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Origini delle Casse di Risparmio di Lucca e Livorno: profili quali-quantitativi

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Academic year: 2021

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CONOMIA E

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ANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale

Banca, Finanza Aziendale e Mercati finanziari

TESI DI LAUREA

ORIGINI DELLE CASSE DI RISPARMIO DI LUCCA E

LIVORNO: PROFILI QUALI-QUANTITATIVI

CANDIDATO: Giambattista Fittipaldi

RELATORE: Prof.ssa Antonella Cappiello

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1.

ORIGINI E SVILUPPO DELLE BANCHE TERRITORIALI NELL’OTTOCENTO

pag. 7

1.1 Ruolo e finalità delle Casse di Risparmio pag. 14

1.1.1Origini e diffusione pag. 14

1.1.2Cause originali di sviluppo pag. 23

1.1.3Iter giuridico pag. 27

1.2 Metodologia della ricerca e introduzione ai casi di studio pag. 37

2.

ANALISI DEI CASI pag. 40

2.1 Cassa di Risparmio di Lucca pag. 41

2.1.1Collocazione e finalità nel contesto territoriale pag. 52

2.1.2 Dati economico-aziendali pag. 59

2.2 Cassa di Risparmi di Livorno pag. 67

2.2.1 Collocazione e finalità nel contesto territoriale pag. 74

2.2.2 Dati economico-aziendali pag. 79

3.

EVIDENZE E SINTESI DEI RISULTATI pag. 91

3.1 Confronto e analisi comparative pag. 91

3.2 Conclusioni pag. 94

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INTRODUZIONE

Il lavoro di tesi è stato condotto attraverso un’indagine esplorativa su ruolo, finalità e aspetti economico-aziendali di alcune banche a forte vocazione locale. Nel contesto italiano, per via delle particolari caratteristiche storiche, sociali ed economiche, si è sviluppato un sistema bancario peculiare rispetto ad altri Paesi, con un’elevata presenza di banche a forte vocazione locale. Si parla in particolare di “banche territoriali” per evidenziarne: il forte radicamento sul territorio; lo svolgimento della propria attività in contesti territoriali circoscritti; le dimensioni non grandi; la specializzazione dell’attività verso il finanziamento di privati, famiglie, artigiani, imprese familiari e, in generale, imprese di piccola e media dimensione.

A conferma dell’importanza delle banche territoriali nel contesto nazionale, numerosi contributi scientifici sono stati dedicati a tematiche quali: il credito bancario in generale e le aziende di credito, le banche locali, le Banche di deposito, le Casse rurali ed artigiane, il credito agrario, le Banche Cooperative e le Casse di Risparmio (Dell’Amore 1954, 1966, 1969, 1972, Rossignoli 1979). Anche recentissimi lavori hanno proposto studi riguardanti le banche radicate nel territorio, con riferimento alle Fondazioni di origine bancaria e Casse di Risparmio (Sargiacomo e Rangone 2016).

Alcuni lavori (Toniolo 1995) hanno analizzato il sistema bancario italiano mettendo in luce i rapporti causa-effetto fra fattori di contesto e caratteri di operatività delle banche dalla fine del primo conflitto mondiale fino agli inizi della seconda guerra mondiale. A ben vedere le peculiarità del sistema economico italiano – bene evidenziate in uno studio di Marcello De Cecco (1995) – si sono sempre riflesse in larga misura nella storia del sistema bancario e nelle sue istituzioni (Giordano 2007). Il ruolo delle banche territoriali è stato inoltre cruciale per lo sviluppo di un sistema produttivo costituito principalmente da PMI. A tal fine un contributo importante alla crescita dell’economia italiana è dipeso proprio dalla presenza di numerose banche locali (Schisani 2012) e in Italia – per cultura e storia – le banche di piccola e media dimensione hanno

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sempre avuto un’importanza di rilievo per lo sviluppo economico locale e distrettuale (Fortis 2008). A conferma di ciò, alcuni studi (Conti e Ferri 1997) hanno dimostrato come nelle circoscrizioni distrettuali, in cui le imprese sviluppano modelli di business a forte radicamento territoriale, vi sia una maggiore presenza sul territorio di banche locali e Casse di Risparmio.

