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Sviluppo della metodica del Calcium Imaging per l'analisi dei meccanismi di regolazione del calcio intracellulare nei fotorecettori retinici: confronto tra fluorocromi

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Specialistica in Chimica e Tecnologia

Farmaceutiche

TESI DI LAUREA

SVILUPPO DELLA METODICA DEL CALCIUM

IMAGING PER L’ANALISI DEI MECCANISMI DI

REGOLAZIONE DEL CALCIO INTRACELLULARE

NEI FOTORECETTORI RETINICI: CONFRONTO

TRA FLUOROCROMI

Relatore

Candidata

Chiar.mo Prof. Gian Carlo Demontis

Giovanna Mauro

Anno Accademico 2015/2016

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2

Alla mia famiglia. Ai miei veri amici. Alle persone che mi amano e mi hanno amato davvero. Non siamo fatti per stare da soli ma nemmeno per stare con chiunque

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3

INDICE

INDICE ... 3 CAPITOLO 1 ... 5 INTRODUZIONE ... 5 1.1 IL CALCIO ... 5

1.1.1 Meccanismi dell’ingresso di calcio dalla membrana citoplasmatica ... 6

1.1.2 Meccanismi di estrusione del calcio dalla membrana plasmatica ... 9

1.1.3 Meccanismi di scambio tra citosol e compartimenti citoplasmatici ... 9

1.1.4 Sistemi tampone ... 10

1.2 FOTORECETTORI ... 12

1.3 SONDE FLUORESCENTI ... 15

1.4 IL FENOMENO DELLA FLUORESCENZA ... 16

1.5 SCELTA DELL’INDICATORE, PER MISURE DEL [Ca2+]i ... 19

1.6 FLUO-4, CAL-590 E CAL-630 ... 24

1.7 RILEVAZIONE DEL SEGNALE FLUORESCENTE ... 26

CAPITOLO 2 ... 31

SCOPO DELLA RICERCA ... 31

CAPITOLO 3 ... 32

MATERIALI E METODI ... 32

3.1 ANIMALI ... 32

3.2 SOLUZIONI ... 32

3.2.1 composizione della soluzione salina di Locke (500 ml a concentrazione 2x) ... 33

3.2.2 Composizione della soluzione KCl 25 e 16 mM ... 33

3.2.3 Preparazione della soluzione intracellulare 100 ml a concentrazione 1x ... 34

3.2.4 Preparazione soluzione stock EGTA 100 mM ... 35

3.2.5 Preparazione soluzione stock di Ionomicina 2,8 mM ... 35

3.2.6 Preparazione soluzione 50 ml CaCl2 30 mM ... 36

3.2.7 Preparazione soluzione 50 ml Ca-EGTA a concentrazione di Ca2+ libero stimato di 496 nM ... 36

3.2.8 Preparazione della soluzione di anestetico al 20% di Uretano ... 36

3.3 PRELIEVO RETINE ... 37

3.4 DISSOCIAZIONE ... 37

3.5 CALCIUM IMAGING ... 38

3.5.1 Caricamento del Fluo-4 e del Cal-590 nelle cellule. ... 39

3.5.2 MISURE TIME-LAPSE ... 42

3.5.3 CALIBRAZIONE del Ca2+ intracellulare. ... 43

3.6 ANALISI STATISTICA ... 46

CAPITOLO 4 ... 47

RISULTATI ... 47

4.1 CONCENTRAZIONE E TEMPI CARICAMENTO FLUO-4 ... 47

4.1.1 confronto tra due diversi protocolli ... 49

4.2 EFFETTO DELLA DEPOLARIZZAZIONE INDOTTA DA SOLUZIONE SALINA KCl 16 mM ... 51

4.3 ATTIVAZIONE DI CANALI NON SELETTIVI DI MEMBRANA IN SEGUITO A DEPOLARIZZAZIONE ... 56

4.4 CONVERSIONE DELLA FLUORESCENZA IN [Ca2+] ... 58

4.5 CONFRONTO TRA SONDE FLUORESCENTI ... 59

CAPITOLO 5 ... 61

(4)

4

CAPITOLO 6. ... 63 BIBLIOGRAFIA ... 63

(5)

5

CAPITOLO

1

INTRODUZIONE

1.1 IL CALCIO

Il calcio (simbolo Ca), rappresenta il minerale più abbondante nel corpo umano, dove è presente in misura dell'1,5-2% del peso corporeo totale. Più del 99% del calcio è contenuto nello scheletro; la restante parte si trova nel plasma e nei liquidi extracellulari, metà in forma ionizzata (come catione bivalente) e metà legata a proteine. La forma metabolicamente più attiva è quella ionizzata, mentre il calcio legato a proteine plasmatiche e quello contenuto nelle ossa possono considerarsi come una riserva a cui attingere per mantenere costante la concentrazione della quota ionizzata.

Nonostante dal punto di vista quantitativo il calcio sia presente in larga parte all’esterno delle cellule, da un punto di vista molecolare l’azione di numerosi eventi fisiologici è legata invece a variazioni delle concentrazioni intracellulari di calcio. Lo ione Ca2+ è un messaggero intracellulare universale ed è coinvolto nella

regolazione specifica e selettiva di processi intracellulari quali: contrazione muscolare, fecondazione, trasmissione sinaptica, sopravvivenza, divisione, differenziamento e movimento cellulare, coagulazione etc.

In una cellula a riposo, la maggior parte del Ca2+ si trova sequestrato negli organelli intracellulari, principalmente nel reticolo endoplasmatico e nei mitocondri, mentre la concentrazione di Ca2+ libero intracellulare è mantenuto a concentrazione molto

basse nell’ordine di, 50-100 nM, rispetto a quella extracellulare di 2-2,5 mM. Il Ca2+ tende ad entrare nella cellula per gradiente elettrochimico, cioè secondo gradiente elettrico (essendo il potenziale di membrana compreso tra -40 e -90mV) e anche secondo gradiente di concentrazione, dato che la membrana è, sebbene in piccola parte, permeabile al Ca2+. Esiste quindi il “problema” di mantenere bassa la concentrazione di calcio intracellulare [Ca2+]i, in quanto prolungati periodi di elevata [Ca2+]i conducono alla morte cellulare.

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La concentrazione di Ca2+ all’interno della cellula è mantenuta nell’ordine del

nanomolare grazie all’equilibrio esistente tra: • ingresso di Ca2+

• estrusione di Ca2+

• Scambio di Ca2+ tra citosol e siti di accumulo intracellulare.

• Sistemi tampone

1.1.1 Meccanismi dell’ingresso di calcio dalla membrana

citoplasmatica

Ci sono due principali vie utilizzate dal Calcio per entrare nelle cellule attraverso la membrana plasmatica:

• canali del calcio voltaggio-dipendenti • canali del calcio operati da ligandi Canali del calcio voltaggio dipendenti

comprendono una vasta classe di canali con una elevata selettività per gli ioni calcio e un'ampia varietà di funzioni di attivazione e inattivazione voltaggio-dipendenti. Sulla base della loro soglia di attivazione voltaggio-dipendente generalmente si individuano:

ü canali LVA (low voltage activated) che si attivano a voltaggi negativi (circa -50 mV) e danno origine a una corrente transiente di bassa intensità vengono definiti canali del calcio di tipo T (tiny and transient).

ü canali HVA (high voltage activate) si attivano a potenziali più positivi (circa -40 mV), danno origine a correnti ampie e durevoli qualche centinaio di millisecondi, venendo definiti canali del calcio di tipo L (large and long-lasting).

I canali HVA possono essere inoltre suddivisi ulteriormente sulla base di caratteristiche biofisiche, farmacologiche e molecolari in: L, P / Q, N e R e la loro diversa localizzazione dipenderà dal tipo di cellula [8].

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Da un punto di vista molecolare i canali del calcio sono un complesso eteromultimerico [figura 1], composti da una subunità α1, formante il poro che permette il flusso di calcio attraverso la membrana plasmatica, e le subunità accessorie β, α2δ4 e γ. La subunità α1 impartisce la maggior parte delle proprietà del canale, mentre le subunità accessorie modulano la cinetica di attivazione / inattivazione del canale [11]

Figura 1: struttura canale del calcio voltaggio-dipendente di tipo L

All’interno di ogni gruppo di canali HVA esistono diverse isoforme, codificate da geni specifici. Nel caso delle cellule oggetto di questa tesi, i bastoncelli retinici, il tipo di canale del calcio voltaggio-dipendente che prenderemo in esame appartiene alla famiglia dei canali di tipo L, ed in particolare la subunità α1 la Cav 1.4 codificata

dal gene Cacna1f. Le subunità accessorie sono la α2δ4 e la β2, codificate

rispettivamente dai geni Cacna2d4 e Cacnb2.

