciascuna di queste categorie, basate su definizioni in negativo o sul ricono-scimento di una perseguita marginalità, mostra la difficoltà di classificare una produzione inclassificabile3. Specialmente il regionalismo – chiamato diretta-mente in causa dall’analisi di un’area periferica e dalle qualità così peculiari – appare, vent’anni dopo le riflessioni di Kenneth Frampton4, più la proiezione di una intenzione critica che una concreta adesione alla libertà dei complessi processi di pensiero espressi nei progetti di Valle. È lo stesso Frampton a con-fermare involontariamente questa sensazione, proprio commentando il tetto sorretto dagli otto pilastri di casa Quaglia a Sutrio (1953 – 54). Secondo il critico britannico sarebbe stata una delle « prime interpretazioni nel dopoguerra dello stile vernacolare lombardo »5, un modello ‹ padano › la cui estraneità alla tradi-zione costruttiva di tutta la valle del But (nel mattone a vista e nella struttura puntiforme) è evidente e almeno pari a quella della sovrapposizione di scatole ‹ razionaliste › che ne conclude la composizione. Più che la citazione vernacolare (maggiormente comprensibile nelle analoghe soluzioni della banca di Latisana

work which “belongs to the most vast and valid strand of western architecture, without localisms”. Casa Quaglia, the Treppo Town Hall, fundamental chapters in the artistic itinerary of one of the greatest Italian architects of the twentieth century, are definitively part of the register of the most important works of the 1950’s and 1960’s Italian architecture.

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Alessandro Rocca

Astratto e contestuale. Gino Valle in Carnia

Giovanni Corbellini

here captions for illustration on this page, mentioning the photographer (di Benedetti?) and the importance of good photography for architecture ... italian (black) and english (grey = 60% black)

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9 Non saprei come definire altrimenti l’imposizione di uno sproporzionato cappel-lo vernacolare (un tetto aguzzo pieno di abbaini) al secco gesto lineare di Polesello. 6 Valle ha sempre coltivato il suo interesse

per l’arte contemporanea, frequentandone anche gli esponenti sia locali che internazio-nali. Riguardo all’utilizzo dell’accostamento contrastante, del dislocamento e del rove-sciamento concettuale come tecniche crea-tive, Pierre-Alain Croset, nella monografia già citata, parla di « due procedimenti poe-tici prediletti » da Valle: « il ready-made di Duchamp – che ispira il riuso di elementi costruttivi ordinari in contesti e modi deci-samente irregolari – e il cadavre exquis dei surrealisti che fa nascere gli incontri e accostamenti più incongrui e talvolta mostruosi ... », p. 112.

7 Vedi Colin Rowe, La matematica della

villa ideale, Zanichelli, Bologna 1990 (1947),

quando istituisce rapporti tra le collocazioni contestuali di Vicenza e Poissy (della Mal-contenta e di Garches) e le loro soluzioni compositive. Rowe lega le piante centrali alla posizione elevata, panoramica e alla disponibilità dello sguardo di estendersi intorno, mentre rileva la prevalenza di un andamento longitudinale in situazioni di pianura e di lotti sviluppati in profondità, tali da condurre alla formazione di un fronte e di un retro.

8 Il dipinto di Zigaina, andato incidental-mente perduto, è stato sostituito da un mosaico che ne riproduce l’immagine, rea-lizzato dalla scuola Mosaicisti di Spilimbergo con l’approvazione del maestro.

con l’intorno si realizza di nuovo nella continuità di collocazione planimetrica con gli edifici preesistenti e nella parallela riduzione delle altezze. Dalla strada più alta, al centro del paese, la massa dell’edificio risulta così ridotta a soli due piani, permettendo alla vista di spaziare oltre; dal basso, viceversa, la presenza di un vasto spazio aperto viene sfruttata per tenere a distanza l’osservatore, indotto così a organizzare in profondità la sequenza di eventi nel suo campo visivo: gli oggetti singolari in primo piano (il volume dei depositi comunali, il municipio, gli edifici preesistenti a destra), la cortina continua in secondo piano, la chiesa ancora più indietro, le montagne e il cielo sullo sfondo. Dispositivi che continuano a funzionare anche dall’interno verso l’esterno. La sezione a piani sfalsati controlla infatti con estrema precisione le relazioni tra le posizioni di chi percorre l’edificio e le porzioni di paesaggio traguardate attraverso i serramenti, articolando inoltre le necessità funzionali nella continuità visiva e spaziale. Una soluzione già esplorata a Treppo che, grazie alla secchezza dei dettagli, sottoli-nea in maniera ancora più marcata la capacità dell’organizzazione tettonico-spaziale di articolare la vita sociale e partecipativa dell’edificio pubblico.

