Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini
Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Direttore Prof. Paolo Miccoli
Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia
Direttore Prof. Giulio Guido
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CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN
PSICOLOGIA CLINICA E DELLA SALUTE
“Studio psicometrico dei rapporti tra sonno e stress:
confronto tra pazienti con insonnia psicofisiologica e
sindrome dell’intestino irritabile.”
RELATORE
Dott. Angelo Gemignani
CORRELATORE
Dott. Massimo Bellini
CANDIDATO
Dott.ssa Elisa Lai
ANNO ACCADEMICO 2013/2014
Ai miei nonni, nella vita non esiste
amore più grande.
“Occorre sapere che il piacere, la gioia, il riso e il divertimento, così come la pena, il dolore, la paura ed il pianto, non hanno altra fonte che il cervello. È soprattutto questo organo che ci consente di pensare, vedere e sentire, e di distinguere il bello dal brutto, il bene dal male, il piacevole dallo spiacevole. È nel cervello che hanno dimora la follia e il delirio, le paure e gli orrori che ci tormentano spesso di notte e a volte anche di giorno; lì è la causa dell’insonnia e del sonnambulismo, dei pensieri che non affiorano alla mente, della dimenticanza dei doveri e dei sintomi bizzarri.”
Ippocrate
“Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni?”
Ringraziamenti.
Ringrazio il Dottor Angelo Gemignani, per essere stato la migliore guida che avrei potuto chiedere in questo lungo percorso, per tutto quello che mi ha insegnato sia a livello umano che professionale e soprattutto per essere stato un maestro.
Ringrazio la Dott.ssa Laura Palagini, per la fiducia e gli insegnamenti preziosi che mi ha dato durante tutto il mio percorso.
Ringrazio il Dottor Massimo Bellini ed il Dottor Dario Gambaccini, per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno dato sia nella raccolta dei dati che nella stesura di questo lavoro di tesi.
Ringrazio la Dott.ssa Francesca Mastorci, per il tempo e l’aiuto prezioso che ha dedicato a questo lavoro di tesi e l’ing. Marco Laurino per il contributo statistico. Ringrazio il Dottor Andrea Zaccaro, che nel tempo si è trasformato da essere un amico, un compagno di studio, fino a diventare un collega, senza di lui questo percorso non sarebbe stato il solito.
Ringrazio il Dottor Enrico Cheli, per l’aiuto nella raccolta dei dati ma specialmente per il sostegno e la presenza che non mi ha mai fatto mancare.
Ringrazio tutti i pazienti di questo studio, per la disponibilità, la gentilezza, ma specialmente per le esperienze di vita che hanno deciso di donarmi, senza di loro questo lavoro non sarebbe stato possibile.
Ringrazio però anche tutte le persone che al di fuori dell’ambito professionale mi hanno sostenuta in questi anni, che hanno condiviso insieme a me questo percorso universitario, ed insieme a lui tutto ciò che vi è connesso. Dallo studio matto e disperatissimo per preparare gli esami, alle notti insonni passate a ripetere, al fine settimana che negli anni è andato a sparire perché ogni giorno è diventato lunedì, alle ansie, ai nervosismi, al fatidico “tanto questo esame andrà male, lo so!”. Ringrazio queste persone, perché in questi anni, durante questo percorso, ho imparato anche ad essere grata e a condividere con gli altri sia le sconfitte che le vittorie. Perché senza nessuno con cui condividerla, nessuna vittoria può essere definita tale.
1
Indice.
Abstract………..3
Introduzione………..6
1. Lo Stress: una definizione teorica……….9
1.1 Lo stress: componenti ormonali, molecolari ed infiammatorie………..13
2. Interazione tra sonno e stress………..16
2.1 Sonno ad onde lente………21
3. Insonnia psicofisiologica………...27
3.1 Classificazione e criteri diagnostici………27
3.2 Interazioni tra stress e insonnia psicofisiologica………...34
4. Alterazioni del sonno e sindrome dell’intestino irritabile……..42
4.1 Relazione Stress - Sindrome dell'intestino irritabile………...51
4.2 Il Sistema Nervoso Enterico……….…...54
4.3 The “Brain-Gut Axis”………...56
4.4 The top-down and the botton-up model………..60
5. Ipotesi e Scopo della sezione sperimentale………..67
6. Materiali e metodi……….68
6.1 Soggetti………....68
6.2 Valutazione psicometrica……….………...69
6.3 Analisi Statistica………..73
2
7.1 Analisi descrittiva dei punteggi ottenuti ai test psicometrici nei gruppi
sperimenta……….75
7.2 Test psicometrici per la valutazione della sfera affettiva………...77
7.3 Test psicometrici per la valutazione del sonno………..79
7.4 Valutazione dello stress percepito e di come la reattività allo stress inficia il sonno………...81
8. Discussione………...83
9.
Appendice………...87
9.1 La sindrome dell’intestino irritabile (SII)
……….……87
9.2 Scale psicometriche
………94
3
Abstract
Lo scopo principale di questa tesi di laurea è quello di affrontare, sia sul piano teorico che su quello sperimentale, il ruolo degli aspetti metacognitivi nello sviluppo e nel mantenimento dell'insonnia psicofisiologica (PI). A questo si è affiancata la valutazione di come tali aspetti possano giocare un ruolo altrettanto importante nell'insorgenza e nel mantenimento dell'insonnia, in pazienti affetti da sindrome dell'intestino irritabile (IBS). Inoltre è stato valutato il ruolo della reattività allo stress sia negli insonni che nei pazienti IBS, essendo quest'ultima una patologia classicamente appartenente ai disturbi psicosomatici correlati allo stress. L'ipotesi dello studio si basa sul fatto che la dimensione metacognitiva sia un tratto distintivo, non necessariamente legato allo stress, dell'insonnia psicofisiologica e non del sonno disturbato. Questo lavoro di tesi si articola in due parti distinte: a) revisione dei principali studi presenti in letteratura; b) fase sperimentale di valutazione degli aspetti meta cognitivi e della reattività allo stress in una popolazione di pazienti affetti da insonnia psicofisiologica e sindrome dell'intestino irritabile.
Il campione di studio era costituito da pazienti con PI (n=25 soggetti) e pazienti affetti da IBS (n=26 soggetti). I soggetti sono stati sottoposti ad una batteria di test psicometrici che ha permesso di valutare: la presenza o l’assenza dell’insonnia e la sua relativa gravità, la presenza o l’assenza degli aspetti metacognitivi, come la reattività allo stress possa o meno inficiare il sonno, la presenza della sintomatologia depressiva e ansiosa, la presenza di un tratto di personalità ansioso, e lo stress percepito. Sulla base del punteggio ottenuto al test per la valutazione della qualità del sonno, i pazienti IBS sono stati ulteriormente suddivisi in: soggetti con sindrome dell’intestino irritabile senza disturbo del sonno, IBS (NI), e con disturbo del sonno, IBS (I).
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I risultati dei test psicometrici hanno evidenziato che i pazienti PI rispetto ai pazienti IBS (NI) mostravano valori significativamente maggiori nei test che valutano: la presenza del disturbo del sonno (PSQI), la severità dell'insonnia (ISI), la presenza degli aspetti metacognitivi nel mantenimento dell'insonnia (MCQ-I), di come la reattività allo stress infici il sonno (FIRST), la percezione dello stress (PSS). Al contrario, dal confronto tra i pazienti affetti da insonnia psicofisiologica e i pazienti con sindrome dell'intestino irritabile senza disturbi del sonno, i pazienti PI riportavano valori significativamente maggiori nel test MCQ-I. Tuttavia, non emergono differenze significative per quanto concerne i test psicometrici più prettamente legati alla sfera affettiva (SAS, ansia di stato; BDI, depressione; STAI, ansia di tratto). Da questo lavoro di tesi emerge che la sindrome dell'intestino irritabile non sia associata necessariamente a disturbi del sonno, sebbene alcune evidenze sperimentali indichino il contrario. Per quanto concerne la valutazione dello stress, ciò che si evidenzia è che i soggetti affetti da insonnia psicofisiologica erano caratterizzati da una maggior reattività allo stress ed una maggiore percezione dello stress rispetto ai pazienti con sindrome dell'intestino irritabile senza disturbi del sonno; al contrario, tale differenza non si riscontrava nei pazienti dove l'IBS era associato a disturbi del sonno. Il ruolo dello stress evidenziabile unicamente nell'insonnia psicofisiologica è legato al fatto che tale patologia non è derivabile da altre patologie internistiche o psichiatriche, bensì l'avvio del disturbo è da ricercarsi nella presenza di varie forme di stressor di natura emotiva.