Il forte radicamento sul territorio in cui operano consente alle banche di conoscere il tessuto imprenditoriale con cui interagiscono. Esse possono quindi costituire una sorta di “presidio” attuato tramite piccole filiali strategicamente posizionate. In tale contesto i loro punti di forza sono la relativa autonomia di governo e i solidi legami con l’economia locale (Balletta 2014).

Poste tali premesse, il presente lavoro intende analizzare le caratteristiche peculiari delle banche territoriali, con riferimento non soltanto agli aspetti strettamente contabili e di bilancio, ma anche al ruolo istituzionale che hanno assunto nel loro particolare contesto storico, economico e sociale. Si tratta di un obiettivo di ricerca non riguardante esclusivamente gli aspetti ragionieristici, ma una più ampia indagine sulle caratteristiche di aziendalità (Anselmi 2014) delle suddette realtà bancarie. L’obiettivo è indagare come – in una prospettiva evolutiva – il ruolo, le politiche e gli aspetti contabili siano cambiati al variare delle condizioni dei contesti giuridico-istituzionali (come ad esempio le riforme di legge sul sistema bancario) o politici (l’unificazione italiana). Nei casi considerati sono state analizzate le principali dinamiche concernenti la fondazione e la prima organizzazione, le caratteristiche strutturali e i primi orientamenti strategici, anche considerando gli equilibri economici di lungo periodo (Giannessi 1961).

Adottando una metodologia basata sul caso di studio, sono stati individuati due istituti bancari a forte vocazione territoriale: la Cassa di Risparmio di Lucca e la Cassa di Risparmio di Livorno. Livorno e Lucca rappresentarono Casse di Risparmio operative nell’area toscana, regione caratterizzata dalla presenza di Casse di Risparmio promosse da associazioni private di persone (Centro Studi per la Ricerca e la Formazione sulle Fondazioni 1998).

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Tramite un’analisi documentale sono state consultate e analizzate diverse fonti, in particolare statuti, bilanci, relazioni, delibere e pubblicazioni celebrative. Il periodo riguarda un arco temporale che va dai primi decenni del XIX secondo, in cui furono fondate le prime Casse di Risparmio, fino agli anni a cavallo fra il XIX e il XX secolo, quando vennero costituite le prime Banche di Credito Cooperative.

Il contributo presenta la seguente struttura: introduzione, rassegna della letteratura e descrizione dei profili metodologici adottati nella ricerca; analisi dei singoli casi di studio; sintesi dei risultati e riflessioni conclusive.

L’originalità del contributo deriva dall’approccio metodologico adottato, che propone una analisi comparativa delle principali caratteristiche delle banche oggetto di studio.

Il risultato della ricerca è la definizione di un quadro empirico dei casi presi in esame, così da mettere in evidenza elementi di omogeneità/eterogeneità in relazione alle dimensioni di analisi considerate.

In conclusione, dietro le finalità generali delle Casse di Risparmio prese in esame si è spesso potuto scorgere anche uno scopo di tipo mutualistico, o quantomeno solidaristico. Nel corso degli anni probabilmente questa caratteristica si è andata ridimensionando, resta tuttavia il ruolo “sociale” che esse hanno svolto – e che tutt’ora svolgono – verso il territorio di riferimento.

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1. ORIGINI E SVILUPPO DELLE BANCHE TERRITORIALI NELL’OTTOCENTO

Le principali forme di banche a forte vocazione territoriale che si sono affermate nel nostro territorio sono state: le Casse di Risparmio, le Banche Popolari e le Banche di Credito Cooperative.