L’aspetto fortemente semplificato del municipio di Sutrio ha fatto sì che venisse spesso associato, nell’immaginario popolare, alla cosiddetta ‹ banda del cubo ›, attiva all’inizio degli anni settanta nel disseminare di volumi puri in calcestruzzo il vicino monte Zoncolan (opera di Gianugo Polesello, Renzo Ago-sto ed Emilio Mattioni). Tuttavia, al contrario degli impianti di risalita e soprat-tutto del rifugio della stazione sciistica (oggetto di un recente intervento di « pulizia etnica »9), il municipio ha mostrato una maggiore resistenza alle modifi-cazioni successive. Certamente, la destinazione istituzionale è senz’altro meno ‹ usurante › della funzione turistica, ma mi piace pensare che l’intervento di Valle debba la sua durata a una insospettata duttilità e amichevolezza. Oltre alle stra-tegie sensibili all’inserimento ambientale sopra rapidamente richiamate, il muni-cipio di Sutrio mitiga nei dettagli la sua formalizzazione minimalista. L’interno è quasi interamente rivestito in doghe di legno. I grandi serramenti verniciati di bianco che chiudono i due fronti del portale non ricercano la massima traspa-renza ma, alternando pannelli opachi a quelli vetrati, graduano con attenzione il rapporto sensoriale (visivo, cinestetico, della percezione climatica...) tra interno ed esterno. In più, i telai liberi che controventano la grande vetrata est (proget-tati in legno naturale e poi verniciati di bianco) si presentano come una memo-ria astratta, ma non meno pittoresca, di analoghe strutture tradizionali delle case carniche, dove si mettevano all’aria i prodotti della terra.

In questi stessi anni, sempre continuando a riflettere sulla famiglia di temi iniziati a esplorare a Treppo, Valle realizza il Kursaal di Arta (1975 – 78). La fami-liarità con il municipio di Sutrio, immediatamente percepibile soprattutto nel minimalismo del calcestruzzo a vista, viene ulteriormente confermata dalla similitudine con un progetto preliminare – per lo stesso edificio comunale – nel quale si propone un analogo profilo determinato dalla inclinazione della coper-tura a falda unica. A uno sguardo più attento, tuttavia, non sfuggono numerose particolarità, che danno a questo edificio una sua personalità del tutto individua-le. La struttura a portale e il cannocchiale prospettico perdono in parte la loro unitarietà, risultando non tanto da una operazione ideale di piegatura/estrusio-ne di una lastra di calcestruzzo (Sutrio) o di sovrapposiziopiegatura/estrusio-ne di un ‹ cappello › a coppie di muri (Treppo), quanto, piuttosto, a una diversa composizione di fasce parallele disposte all’incirca lungo l’asse nord-sud e delimitate da pareti in cemento di diversa altezza e profilo. A sottolineare la meccanica compositiva delle fasce, quasi tutti gli altri piani disposti nella direzione ortogonale alle pareti che ne delimitano i lati lunghi (rampe pedonali e carrabili, scale, cavea del teatro all’aperto, parapetti interni, la grande vetrata a sud ...) sono fuori piombo. Di nuovo, la leggera inclinazione del terreno diventa motivo per una articolata organizzazione della sezione, resa più complessa dalla collocazione nell’interrato di buona parte del programma (comprendente anche delle piste da bowling). Ne risultano piani sfalsati nelle varie direzioni dello spazio e ulteriormente differenziati per fasce sovrapposte ai diversi livelli. Il Kursaal, similmente a Treppo, inclina la copertura in direzione opposta alla leggera pen-denza del terreno, cercando ancora un rapporto con il corso del sole (qui con il doppio obiettivo di non abbagliare gli spettatori del teatro all’aperto e di cattu-rare la luce all’interno dell’edificio) e inquadrando il paesaggio, soprattutto la pieve di San Pietro che domina la vallata. La collocazione dell’intervento si confronta inoltre con una condizione di isolamento senza precedenti negli altri interventi di Valle in Carnia. Non potendo appoggiarsi a maglie urbane consoli-date e ai rapporti tridimensionali fra edifici contigui, l’edificio trova motivazioni alle sue scelte insediative e architettoniche anche nella visione cinetica dalla statale e dalla strada interna che collega Arta a Piano d’Arta. Secondo una stra-tegia altre volte utilizzata da Valle, soprattutto nei suoi edifici industriali isolati nel paesaggio, l’edificio offre elementi di interesse progressivamente differenti al variare delle condizioni di percezione, velocità e distanza dell’osservatore. La massa costruita, le sue linee inclinate, i piani differenziati in profondità (con o di casa Migotto a Udine), è questa spregiudicata operazione di dislocamento