Alla luce dei risultati ottenuti nel test MCQ-I, emerge che la metacognizione sia un tratto esclusivo degli insonni e non del sonno disturbato in generale.
In conclusione, questo lavoro di tesi mette in luce due aspetti fondamentali legati al sonno disturbato:
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1) lo stress è in grado di alterare il sonno in modo aspecifico come indicato dai punteggi del FIRST nei pazienti PI e IBS (I);
2) gli aspetti metacognitvi caratterizzano in modo selettivo la dimensione tratto solo dei pazienti con insonnia psicofisiologica.
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Introduzione
In generale, lo scopo di questo lavoro di tesi è quello di fornire ulteriori dati a sostegno del ruolo degli aspetti metacognitivi sia nello sviluppo che nel mantenimento dell’insonnia psicofisiologica (PI). In particolare, questo lavoro di tesi è la prosecuzione di un percorso di ricerca clinica iniziata durante il corso di studio triennale in Scienze e Tecniche di Psicologia della Salute che ha permesso di pubblicare un lavoro scientifico sui rapporti tra aspetti metacognitivi ed insonnia in pazienti PI (Palagini et al., 2014). Oltre alla dimensione metacognitiva, ciò che ha mosso il presente lavoro di tesi, è stato valutare se e come gli aspetti metacognitivi potessero giocare un ruolo altrettanto importante anche nello sviluppo e nel mantenimento di un sonno disturbato in condizioni cliniche in cui lo stress gioca un ruolo cruciale, come ad es. nella sindrome dell’intestino irritabile (SII). La scelta di analizzare, accanto ad un gruppo di soggetti con PI, un gruppo di soggetti con SII, nasce dall’evidenza presente in letteratura di una forte correlazione tra la sindrome dell’intestino irritabile e la presenza di sonno disturbato (Bellini et al., 2011). Questo lavoro di tesi si inserisce nell'ambito delle ricerche volte, da un lato, ad analizzare la relazioni tra sonno disturbato e SII, dall'altro a valutare se gli aspetti metacognitivi si confermano essere un tratto stabile dell’insonnia psicofisiologica (Palagini et al., 2014) o possano essere estesi anche al sonno disturbato. Inoltre si è verificato se la reattività allo stress valutata mediante il FIRST (Ford Insomnia Response to Stress) (Drake et al., 2004) e gli aspetti metacognitivi valutati con l’MCQ-I (Metacognitions Questionnaire Insomnia) (Waine et al., 2009) nel gruppo di pazienti affetti da insonnia psicofisiologica possano essere presenti, e con quali differenze, in un gruppo di pazienti affetti da sindrome dell’intestino irritabile. Questo lavoro di tesi si articola in due parti distinte, una parte teorica ed una sperimentale condotta presso l’ambulatorio dei
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disturbi Funzionali e Motori dell’Apparato Digerente, dell’Unità Operativa di Gastroenterologia dell’Ospedale di Cisanello, e presso l’ambulatorio dei Disturbi del Sonno dell’Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’ospedale Santa Chiara, dall'ottobre 2012 al luglio 2014. La parte teorica si articola in quattro capitoli. Il primo capitolo si occupa di definire lo Stress (Cannon, 1929; Selye 1936; Lazarus and Folkman, 1984) e di valutarne gli aspetti molecolari, ormonali ed infiammatori,
il secondo capitolo analizza l’interazione che intercorre tra sonno e stress, con particolare riferimento al ruolo svolto dello stress nel sonno ad onde lente (Gemignani et al., 2010). Nel terzo capitolo viene data una definizione teorica e diagnostica dell’insonnia psicofisiologica (The International Classification of Sleep Disorders: Diagnostic & Coding Manual. American Academy of Sleep Medicine; Revised edition, 1997; Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-IV-TR; Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, American Psychiatric Association; 4th edition, 2000) e viene valutata l’interazione tra lo stress e il disturbo stesso (Perlis et al., 1997; Spielman, 1991), ed il ruolo cruciale che gli aspetti metacognitivi rivestono sia nello sviluppo che nel mantenimento di esso (Espie et al., 2006; Wells, 2000; Waine et al., 2009). Infine nel quarto capitolo
viene affrontata l’interazione tra la sindrome dell’intestino irritabile ed il sonno disturbato (Fass et al., 2000; Corney et al., 1990; Nyhlin et al., 1993; Elsenbruch et al., 1999; Elsenbruch et al., 2002; Jarret et al., 2000; Goldsmith and Levin, 1993), andando nello specifico a valutare i rapporti bidirezionali tra queste due condizioni (Orr, 2000; Goldsmith and Levine, 2000; Jarret et al., 2000), ponendo attenzione al ruolo centrale giocato dallo stress nello sviluppo della sintomatologia gastrointestinale (Mayer, 2000). La seconda parte, composta dalle ipotesi, dallo scopo, dai materiali e metodi, dai risultati e dalla discussione si occupa di
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descrivere la ricerca condotta e di confrontare quanto ottenuto dai nostri risultati con i dati sperimentali presenti in letteratura.
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1. Lo Stress: una definizione teorica
Lo stress viene abitualmente definito come un pericolo o una minaccia, reale o
presunta, all’omeostasi del soggetto ed è solitamente associato ad eventi negativi che possono andare ad inficiare tanto la salute psicologica che fisica di un
individuo. Da quando è stato teorizzato, molte sono le definizioni di stress che
sono state ipotizzate inerenti sia alle risposte psicofisiologiche (Cannon, 1929;
Selye 1936; Lazarus and Folkman, 1984), che agli eventi stressanti in sé (Holmes
and Rahe, 1967; Kemeny, 2003). Nel 1929 Cannon introdusse il concetto di
omeostasi, intendendo l’equilibro dinamico mantenuto da relazioni biochimiche complesse, osservabile tra i diversi sistemi fisiologici nell’organismo. Tale equilibrio, secondo la sua teorizzazione, poteva essere alterato da qualsiasi
cambiamento ambientale. Cannon, fu anche il primo a sottolineare lo sviluppo di
una relazione funzionale tra determinate reazioni fisiologiche ed emozioni,
analizzando la paura e la rabbia, arrivò a teorizzare nel 1929, la cosiddetta
“risposta di attacco o fuga”, la quale sostiene che successivamente alla presenza di uno stimolo minaccioso, l’organismo si attiva mobilitando risorse fisiche ed ambientali al fine di far fronte alla situazione in modo efficace (Cannon, 1929;
Cooper and Dewe, 2004). Sempre nella sua teorizzazione Cannon, sostiene che
la reazione di attacco o fuga sia associata anche ad una serie di modificazioni
fisiologiche aspecifiche che andrebbero a sopprimere l’attività del sistema nervoso parasimpatico e ad aumentare quella del sistema simpatico, al fine di permettere
all’individuo di possedere le risorse necessarie per scappare o affrontare la situazione minacciosa. Nel 1936 Selye, riprese ed approfondì la teoria di Cannon,
sostenendo che lo stress fosse una risposta aspecifica ed indipendente dalle
caratteristiche della situazione stressante; a tale proposito egli definì l’insieme delle reazioni fisiologiche conseguenti all’attivazione dell’asse
ipotalamo-ipofisi-10
surrene (HPA) in risposta alla situazione stressante, con il termine di “Sindrome generale di adattamento” (Figura 1).