L’isoforma Cav1.4 presenta alcune peculiarità rispetto ad altri membri della famiglia dei canali HVA di tipo L, ovvero manca della caratteristica inattivazione calcio dipendente. Questo processo, che coinvolge un’interazione fisica della calmodulina con una specifica sequenza del C terminale del canale (CDI, calcium-dependent inactivation), è bloccato nei canali Cav1.4 dalla presenza di una sequenza del C-terminale che inibisce il legame tra calmodulina e CDI.

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Canali del calcio operati da ligandi

La maggior parte dei canali cationici attivati da ligandi e sensibili a neurotrasmettitori eccitatori è relativamente non selettiva, infatti questi, permettono sia il passaggio di Ca2+ che di altri cationi.

Tra questi canali si possono individuare:

canali TRPC (transient receptor potential typeC)[2] che costituiscono un sottogruppo della famiglia dei canali ionici che si compone di 28 membri (suddivise in TRPC (canonica / classica), TRPV (vanilloide), e TRPM (Melastatin) che sono altamente conservati e significativamente omologhi tra di loro. Essi funzionano come canali di ingresso del Ca2+ non selettivi, con modalità distinte di attivazione. La famiglia TRPC contiene 7 membri (C1-C7) che, in base alle loro somiglianze nelle relazioni struttura-funzione, vengono ulteriormente suddivisi in due sottogruppi. Il primo gruppo è costituito da canali C1 / C4 / C5 che sono attivati principalmente dalla deplezione dei depositi intracellulari. Il secondo gruppo comprende C3 / C6 / C7 che sono attivati dalla stimolazione dei recettori. Di rilevanza per questa tesi, bastoncelli retinici sono noti esprimere l’isoforma Trpc1. Altri canale non selettivo è il recettore ionotropico del glutammato del tipo N-metil-D-aspartato (NMDA) [figura 2] che media una parte del flusso di calcio postsinaptico in vari tipi di cellule neuronali.

Altri canali di tipo non selettivo, di importanza secondaria per questa tesi, sono: Gli nAChR(nicotinic acetylcholine receptors) [figura 2] AMPA-R(calcium-permeable-amino-3-hydroxy-5-methyl-4-isoxazolepropionic acid).[2]

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1.1.2 Meccanismi di estrusione del calcio dalla membrana

plasmatica

L’estrusione di calcio attraverso la membrana plasmatica avviene:

• attraverso un trasporto attivo di una pompa ATPasi Ca2+-dipendente

(PMCA – plasma membrane calcium ATPase), che agisce con la spesa di 1 o 2 moli di ATP per ogni mole di calcio estrusa.

• Attraverso dei un antiporto Na+/ Ca2+ che espelle uno ione Ca2+ contro

gradiente sfruttando l’ingresso passivo (secondo gradiente) di 3 ioni Na+.

Attraverso questi due meccanismi la concentrazione intracellulare di calcio sono mantenute molto basse, nell’ordine del nanomolare; queste basse concentrazioni rendano la cellula sensibile a piccoli aumenti dei suoi livelli [5].

1.1.3 Meccanismi di scambio tra citosol e compartimenti

citoplasmatici

Esistono anche dei organuli cellulari che partecipano alla regolazione del Ca2+ tramite il suo rilascio e immagazzinamento dai compartimenti intracellulari (store) quali: mitocondri e reticolo endoplasmatico.

Mitocondri. I mitocondri sono caratterizzati da un potenziale di membrana di circa

180 mV, negativo all’interno rispetto al citosol, che produce un elevato gradiente elettrochimico (driving force) per l’ingresso di calcio. Questo gradiente porterebbe la concentrazione di calcio mitocondriale [Ca2+]mt all’equilibrio, ad un valore di circa 0.1 M. Tale valore, incompatibile con la vita di questo organello, è prevenuto dall’azione coordinata di sistemi di ingresso e di efflusso dello ione. A livello della membrana mitocondriale interna è presente un sistema di uniporto che induce un rapido ingresso di calcio solo quando la sua concentrazione citoplasmatica raggiunge valori micromolari, di conseguenza, in condizioni di riposo, i mitocondri non accumulano grandi quantità di calcio perché la [Ca2+]i è di circa 50-100 nM

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Reticolo endoplasmatico esistono due principali tipi di canali del calcio nella

membrana dell’ER, che svolge un ruolo importante nel controllo del rilascio di calcio da questi siti di accumulo:

• recettori canali attivati dall’inositolo trifosfato (IP3Rs): La liberazione dello ione dai depositi cellulari è mediata dal sistema di inositolo fosfato. La formazione di inositolo 1,4,5-trifosfato (IP3) può essere indotta dall’attivazione di due diversi sistemi di traduzione, uno legato all’attivazione di proteine G e l’altro all’attivazione di tirosin chinasi. Questi meccanismi determinano l’attivazione della fosfolipasi C che idrolizza il fosfolipide precursore, il fosfatidilinositolo 4,5-bisfosfato, in IP3 e diacilglicerolo. L’IP3 liberato nel citosol induce la mobilitazione di calcio dal reticolo sarco/endoplasmatico legandosi al recettore specifico (IP3R) che è parte di un complesso che opera come un canale calcio.

Il richiamo di Ca2+ nei depositi è invece effettuato dalle pompe SERCA

(Ca2+ - ATPasi del reticolo sarco-endoplasmatico)

• Recettori della Rianodina (RyRs). Quando il recettore è attivato, si ha fuoriuscita di calcio dal reticolo endoplasmatico.

1.1.4 Sistemi tampone

Infine esistono vari tipi di proteine cellulari che sono in grado di legare il Ca2+, in alcuni casi semplicemente tamponandolo, in altri casi attivando in seguito al legame con il Ca2+ uno o più meccanismi biochimici.

Tra le proteine che legano il calcio, sono comunemente espresse nei terminali nervosi la Calretinina (CR), la Calbindina D-28k (CB) e la Parvalbumina (PV). Queste proteine possiedono proprietà biofisiche lievemente differenti che determinano se la loro azione tampone sul calcio sia relativamente veloce (CR e CB) o lenta (PV) e se la loro solubilità/mobilità citosolica risulti elevata (PV e CR) o bassa (CB). Queste distinzioni sembrano determinare la specificità funzionale del tamponamento del calcio fornendo un controllo differenziale sulle dinamiche del calcio presinaptico in diversi tipi di sinapsi.

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Le calmoduline e le troponine invece, modificando la loro conformazione in seguito al legame con il Ca2+ modulando l’azione di molecole effettrici quali enzimi e canali ionici.

Figura 2: regolazione del calcio intracellulare in cellule neurali

La mobilizzazione del calcio tra i vari compartimenti intracellulari è critica non solo per le risposte fisiologiche ma anche per quelle patologiche.

Da qui l’importanza di studiare le variazioni legate a questo ione per individuare nuovi target farmacologici.

Variazioni delle concentrazioni di calcio libero non possono essere misurate con metodiche analitiche convenzionali a causa dei valori molto bassi (nM) e dei piccoli volumi cellulari. Molto importante per superare i limiti di sensibilità dei sistemi analitici convenzionali è stato lo sviluppo di nuove tecnologie di analisi e specifiche che utilizzano molecole con proprietà ottiche particolari che si modificano a seguito di legame con il Ca2+.

Inoltre con le tecnologie più recenti, come la microscopia confocale e microscopia a fluorescenza, è possibile ottenere “immagini del calcio” e quindi identificare regioni subcellulari dove avvengono variazioni di concentrazione di calcio. Tali misurazioni forniscono nuove informazioni sui siti di entrata del calcio e la sua la diffusione all'interno del citosol, e le complesse reazioni tra Ca2+ e costituenti citosolici chiave. [1]

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1.2 FOTORECETTORI

Il lavoro di tesi è stato effettuato su fotorecettori retinici di topo, un tipo di cellule di notevole interesse applicativo in quanto sono note numerose patologie di tipo degenerativo che colpiscono i fotorecettori e per le quali non sono attualmente disponibili terapie.

Di fotorecettori ne esistono di 2 tipi, coni e bastoncelli. Sono neuroni sensoriali primari, capaci cioè di rispondere specificamente ad un stimolo luminoso generando una risposta elettrica, processo noto come fototrasduzione.

I coni sono i fotorecettori deputati alla visione discriminativa e dei colori e nell’uomo e nei primati si ritrovano in una zona specializzata posta centralmente nella retina (fovea), mentre i bastoncelli favoriscono la visione crepuscolare e sono più periferici.

Coni e bastoncelli, come si può notare dalla figura 3, presentano un piano organizzativo simile caratterizzato da:

• Segmento esterno: caratterizzato da strutture membranose detti dischi, su cui sono posizionati i pigmenti che reagiscono allo stimolo dei fotoni • Segmento interno: caratterizzato dalla presenza degli organelli interni

come mitocondri, apparati di Golgi, etc., indispensabili per il metabolismo cellulare e il nucleo.