spazio-temporale e concettuale, di giustapposizione diretta di elementi poten-zialmente conflittuali – palesemente duchampiana6– a rendere casa Quaglia un edificio appropriato, percepito, secondo le intenzioni di Valle, quale completa-mento di una situazione allo stesso tempo ideale e reale di confine tra montagna e pianura. Attitudine che la villa di Sutrio condivide paradossalmente con altri, ben più unitari e ‹ puri › capolavori domestici a pianta centrale, dalla Rotonda di Palladio alla villa Savoye. Come questi by-passa il confronto con l’intorno immediato e si collega programmaticamente con un paesaggio concettuale, con il tipo orografico della propria collocazione7, costruendo attorno a sé una sorta di isolamento virtuale. Le stesse aperture a tutta altezza sembrano acqui-sire qui una sostanza ideologica paragonabile alla fenêtre en longueur di Le Corbusier: a Poissy dedicata a uno sguardo che esplora l’orizzonte, qui legata allo spostarsi verticale della visione da monte a valle. A rinforzare la meccanica autoreferenziale della pianta centrale, interviene poi il trattamento artificiale di parte del lotto, portato in corrispondenza del sedime della casa a un perfetto piano orizzontale: soluzione che si distacca da tutte le altre architetture carni-che di Valle, dove la pendenza del terreno (una condizione prettamente monta-na) diventa ragione e pretesto per enfatizzare l’articolazione della pianta e della sezione, per sottolineare il sistema dei percorsi (un tema caro all’architetto udi-nese), per muovere le linee di copertura, per interpretare, in definitiva, la realtà del paesaggio e collegarsi più direttamente ai suoi caratteri specifici.

Il progetto per le case Cortolezzis a Treppo Carnico (1953, non realizzato) pur riprendendo molti dei temi esplorati a Sutrio, illustra con chiarezza questo diverso approccio. Il tetto quadrato, sorretto da quattro pilastri indipendenti, unito ai sottostanti volumi in pietra e vetro parla ancora di una sorta di tecnica combinatoria dadaista, ulteriormente confermata dall’inversione in sezione tra zona giorno, portata al primo piano, e stanze da letto, nel basamento. Ma una maggiore attenzione ai fattori locali impone qui una precisa direzionalità, colle-gata alle viste più interessanti (rivolte verso il monte Tersadia) e al corso del sole. L’unica falda del tetto si dispone quindi in senso opposto all’inclinazione del lotto, aprendo grandi vetrate verso sud-ovest, e sfruttando l’andamento del terreno per rendere indipendenti gli ingressi al piano terra e a quello superiore. La stessa interpretazione dei caratteri locali di Treppo risulta funzionare anche nella successiva realizzazione del municipio nel centro del paese (1956 – 58). La ripetizione seriale del tipo nelle case Cortolezzis si traduce qui in una