Essa prevede tre diverse fasi:
1. Fase di allarme: comprende una fase di shock (in cui si attiva l’asse HPA) ed una fase di contro-shock in cui la precedente attivazione fisiologica
tende a tornare ai livelli basali;
2. Fase di resistenza: è la fase in cui il soggetto si adatta alla situazione stressante, laddove essa perdurasse nel tempo l’organismo non riuscirà a ristabilire l’equilibrio fisiologico e rimarrà in uno stato di iperarousal;
3. Fase di esaurimento: può verificarsi la compromissione di uno o più organi in seguito all’iperattivazione fisiologica che non viene ripristinata, o nei casi più estremi portando alla morte dell’individuo
Attraversando queste tre fasi il soggetto può adattarsi all’ambiente in modo più o meno funzionale (Selye, 1936; Biondi e Pancheri, 1999).
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Secondo Selye, lo stress non solo costituisce una risposta aspecifica e adattiva
all’ambiente, ma viene visto come una parte integrante della vita stessa del soggetto, tanto che Selye sostiene che “la completa libertà dallo stress, è la morte”.
Lo stress può essere classificato in base alla sua connotazione positiva (eustress)
o negativa (distress), mentre gli eventi stressanti vengono suddivisi in interni ed
esterni (Holmes and Rahe, 1967; Paikel, 1997).
Questa prospettiva teorica dominò l’orizzonte psicologico fino al momento in cui Lazarus nel 1966 (Lazarus, 1966), attraverso studi condotti sull’uomo, notò che la risposta allo stress non fosse aspecifica, come definita precedentemente da
Selye, ma variasse da soggetto a soggetto e potesse essere compresa
esclusivamente analizzando l’interazione del soggetto con il suo ambiente. Nella prospettiva di Lazarus e Folkaman (Lazarus e Folkman, 1984), di fondamentale
importanza, risultava essere la valutazione cognitiva che il soggetto attuava nei
confronti di se stesso e del proprio ambiente (in termini di desiderabilità e
controllabilità), egli riconobbe tre diverse tipologie di valutazione cognitiva:
1. Valutazione primaria: definita come lo stress percepito in termini di urgenza, rilevanza, positività o negatività rispetto al proprio benessere;
2. Valutazione secondaria: definita come controllo percepito, qui il soggetto valuta le sue risorse per far fronte alla situazione stressante;
3. Re-appraisal: il soggetto analizza i feed-back ricevuti dall’ambiente e decide se le strategie di coping utilizzate sono risultate efficaci o meno.
Ecco che, nel 1984 i due autori definiscono lo stress come “una transazione tra l’individuo ed il suo ambiente vissuto come strabordande le risorse del soggetto”.
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Il merito maggiore di questa teoria risiede nell’avere evidenziato, per la prima volta, che l’attivazione fisiologica ed emozionale innanzi a stimoli stressanti, non può prescindere dalla valutazione cognitiva che il soggetto attua analizzando sia il
livello di minaccia, che le proprie risorse personali per far fronte alla situazione
(Biondi and Pancheri, 1999).
La risposta dell’organismo innanzi a situazioni stressanti viene definita come tutte quelle reazioni comportamentali e fisiologiche che devono essere attuate per far
fronte a tutti quegli stressor che cercano di perturbane l’omeostasi. Per riuscire a far fronte alle sollecitazioni degli stressor, il soggetto dovrà apportare dei
cambiamenti che sono sostenuti da sistemi di alto livello di integrazione che
generano una risposta adattiva detta allostasi, la quale comporterà dei
cambiamenti comportamentali e sistemici volti allo sviluppo di una migliore
capacità omeostatica del soggetto che andrà ad aumentare le sue possibilità di
sopravvivenza (Sterling and Ever, 1988).
McEwen sostiene che l’allostasi sia un procedimento volto al mantenimento dell’omeostasi, ovvero “il mantenimento della stabilità attraverso il cambiamento” (Mc Ewen, 1998). Tale cambiamento renderebbe perciò il soggetto funzionante,
consentendogli un rapido adattamento innanzi ad un ambiente in continuo
cambiamento.
Questa risposta adattiva utilizza diversi mediatori chimici (tra cui le citochine, i
glucocorticoidi e l’adrenalina) che svolgono la loro funzione su specifici recettori posti in diversi organi e apparati, e deriva dall’attività connessa del sistema nervoso centrale (SNC) ed il sistema nervoso autonomo (SNA), del sistema
simpatico-midollare del surrene (SAM), dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA), e del sistema immunitario/pro infiammatorio (Sterling and Ever, 1988).
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Quando questa condizione di allostasi tende a protrarsi nel tempo, come accade
innanzi a stress cronici, il soggetto può trovarsi a pagare costi molto alti per il suo
organismo, è questo il caso del cosidetto “carico allostatico”, il quale è costituito da una iperattivazione dei mediatori chimici sopraelencati sulle rispettive cellule target
che, nel tempo, porta a danno tissutale e desensibilizzazione cellulare (Mc Ewen,
1998; Mc Ewen, 1993; Mc Ewen 2006). Perciò, gli effetti a lungo termine del carico
allostatico sono costituiti da serie e drammatiche conseguenze per la salute
dell’individuo, tra le quali l'insorgenza di Ansia, Depressione, Insonnia, e varie patologie di natura psicosomatica, come malattie reumatologiche, cardiologiche,
metaboliche, autoimmuni e respiratorie.
1.1 Lo stress: componenti ormonali, molecolari ed infiammatorie
Il nostro cervello non solo svolge un ruolo cruciale nella valutazione degli eventi
stressanti e delle risorse disponibili al soggetto per farne fronte, ma costituisce
anche il principale bersaglio dell’attività dei mediatori dello stress (citochine e glucocorticoidi). Indipendentemente dalla natura dell’evento stressante o dalla più o meno cronicità, la risposta del cervello all’evento stressante deve essere inserita e valutata all’interno della plasticità adattiva; a questo proposito recentemente alcuni studi condotti sulla formazione ippocampale, hanno contribuito a spiegare
come la plasticità neuronale possa essere regolata sia dall’attività immunitaria/proinfiammatoria, sia dai livelli ormonali, durante tutto lo sviluppo fino
all’età adulta. Attraverso la scoperta della grande quantità di recettori per i glucocorticoidi localizzati nella formazione ippocampale, molto studi si sono
focalizzati sul ruolo svolto dall’ippocampo come possibile regione target dello stress a livello cerebrale (De Kloet et al., 1975). Molti lavori presenti in letteratura
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citochine che vanno ad alterare sia il funzionamento che la struttura
dell’ippocampo stesso (Mc Ewen, 2006; Joels et al., 2007).
Per quanto riguarda l’aspetto morfologico è stato osservato come elevati livelli di glucocorticoidi e di citochine comportino una riduzione del volume ippocampale,
con conseguente riduzione della neurogenesi (NG) (la capacità di formare nuovi
neuroni) e alterazioni del trofismo dendritico (Mc Ewen, 2006; Joels et al., 2007).
Dal punto di vista prettamente funzionale lo stress cronico è stato tipicamente
associato ad una riduzione dell’eccitabilità ippocampale e della Long Term Potentation (LTP, potenziamento a lungo termine) che presenta come conseguenza primaria l’alterazione della funzione mnestica ippocampale (Joels et al., 2007; Kim and Diamond, 2002).
Attraverso il trattamento con gli inibitori del rilascio di glucocorticoidi è stata
osservata una minore se non nulla atrofia dendritica stress-correlata (Mc Ewen
and Sapolsky, 1995), questi dati indicano che i glucorticoidi endogeni risultano
essere i responsabili principali delle alterazioni morfologiche a livello cerebrali
correlate allo stress. Negli ultimi anni è stato ipotizzato che la ridotta neurogenesi
ippocampale sia il meccanismo fisiopatogenico alla base di vari disturbi mentali
associati allo stress, come disturbo postraumatico da stress (DPTS) e depressione
(Duman et al., 2000; Jacobs et al., 2000). Alla base di questa ipotesi è possibile
riscontrare gli effetti negativi indotti dall’aumento plasmatico dei livelli di cortisolo e di diverse interleuchine pro infiammatorie (che risultano tipicamente aumentate nel
DPTS e nella Depressione) sulla neurogenesi ippocampale e sul trofismo
dendritico (Mc Ewen, 2003).