• Terminazione sinaptica: permette la trasmissione dei segnali dal fotorecettore alle cellule bipolari mediante sinapsi ossia per trasmissione biochimica tra cellule nervose (grazie a molecole dette neurotrasmettitori).

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Figura 3: struttura di coni e bastoncelli

E’ noto da studi precedenti che lo ione calcio svolge un ruolo molto importante e complesso nei fotorecettori dei vertebrati, dove è coinvolto in diverse attività cellulari correlate allo stimolo luminoso, quali la fototrasduzione ed il processo di adattamento alla luce, per cui variazioni geniche a questo livello possono portare a difetti della vista sino alla cecità.

Alterazioni della regolazione della [Ca2+] si verificano in alcune patologie di origine genetica accomunate dalla perdita e/o dalla sostanziale alterazione della funzione visiva. In alcuni casi si tratta di difetti di un gene (Pde6b) che controlla l’espressione della fosfodiesterasi, l’enzima che viene attivato durante l’esposizione dei bastoncelli alla luce e regola la degradazione di un secondo messaggero intracellulare, il cGMP. Difetti della fosfodiesterasi alterano il bilancio tra produzione e degradazione del cGMP, determinandone un aumento che a sua volta causa l’attivazione di un numero maggiore di canali dotati di permeabilità per il Ca2+. Il risultato finale è un aumentato influsso di Ca2+ durante la fase di buio che causa la morte dei bastoncelli attivando il processo di morte cellulare programmata (apoptosi) e/o di necrosi.

Anche la riduzione dell’influsso di Ca2+ può però portare alla perdita della funzione dei bastoncelli. Mutazioni del canale del gene Cacna1f, che codifica per l’isoforma α1 dei canali Cav1.4, riducono drasticamente la comunicazione sinaptica tra bastoncelli e cellule postsinaptiche (bipolari dei bastoncelli), e sono causa di una forma di cecità notturna non progressiva (al contrario di quanto avviene nelle

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patologie degenerative dei bastoncelli) che viene definita incompleta per distinguerla da quella dovuta all’alterazione di un canale (Trpm1) espresso nelle cellule bipolari.

Un ulteriore difetto del complesso dei canali del calcio dei fotorecettori è quello che deriva da una mutazione non-senso del gene Cacna2d4 che codifica per la proteina α2δ4. In questo caso la mutazione, dovuta all’inserimento di una singola base causa

un errore della lettura della sequenza delle triplette, con l’introduzione di uno stop codon che determina la terminazione precoce della catena polipetidica. La proteina α2δ4 troncata viene persa a causa della peculiarità della sua struttura. Si tratta infatti

di una proteina che, sebbene codificata da un singolo gene, è formata da due subunità (α2 e δ4) derivanti dal taglio della catena polipetidica derivata dalla

traduzione dell’mRNA. Le due subunità sono legate da ponti disolfuro e tale legame è essenziale per la funzione del complesso. La subunità δ4 è infatti importante per

ancorare alla membrana la subunità α2, interamente localizzata a livello

extracellulare. Lo stop codon precoce causato dalla mutazione non-sense interviene prima della sequenza che codifica per δ4, causando quindi l’impossibilità per α2 di

venire ancorata alla membrana. Per tale ragione α2 si perde all’esterno delle cellule

ed il complesso del canale è di fatto in larga parte privo della funzione di modulazione della subunità α1. Il risultato è quello di una cellula in cui i canali del

calcio sono presenti, ma la loro attivazione è spostata a potenziali più positivi di 10-20 mV; in assenza di meccanismi di compensazione la loro attivazione nel normale ambito di escursione di potenziali che si verifica durante la risposta alla luce è drasticamente ridotta. E’ interessante notare che mutazioni simili del gene Cacna2d4 causano simili difetti funzionali nei topi e nei pazienti, con una perdita progressiva della funzione sia dei coni che dei bastoncelli. L’osservazione che la mutazione di una subunità accessoria del canale determini conseguenze funzionali più gravi della perdita della subunità principale è paradossale e implica che la funzione di questa proteina abbia un impatto non esclusivamente limitato al controllo dell’attivazione dei canali del calcio.

Una possibile ipotesi è che il difetto del gene Cacna2d4 possa interferire con l’omeostasi del calcio attraverso meccanismi non limitati alla regolazione dell’attivazione di Cav1.4, ma non esistono al momento dati sperimentali a riguardo.

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1.3 SONDE FLUORESCENTI

Sia nel mondo vegetale che nel mondo animale, diverse sostanze naturali manifestano una fluorescenza intrinseca, detta anche autofluorescenza. Ne sono esempi le clorofille, molti pigmenti naturali (in particolare quelli di natura Lipidica), alcuni amminoacidi (es. triptofano e tirosina), molti enzimi, coenzimi (es. NAD e NADH), cofattori (es. FAD e FADH) e molecole aromatiche.

Tuttavia la maggior parte delle molecole biologiche di interesse non sono autofluorescenti all’interno degli intervalli spettrali sfruttati e anche quelle che lo sono, in genere, non possono essere distinte tra loro sulla base della loro fluorescenza intrinseca.

Per ovviare a ciò, Max Haitinger nel 1933 introdusse l’uso della fluorescenza secondaria nello studio dei preparati biologici, ossia aggirò tale problema utilizzando dei marcatori esterni, detti comunemente sonde o probes fluorescenti. Da allora la procedura comunemente usata in microscopia è quella di marcare gli elementi che si vogliono studiare con fluorofori, che si legano a target specifici delle molecole di interesse, le quali, dopo opportuna eccitazione, potranno essere selettivamente rivelate grazie al segnale luminoso emesso dalle sonde.

Introdurre un agente esterno all’interno di un componente biologico non è così banale, infatti bisogna fare in modo che rispetti tutte le esigenze della cellula: il marcatore deve raggiungere il target e non allontanarsi da esso durante l’intera rilevazione; una volta in situ il probe idealmente si deve comportare come un agente passivo che non induca perturbazioni significative nelle strutture o nelle funzioni biologiche che si vogliono studiare; infine si deve cercare di evitare che tramite il processo di misura si creino effetti negativi come fading e fototossicità.

I primi fluorofori usati erano semplici coloranti, perciò non specifici, e per questo si legavano a costrutti presenti praticamente ovunque nella cellula, producendo un segnale molto diffuso. Poi, con l’avanzare delle conoscenze biochimiche si trovarono sonde organiche, inorganiche o chimiche in grado di marcare costrutti molto specifici all’interno della cellula (es. nucleo, membrana, mitocondri, etc) e si introdussero protocolli sperimentali adeguati.

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La tecnologia attuale ha permesso anche di sfruttare fluorocromi in grado di marcare solo particolari ioni, come ad esempio Ca2+, Mg2+, Na+, Cl- ecc.

Le proprietà che caratterizzano maggiormente i marcatori fluorescenti sono: • Spettri di eccitazione ed emissione, importanti per la scelta del fluoroforo

più adatto al proprio apparato sperimentale. Il primo si sceglie in modo da essere il più possibile centrato sulla lunghezza d’onda emessa dalla sorgente di luce, mentre il secondo deve poter essere rilevabile dagli strumenti a disposizione.

• Efficienza quantica (quantum yield) è il rapporto tra fotoni emessi rispetto ai fotoni assorbiti da una molecola. Maggiore il quantum yield, migliore il segnale in fluorescenza rilevabile con i rilevatori utilizzati.

• Affinità con i diversi costrutti molecolari e tessuti subcellulari. • Modalità con cui possono penetrare all’interno della cellula.

Perciò, per la scelta del protocollo sperimentale atto alla marcatura, è fondamentale analizzare le specifiche dei vari coloranti.

1.4 IL FENOMENO DELLA FLUORESCENZA

La luminescenza è l’emissione di fotoni per rilassamento da uno stato elettronico eccitato ad uno con energia inferiore in una sostanza. Tipicamente si tratta di fotoni con lunghezza d’onda nell’intervallo dell’ultravioletto – visibile – vicino infrarosso (200 – 2000 nm). Vi sono due tipi di luminescenza: la fluorescenza e la fosforescenza.

La fluorescenza è la capacità di alcuni materiali di emettere luce quando vengono colpiti da raggi ultravioletti o da altri tipi di radiazioni (anche luce visibile, in tal caso emettono luce di colore diverso), il nome deriva dalla fluorite, minerale di calcio e fluoro.

La fluorescenza si distingue dalla fosforescenza, altro fenomeno che comporta l'emissione di luce, in quanto i materiali fluorescenti cessano di essere luminosi al cessare dello stimolo che ne determina la luminosità, invece nei materiali

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fosforescenti la luce continua ad essere emessa per un certo periodo dopo la fine dello stimolo.