artico-lazione a padiglioni virtualmente indipendenti, anche se collegati fra loro e distribuiti da una scala centrale. L’impostazione planimetrica si pone in conti-nuità con la fila di case preesistenti a ovest, sia per quanto riguarda la dimen-sione di ciascun padiglione che per il rapporto con la strada sottostante, medi-ato da giardini sostenuti da muri in pietra. La terza dimensione, viceversa, presenta un profilo più articolato, ancora determinato dall’orientamento verso il Tersadia. La direzionalità generata dal paesaggio, di nuovo evidenziata dalla leggera inclinazione delle falde, viene ulteriormente sottolineata da massicci e paralleli muri ciechi di diversa altezza, che, uniti a due a due con i tetti, formano grandi portali aperti verso le viste dominanti. Queste ultime sono letteralmente portate dentro l’edificio anche grazie alle differenze di quota dei diversi piani che seguono e si adattano alla pendenza del terreno. La sezione a piani sfalsati che ne deriva organizza lo spazio interno in termini insieme dinamici e ‹ demo-cratici ›: il movimento dell’osservatore interagisce infatti con le diverse inqua-drature del paesaggio, con il corso del sole e con le lame di luce che questo proietta sulle pareti, mentre l’articolazione dei dislivelli suddivide le diverse aree funzionali, riducendo la separazione tra operatori e utenti rendendoli par-tecipi di un medesimo ambiente. Una unità spaziale a cui Valle teneva partico-larmente e che ritroviamo negli spazi pubblici di altri suoi edifici: in Carnia nel municipio di Sutrio, nell’asilo di Fielis, nelle terme e nel Kursaal di Arta. Questo carattere pubblico viene ulteriormente rinforzato a Treppo dalla cura degli arre-di, disegnati fino all’ultimo dettaglio, e dai contributi di Dino Basaldella, autore del bassorilievo che segna l’ingresso principale dell’edificio, e di Giuseppe Zigaina, con il grande murale della sala consiliare che conclude il percorso all’interno dell’edificio8. Il tutto parla di una attenta connessione con il luogo affidata alla collocazione degli elementi, all’articolazione di volumi, percorsi e ingressi mediata dalla pendenza del terreno, alla relazione con il paesaggio – che di nuovo evita ogni forma di mimetismo.

Venti anni dopo, con il municipio di Sutrio (1972 – 78), i temi ‹ autoctoni › svi-luppati a Treppo mantengono la loro operatività diagrammatica, ma in un qua-dro di drastica riduzione linguistica e di semplificazione materiale. Preceduta da tre diverse proposte preliminari, la definitiva soluzione del portale diventa un gesto perentorio, una sorta di grande tubo quadro in calcestruzzo adagiato su un fianco e puntato, come un cannocchiale architettonico, sulle montagne al di là del fiume, affiancato da un analogo corpo più basso, leggermente disassato, adibito a magazzino con una piazza sulla copertura. L’attenzione al rapporto

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17 Astratto e contestuale. Gino Valle in Carnia

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Giovanni Corbellini

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11 In un progetto preliminare, segnato dal prolungamento verso l’esterno dei setti in mattoni del piano terra, emerge chiaramente un riferimento a Mies e alla sua casa di campagna in mattoni del 1923.

12 Pierre-Alain Croset, nella citata mono-grafia, pp. 82 – 83, è il primo a farne menzio-ne. Oltre a ravvisare l’importanza dello stret-to legame tra la scuola di Sutrio e gli uffici Zanussi a Porcia (e con diverse altre opere), ne sottolinea il ‹ manierismo ›, probabile motivo della ‹ rimozione › da parte di Valle. 10 « Io sono un grande cuoco, e come tutti

i grandi cuochi ho i miei trucchi e i miei segreti ». Gino Valle. Dal luogo alla casa, intervista di Vittorio Magnago Lampugnani a Gino Valle, in Domus, n. 692, 1988, p. 21.

Questo involucro fiabesco avvolge un interno completamente diverso. En-trando nella ‹ pagoda › appare improvvisamente una composizione astratta di piani ortogonali in calcestruzzo verniciato di bianco dinamicamente incastrati fra loro. Valle in questo modo nasconde e insieme sottolinea la necessità statica di sorreggere i tre anelli sui quali è impostata la complessa articolazione spazia-le del tetto, conducendone a terra i carichi in soli quattro punti. La diretta con-nessione tra soluzione strutturale e ricerca formale, basata sulle multiple sim-metrie del quadrato rispetto all’asse e alla diagonale, si richiama direttamente a casa Quaglia e al comune riferimento a tecniche compositive di ascendenza neoplastica: più mondrianesche, bidimensionali a Sutrio11, soprattutto nel libe-ro disporsi dei muri libe-rompitratta al piano terra, legate viceversa alle sperimenta-zioni plastiche di Vantongerloo ad Arta. In questo senso, la casa e le terme si propongono come due risposte a un medesimo problema geometrico, risolto da una parte portando i pilastri sul perimetro in corrispondenza dei prolungamenti dei lati del quadrato strutturale interno, e dall’altra concentrando i montanti verticali proprio sui suoi quattro vertici interni. L’oggettualità della villa di Sutrio viene inoltre messa in risalto da una didascalica apparecchiatura tettonico-materiale che differenzia gli elementi compressi (in mattoni a vista) da quelli inflessi (calcestruzzo e legno), le strutture appese (in listelli sottili di legno) da quelle appoggiate (intonaco bianco e vetro), e che ordina percettivamente i carichi dal basso verso l’alto, dal pesante al leggero. All’interno della ‹ pagoda ›, viceversa, l’intenzione di potenziare la prevalenza della sensazione spaziale, dell’insieme sui singoli elementi, spiega il trattamento monocromatico – antitet-tonico – che investe indifferentemente serramenti e pilastri, soffitti e travi, pavi-menti lucidi e vibranti gelosie in legno.