Con l’arrivo della “Endofenotipia” sono state introdotte le differenze genetiche multifattoriali individuali come un nuovo aspetto della risposta allo stress, esse
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effetti negativi dei mediatori chimici dello stress (Hasler et al., 2004). Una
particolare attenzione, nei tempi recenti, è stata data ad alcuni aspetti associati all’ espressione dei recettori del cortisolo e ad alcuni fattori di crescita come il BDNF,
e al funzionamento del sistema serotoninergico (Wurtman, 2005; Lavebratt et al.,
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2. Interazione tra sonno e stress
Un esempio di carico allostatico è costituito dalla restrizione o dalla deprivazione di sonno, perché entrambe le condizioni portano da un lato ad alterazioni tipiche dello stress e dall’altro a condizioni che possono essere scatenate dallo stesso, come ad esempio la depressione (Novati et al., 2008). Diversi studi hanno
evidenziato come la restrizione cronica del sonno o la sua alterazione possano
interferire in modo selettivo con l’attività ippocampale andando ad inibire la neurogenesi e, in accordo con la neurogenesis hypothesis, a coadiuvare almeno
in parte l’eziologia della depressione (Meerlo et al., 2009; Roman et al., 2005; Mirescu et al., 2006; Mueller et al., 2008); mentre la restrizione del sonno
delimitata ad una sola notte prevenga l’intensificazione di neurogenesi, solitamente associata ad apprendimenti ippocampo dipendenti (Hairston et al.,
2005).
Diversi studi hanno inoltre dimostrato come la deprivazione di sonno circoscritta
ad una sola notte possa avere un effetto sul livello basale di sopravvivenza e di
proliferazione delle cellule a livello dell’ippocampo (Roman et al., 2005); anche se i meccanismi neurobiologici alla base di questa risultano, ad oggi, ancora
parzialmente sconosciuti.
Una proposta a riguardo prende in considerazione la possibilità che l’effetto inibitorio esercitato dalla restrizione di sonno nella formazione di nuovi neuroni
possa essere sorretto da un effetto indiretto connesso ad un aumento dei livelli di
stress e in particolare dall’ effetto dei glucocorticoidi (Mirescu et al., 2006; Mueller et al., 2008).
È stato infatti osservato che:
1. La frammentazione prolungata del sonno si associ all’alterazione del funzionamento dell’asse HPA (Novati et al., 2008);
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2. Ridotti livelli plasmatici di glucocorticoidi possano eludere la distruzione
della neurogenesi ippocampale dovuta alla deprivazione di sonno (Mirescu
et al., 2006).
Molti fattori possono essere influenzati e modulati dalla deprivazione di sonno oltre
ai glucocorticoidi, come ad esempio un incremento dei livelli plasmatici delle
interleuchine proinfiammatorie, come IL-6 e il tumor necrosis factor (TNF) (Haack
et al., 2007; Imeri and Opp, 2009), correlata con la riduzione di neurogenesi.
A tale proposito sono stati riscontrati elevati livelli plasmatici di IL-6 in pazienti
affetti da depressione (Dinan, 2009) e da insonnia primaria (Burgos et al., 2006).
Attraverso numerosi studi in vitro è stato possibile osservare come sia IL-6 che
TNF siano responsabili di una diminuzione della neurogenesi, andando perciò ad
identificare il ruolo chiave che queste citochine possono rivestire almeno in parte
nella mediazione degli effetti negativi della neuroinfiammmazione sulla
neurogenesi ippocampale in vivo (Monje et al., 2003).
Sebbene l’associazione tra stress e sonno sia stata ampiamente studiata, è solo a partire dagli anni ’80 con Weitzman che si è andati a delineare un approccio più scientifico e sistemico; egli evidenziò che uno dei bersagli principali dello stress
fosse costituito dal sonno, e più specificatamente dal sonno ad onde lente o slow
wave sleep (SWS, stadi 3 e 4 del sonno NREM) (Weitzman et al., 1983).
Le relazioni tra sonno e HPA inizialmente, sono emerse attraverso studi di
modulazione dell’attività dell’asse HPA in mancanza di eventi o condizioni stressanti. È stato possibile osservare, a tale proposito, come nel modello animale
la somministrazione di corticotropina (CRH) induca un aumento dello stato di
veglia in seguito ad un effetto eccitatorio su diverse strutture sottocorticali tra cui
l’amigdala, l’ippocampo, il locus coeruleus ed alcuni nuclei ipotalamici. Nei modelli sperimentali umani è stato possibile osservare come la somministrazione di
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glucocorticoidi sintetici o di corticotropina (CRH) fosse correlata ad un incremento
dei livelli di arousal, associato a riduzione del sonno profondo (fase 3 e 4 del
NREM), iperattivazione neurovegetativa (Vgontzas and Chrousos, 2002) e ad un
aumento dell’espressione di alte frequenze elettroencefalografiche (Buckley and Schatzberg, 2005; Buckley and Schatzberg, 2005), correlate perciò ad un sonno
superficiale e frammentato.
In accordo con quanto appena descritto, alcuni lavori presenti in letteratura
mostrano una correlazione significativa tra stress, arousal notturno e cortisolo ed
una correlazione negativa tra alti livelli di cortisolo presenti nel sonno NREM e la
slow wave activity (SWA, potenza spettrale in banda delta) (Ekstedt et al., 2004). È stato inoltre dimostrato come gli effetti della corticotropina (CRH) siano
dipendenti dall’età, poiché mentre nei soggetti giovani è stata riscontrata una relativa resistenza agli effetti del CRH, nei soggetti anziani è stata evidenziata una
maggiore riduzione dello slow wave sleep ed un maggiore incremento della veglia
infrasonno associati agli effetti del CRH (Vgontzas et al., 2001); da quanto appena
detto è così possibile ipotizzare che la vulnerabilità e la maggiore instabilità del
sonno profondo aumenti con l’avanzare dell’età e questo potrebbe fornirci la spiegazione del motivo per cui l’insonnia sia maggiormente incidente nella popolazione anziana rispetto a quella giovane.
Per quanto riguarda gli effetti che il cortisolo esercita sul sonno essi risultano
molto complessi perché possono sovrapporsi sia effetti diretti mediati dai due tipi
di recettori (GR per i glucocorticoidi, MR per i mineralcorticoidi) che effetti indiretti
correlati al feedback inibitorio della secrezione del CRH, oltre all’orario in cui il cortisolo (ormone con proprietà circadiane) viene somministrato (Buckley and
Schatzberg, 2005; Buckley and Schatzberg, 2005). Per quanto riguarda i dati sugli
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condotti su soggetti sani hanno messo in luce come le alterazioni del sonno REM
(minore latenza e maggiore durata) siano associate all’esposizione a stress acuti maggiormente rispetto alle alterazioni del sonno NREM (Vandekerckhove and
Cluydts, 2010), in altri studi invece non è stata rilevata nessuna modificazione
(Cartwright et al., 1998). Per spiegare tale incongruenza nei risultati potrebbe
essere utilizzata la differente reattività psicofisiologica individuale costituita dalle
diverse strategie di coping attraverso cui l’individuo risponde e affronta l’evento stressante andando ad attivare, di rimando, l’asse HPA e il SAM (Sympathetic Adrenal Medullary System) (Germain et al., 2003). L’esposizione a stress cronici, a differenza di quanto avviene nel caso di stress acuti, è sempre associata ad
alterazioni del sonno REM quali l’aumento del primo periodo di REM, della durata totale e della densità dei movimneti oculari (Pillar et al., 2000). Nel 1997 Cheeta e
collaboratori a proposito di uno studio sugli effetti che lo stress cronico aveva sul
sonno dei ratti scrivevano: “The changes in REM sleep included increases in the duration of and transitions into REM sleep [...], and most importantly, a reduced latency to the onset of the first REM period [...]. These sleep abnormalities, and in particular the decrease in REM latency, are consistent with those reported in endogenous depression [...]” (Cheeta et al., 1997). Le alterazioni del sonno REM dovute allo stress sono risultate fondamentali per associare il sonno allo stress da
un lato e il sonno con alterazioni psicopatologiche della sfera affettiva dall’altro; a tale proposito sia la diminuzione della latenza che l’incremento della densità del sonno REM sono risultate associate con un ipertono colinergico centrale, assoluto
o relativo, che è ritenuto parte integrante della fisiopatologia della depressione
(Figura 2, Tabella 1) (Janowsky et al., 1972; McCarley, 1982).