Per poter parlare effettivamente di fluorescenza bisogna aspettare il 1852, quando lo scienziato inglese Sir G. G. Stokes, che descrisse ed interpretò le osservazioni da lui fatte sul minerale fluorite che se illuminato con luce di eccitazione ultravioletta riemetteva in modo istantaneo radiazione appartenente al rosso.

Nel primo decennio del Novecento Heimstädt e Lehmann svilupparono il primo microscopio a fluorescenza con il quale studiarono batteri, tessuti animali e vegetali. Tuttavia, l’applicazione della fluorescenza al campo della biologia animale tardò ad essere sviluppata a causa della fluorescenza assai ridotta presentata da cellule e tessuti animali.

Per ovviare a ciò, Max Haitinger nel 1933 introdusse l’uso della fluorescenza secondaria nello studio dei preparati biologici. La sua idea presupponeva l’utilizzo di sostanze, dette fluorocromi o fluorofori, in grado di suscitare fluorescenza anche a concentrazioni bassissime e, pertanto, non in grado di danneggiare il preparato. In tal modo fu possibile marcare tessuti, batteri ed altri bersagli biochimici con alta specificità.

Oggi la microscopia a fluorescenza è uno strumento fondamentale per le scienze biologiche. [4]

La possibilità di utilizzare nello stesso esperimento una molteplicità di fluorofori permette di individuare le cellule ed i componenti subcellulari con un alto grado di specificità, sino a riuscire a rivelare la presenza di una singola molecola, e di identificare più molecole bersaglio contemporaneamente.

La fluorescenza è il risultato di un processo a tre stadi:

stadio 1 – eccitazione stadio 2 – stato eccitato

stadio 3 – emissione di fluorescenza

Quando le cellule vengono attraversate da un fascio di luce di determinata frequenza ed intensità, fanno sì che quest’ultimo possa venire trasmesso, rifratto o, nel

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particolar caso in cui le molecole eccitate presentino proprietà emissive, riemesso come fotoluminescenza.

Per cui una molecola colpita da radiazione luminosa ad una certa lunghezza d’onda (frequenza di eccitazione) ne emette un’altra a lunghezza d’onda superiore (frequenza di emissione) [figura 4]. Infatti, in seguito a questo assorbimento d’energia gli elettroni degli orbitali più esterni si spostano da un livello energetico inferiore ad uno superiore (eccitazione) instabile, la cui vita media è dell’ordine dei miliardesimi di secondo; successivamente gli elettroni tornano al livello energetico originario liberando solitamente l’energia assorbita sotto forma di radiazione elettromagnetica (emissione di fotoni).

Figura 4: a sinistra è rappresentato un caratteristico spettro di

eccitazione/emissione a destra è mostrato uno schema dei livelli energetici coinvolti nel processo di assorbimento e di emissione.

Poichè la resa energetica non è mai del 100%, la radiazione liberata è di lunghezza d’onda superiore, e quindi di energia minore, rispetto a quella di eccitazione. Di conseguenza la radiazione di emissione, rispetto quella di eccitazione, risulta spostata verso la regione del rosso.

Ciò conferisce a tali molecole una delle loro fondamentali proprietà, il cosiddetto spostamento di Stokes, che rappresenta la differenza tra la lunghezza d’onda della luce emessa e quella della luce assorbita, ovvero, in modo analogo, tra l’energia del

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fotone di eccitazione e quella del fotone di emissione. Questa proprietà è caratteristica di ogni molecola ed è limitata di solito a poche decine di nanometri.

1.5 SCELTA DELL’INDICATORE, PER MISURE DEL

[Ca

2+

]i

Anche se la prima dimostrazione del ruolo degli ioni Ca²+ nel controllo di una funzione cellulare risale a oltre un secolo fa, l'applicazione di questo meccanismo, che rappresenta oggi una nozione consolidata in biologia in un'ampia varietà di funzioni e di tipi cellulari, ha dovuto attendere lo sviluppo di specifici sistemi di misura della concentrazione di calcio ionizzato all'interno di una cellula. In particolare, vi sono stati due grandi avanzamenti metodologici in questo campo: Il primo è stato l'isolamento di molecole naturali, come la fotoproteina equorina (Ridgway e Ashley, 1967), o di sintesi, come gli indicatori metallocromici arsenazo III o antipirilazo III (Thomas, 1982), in grado di misurare in maniera attendibile la concentrazione di [Ca2+]i

Questi indicatori hanno avuto un ruolo importante nello studio del ruolo dello ione Ca2+ come secondo messaggero intracellulare.

Uno dei fenomeni tuttora più studiati, le oscillazioni ritmiche della concentrazione di Ca2+ indotte da una varietà di stimoli, è stato identificato e caratterizzato grazie a studi eseguiti con equorina (Woods et al., 1986).

Tuttavia, questi studi risentivano di una limitazione sperimentale importante: l'indicatore di Ca2+ doveva essere introdotto direttamente all'interno della cellula per microiniezione, perché né una proteina né una molecola carica, come un indicatore metallocromico, attraversano la membrana di una cellula viva.

Per questo motivo questi approcci erano limitati a un numero alquanto ridotto di tipi cellulari, nei quali era praticabile la microiniezione dell'indicatore.

La situazione è radicalmente cambiata con lo sviluppo da parte di R. Tsien e dei suoi collaboratori di un secondo metodo di misura della concentrazione dello ione calcio intracellulare: quello degli indicatori fluorescenti intrappolabili nel citoplasma (Tsien et al., 1982). Questi indicatori, oltre a rivoluzionare lo studio

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dell'omeostasi intracellulare di Ca2+, sono stati il prototipo di una varietà di

indicatori per altri parametri fisiologici, quali il pH, la concentrazione di Na+ o di Mg²+ etc.

Come precedentemente affermato, una sonda fluorescente è una molecola che permette di rivelare selettivamente componenti specifici di sistemi biologici complessi. Le sonde fluorescenti, che sono ad oggi centinaia, consentono di marcare, all'interno di una cellula viva, elementi subcellulari di interesse (organuli, proteine ecc.) o di misurare parametri cellulari importanti, come nel nostro caso la concentrazione dello ione Ca2+.

Gli elementi essenziali di un indicatore per il calcio sono: la selettività, la qualità del segnale e la facilità d'uso.

Gli indicatori fluorescenti del Ca2+, il cui precursore è stata la molecola quin-2, ma che attualmente annoverano decine di composti diversi, hanno come punto di partenza un chelante selettivo per Ca2+, come EGTA o BAPTA. Figura[5a;5b]

La porzione della molecola che lega il Ca2+ è costituita da una gabbia carbossilica

che si adatta in modo perfetto alle dimensioni dello ione: da qui ha origine la selettività. Alla gabbia carbossilica è associato un gruppo fluoroforo, che conferisce alla molecola una fluorescenza dipendente dal legame del Ca2+ con la gabbia carbossilica. Per la loro struttura, e in particolare per la presenza dei gruppi carbossilato che legano lo ione Ca2+, questi indicatori non attraversano liberamente le membrane cellulari. Per risolvere questo problema, la molecola attiva è stata ulteriormente modificata, esterificandola (e quindi neutralizzando) i gruppi carichi. In questa forma la molecola, incapace di legare Ca2+, attraversa la membrana plasmatica delle cellule e raggiunge il citoplasma, dove enzimi che fanno parte del

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corredo normale della cellula, le esterasi, idrolizzano l'estere e ripristinano la forma attiva della molecola [figura 6].

Come si può comprendere, questo semplice accorgimento è la chiave del successo di questi indicatori. Infatti, il loro uso è molto semplice: basta “incubare” le cellule di interesse con la forma esterificata dell'indicatore per un tempo relativamente breve, per 'caricarne' all'interno della cellula una quantità tale da permettere la determinazione di Ca2+ intracellulare.

Si rimuove quindi l'indicatore dal terreno di coltura, eliminando così una sorgente di fluorescenza spuria, e per le misure si utilizza la frazione di indicatore attivo intrappolata, grazie all'azione delle esterasi, nel citoplasma delle cellule.[10]

Figura 6: Meccanismo de-esterificazione da parte di esterasi

Oltre il metodo di caricamento all’interno delle cellule, un altro parametro chiave nella scelta dell’indicatore è la costante di dissociazione (Kd); essa rappresenta una misura dell’affinità dell’indicatore per lo ione Ca2+ ed è il parametro di conversione che collega la concentrazione di ioni calcio ai segnali di fluorescenza. Questo parametro varia da indicatore a indicatore, quindi è importante selezionare il nostro indicatore sulla base del range di concentrazione di ione che ci aspettiamo da un esperimento. L'intervallo di concentrazioni nel quale un indicatore produce una risposta osservabile è da circa 0,1 × Kd a 10 × Kd.. Indicatori con bassa affinità sono adatti per grandi variazioni di concentrazioni di calcio, ma non funzionano per piccole variazioni. Al contrario, indicatori ad alta affinità Ca2+sono adatti per seguire piccoli cambiamenti nella concentrazione di Ca2+.