Come sempre nell’opera di Valle, anche soluzione così chiare, al limite dell’-autoevidenza, non diventano modelli da ripetere, anzi, le regole impiegate in una precisa occasione vengono sempre messe in discussione in quelle succes-sive. Nei municipi di Treppo e di Sutrio, l’espressione della stratificazione dei carichi lascia il passo a un nucleo ‹ leggero › circondato dalla pesantezza delle strutture in pietra e calcestruzzo o solo in cemento. Una strategia confermata dal trattamento naturale dei portali strutturali contrapposto all’artificialità dei tamponamenti e dei serramenti, dipinti rispettivamente di bianco e rosso a Treppo, totalmente bianchi a Sutrio. La ricchezza cromatica degli interni del primo municipio si contrappone tuttavia alla riduzione quasi monomaterica del secondo, mentre la forte relazione tra interno ed esterno si spinge a Sutrio fino

all’espressione della sezione sui prospetti ciechi, attraverso il segno delle casse-forme impresso nel calcestruzzo. Ancora ad Arta, la dialettica policromo-fuori/ monocromo-dentro delle terme viene rovesciata nel Kursaal, dove il colore compare all’esterno solo come sporadica proiezione della articolazione polima-terica interna. Quest’ultima, comunque, si esprime chiaramente attraverso pelli, rivestimenti, vernici, di nuovo collegate, nel loro essere applicate alla struttura, alla soluzione dell’interno della ‹ pagoda › ...

In questo alternarsi di spunti e riferimenti, di volta in volta piegati a logiche differenti, emerge, per quantità di elementi in gioco e difficoltà del loro coordi-namento, la scuola elementare di Sutrio (1957 – 62). I suoi muri paralelli e la scala di distribuzione al centro ricordano il municipio di Treppo, ma la serialità del modulo strutturale rimandano a casa Quaglia e alle terme di Arta, modelli a loro volta contraddetti nell’andamento lineare (sia pure spezzato al centro) dell’edifi-cio. L’allargarsi a fungo dei supporti del primo solaio in calcestruzzo si ripete nelle strutture lignee del tetto, quasi completamente rivestite da un tavolato, e si ripercuote sulle partiture compositive dell’edificio, impostato su una crescita verso l’alto dei volumi. Questi ultimi, benché coperti da un unico tetto a falde, mostrano sui lati corti l’incastro di due corpi differenti legato paradossalmente sia alla sezione digradante della ‹ megastruttura › degli uffici Zanussi a Porcia che a locali esempi pittoreschi di stratificazione di interventi successivi. Inca-stro che viene poi ulteriormente sottolineato dalla diversità dei rivestimenti: legno e pietra naturali per il volume a due livelli delle aule, materiali artificiali (mattoni, calcestruzzo, lamiera, legno verniciato) per le strutture distributive. Distinzione in parte negata girando l’angolo dell’edificio dove, sul fronte delle aule, si assiste viceversa a una dialettica pesante/leggero, nella quale le parti-ture compositive si mantegono costanti da un piano all’altro passando dal cemento a vista al legno verniciato ocra, dall’intonaco bianco alla pannellatura lignea. Un edificio così ‹ complesso e contraddittorio › da non convincere del tutto lo stesso Valle (il quale ne aveva evitato a lungo la pubblicazione12), ma che, forse, proprio grazie a questo carattere minore ci aiuta a comprendere meglio la qualità specifica delle sue opere. L’ambiguità che emerge così esplicita nella scuola di Sutrio segna infatti anche le sue architetture più riuscite, nelle quali agisce tuttavia a livello quasi subliminale, si svela solo a uno sguardo analitico, in grado di leggere, ad esempio i rompitratta nascosti (e allo stesso tempo denunciati nella struttura del tetto) dei portali del municipio di Treppo, o l’im-provvisa negazione della meccanica tettonica in casa Quaglia, dove una pelle il camino distaccato dal corpo principale) interagiscono con lo sguardo in

movi-mento veloce; le articolazioni volumetriche, i telai, le tessiture materiali e cro-matiche comunicano viceversa con il visitatore che si avvicina lentamente. Queste ultime, oltre a organizzare gli spazi interni alternando il legno al calce-struzzo verniciato di rosso, a quello naturale e alla gomma nera dei pavimenti, interrompono l’uniformità cromatica esterna, segnalando in rosso una rete quasi ridondante di percorsi, ingressi, uscite di sicurezza e di servizio. Anche qui come a Sutrio, un telaio libero che dalla vetrata inclinata si protende a sor-reggere il parapetto superiore della cavea propone di nuovo un riferimento alle sovrastrutture lignee delle case carniche, in un estremo tentativo di radicamen-to culturale al luogo.