Le prime Casse di Risparmio furono fondate nel 1822 a Castelfranco Veneto, Padova, Rovigo e Venezia (Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio 1906), successivamente il territorio tosco-emiliano si caratterizzò per una precoce e diffusa apparizione di tali forme. Esse nacquero con finalità di beneficenza e previdenza (Cardinali 1953) – operavano quindi senza fini di lucro – anche se col passare del tempo iniziarono ad esercitare un’attività sempre più simile a quella bancaria in senso stretto (Fanfani 1995). Nel Primo rapporto sulle

fondazioni bancarie (ACRI 1996) si afferma che già sul finire dell’Ottocento,

nonostante il permanere delle finalità filantropiche e sociali, esse avevano sviluppato le funzioni tipiche delle imprese bancarie. Dopo le prime costituzioni degli anni ’20 dell’Ottocento, la prima riforma si ebbe nel 1888, la seconda invece con la legge bancaria del 1936. Con la riforma del 1888 si promulgava per la prima volta una normativa speciale per le Casse di Risparmio, mentre con la legge del 1936 le Casse vennero ricomprese nella categoria degli istituti che operavano nell’attività creditizia a breve termine, e progressivamente assunsero sempre più i caratteri propri delle banche commerciali (Clarich 1984, De Rosa 2003).

Le Banche Popolari si svilupparono successivamente alle Casse di Risparmio, in particolare nei primi anni del periodo post-unificazione. Sulla base del modello tedesco, fu Luigi Luzzatti tramite la propria attività politica ed accademica (con la pubblicazione del testo La diffusione del credito e le banche popolari del 1863) a promuoverne l’istituzione. La prima fu la Banca Popolare di Lodi, istituita il 1° marzo 1864, successivamente seguirono le Banche Popolari di Milano, Bologna, Cremona, Faenza e Siena (De Rosa 1999). Nella politica di tali banche era già insito l’ideale mutualistico e un certo radicamento sul territorio,

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giacché, solo per fare un esempio, la stessa Banca Popolare di Lodi venne fondata dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso che già esercitava il “prestito sull’onore” a favore dei propri soci (Pispisa 1958). Negli anni, le Popolari hanno mantenuto una governance di tipo cooperativo, con particolare attenzione ai soci e all’impegno sociale.

Le Banche di Credito Cooperative (BCC) – originariamente Casse Rurali ed Artigiane – operavano secondo un modello basato sul c.d. “localismo creditizio”. La prima Cassa Rurale in Italia venne fondata a Loreggia (Padova) nel 1893, sotto il nome di “Cassa cooperativa di prestiti” (Cafaro 2002, Bonfanti 2009). Spesso le Banche Cooperative furono fondate sulla spinta delle istituzioni cattoliche, le quali, assumendo un ruolo centrale nella vita religiosa delle comunità rurali, costituivano la base naturale e spontanea per il formarsi di organismi associativi, contro il problema del credito agrario e dell’usura nelle campagne (Zaninelli 1968). Di fatto si assistette alla costituzione di banche cooperative di ispirazione cattolica, che si raggruppavano in Federazioni diocesane, in parallelo a tutte le altre, che invece diedero vita ad una Federazione nazionale (Fazio 2002). Storicamente la vocazione territoriale è sempre stata fortissima, giacché si è affermato (Azzi 1997) che detti istituti operavano secondo un “patto di sviluppo” sottoscritto con la comunità di cui erano espressione, incoraggiando lo sviluppo (economico e sociale) delle imprese di piccole dimensioni radicate nel territorio.

L’idea di creare enti che si dedicassero alla raccolta dei risparmi sia nelle classi abbienti (aristocrazia, alto clero, borghesia commerciale) sia in quelle piccolo borghesi, e alla loro scrupolosa conservazione, sarebbe nata in Francia. Qui venne pubblicato, infatti, nel 1611 un opuscolo che presentava la proposta d’inserire nei monti di pietà – che erano allora gli unici istituti esistenti che esercitavano il credito - due nuove sezioni: una per la raccolta del risparmio delle classi abbienti; l’altra per la raccolta del risparmio minuto.