In alcune situazioni, la combinazione di indicatori a bassa e alta affinità può essere necessaria per seguire con precisione variazioni di calcio intracellulare.

La Kd di indicatori del Ca2+ in vivo dipende anche da molti fattori, tra cui pH, temperatura, forza ionica, viscosità, proteina legante e la presenza di Mg2+ e altri

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ioni. Di conseguenza, i valori di Kd intracellulari sono solitamente significativamente superiori rispetto ai valori misurati in soluzioni cellulari. [ 9] Anche le modalità di misurazione svolgono un ruolo importante nella scelta dell’indicatore, queste dipendono dal fatto che si voglia avere dei valori quantitativi o qualitativi della concentrazione, ma anche dalla preferenza di lunghezza d’onda di eccitazione e emissione dipendente dal tipo di strumentazione utilizzata.

Il concetto fondamentale alla base dell'uso di indicatori del Ca2+ è che un aumento o una diminuzione nella loro intensità di fluorescenza è dovuta a cambiamenti nella concentrazione di Ca2+. Tuttavia, è molto importante sottolineare che l'intensità di fluorescenza è anche una funzione di diversi altri fattori. [3]

Questi includono la concentrazione di indicatore, percorso della lunghezza di eccitazione, e localizzazione citosolica.

Se durante un esperimento si hanno variazioni della concentrazione intracellulare dell’indicatore anche l’intensità di fluorescenza varierà, indipendentemente dalla concentrazione di Ca2+. Cause tipiche delle variazioni di concentrazione dell’indicatore sono il photobleaching, la compartimentalizzazione o l’estrusione della sonda.

Infine, le condizioni locali come la viscosità, pH, ecc possono alterare le proprietà dell’indicatore. Variazioni di tali condizioni, possono verificarsi tra indicatori situati nel citosol o organuli come nuclei, mitocondri, o strutture vescicolari. Pertanto, possibili modifiche e artefatti di intensità di fluorescenza devono essere considerati attentamente per monitorare fedelmente i segnali del calcio.

Gli indicatori possono essere suddivisi in due categorie: • raziometrici (doppia lunghezza d'onda)

• non- raziometrici a (singola lunghezza d'onda).

Indicatori raziometrici sono più utili per misurazioni quantitative della concentrazione di Ca2+, mentre gli indicatori non-raziometrici sono più

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La sostanziale differenza esistente tra le due sta nel fatto che le sonde di tipo raziometriche presentano spettri di eccitazione e emissione diversi a seconda che siano o meno legati al Ca2+.

La concentrazione di calcio è misurata come rapporto fra i valori di intensità di fluorescenza che vengono registrati a due lunghezze d’onda.

Indicatori non-raziometrici mostrano un cambiamento nella loro emissione di fluorescenza quando si legano al Ca2+.

Gli indicatori non raziometrici non cambiano invece lunghezza d’onda di eccitazione e/o emissione dopo il legame al calcio.

Un problema con gli indicatori a singola lunghezza d'onda è che le variazioni di emissione di fluorescenza non riflettono necessariamente differenze nella concentrazione di Ca2+.

Ad esempio, cellule adiacenti all'interno di un singolo campo visivo possono venire caricate con quantità differenti di indicatore e ciò porta a cellule adiacenti con diverse intensità di fluorescenza.

Senza calibrare la fluorescenza all'interno di ogni singola cellula, è impossibile stabilire se le diverse intensità di fluorescenza riflettono esclusivamente diversità nel caricamento della quantità di indicatore, o invece variazione della loro concentrazione di Ca2+. Per questo motivo, gli indicatori a singola lunghezza d'onda sono più utili per misurare le variazioni relative di concentrazione di Ca2+

Uno svantaggio degli indicatori raziometrici, rispetto ai non-raziometrici, è che il loro intervallo dinamico (differenza di intensità tra Ca2+-libero e Ca2+-legato) è spesso piccolo, rendendo così più difficile rilevare modeste modifiche nelle variazioni di concentrazione.

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1.6 FLUO-4, CAL-590 E CAL-630

Il primo indicatore fluorescente utilizzato nel nostro studio di Calcium imaging è stato il Fluo-4 acetossimetilestere (fluo-4 AM) (Molecular Probes). [figura 7]

Figura 7: struttura Fluo-4

La struttura del fluo-4 porta 2 gruppi fluoro, che conferiscono alla molecola un aumento della fluorescenza di eccitazione a 494 nm e di conseguenza livelli più alti dei segnali di fluorescenza rispetto i suoi analoghi. Il Fluo-4 è una molecola della famiglia delle sonde per il calcio non-raziometriche, derivata dal chelante per il calcio BAPTA. Una volta all’interno della cellula il Fluo-4, resta nel citoplasma e tipicamente non genera problemi di compartimentalizzazione negli organelli (come mitocondri, reticolo endoplasmatico che contengono alte concentrazione di calcio) e quindi non causa gli artefatti causati dalla compartimentalizzazione.

Il fluo-4 è venduta nella forma esterificata(AM) e presenta uno spettro di Ex/Em 494/506 nm e una Kd in soluzione di 335 nM: è pertanto una sonda fluorescente che assorbe nel blu ed emette nel verde; [figura 8] la sua intensità di fluorescenza aumenta dopo legame al Ca2+ all’interno della cellula. [7]

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Di recente sono state introdotte in commercio dei nuovi fluorocromi per l’imaging del calcio capaci di emettere nella regione spettrale del rosso, queste sono: Cal-520®, Cal-590 ™ e Cal-630 ™ .

Nel nostro studio ci siamo occupati solo del Cal-590 e Cal-630.

L’interesse verso sonde che emettessero nel rosso è dettato dal fatto che molte delle sonde disponibili utilizzano luci di eccitazione ed emissione che si sovrappongono a quelle di proteine fluorescenti utilizzati come geni reporter che identificano determinate popolazioni cellulari e/o l’espressione di specifiche proteine di interesse

Esempio di molecola reporter ampiamente utilizzata è appunto la GFP (Green Fluorescent Protein); data la sua capacità di emettere luce dopo esposizione a luce blu, viene usata come marcatore per individuare la locazione di particolari proteine o per studiare l'espressione genica all'interno delle cellule.

Nel caso della GFP, si può utilizzare, per eccitare la proteina, sia una radiazione ultravioletta (395 nm), sia una radiazione nello spettro visibile (475 nm), in particolare di colore blu. In entrambi i casi la GFP emetterà una radiazione di colore verde (505 nm).

Tutto ciò ha portato all’interesse verso lo sviluppo di fluorocromi dotati di lunghezze di eccitazione ed emissione maggiori.

Le nuove sonde del calcio, la cui struttura molecolare rimane ignota, e un eventuale analisi è esplicitamente vietata, presentano i seguenti valori di emissione, eccitazione e di affinità [tabella 1] in soluzione per il calcio:

Tabella 1: eccitazione/emissione e Kd del Cal-590 e Cal-630

SONDA-Ca2+ ECCITAZIONE (nm) EMISSIONE (nm) Kd (nM)

Cal-590™ 558 584 561

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Anche queste vengono vendute nella forma esterificata, permettendone l’entrata all’interno delle cellule per semplice incubazione e successiva esterificazione da parte delle esterasi.

Queste nuove molecole dovrebbero risolvere i problemi associati alle sonde fluorescenti che operano nel rosso attualmente disponibili, quali la Rhod 2.

Innanzitutto la rhod-2 una volta all’interno della cellula, viene fortemente compartimentalizzato all’interno dei mitocondri, ciò non permette di valutare variazioni citoplasmatiche di ione Ca2+.

Inoltre sembra che alla stessa lunghezza d’onda di eccitazione di Rhod-2, il Cal-590 presenta delle risposte del segnale, dopo legame con il calcio, decisamente migliori. [2]

1.7 RILEVAZIONE DEL SEGNALE FLUORESCENTE

Il microscopio a fluorescenza permette di studiare campioni organici o inorganici sfruttando i fenomeni di luminescenza descritti nel precedente capitolo.

Questo tipo di microscopia è caratterizzata innanzitutto dalla marcatura specifica del target in esame con una sonda fluorescente, precedentemente descritta, e da una struttura base dello strumento, costituita da: sorgente di luce, filtri, obiettivo e sistema di rivelazione. La descrizione che segue farà riferimento ad un microscopio a fluorescenza rovesciato dove l’ottica è posizionata al di sotto del tavolino porta oggetti.

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Figura 9: meccanismo microscopio a fluorescenza invertito

La sorgente di luce deve essere scelta in modo da massimizzare la quantità di fluoroforo eccitato, quindi l’intensità di emissione.