Recentemente, alcune evidenze sperimentali hanno indicato che, le strutture
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siano attivate, durante il sonno, in modo tonico, da gruppi neuronali facenti parte
del complesso amigdaloideo (Luppi et al., 2004).
L’amigdala è una struttura che gioca un ruolo cruciale nella modulazione delle risposte emotive, specialmente di paura, e risulta iperattiva durante veglia
(Drevets, 2001) e nel sonno dei pazienti depressi (Nozfinger et al., 2004).
La disfunzione del complesso amigdaloideo è ritenuta responsabile delle
alterazioni della sfera affettiva ma, oltre a questo, potrebbe contribuire nel
determinare le alterazioni del sonno REM tipiche della risposta di stress o della
patologia depressiva.
Figura 2. Modificazioni della latenza e della densità REM e dei correlati di attività neuronale nel disturbo depressiva. A) Latenza REM (linea nera) e densità REM (area bianca)
nel soggetto normale. B) Latenza REM (linea nera) e densità REM (area bianca) nel paziente depresso. Notare l’accorciamento della latenza e l’aumento della densità REM rispetto al soggetto normale. C) Rappresentazione schematica delle dinamiche temporali di attività dei sistemi neuronali che attivano il sonno REM (REM-on, colinergici; linea nera sottile) e di quelli che lo inibiscono (REM-off, aminergici; linea tratteggiata) secondo il classico modello neuronale di McCarley (McCarley, 1982). D) Rappresentazione schematica dell’ipertono colinergico (linea nera spessa) assoluto o relativo, che, secondo l’ipotesi di Janowsky et al (Janowsky et al., 1972) e McCarley (McCarley, 1982), sottende le modificazioni del sonno REM (riquadro B) nel paziente depresso (Tratto da Guazzelli and Gemignani, dati non pubblicati).
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Continuità del sonno Latenza sonno
Risvegli (n°)
Tempo totale di sonno
Macroarchitterura del sonno Sonno Delta (%)
Sonno REM (%)
Latenza REM
Densità REM
Durata e Densità del sonno REM nel primo periodo REM
Microarchitterura del sonno Incidenza delle onde delta
durante il sonno REM
Distribuzione dell’attività delta
negli episodi NREM
Alterata
Coerenza trans-emisferica
Tabella 1. Principali modificazioni del pattern di sonno nel paziente depresso (Tratto da
Guazzelli and Gemignani, dati non pubblicati).
2.1 Sonno ad onde lente
Gli effetti omeostatici del sonno sono legati ad ampie e lente oscillazioni (<1Hz)
del potenziale di membrana dei neuroni corticali (Steriade et al., 1993), tali
oscillazioni originano principalmente nelle regioni prefrontali e costituiscono la
caratteristica peculiare del sonno ad onde lente (SWS) (Amzica and Steriade
1998; Massimini et al., 2004; Menicucci et al., 2009). Negli studi del gruppo di
Mircea Steriade effettuati in animali che dormono naturalmente è stato dimostrato
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a circa –65mV (Steriade et al., 1993; Steriade, 2006), mentre durante il sonno ad onde lente il potenziale diventa bifasico presentando delle armoniche oscillazioni
tra –85mV e –65mV. Mircea Steriade definì tale comportamento con il termine di slow oscillation il quale rappresenta il fenomeno cellulare basale del sonno ad onde lente. Il sonno ad onde lente è costituito da periodi detti di up-state (la cui
durata è pari a circa 500 ms) nel quale l’attività di scarica neuronale e sinaptica è sovrapponibile a quella presente nel sonno REM e nella veglia sia in termini di
frequenza che di coerenza spazio-temporale, e di periodi detti di down-state (la cui
durata è pari a circa 500 ms) nel quale l’iperpolarizzazione profonda è associata a silenzio elettrico corticale e perciò all’assenza di qualsiasi attività di network. Mentre l’upstate è sotteso dall’attività sinaptica del glutammato, il downstate è sotteso dall’apertura di specifici canali al K+
(Crunelli et al., 2006; Crunelli and
Hughes, 2010; Destexhe et al., 2007). Tale oscillazione origina a livello corticale, è
stato infatti dimostrato che persiste anche successivamente alla talamectomia,
che coinvolge tutti i neuroni corticali tanto inibitori quanto eccitatori (Amzica and
Steriade, 1998); l’oscillazione lenta del sonno originata a livello corticale viene successivamente trasmessa a strutture sottocorticali tra cui l’ippocampo, il neostriato, il talamo, il prosencefalo basale e il tronco encefalico (Molle et al.,
2006; Crunelli and Hughes, 2010). Vari gruppi di ricerca hanno identificato il
medesimo comportamento cellulare anche nell’EEG dell’uomo (Massimini et al., Menicucci et al., 2013), tale comportamento costituirebbe il fenomeno
fondamentale che sottende l’attività neurale nello SWS (sonno NREM stati 3 e 4, e sonno delta), i complessi K, i fusi del sonno e le onde delta (Amzica and Steriade,
2002; Laurino et al., 2014). Nell’uomo l’oscillazione lenta del sonno viene definita con il termine di Sleep Slow Oscillation (SSO).
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Nei lavori di Menicucci (Menicucci et al., 2009) e di Massimini (Massimini et al.,
2004) sono state spiegate le seguenti proprietà di base dell’oscillazione lenta del sonno (SSO):
1. L’oscillazione lenta del sonno si comporta come un’onda viaggiante lungo tutto il mantello corticale con una frequenza di una al secondo.
2. Presenta un sito di origine specifico solitamente localizzato nelle regioni
corticali anteriori come ad esempio la corteccia prefrontale, per poi andarsi
a propagare verso le regioni posteriori.
3. Presenta un’elevata riproducibilità tra i soggetti e le notti (Figura 3.1-3.2). Aldilà di queste proprietà dinamiche e spaziali è stata dimostrata anche una
relazione molto stretta tra l’oscillazione lenta del sonno e la plasticità sinaptica che sottenderebbe sia la memoria dichiarativa (Marshall et al., 2006), sia
l’apprendimento implicito (Huber et al., 2004). Tutte queste caratteristiche (spaziali, funzionali e dinamiche) renderebbero perciò l’oscillazione lenta del sonno un fenomeno di cruciale importanza per riuscire a quantificare dal un lato la
qualità del sonno e dall’altro per caratterizzarne alcune funzioni. L’oscillazione lenta del sonno sembra ricoprire, nell’ipotesi che vede il sonno come un possibile modulatore dell’omeostasi sinaptica, un ruolo centrale (Tononi and Cirelli, 2003; Tononi and Cirelli, 2006).
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Figura 3.1. Rappresentazione della struttura della SSO durante il sonno ad onde lente (tratto da Menicucci et al., 2009)
Figura 3.2. Rappresentazione della mappatura corticale dell’oscillazione lenta del sonno SSO, nella fase del sonno ad onde lente.Attraverso la scala colorimetrica (rosso: 10 onde/min; giallo: 6 onde/min; blu: 0-1 onda/min) viene indicata la frequenza e la rilevanza dell’oscillazione lenta del sonno sullo scalpo. Come è possibile osservare essa è massima nelle regioni fronto-centrali (Tratto da Gemignani et al., dati non pubblicati).
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Tale ipotesi sostiene che la funzione del sonno ad onde lente è da ricondursi ad
un fenomeno di down-scaling sinaptico, cioè ad una diminuzione del “peso” sinaptico corticale implicato nel consolidamento delle memorie attraverso una
modulazione fine del rapporto tra segnale e rumore nella circuiteria corticale.