In Inghilterra venne avanzata la medesima proposta in una pubblicazione del 1697.

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L’attuazione concreta di tale ipotesi – ovvero di creare istituti ad hoc per la raccolta e la custodia del risparmio – sarebbe avvenuta solo molti anni dopo, sotto l’influsso del pensiero illuminista. Tali istituti erano creati da associazioni private rappresentative di élites culturali ed economiche locali che si proponevano finalità filantropiche e pedagogiche nei confronti delle classi meno abbienti, alle quali volevano insegnare la costruttiva pratica del risparmio personale.

Tommaso Fanfani delinea efficacemente le caratteristiche di tali tipi di istituto: “si tratta di organizzazioni finalizzate soprattutto alla raccolta di elemosine da parte di benestanti per la costituzione di fondi per il funzionamento delle strutture sociali e di supporto alla collettività nella lotta alla miseria e all’accattonaggio”. Fu precisamente nel 1765 che sorse a Brunswick, in Germania, una Cassa ducale

di prestiti, alla quale fece seguito, nel 1778, ad Amburgo, il primo ente che

assumesse la denominazione di Cassa di risparmio (Sparkasse). Nel 1786 sorgeva un’analoga iniziativa ad Oldenburg e l’anno successivo una a Berna, in Svizzera.

Non molto tempo dopo, un’esperienza simile vide la luce al di là della Manica. Nel 1810, infatti, venne aperta in Scozia la prima Savings bank, la quale si proponeva – oltre alla raccolta del risparmio – l’effettuazione di piccoli prestiti a favore di persone bisognose, utilizzando i depositi ad essa affidati.

Con l’inizio del secolo XIX, l’istituto prese piede in altri paesi europei e in America settentrionale.

Le prime casse che sorsero in Italia furono quelle di Udine, Venezia, Padova e Rovigo nel 1822. Essendo città inserite nel Regno lombardo-veneto, propaggine dell’Impero d’Austria nella nostra penisola, furono organizzate sul modello di quella viennese. Della Cassa di Venezia, una delle prime in ordine di tempo, era ordinata la costituzione con avviso di quel comune, allo scopo “di porgere a chiunque, ma in particolare all’artigiano, al giornaliero, al domestico un pronto e sicuro mezzo di porre in disparte di tempo in tempo quel qualunque capitale che una bene amministrata economia avrà saputo fargli avanzare dal frutto dei suoi guadagni, dopo supplito ai bisogni della vita”.

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Nel 1823 nacque a Milano la Cassa di Risparmio di Lombardia; nel 1829 quella di Firenze, nel 1835 quella di Lucca, nel 1836 quella di Livorno e di Roma e l’anno dopo quella di Bologna.

Nella nuova concezione liberale emergente, il pauperismo – soprattutto quello congiunturale, derivante dalle crisi temporanee – poteva essere vinto grazie all’impegno stesso dei lavoratori che – tramite il loro modesto risparmio quotidiano – erano in grado di costituirsi presso apposite banche un modesto patrimonio personale da usare in caso di necessità. Stava emergendo su queste basi culturali una nuova concezione del superamento della povertà, fondata sul

self-help e non più sull’intervento assistenziale dello stato e delle comunità

locali, e su di un progetto di cassa di deposito non autogestita, ma demandata ad enti pubblici o a privati facoltosi e dotati di spirito filantropico.

Volendo instaurare un paragone con la Germania e l’Inghilterra, le casse italiane sono nate in ritardo e sono cresciute con lentezza, anche se confrontate con le consorelle francesi che avevano avviato il loro processo di formazione e di diffusione parallelamente a quelle italiane. La ragione fondamentale stava certamente nel grado di arretratezza economica della nostra penisola e, quindi, nel lento processo di formazione dei capitali che costituivano una parte dei depositi delle casse di risparmio. Mentre nel 1838 si contavano solo 15 casse, all’Unità erano 91, per salire a 187 nel 1915.