In passato venivano utilizzate lampade a globo di quarzo contenenti vapori di mercurio ad alta pressione, che soddisfano tutte le condizioni richieste. Tali sorgenti luminose sono state progressivamente sostituite da lampade a filamento di tungsteno e poi da luci LED, a causa dei minori costi e maggiore durata di vita (500-600 € e 400-1000 ore di funzionamento per le lampade a vapori di mercurio). Il fascio di luce che raggiunge il campione deve avere una lunghezza d’onda prossima al picco di eccitazione del fluoroforo e inoltre il microscopio deve essere in grado di rivelare selettivamente la lunghezza d’onda di emissione di tale molecola, generando quindi un alto contrasto tra il background e le strutture fluorescenti.

Per soddisfare al meglio queste due richieste si sfruttano due filtri:

Filtro di eccitazione: serve per filtrare la luce proveniente dalla sorgente prima che raggiunga il campione, limitando ad una banda stretta la lunghezza d’onda necessaria per l’eccitazione.

Filtro barriera o di sbarramento: Serve per filtrare la luce proveniente dal campione, bloccando così la radiazione di eccitazione riflessa dal fluoroforo e lasciando quindi passare solo quella di emissione fluorescente.

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La luce emessa dalla lampada al mercurio passa attraverso l’illuminatore lungo un asse perpendicolare all’asse ottico primario del microscopio, attraversando una lente collettrice e un diaframma di apertura. La luce viene poi filtrata dal filtro di eccitazione e incontra successivamente uno specchio dicroico. Quest’ultimo è un filtro interferenziale specializzato nel riflettere le piccole lunghezze d’onda e trasmettere quelle più alte; esso è posto su in piano inclinato a 45° rispetto alla direzione della luce incidente e riflette la luce a 90° rispetto alla stessa direzione, proiettandola attraverso l’obiettivo, sino a colpire il campione.

Il segnale di fluorescenza emesso dal campione viene quindi raccolto dal medesimo obiettivo e questa volta attraversa lo specchio dicroico, in virtù del fatto che la sua lunghezza d’onda risulta maggiore di quella di eccitazione, per lo shift di Stokes. Questo segnale di emissione passa attraverso il filtro di sbarramento e infine raggiunge i dispositivi per la formazione dell’immagine.

Spesso filtri e specchio dicroico vengono montati in un unico blocco ottico detto filter cube, è proprio in base a tali elementi che si stabilisce quali molecole fluorescenti usare, infatti è possibile sfruttare unicamente quei fluorofori con lunghezze di eccitazione e di emissione corrispondenti a quelle trasmesse dai filtri. Inoltre, combinando vari filtri è possibile l’osservazione di un gran numero di fluorocromi con differenti proprietà di eccitazione e emissione

Figura 10: filter cube

Altro elemento fondamentale è certamente l’obiettivo, le sue lenti svolgono una duplice funzione: focalizzazione della luce di eccitazione sul campione (ancor più rispetto al sistema di lenti del condensatore presente in un microscopio convenzionale) e raccolta della luce di fluorescenza emessa.

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Gli obiettivi possono essere di diverso tipo e sono caratterizzati dalle informazioni riportate su di essi, come per esempio: fabbricante, ingrandimento, spessore del vetrino coprioggetto.

Altro parametro sempre presente sull’obiettivo è l’apertura numerica (NA, Numerical Aperture). Essa è una misura della capacità di una lente di raccogliere la luce del campione ed è definita dalla relazione:

NA = n · sinθ

Dove n è l’indice di rifrazione del mezzo presente tra lente e campione e θ è l’apertura angolare della lente, ossia il semiangolo del cono di luce che entra nell’ottica.

In microscopia a fluorescenza è necessario utilizzare obiettivi con alta apertura numerica, così da massimizzare la quantità di luce raccolta dal campione

Come visto precedentemente, nei microscopi a fluorescenza l’illuminazione è pensata in modo tale che sia la luce di eccitazione che quella di emissione passino per lo stesso obiettivo: ciò comporta numerosi vantaggi. Innanzitutto il fatto che l’obiettivo funzioni sia da condensatore che da dispositivo di formazione dell’immagine fa sì che l’allineamento condensatore-obiettivo sia sempre perfetto, che l’area illuminata dalla luce di eccitazione sia ristretta a quella che si osserva attraverso l’obiettivo e che sia disponibile tutta l’apertura numerica dell’obiettivo stesso; infine questa configurazione permette di combinare la tecnica della fluorescenza con alcune tecniche in luce trasmessa.

Importante è anche la telecamera usata per l’acquisizione dell’immagine.

Nella scelta di una telecamera, i parametri importanti da considerare includono efficienza quantica, livelli di rumore, dimensione del pixel, e la frequenza di scansione.

Al fine di minimizzare i livelli di luce di eccitazione che incide sul campione, la fotocamera dovrebbe essere più sensibile possibile, il che significa generalmente un'elevata efficienza quantica, basso rumore e grande dimensione dei pixel, e il tasso di scansione lenta. La sensibilità deve pertanto essere equilibrata contro la risoluzione desiderata. [6].

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Nel capitolo materiali e metodi verrà descritto dettagliatamente il tipo di microscopio a fluorescenza utilizzato nel nostro studio di calcium imaging .

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CAPITOLO 2

SCOPO DELLA RICERCA

Lo scopo di questa tesi è stato quello di sviluppare la metodica dell’imaging del Ca2+ nei bastoncelli retinici. L’interesse verso i bastoncelli nasce dal fatto che sono note numerose mutazioni spontanee in geni specifici per tali cellule che portano alla loro degenerazione, causando una cecità notturna progressiva che col tempo porta poi alla perdita dei coni e alla elevata disabilità conseguente alla perdita della visione ad alta risoluzione legata alla funzione dei coni stessi.

Nell’ambito di un progetto di ricerca interdisciplinare che intende colmare la carenza di terapie efficaci per tali patologie degenerative retiniche sviluppando approcci di medicina rigenerativa, è necessario poter validare la funzionalità dei bastoncelli generati in vitro utilizzando la tecnologia delle cellule iPS per sviluppare tessuti retinici tridimensionali (3D). Uno dei parametri funzionali di maggiore interesse, in vista della sua importanza per la vitalità a lungo termine delle cellule, è la verifica della corretta omeostasi del calcio. In questo studio abbiamo pertanto analizzato l’omeostasi del calcio nei bastoncelli adulti sia di topi normali (wt), che di topi portatori di una mutazione non senso del gene Cacna2d4, che codifica per una subunità accessoria dei canali del calcio dei bastoncelli e ne determina una progressiva perdita di funzionalità che si estende ai coni. Abbiamo condotto tale studio sia utilizzando una sonda fluorescente ben nota in letteratura, il Fluo-4, sia conducendo una valutazione iniziale delle proprietà di sonde del Ca2+ di nuova generazione capaci di operare nell’ambito spettrale del rosso. Lo sviluppo di questo lavoro permetterà pertanto di analizzare l’omeostasi del Ca2+ in cellule immature, resi riconoscibili grazie all’espressione di geni reporter quali la EGFP, e di confrontarne le caratteristiche rispetto quelle dei bastoncelli adulti analizzate in questa tesi.

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CAPITOLO 3

MATERIALI E METODI

3.1 ANIMALI

In questo studio sono stati utilizzati topi, maschi e femmine, generati nel laboratorio del Prof. Wolfgang Berger presso l’Università di Zurigo incrociando topi di background C57BL/10 con topi di ceppo AJ.

La manipolazione e la cura degli animali sono state effettuate in accordo con le linee guida della Commissione per la Ricerca e Materie Etiche della (IASP), con la legge nazionale italiana sull’ uso degli animali per la ricerca (DL116/92, applicazione della Direttiva del Consiglio delle comunità Europee, C.E.E., n. 86/609) e sono state approvate dal comitato etico dell’ateneo di Pisa.

Gli animali sono stati stabulati singolarmente e mantenuti in condizioni standard di stabulazione: temperatura (24±1°C) e umidità (60±5%) costanti, libero accesso ad acqua e cibo e sottoposti ad un ciclo circadiano artificiale luce/buio di 12 ore. I topi originariamente forniti dal prof. Berger erano sia wt che mutanti per una mutazione non-sense (frameshift) del gene Cacna2d4, che codifica per una proteina accessoria dei canali del calcio (α2δ4). La mutazione causa l’introduzione di uno

stop codon precoce prima della sequenza che codifica per la porzione δ necessaria per l’ancoraggio della proteina alla membrana plasmatica. In assenza della subunità δ la subunità α2, localizzata all’esterno della cellula, si perde negli spazi

extracellulari e di fatto determina la perdita della sua funzione

3.2 SOLUZIONI

Per poter mantenere in condizioni vitali la retina e le cellule da essa isolate sono state utilizzate diverse soluzioni saline e mezzi di coltura. Come mezzo di coltura è

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stato utilizzato L-15, disponibile commercialmente (Sigma-Aldrich), che contiene oltre a sali anche glucosio, vitamine ed altri fattori di supporto del metabolismo cellulare. Per il lavaggio delle sonde in soluzione salina priva di ammine primarie è stato utilizzato il Dulbecco il cui pH era controllato tramite la coppia fosfato mono e bibasico. Sono poi state utilizzate ulteriori soluzioni saline preparate in laboratorio allo scopo di poter controllare il contenuto di potassio e di calcio. Tali soluzioni sono indicate nelle Tabelle 2-5 riportate di seguito.