Attraverso il modello sperimentale costituito dalla simulazione del volo umano su
Marte (progetto MARS 500), recentemente, è stato possibile studiare gli effetti
dello stress sulla modulazione del sonno e, nello specifico, sull’oscillazione lenta del sonno, in condizioni ambientali rappresentate da confinamento spaziale e
sociale, da un elevato carico di lavoro, turni ed emergenze. Mediante questo
modello, di indubbio interesse, è stato possibile identificare la stretta relazione
prenosologica riscontrabile tra il sonno, alcune caratteristiche della struttura e
della topologia dell’oscillazione lenta del sonno ed il cortisolo; a tale proposito è stato osservato come una riduzione significativa del riconoscimento
dell’oscillazione lenta del sonno risulti associata ad elevati livelli di cortisolo e di stress percepito, specialmente nelle regioni fronto-centro-parietali (Figura 4)
(Gemignani et al., 2010).
Concludendo, è possibile ipotizzare che un esposizione cronica che perdura nel
tempo ad eventi stressanti possa essere associata a varie modificazione del
pattern di sonno, specialmente quelli legati all’oscillazione lenta del sonno, e che possa condurre verso una condizione costituita da alterazioni della plasticità
neuronale. Riprendendo l’ipotesi di Tononi e Cirelli (Tononi and Cirelli, 2006), l’alterazione significativa del down-scaling sinaptico porterebbe ad un evoluzione esagerata dei livelli sinaptici corticali riscontrati durante il sonno, e perciò a
numerose alterazioni di tutti quei meccanismi neurali che stanno alla base di
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Figura 4. In alto troviamo l’oscillazione lenta del sonno SSO, al centro in blu i valori di cortisolo
urinario pre-sonno (μg/24 h) e in basso in rosso i risultati ottenuti alla PSS (Perceived Stress Scale) da un soggetto partecipante al progetto ARES, all’interno del progetto internazione della simulazione del volo umano su Marte MARS 500. Come si può osservare, la detezione dell’oscillazione lenta del sonno SSO (espressa in onde/min, su scala colorimetrica), risulta influenzata in modo negativo dallo stress. I livelli di cortisolo sono associati ad una ridotta frequenza dell’oscillazione lenta del sonno, e viceversa. I soggetti sono stati valutati mediante studio EEG ad alta densità (128 canali) per una durata totale della simulazione di 105 giorni (Tratto da Gemignani et al., 2010).
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3. Insonnia psicofisiologica
3.1 Classificazione e criteri diagnostici
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’insonnia come un disturbo nell’iniziazione e/o del mantenimento del sonno, oppure come un sonno non ristoratore presente per almeno tre notti alla settimana e associato ad una sensazione di fatica, stanchezza o inefficienza diurna (World Health Organization, 1992).
Da questa definizione si evince che ai fini della diagnosi di insonnia non basta basarsi esclusivamente sul tempo necessario per addormentarsi o sul numero delle ore che si dorme per notte, ma occorre prendere in considerazione anche la sensazione e l’esperienza soggettiva riferita al sonno.
L’insonnia è un disturbo che va ad interferire con la vita diurna, essa compromette il funzionamento fisico, mentale e sociale dell’individuo; i soggetti che ne soffrono vanno infatti incontro a numerosi sintomi diurni tra i quali stanchezza, sonnolenza, difficoltà di concentrazione, perdita di energia e irritabilità fin dalle prime ore del mattino.
L’insonnia viene classificata in diversi modi:
In base alla presenza o assenza di associazione con patologie mediche o
psichiatriche in:
Insonnia primaria o psicofisiologica: quando non è derivabile da altre
patologie psichiatriche o organiche;
Insonnia secondaria: quando diversamente da quella primaria è derivabile
da patologie psichiatriche o organiche.
In base alla manifestazione clinica in:
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Insonnia centrale: sono presenti brevi e frequenti risvegli notturni od un
unico risveglio prolungato;
Insonnia terminale: è presente un risveglio mattutino precoce.
In base alla durata in:
Insonnia acuta: quando si presenta per un numero di notti limitate (2-3
notti); generalmente insorge in situazioni di stress, di jet leg, innanzi ad improvvisi cambi climatici o in particolari trattamenti farmacologici;
Insonnia transitoria: se tende a scomparire entro tre settimane dalla
manifestazione.
Insonnia cronica: il disturbo persiste per una durata superiore ad un mese,
più nello specifico per un periodo di sei o più mesi.
A tale proposito sembra utile ricordare che una delle caratteristiche che distingue principalmente l’insonnia acuta da quella cronica oltre alla durata è anche il modo attraverso cui viene descritta dall’individuo. I soggetti che soffrono di insonnia
cronica non riescono più ad associarla ad un fattore scatenante e ne parlano come se fosse “dotata di vita propria” (Perlis et al., 2012).
Per quanto riguarda invece le manifestazioni cliniche, anche se sono frequenti le forme miste, l’insonnia iniziale risulta spesso associata alla presenza di alti livelli d’ansia che ostacolano l’inizio del sonno, l’insonnia centrale a condizioni ambientali sgradevoli che tendono a frammentare il sonno o a disturbi somatici ed infine l’insonnia terminale ad un disturbo dell’umore sottostante.
Le attuali conoscenze sull’insonnia hanno modificato solo marginalmente i criteri
della sua classificazione, indipendentemente della apparenti differenze terminologiche. Ancora oggi, infatti, i principali sistemi tassonomici, la Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno (ICSD), dell’American Sleep
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Sleep Disorders: Diagnostica & Coding Manual. American Academy of Sleep Medicine; Revised edition, 1997.) e quella dell’American Psychiatric Association (APA), il cui manuale tassonomico (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali - DSM) è giunto nel 2000 alla quarta edizione rivista (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders DSM-IV-TR; Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, American Psychiatric Association; 4th edition, 2000) fanno, ancora oggi, ricorso ai criteri descrittivi di un tempo.
Il DSM- IV-TR inserisce le insonnie primarie di cui ne stabilisce i criteri di durata minima (insonnia primaria e dissonnia non altrimenti specificata) tra i disturbi mentali di asse I, e prevede, differeziandola da questa, anche l’insonnia secondaria che risulta correlata ad un altro disturbo mentale o internistico, rispetto ai quali sembra configurare una condizione di comorbidità.
Il DSM- 5, pubblicato nello scorso maggio in lingua italiana invece, per conferire una maggiore attenzione all’insonnia indipendentemente dalla correlazione che poteva o non poteva presentare con condizioni internistiche e/o psichiatriche, ha eliminato la distinzione tra insonnia primaria ed insonnia secondaria e ha riconosciuto i rapporti bidirezionali tra il disturbo del sonno e le patologie internistiche e/o mentali presenti. Il DSM-5 ha perciò rinominato l’insonnia primaria del DSM-IV TR con il termine di “Disturbo da Insonnia” mentre l’insonnia secondaria è stata integrata, laddove necessario, in “Altri Disturbi del Ciclo Sonno- Veglia”.
Per quanto invece riguarda l’ICSD, vengono distinte le insonnie primarie in: insonnia psicofisiologica, idiopatica e insonnia caratterizzata da alterata percezione del sonno.
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Tutte e tre queste diverse tipologie di insonnia primaria non sono nè riconducibili ad altre condizioni cliniche da cui possano essere derivate, né dalle forme associate ad altre condizioni di natura internistica o psichiatrica.
Indipendentemente dal sistema tassonomico che viene utilizzato al fine della diagnosi sembra che alla base dell’insonnia ci siano un insieme polimorfo di fattori
ambientali, psicosociali, biologici e genetici che interagendo tra di loro si influenzano reciprocamente.