L’attitudine a pensare dinamicamente l’interazione con gli edifici, così evi-dente nel Kursaal di Arta, contraddistingue l’originalità della ricerca architetto-nica di Gino Valle fino dagli inizi della sua carriera. L’asilo di Fielis (1949 – 53, opera giovanile ancora inedita) interpreta wrightianamente il movimento dal-l’esterno all’interno dell’edificio in una successione di spazi articolati orizzontal-mente da angoli di 120 gradi, ulteriororizzontal-mente delimitati da bassi divisori in lastre ondulate e sottolineati in verticale da un sistema di controsoffitti e rivestimenti in materiali diversi. Ne deriva uno spazio continuo, attraversato da un percorso serpeggiante nelle tre dimensioni, fatto di progressive espansioni che, dalla compressione iniziale della scala di ingresso, quasi risucchiano lo sguardo verso il paesaggio circostante attraverso grandi pareti trasparenti. La maglia esagonale interpreta infatti le opportunità di una collocazione elevata, aperta su visuali panoramiche in direzioni diverse, mentre il complesso tetto a più falde – interrotto dall’emergere dei muri in pietra a semplificarne percettivamen-te l’articolazione – segue a sua volta il percettivamen-terreno, commentandone sorprendenpercettivamen-te- sorprendente-mente l’andamento. Compare qui uno dei temi ricorrenti nell’architettura di Valle: l’accentuazione dell’angolo dell’edificio con l’impennarsi di una falda del tetto verso l’alto, presente in altre opere giovanili (ad esempio nelle scuole di Treppo Carnico) così come nelle realizzazioni più recenti (lo stabilimento Eco a Palazzolo dello Stella o il magazzino Bergamin di Magnano in Riviera).

Già in questa prima prova carnica, il maestro udinese mostra di saper giocare spregiudicatamente con i materiali del contesto locale, intesi in senso propria-mente materico (pietra, legno, intonaco, tegole ...), tipologico-costruttivo (il tetto a falde), morfologico (le scelte insediative, le pendenze, il collegamento con il paesaggio...), mescolandoli e deformandoli con suggestioni diversissime,

provenienti dalle avanguardie architettoniche e soprattutto artistiche (un inte-resse che, dagli esordi come pittore, Valle ha continuato a coltivare) così come dalla storia, da intuizioni tecnologiche come da memorie personali. Questo interesse per l’ibrido, il contraddittorio, il mutevole costituisce una delle testi-monianze più vitali del realismo di Valle, riscontrabile anche e soprattutto in opere dove la componente vernacolare si fa più evidente, ad esempio nelle terme di Arta (1960 – 64). Se gli ‹ elefanti in città › sottolineavano, nel caso trie-stino, l’irriducibilità dimensionale delle nuove operazioni urbane, i pachidermi che Valle deposita in Carnia – insieme agli altri animali dello zoo – alludono viceversa a una sorta di esotismo necessario, di inevitabile scarto tra l’opera dell’architetto e la realtà locale. Scarto che diventa particolarmente appropriato in un edificio termale, dove il clima fiabesco, la costruzione di un ‹ altrove › si legano alla sospensione vacanziera e al sollievo della cura. Il profilo a pendenza variabile della ‹ pagoda › di ingresso (dovuto, secondo una leggenda che circola per lo studio Valle, a un ‹ felice › errore di disegno) parla infatti del lontano Orien-te. Un Oriente indiretto, recepito attraverso la sua rielaborazione viennese e fil-trato ancora dalla lezione di Frank Lloyd Wright e di Scarpa, che si ripercuote con accenti diversi anche in altri settori dell’edificio. I retrostanti padiglioni in muratura, dove uno scuro basamento in calcestruzzo sostiene volumi bianchi leggermente arretrati, a loro volta coronati da un caratteristico attico aggettante, ci trasportano in atmosfere vagamente tibetane, allo stesso tempo esotiche e ‹ montane ›, estranee e contestuali. Il rapporto con il paesaggio che ne deriva integra le direzioni principali degli sguardi (dall’interno all’esterno e viceversa) estendendo le strategie messe in atto nelle altre opere carniche dello studio Valle. L’edificio si configura infatti come una macchina per guardare, grazie al-l’articolazione di tagli verticali e orizzontali che portano ‹ dentro › il paesaggio, e allo stesso tempo si propone come un oggetto da vedere, sfruttando una posi-zione peraltro non felicissima, necessariamente contigua alla fonte Pudia, incas-sata nel greto del fiume. La complessa articolazione di tetti spioventi, variamente incastrati fra loro, costituisce il quinto prospetto dell’edificio, la sua vera e pro-pria facciata principale rivolta alla percezione privilegiata di chi percorre più in alto la statale. La stessa giacitura diagonale rispetto al fiume e alla strada (anche questo uno dei « trucchi di cucina »10usati da Valle in altre occasioni, ad esem-pio nel progetto per uno stabilimento a Denver) si spiega in larga parte proprio con la sua capacità di reagire con il movimento veloce e di offrire alla percezione una definizione chiara e allo stesso tempo dinamica dei volumi.