3.2.1 composizione della soluzione salina di Locke (500 ml a

concentrazione 2x)

SALE

CONCENTRAZIONE (mM)

NaCl 140

KCl 3.6

Na-Hepes 10 - pH 7.4

Tabella 2: composizione della soluzione salina di Locke

Il pH veniva portato a 7,4 tramite una soluzione di HCl 1 N, utilizzando un pHmetro con elettrodo a vetro. La soluzione alla concentrazione 2x veniva portata a volume in un matraccio da 500 ml e conservata alla temperatura di 4°C.

Il giorno dell’esperimento, veniva aggiunto alla soluzione di Locke 2x un uguale volume di soluzione di glucosio e calcio alla concentrazione rispettivamente di 20 e 4 mM, in modo da ricostituire una soluzione di Locke 1x con 2 mM CaCl2 e 10

mM glucosio oltre ai sali riportati nella tabella 2

3.2.2 Composizione della soluzione KCl 25 e 16 mM

Ulteriori soluzioni saline contenenti KCl 25 oppure 16 mM sono state preparate allo scopo di indurre una depolarizzazione ed attivare in tal modo i canali del calcio dipendenti dal voltaggio. L’aumento della concentrazione del KCl veniva compensato dal punto di vista osmotico mediante la riduzione di una equivalente quota di NaCl.

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34

SALE

QUANTITÀ

CONCENTRAZIONE(mM)

NaCl 7.01 g 120

KCl 1.86 mg 25

HEPES 2.38 g 10 - ph 7.4

Tabella 3: composizione della soluzione KCl 25 mM

Il pH viene portato a 7,4 tramite l’aggiunta di HCl 1 N utilizzando un pH-metro con elettrodo a vetro; la soluzione è poi portata al volume di 500 ml e conservata a 4°C. La preparazione della soluzione a concentrazione di KCl 16 mM, è stata effettuata mescolando le 2 soluzioni già pronte di Locke KCl 3.6 mM e extracellulare KCl 25 mM.

3.2.3 Preparazione della soluzione intracellulare 100 ml a

concentrazione 1x

La preparazione della soluzione intracellulare 1x è eseguita seguendo il protocollo presente in laboratorio, secondo la tabella 4

SALE

QUANTITÀ

CONCENTRAZIONE(mM)

NaCl 58,44 mg (29,22) 10 (5)

KCl 1,044 g 140

PIPES 302,37 mg pH 7,2

Tabella 4: composizione della soluzione intracellulare

I sali, pesati secondo le quantità indicate in tabella, sono sciolti in acqua MilliQ. Il pH viene portato a 7,4 utilizzando un pH-metro con elettrodo a vetro tramite l’aggiunta goccia a goccia di una soluzione di KOH 1 N; la soluzione è poi portata al volume di 100 ml e conservata a 4°C.

(35)

35

3.2.4 Preparazione soluzione stock EGTA 100 mM

Per la preparazione della soluzione di EGTA 100 mM si procede come indicato in tabella 5

SALE

QUANTITÀ

CONCENTRAZIONE(mM)

EGTA 3,80 g 100

HEPES 0,238 g pH 7,4

Tabella 5:composizione della soluzione di EGTA 100mM

EGTA e HEPES sono stati sciolti in acqua MilliQ e adoperando un pH-metro la soluzione è stata portata a pH di 7,4 aggiungendo gradualmente NaOH e mescolando di continuo. Una volta portata a volume di 100 ml la soluzione è riposta in frigorifero.

Al momento dell’esperimento la concentrazione di EGTA verrà portata a 5 mM aggiungendo in un cilindro di vetro graduato 5 ml EGTA 100 mM, 1 ml di Glucosio 1 M, 44 ml di H20 MilliQ e 50 ml di Locke 2x.

3.2.5 Preparazione soluzione stock di Ionomicina 2,8 mM

Per la preparazione di Ionomicina 2,8 mM si procede aggiungendo a 1,0 mg di Ionomicina 500 µl di Etanolo: la soluzione così preparata è poi ripartita in aliquote da 20 µl in tubi eppendorf e riposta in freezer.

Al momento dell’uso la concentrazione della soluzione di Ionomicina verrà portata a 4,5 µM mescolando 5 µl di Ionomicina 2,8 mM con 3 ml di EGTA 0 Ca2+ 5 mM.

(36)

36

3.2.6 Preparazione soluzione 50 ml CaCl

2

30 mM

Per la preparazione si mescolano le seguenti soluzioni:

• Soluzione intracellulare 37,5 ml • CaCl2 1 M 1,5 ml

• Glucosio 1 M 500 µl

Si porta quindi a volume di 50 ml aggiungendo H2O MilliQ. La soluzione così

preparata è trasferita in provetta da centrifuga in plastica 50 ml e riposta in frigo.

3.2.7 Preparazione soluzione 50 ml Ca-EGTA a concentrazione di

Ca

2+

libero stimato di 496 nM

Per la preparazione della soluzione si procede mescolando le seguenti soluzioni: • Locke 2x 25 ml

• Glucosio 1 M 500 µl • CaCl2 1 M 200 µl • EGTA 100 mM 2,5 ml

Si porta a volume di 50 ml in H2O e si ripone in frigo.

3.2.8 Preparazione della soluzione di anestetico al 20% di Uretano

SALE

QUANTITÀ

Uretano 10 g

NaCl 0,45 g

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37

Le sostanze sono state pesate in due provette differenti. Nella provetta contenente NaCl sono stati aggiunti 50 ml di H2O MilliQ per ottenere una soluzione dello 0,9%.

Successivamente l’uretano è stato sciolto con la soluzione salina isosmotica di NaCl preparata in precedenza.

La provetta contenente la soluzione va poi ricoperta con carta alluminio per tenerla lontano da fonti di luce.

3.3 PRELIEVO RETINE

Per l’isolamento delle retine in situ i topi sono stati profondamente anestetizzati mediante iniezione intraperitoneale di 1.5 ml di uretano al 20% (p/v) disciolto in una soluzione di NaCl 0.9%, seguito dalla dislocazione cervicale.

Le retine vengono prelevate, dopo aver realizzato un’incisione trasversale sulla cornea mediante un bisturi oftalmico e la rimozione del cristallino, utilizzando pinzette ricurve a punta arrotondata. Le retine così isolate sono poste in una piastra petri contenente 2000 µl di L-15.

3.4 DISSOCIAZIONE

La procedura di dissociazione permette l’isolamento delle cellule dal tessuto. Nel caso della retina, tessuto nel quale la matrice extracellulare è ridotta e la sua composizione non contiene significative quantità di collagene, l’enzima utilizzato prima della dissociazione meccanica è la papaina. Questa proteasi è nota in letteratura per consentire l’isolamento delle cellule retiniche, e dei fotorecettori in particolare, minimizzando il danno osservato con trattamenti enzimatici più aggressivi, quali quelli con tripsina. La procedura prevede i seguenti passaggi:

1) Preparare la papaina 1 mg\ml in soluzione di Locke1x filtrata;

2) Aggiungere alla papaina 50 µl di L-cisteina 10 mg\ml L-cisteina preparata pesandone 5 mg e disciogliendola in 500µl di Locke filtrata;

3) Aggiungere 1 ml della soluzione di papaina attivata con L-cysteina in una piastra petri (Cell Culture Dish 35mm ×10mm polystyrene Made in USA) al quale si andranno ad aggiungere 2 ml di Locke1x filtrata.

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38

4) Le 2 retine si trasferiscono nella petri con la papaina attivata, e si incubano a 32°C in bagno termostato per 9 min.

5) Si prepara un'altra piastra petri contenente 1500µl di soluzione di Locke1x filtrata, 50µl DNasi (200U\ml) (per digerire il DNA che si libera dalle cellule durante la dissociazione), e 500µl di Ovomucoide 10mg\ml, un inibitore degli enzimi proteolitici.

6) Allo scadere dei 9 minuti si prendono le retine e si trasferiscono nella piastra petri con l’ovomucoide. Ritrasferire tutto in eppendorf.