Entrando nello specifico di questa trattazione, andiamo ora a parlare più in dettaglio dell’Insonnia Psicofisiologica (PI). L’insonnia psicofisiologica risulta
essere il più comune sottotipo di insonnia, presente nel 1-2% della popolazione generale, e nel 12-15% di tutti i pazienti osservati nei centri del sonno. In accordo con la nosologia clinica (American Sleep Disorders Association 1997; American Psychiatric Association 1994) ed i criteri diagnostici della ricerca (Espie et al., 2006), i pilastri centrali nella PI sono l'iperarousal e l’appresa associazione sonno-veglia, attraverso la quale i pazienti mostrano un’eccessiva preoccupazione ed un alto livello d’ansia nel momento di andare a dormire. Nell’insonnia psicofisiologica, la primitiva iperattività delle strutture cerebrali che sottendono la veglia diviene
iperarousal abnorme successivamente a particolari eventi di vita, condizioni
ambientali e interazioni sociali. Come precedentemente affermato l’Accademia Americana di Medicina del Sonno (ICSD-R), definisce l’insonnia primaria come "Insonnia Psicofisiologica". La definizione dell’ICSD-R appare direttamente correlata ai fondamenti eziologici della malattia; inquanto, attraverso questa classificazione è possibile valutare sia i fattori scatenanti che avviano il disturbo che il fattori di mantenimento che lo cronicizzano. Come è ben noto, l’avvio del disturbo è da ricercarsi nella presenza di varie tipologie di stressor emotivi (psicologici, sociali o medici), il fatto che il disturbo invece permanga nonostante la
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risoluzione degli eventi scatenanti è dato dall’instaurarsi di un’iperattivazione psicofisiologica notturna e da un condizionamento negativo sia verso il sonno che verso la camera dal letto che viene associata, attraverso condizionamento classico, alla veglia. L’insonnia psicofisiologica viene quindi descritta come un disturbo derivato da una “tensione somatizzata” e dall’instaurarsi di un “comportamento appreso che va ad ostacolare il sonno”. Tutta l’attenzione del
paziente verrebbe perciò rivolta sulla sua incapacità di dormire, e questo va a costituire proprio il tratto specifico caratteristico di questo tipo di insonnia, legata appunto ad associazioni apprese che impediscono il sonno.
Il termine “tensione somatizzata” si riferisce ad uno stato di tensione e di iperarousal che il paziente manifesta nel momento di andare a dormire; può essere sia vissuta soggettivamente dal paziente, che rilevata mediante misurazioni obiettive. Associata a questa iperattivazione si riscontra anche un’attivazione del sistema nervoso periferico, con un aumento della tensione muscolare, della frequenza cardiaca, della sudorazione, etc. Quando si parla, invece, di “comportamenti appresi che impediscono il sonno”, si fa riferimento all’aumento della vigilanza dell’individuo che viene innescata dall’ambiente della camera da letto attraverso condizionamento classico, e che precede il momento di coricarsi. A tale proposito, le idee, i pensieri ossessivi e le ruminazioni che si presentano al momento di andare a dormire vengono interpretati come un indice di ipervigilanza (Perlis, 2012). A questi fattori di ipervigilanza sono riconducibili, inoltre, sia la reattività emotiva che la ruminazione ansiosa caratteristiche dei pazienti affetti da disturbi d’ansia, anche se in questo caso rimangono sottosoglia e al di fuori dell’ambito tassonomico.
Diversi modelli sono stati utilizzati per valutare come gli aspetti metacognitivi attivati nell’insonnia psicofisiologica, ed implicati sia nella tensione somatizzata
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che nei comportamenti appresi che impediscono il sonno, siano centrali e caratteristici di tale disturbo. Tra essi troviamo “Il modello della funzione esecutiva di autoregolazione” (S-REF, proposto da Wells), un modello utile a spiegare il motivo per il quale i pensieri intrusivi o le ruminazioni che si presentano nel periodo precedente l’addormentamento interferiscono con esso (Wells, 2000; Wells and Matthews, 1994, 1996). Secondo Wells, la S-REF viene attivata quando il soggetto sente di essere sveglio mentre desidererebbe dormire. Le informazioni inerenti al proprio corpo, al proprio pensiero e quelle provenienti dal mondo esterno, vengono automaticamente vissute come intrusive. I soggetti insonni che si percepiscono svegli nel momento dell’addormentamento presentano pensieri intrusivi di varia natura riferiti a: il rumore, i pensieri inerenti il sonno, le pianificazioni per riuscire ad addormentarsi e la sensazione di essere sveglio. Tali pensieri intrusivi costituiscono una forma di attivazione psciofisiologica che indurrebbe il soggetto ad attivarsi nel momento dell’addormentamento (Wells, 2000). Il S-REF permettere perciò di fornire una spiegazione teorica all'emergenza dei pensieri intrusivi persistente nell'insonnia primaria. Sono state identificate due diverse tipologie di credenze metacognitive che potrebbero agire mediante la S- REF in risposta a stimoli intrusivi, esse sono:
1. credenze inerenti il significato delle intrusioni (ad esempio: pensare a letto mi impedirà di dormire);
2. piani che guidano e danno forma a queste cognizioni (ad esempio: prima di dormire dovrei controllare e spengere i miei pensieri).
Appare utile ricordare come queste diverse tipologie di credenze e di piani specifici che spesso si associano tra di loro (come ad esempio le strategie di controllo del pensiero, lo sforzarsi di dormire, le tendenze a dislocare la propria attenzione) rivestano un'importanza cruciale nel mantenimento dell’insonnia
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primaria (Broomfield et al., 2005). A tale proposito risulta importante sottolineare che non sempre l’attività cognitiva che precede l’addormentamento viene esperita come intrusiva (Wicklow and Espie, 2000), questo accade solo quando si trova in disaccordo con le credenze metacognitive dell’individuo. Diverse evidenze supportano l’ipotesi che le credenze metacognitive e i piani d’azione ad esse associati siano caratteristici dell’insonnia primaria. È stato dimostrato che i pazienti affetti da insonnia primaria si impegnano ad attuare diverse strategie di controllo del pensiero durante la notte (Ellis and Cropley, 2002; Harvey, 2001; Ree et al., 2005), tali strategie di controllo tenderebbero però ad aumentare la probabilità di nuove intrusioni (Wegner, 1994) e a rafforzare il disturbo del sonno. Oltre a questo, sappiamo anche che, i pazienti insonni si sforzano maggiormente di dormire per soddisfare il loro desiderio e la loro necessità di sonno andando a controllare in modo ansioso l’avvio del sonno (Broomfield and Espie, 2005), e che si concentrano in modo selettivo sugli stimoli interni ed esterni che sono pertinenti con questa loro ansia. Questo dato ha trovato conferma sia attraverso ricerche condotte mediante la somministrazione di questionari (Semler and Harvey, 2004a), sia attraverso lavori sperimentali (Espie et al., 2006; Marcetti et al., 2006). Il controllo del pensiero, lo sforzo volto all’addormentamento e l’attenzione selettiva agli stimoli interni o esterni sono stati tutti stati con la latenza del sonno (Ansfield et al., 1996; Harvey, 2003a; Semler and Harvey, 2004b). Recentemente, in uno studio pilota condotto da Palagini e collaboratori (Palagini et al., 2014) su un gruppo di pazienti affetti da PI ed un gruppo di controllo di pazienti ipertesi con Sindrome dell’Apnee Notturne (OSAS), è stato dimostrato che gli aspetti metacognitivi costituiscono un tratto specifico e caratteristico solo dell’insonnia psicofisiologica e non del sonno disturbato in generale.
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3.2 Interazioni tra stress e insonnia psicofisiologica
L’interazione tra stress e sonno disturbato è diventata di importanza fondamentale per la medicina del sonno quando Michael Perlis nel 1997 (Perlis et al., 1997) ha
riformulato la teoria “neurocognitiva” dell’insonnia partendo dalla prospettiva di Spielmann (modello comportamentale), il quale presentava come punto centrale
della sua prospettiva, la convinzione che la cronicizzazione dell’insonnia psicofisiologica fosse dovuta all’interazione di diversi fattori che nel “modello delle 3P” furono definiti:
1. Fattori predisponenti;
2. Fattori precipitanti;
3. Fattori perpetuanti.
Il modello neurocognitivo di Perlis, vedrebbe perciò l’insonnia acuta associata a fattori predisponenti e precipitanti (come ad esempio stressor psi-cosociali) mentre
quella cronica associata a fattori perpetuanti (come ad esempio l’incremento del tempo passato a letto). I pazienti riescono spesso a definire accuratamente la
causa scatenante del loro disturbo del sonno:
Paziente: i miei problemi di sonno sono iniziati circa tre mesi fa
quando sostenni un colloquio di lavoro. Io sono sempre stata una persona molto apprensiva, però lo stress di quel colloquio di lavoro mi ha veramente molto provato. Quello che però non riesco a capire è il motivo per cui l’insonnia tende a persistere nonostante lo stress per quel colloquio di lavoro sia terminato da tempo. E' come se l'insonnia avesse una vita propria.