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1 Bisogna immergersi nel tempo,

inter-view with Gino Valle, 29 April 1995, in Gio-vanni Corbellini, Grande e veloce, Officina, Roma 2000, p. 231. On the subject of ‘ele-phants in costume’ see also Pierre-Alain Croset, Gino Valle. Progetti e architetture, Electa, Milano 1989, p. 72; Gino Valle,

L’ar-chitettura come pratica progettuale, in Casabella, n. 450, September 1979;

Ales-sandro Marpillero, Gino Valle, Intervista, in

Lotus Navigator, n. 1, 2000, p. 67.

2 Croset’s analysis is naturally far broader and more articulated. See Pierre-Alain Cro-set, Gino Valle. Progetti e architetture, cit. pp. 21 and following.

3 “There are critics who would like to classify the work of architects, believing they can do so by firing to the left and to the right as though they were hunters. I am and want to remain like an Indian with a feather on my head, visible from far away but out of reach of these unwilling but chronically blind men”. Sandro Marpillero, Gino Valle,

Intervista, cit., p. 88.

4 Kenneth Frampton, Anti-tabula rasa. Verso un regionalismo critico, in Casabella,

n. 500, 1984.

5 Kenneth Frampton, El regionalismo crítico: arquitectura moderna e identidad cultural, in A & V, n. 3, 1985, p. 23.

13 « Il contesto c’è sempre. Ma è sempre un contesto in movimento, un contesto che vive nel tempo. La città è un organismo vivente ... pretendere di fissare la città a un’epoca precisa e chiamare questo ‹ storia › induce secondo me in un grosso equivoco ». Gino Valle. Dal luogo alla casa, cit., p. 19.

one’s own community. Not surprisingly, he is one of the few to have brought contemporary architecture to these parts, an enterprise, this, which was beyond other exponents of the sophisticated generation of architects from Udine, such as D’Olivo or Masieri, and even Avon, whose rare work in Carnia (mostly renovations) are not comparable in terms of the presence in this territo-ry nor in terms of their national and international resonance.

The contemporaneity of Valle’s architecture—over and above its aesthetic features—lies in its capacity to transform the problematics of a complex envi-ronment into a generative opportunity. It shows that in order to be truly contex-tual one cannot avoid a modern design, also, and above all, in the mountains. His attention to the relations between object and space, between change and context, does not follow fixed rules. Valle continually moves from proven paths and from positions in which the critics have attempted to place him. This stan-ce has produstan-ced a range of judgements which are, to some extent, ‘detached’, as has been shown by Pierre-Alain Croset in his outline of the principal approa-ches through the categories of ‘professionalism’ (seen as a pragmatic attention to the client’s interests), ‘eclecticism’ (Valle never wanted to develop a personal style, he used different registers without being slave to any), ‘anti-intellectua-lism’ (arising from a materialism that was distant from any ideological colouring) and ‘regionalism’ (for his having worked mainly, at least until a certain moment in his career, in a defined and, above all, a peripheral area)2.