7) Dopo aver trasferito le retine in un tubo eppendorf con 500µl di ovomucoide si inizia la procedura di dissociazione meccanica, facendo passare delicatamente le retine attraverso il puntale dei una pipetta da 1000 µl. Si inizia aspirando i frammenti sedimentati sul fondo e espellendoli in alto; dopo 5 passaggi, si prelevano 200µl di soluzione superficiale contenente le cellule e si trasferiscono sul vetrino precedentemente preparato; si ripetono i passaggi dopo aver ripristinato il volume prelevato aggiungendo 200 µl di soluzione con ovomucoide.

8) Si ripetono queste operazioni fino ad occupare il numero di vetrini desiderato. Per migliorare la vitalità e mantenere le cellule in ambiente loro favorevole per la crescita, è preferibile, prima di trasferire il materiale su vetrino, aggiungere su questo circa 2000 µl di terreno di coltura. Lasciare che le cellule si attacchino al vetrino per un tempo di 45 minuti.

Dopo alcuni esperimenti in cui è stato eseguito il protocollo precedentemente descritto, abbiamo trovato opportuno inserire almeno 400µl di materiale per vetrino, in modo da aumentare il numero di cellule vive e morfologicamente adeguate per le analisi successive.

3.5 CALCIUM IMAGING

Per effettuare la misura della concentrazione intracellulare di Ca2+, in cellule vitali

vengono utilizzati:

a) sonde fluorescenti, molecole che, interagendo con il Ca2+, modificano le loro proprietà fluorescenti (per esempio, aumentano l'emissione di luce fluorescente).

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b) un microscopio a fluorescenza, una telecamera ad alta sensibilità, strumentazione elettronica di controllo e misura

Nel corso del lavoro di tesi sono stati utilizzati come fluorocromi il FLUO-4 (Invitrogen) e sono state condotte delle valutazioni preliminari di due sonde fluorescenti nella regione spettrale del rosso, il CAL-590 ed il CAL-630 (ATT_BIO).

3.5.1 Caricamento del Fluo-4 e del Cal-590 nelle cellule.

Le cellule vengono dapprima caricate con la sonda fluorescente di interesse utilizzando la forma acetometossiestere (AM), che essendo liposolubile è in grado di permeare attraverso la membrana plasmatica.

Una volta all’interno delle cellule la sonda-AM viene convertita da alcune esterasi ubiquitarie normalmente presenti nelle cellule che rimuovono i gruppi metossiestere e la sonda con i gruppi carbossilici liberi resta quindi intrappolata all’interno delle cellule.

I due parametri importanti da ottimizzare per un adeguato utilizzo di queste sonde sono:

la concentrazione della sonda e i tempi di caricamento.

Sono state utilizzate soluzione stock 5 mM di Fluo-4(AM), 590AM e Cal-630AM in DMSO, suddivise in aliquote da 0,5 µl e conservate a -20°C, lontane da fonti di luce.

La soluzione stock viene diluita al momento dell’uso, usando una soluzione di tampone fosfato di Dulbecco (PBS): in particolare si prelevano 500µL di PBS e si trasferiscono in un tubo eppendorf al quale verranno aggiunti 0,5 µL di soluzione stock di fluo-4 in modo da portare la concentrazione finale a 5 µM. Utilizzando la soluzione appena preparata si procede al caricamento delle cellule, in ambiente oscurato e come indicato di seguito:

1. Si rimuovono 1500 µl di terreno dalla capsula di petri contente le cellule dissociate e si aggiunge 1 ml di soluzione di Dulbecco (tampone fosfato PBS); la procedura viene ripetuta due volte

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2. Si aggiungono 500 µl di Fluo-4 AM 5 mM in PBS per arrivare a una soluzione finale 5 µM e si lasciano “caricare” le cellule al buio per 25 min. a R.T.

3. Al termine dell’incubazione si aspirano 500 µl di Fluo-4 in PBS e vengono effettuati due lavaggi consecutivi con 2000 µl di PBS e in fine aggiunti 2000 µl di terreno, nel quale le cellule vengono lasciate al buio per altri 15 min. 4. Successivamente la capsula viene montata sul tavolino del microscopio. Per la rilevazione della fluorescenza abbiamo utilizzato un microscopio ottico invertito (Leica DMI 4000B).

Figura11: Microscopio Leica DMI 4000B

Gli elementi essenziali per una misura di fluorescenza sono: 1) sorgente di eccitazione;

2) fluoroforo 3) detector

4) software e computer per elaborare i dati

In un microscopio a fluorescenza invertito il preparato è illuminato dal basso da un fascio di luce che giunge al preparato attraverso l'obiettivo, dopo essere stato deviato da un apposito specchio dicroico. Un filtro interposto tra la sorgente di luce

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ed il sistema ottico provvede a selezionare la lunghezza d'onda opportuna per eccitare il fluorocromo del preparato e indurre l’emissione di luce tramite fluorescenza. La lunghezza d'onda della luce fluorescente emessa è maggiore di quella di eccitazione; essa attraversa lo specchio dicroico senza esserne deviata e raggiunge il sistema rivelatore dopo essere stato selezionata da un filtro di emissione che seleziona la lunghezza d'onda desiderata che arriverà al rivelatore (telecamera, macchina fotografica, occhio dell'osservatore).

È stato utilizzato il software Leica Application Suite Advanced Fluorescence (Leica Microsystems LAS AF) che ha la capacità di pilotare la sorgente luminosa e guidare l’acquisizione delle immagini da parte della telecamera a intervalli prestabiliti (modalità time-lapse). Il software premette inoltre di quantificare i valori di fluorescenza in regioni di interesse (ROI) ed è stato utilizzato per le misure successive all’acquisizione delle immagini.

Per i nostri esperimenti abbiamo utilizzato un obiettivo 60x e le immagini sono state acquisite usando la camera digitale Leica (DFC-350 FX). Per migliorare il rapporto segnale rumore abbiamo utilizzato una lente riduttrice 0.63x, in modo da concentrare la luce emessa dal preparato sul sensore della telecamera. L’ingrandimento complessivo del sistema di acquisizione immagini era quindi 63x0.63, ovvero 39.7.

Figura 12 rappresentazione schematica del funzionamento di un microscopio a

fluorescenza invertito

Questo microscopio è dotato di un meccanismo scorrevole che può contenere fino a sei filter cube, così da poter disporre velocemente di sei combinazioni di filtri

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diversi. Attualmente dispone di 3 filtri, permettendo così combinazioni di filtri per l’osservazione di fluorofori che emettono nel rosso e nel verde.

FILTER CUBE ECCITAZIONE EMISSIONE

GFP BP 470/40 BP525/50

mCherry HQ 580/20 HQ 630/60

Rhod-et BP 546/10 BP 585/40

Tabella 7: bande di eccitazione e di emissione dei filter cube a disposizione

3.5.2 MISURE TIME-LAPSE

Il protocollo di acquisizione immagini permette di controllare la durata e l’intensità della luce e la cadenza della sua presentazione. Inoltre è possibile anche controllare un fattore di amplificazione, che permette di moltiplicare il segnale generato dal sensore della telecamera prima della sua conversione analogico digitale tramite una scheda a 12 bit. Il fattore di amplificazione incrementa sia il segnale che il rumore generato dal sensore, ma quest’ultimo è relativamente basso in quanto la telecamera è raffreddata tramite un sistema Peltier. In compenso, l’amplificazione prima della digitalizzazione è vantaggiosa in quanto incrementa la capacità di risoluzione del segnale. Durante le prime fasi della sperimentazione, abbiamo progressivamente ridotto la durata dell’impulso luminoso dagli iniziali 200 a 50 ms, proprio grazie all’adozione di una lente di riduzione dell’ingrandimento e dell’utilizzo del massimo fattore di amplificazione possibile (10x). Ogni esperimento consisteva in un gruppo di episodi (series) ognuno dei quali costituito da uno stack di immagini, acquisite ogni 2 secondi. Pertanto, l’acquisizione di una series di 4 minuti (240 s) portava ad uno stack di 120 immagini. Nel caso di esperimenti nei quali venivano acquisite 8 series, il file complessivo delle 8 series comprendeva 960 immagini, ognuna da oltre 2 Mb, per una dimensione totale di oltre 2 Gb. I files venivano salvati sul disco rigido del computer per essere successivamente analizzati offline tramite il software LAS AF.

Per valutare la presenza di canali del calcio voltaggio-dipendenti (Cav), le cellule sono state depolarizzate utilizzando soluzioni saline contenenti KCl 25 oppure 16 mM. Le soluzioni venivano inserite in siringhe, collegate a un sistema di perfusione, il cui flusso era controllato mediante elettrovalvole, e che terminava con un tubicino collocato sotto controllo microscopico in corrispondenza del preparato.

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