Andiamo ora ad analizzare singolarmente i fattori che fanno parte del modello:
1. Fattori Predisponenti: essi sono estesi all’interno dell’ambito dello spettro biopsicosociale, possono essere distinti in fattori psicologici, sociali e
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biologici. Tra i fattori psicologici viene identificata la paura o la tendenza ad essere eccessivamente riflessivi. Tra i fattori biologici si identifica l'iper-reattività e l'iperarousal. Tra i fattori sociali, infine, sono identificati le pressioni sociali, o gli orari lavorativi che potrebbero risultare discordanti con la propensione personale del soggetto al sonno.
2. Fattori Precipitanti: sono costituiti da tutti quegli eventi di vita che potrebbero costituire eventi precipitanti per lo sviluppo di un quadro di insonnia occasionale o acuta transitoria, tra di essi possono essere identificati la presenza di eventi di vita molto stressanti, l’insorgenza di una patologia medica o delle brusche modificazioni dello stile di vita o lavorativo.
3. Fattori Perpetuanti: rappresentano tutti quei comportamenti che il paziente mette in atto per compensare i disagi causati dall’insonnia, costituiscono delle vere e proprie forme di automedicazione che paradossalmente fungono solo come fonte di mantenimento e di acutizzazione del disturbo. Al fine di migliorare la propria condizione i pazienti tenderanno perciò a fare uso di alcool, ad effettuare sonnellini durante l’arco della giornata o a trascorrere una maggiore quantità di tempo nel letto al fine di dormire più ore. Se nel breve periodo tali automedicazioni sembrano avere un effetto positivo, ben presto il paziente si scontrerà con i loro effetti negativi nel lungo periodo; l’alcool ad esempio, induce il soggetto ad addormentarsi in tempi meno lenti da un lato, ma dall’altro tende a superficializzare il sonno favorendo l’insorgenza di numerosi risvegli notturni, di risvegli mattutini precoci e di un sonno frammentato. I sonnellini diurni, dal canto loro, potrebbero incrementare il quantitativo di sonno ottenuto nell’arco dell’intera giornata, al costo però di causare l’insorgenza di un sonno superficiale
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durante la notte. L'estensione delle ore di sonno invece seppur in grado di favorire il sonno, favorirebbe anche un’ insonnia scatenata da condizionamenti ambientali, oltre che un sonno frammentato. Tali
comportamenti esercitano un condizionamento negativo sull’evoluzione del disturbo, poiché conducano ad un quadro di insonnia cronica che aggrava i
già elevati livelli di stress diurni e autopotenzia ulteriormente il circolo
vizioso.
Questo modello mostra perciò lo sviluppo dell’insonnia attraverso tre tappe: acuta, iniziale e cronica, tutte e tre caratterizzate da una proporzione diversa dei tre fattori (Figura 5).
Figura 5. Modello dell’insonnia (Spielman, 1991)
Secondo la prospettiva comportamentale, quindi, le esperienze diurne come ad esempio: gli stress psicosociali, delle inadeguate strategie di problem solving, le
preoccupazioni e le ruminazioni, influenzerebbero in modo decisivo il sonno,
andandone in parte a minare direttamente la profondità, la continuità e la proprietà
ristoratrice. Con il trascorrere del tempo, e la cronicizzazione del disturbo i pazienti
con insonnia tenderebbero a lamentare vari tipi di preoccupazioni inerenti il sonno,
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sonno, a manifestare sonnolenza diurna più o meno intensa ed una serie di
disturbi disfunzionali sia somatici che psichici. Si tratterebbe quindi di un unico
ciclo in cui, la qualità della veglia sarebbe influenzata dalla qualità del sonno, così
come la qualità del sonno sarebbe influenzata da una veglia ricca di stress
mentali, sociali e fisici. Espie, partendo dal presupposto che il ciclo sonno/veglia
sia automatico, ipotizza che il processo di addormentamento potrebbe diventare particolarmente vulnerabile se per qualsiasi ragione fosse spento dal suo naturale automatismo. Esso è particolarmente incline a vedere come i pazienti che soffrono di insonnia psicofisiologica sarebbero potenzialmente capaci di dormire se i fattori disturbanti il sonno rimanessero inattivi (Espie, 2002). Quello che Espie vuole affermare, nello specifico, è che l’automatismo del ciclo sonno-veglia possa venire inibito da selettive attenzioni al dormire, da esplicite intenzioni a dormire e dall’introduzione di uno sforzo nel processo dell’addormentamento. Tale processo ha preso il nome di meccanismo di “attenzione-intenzione-sforzo” (Figura 6 e 7). Perché è importante quindi un modello cognitivo dell’insonnia? Numerosi pazienti insonni sono soliti riportare al clinico che sono i loro eventi mentali ad impedirgli di dormire (Lichstein and Rosenthal, 1980; Espie et al., 1989; Harvey, 2003). Tali eventi sarebbero costituiti da pensieri intrusivi, da preoccupazioni incontrollabili e da un’eccessiva attività mentale che interferirebbe con la tendenza automatica del soggetto ad addormentarsi, inquanto il momento dell’addormentamento viene controllato ed inibito da tutti questi fattori. Le caratteristiche essenziali dell’insonnia psicofisiologica, in accordo con la seconda versione della classificazione internazionale dei disturbi del sonno (2005) sono un’iperattivazione cognitiva e l’apprendimento di associazioni che prevengono il sonno. Gli aspetti cognitivi dell’insonnia psicofisiologica includono pensieri disfunzionali, alti livelli d’ansia nei
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confronti del sonno, attivazione corticale, dispercezione del sonno, automatismi e processi attenzionali.
Figura 6. Evoluzione dell’insonnia psicofisiologica attraverso il modello attention-intention-effort (Tratto da Espie et al., 2006).
Figura 7. Sviluppo dell’insonnia psicofisiologica attraverso il modello attention-intention-effort nel suo impatto con il processo di automatismo del sonno (Tratto da Espie et al., 2006).
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La storia dell’insonnia è stata presentata da Spielman come la tappa finale del modello delle 3P (fattori predisponenti, precipitanti, perpetuanti) (Spielman and Glovinsky, 1991).
Il fondamento della teoria neurocognitiva di Perlis risiede nel concetto di
iperarousal come fattore perpetuante dell’insonnia. L’iperarousal sembra rappresentare il risultato di un condizionamento classico e promuove livelli
abnormi di elaborazione sensoriale, di elaborazione delle informazioni e della
formazione di memorie a lungo termine, aumentando la vulnerabilità del soggetto
affetto da insonnia alle sollecitazioni derivanti dall’ambiente (difficoltà di addormentamento e frequenti risvegli), all’incapacità di distinguere tra sonno e veglia (alterata percezione del sonno) e alla tendenza a consolidare le memorie
negative.
Alcuni studi hanno ipotizzato che alla base dell’evoluzione dell’insonnia sia reperito un enorme iperarousal corticale presente durante il sonno, che viene
espresso sul versante esperienziale attraverso un aumento dell’attività cognitiva, e su quello strumentale attraverso un aumento dell’attività EEG rapide (beta e gamma). Non c’è da sorprendersi quindi, che il modello di Perlis preveda che l’insonnia cronica aumenti la vulnerabilità dell’individuo allo sviluppo della psicopatologia affettiva, in particolare della depressione e dei disturbi d’ansia (Riemann et al., 2010).
In base alle varie evidenze riscontrabili in letteratura e di fronte all’ipotesi della “diatesi stress”, che sostiene che lo stress produce un danno laddove esista una vulnerabilità specifica del singolo organismo, l’insonnia può essere considerata come un elemento o l’espressione del carico allostatico (Mc Ewen, 2006) e può essere considerata come un fattore di rischio indipendente di depressione solo