Each of these categories, based on negative definitions or on the recogni-tion of a chosen marginality, demonstrates the problems involved in classifying an unclassifiable production3. Regionalism in particular—directly called into question because of the analysis of a peripheral area with such peculiar featu-res—appears, twenty years after Kenneth Frampton’s4reflections, to be more the projection of a critical intention than a concrete adherence to the freedom of complex thought processes in Valle’s design.

Frampton himself involuntarily confirmed this feeling, in his comments about the roof held up by eight pillars in the casa Quaglia in Sutrio (1953–54). In his view this was one of the “first post-war examples of the Lombard vernacular style”5(because of its use of uncovered brick and its punctiform structure), a ‘padano’ model entirely absent in the building tradition of the entire But River valley. These features were at least as important as the superimposition of ‘rationalist’ boxes which complete the building. The open-minded use of spati-al-temporal and conceptual dislocation, the direct juxtaposition of potentially

di intonaco bianco toglie al volume sospeso al primo piano ogni riferimento costruttivo. Una ambiguità che tiene sveglia la nostra attenzione e produce minime e continue deviazioni, giocando a confermare e contraddire sottilmente le nostre aspettative di osservatori.

Valle, non solo ‹ trova › nuove regole per ogni edificio, per ogni luogo da modificare, ma interviene anche sulle logiche interne a ogni singolo processo architettonico, introducendo strategiche discontinuità nella coerenza stessa dei sistemi di riferimento che reggono il progetto, sui tempi della sua concezione, costruzione, percezione, uso. Il contesto è per lui un insieme indissolubile di spazio e di tempo, un flusso in mutamento nel quale il progetto si inserisce offrendosi a molteplici livelli di lettura13. Un approccio profondamente anticlas-sico, capace di considerare la vita del progetto anche al di là del controllo del suo autore. Nelle loro sottili ambiguità, le architetture di Gino Valle mostrano infatti di reggere con una certa disinvoltura i successivi ampliamenti, le aggiun-te e le trasformazioni, resisaggiun-tendo anche a inaggiun-terventi successivi che, di certo, non hanno avuto la sua stessa sensibilità contestuale.

Per fortuna, gli ‹ elefanti › che ha portato in Carnia hanno la pelle dura e vivo-no a lungo, adattandosi allo scorrere del tempo. Credo che Givivo-no si sarebbe imbestialito nel vedere i suoi edifici aggrediti da soluzioni formali discutibili, ma avrebbe colto come un segno positivo la loro vitalità, il loro essere disponibili a nuovi usi.

E probabilmente si sarebbe divertito a vedere che il suo asilo di Fielis, oggi trasformato in osteria, ospita, cinquant’anni dopo, gli stessi ‹ clienti › ...

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Giovanni Corbellini

Abstract and Contextual. Gino Valle in Carnia

Giovanni Corbellini In the mid-fifties Gino Valle designed the Tower on via San Francesco in Trieste (1955–57) in open opposition to the Velasca Tower in Milan (1951–58) and to the attempt made by the BBPR to find a way of inserting a skyscraper within a historical context by imitating its style. Remembering the friendly discussion with Rogers which followed, he summed up the question in a phrase: “If you want to bring elephants into the city, don’t dress them up as citizens”1.

These few words are typical of his lucid and direct approach which focuses on the centrality of the relationship between architecture and place. This rela-tionship is never banal and was continually reinvented by Valle, the author of works strictly linked to their contexts and to memory, the author of abstract gestures produced by a powerful constructive autonomy in creative tension with its surroundings, with what was there before, with the landscape. The experimental qualities of his works emerge strongly even in a limited territory with distinctive features, such as Carnia. A mountainous borderland, located in the extreme north-east of Italy, Carnia is known for its marked differences in identity (still today each valley, each town has its own peculiar way of spea-king), for its openness to outside influences (determined also by the age-old migratory needs), and for inevitable specific local features. Here, in an arc of thirty years, Valle produced important buildings and urban projects, which cast light on the vital aspects of his working methods, and, at the same time, on this territory.

His relationship with Carnia has its roots in his childhood holidays spent in the family’s house in Priola and in the first buildings he designed along with his father, Provino. These Carnic origins were decisive in allowing Valle to build the network of ties necessary for his work as an architect and in refining his keen instinct for interpretating places. Thanks to this familiarity, Valle was also able to respond to the many opportunities offered by such a particular landscape, to successfully meet the challenge of working in a mountainous zone, of taking on the harsh climactic and building conditions, and above all, of overcoming the conservative diffidence for everything which is new and comes from outside

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