Ma più che il loro numero, crebbe via via il loro peso all’interno del sistema bancario nazionale. Mentre all’inizio degli anni Ottanta rappresentavano il 42% dell’attivo globale di bilancio degli istituti di credito ordinario, tale percentuale passò al 50% nel 1894 e al 53% nel 1897.

Contemporaneamente a questa presenza che stava diventando sempre più qualificata nell’ambito bancario italiano, non si assistette ad un’evoluzione altrettanto significativa dei loro impieghi. Mentre all’origine l’attivo di bilancio era composto per lo più da crediti chirografari e ipotecari evidenziando solo piccole percentuali di investimento in titoli pubblici, nella seconda metà del secolo tale composizione andò modellandosi sempre più.

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Nel 1880, il 46% dell’attivo era impegnato in titoli e solo il 20 per cento in crediti chirografari ed ipotecari, tra i quali assumevano un notevole peso i mutui ai cd. corpi morali (province, comuni, altri enti pubblici locali). All’inizio del Novecento, tale tendenza divenne ancora più marcata con un impiego in titoli pari al 56% dell’attivo e la concessione di crediti a privati e corpi morali per il 16%; di scarso rilievo – anche se stava crescendo – era l’impiego in crediti commerciali, costituito prevalentemente da sconti cambiari, indicatore questo del lento adeguamento delle casse alle nascenti esigenze del commercio e dell’industria.

Nonostante la loro tradizionale prudenza, le casse riuscirono a mobilitare gran parte della liquidità del sistema, “contribuendo in misura rilevante – per impiegare le parole di Antonio Confalonieri – allo sviluppo economico del paese”.

Negli ultimi trent’anni del secolo si venne delineando in modo sempre più evidente una dicotomia tra le casse italiane. Un gruppo di esse era più propenso a conservare le proprie caratteristiche originarie di istituto creditizio con marcate finalità sociali, estremamente prudente nella gestione delle risorse, orientato ad impieghi sicuri anche se di modesto rendimento. Altre erano più attente alle nuove esigenze che promanavano dall’economia e si stavano orientando a svolgere un’attività più propriamente bancaria, destinando una parte rilevante dei loro impieghi allo sconto di effetti commerciali.

La contrapposizione venne con il tempo attenuandosi, in quanto in quel periodo emersero nell’ambito bancario dei nuovi operatori molto attenti ai bisogni delle classi più umili. Si stavano affermando infatti le banche popolari, le banche cooperative, le casse rurali e le casse postali, le quali sottrassero via via il risparmio minuto alle casse di risparmio. Queste si videro pertanto costrette ad orientare la loro raccolta sempre di più nell’ambito delle classi medie.

Un altro fatto che contribuì a smorzare la contrapposizione evidenziata fu la promulgazione della legge speciale sulle casse di risparmio del 1888. Le casse erano in essa definite “istituti che si propongono principalmente di raccogliere i depositi a titolo di risparmio e di trovare ad essi conveniente collocamento”.

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La legge, quindi, se da un lato non negava il fatto che le casse fossero ancora degli istituti di beneficenza, dall’altro tratteggiava per esse alcuni principi che le assimilava alle banche di credito ordinario, delineando – non senza una certa ambiguità – una sorta di soggetto misto posto a metà strada tra l’opera pia e il moderno istituto di credito. All’interno della figura giuridica così delineata, potevano convivere senza difficoltà le due anime presenti all’interno delle casse italiane.

Negli anni del decollo si assistette ad una crescita differenziata delle varie categorie di banche operanti nel nostro paese. Di fronte ad una perdita di posizioni delle casse di risparmio, i loro dirigenti si orientarono – nell’ambito dei maggiori spazi concessi dalla legge del 1888 – verso forme di impegno maggiormente gradite al mercato, ampliando la gamma delle operazioni. Aumentarono pertanto in modo rilevante gli sconti di effetti di imprese, sia di tipo commerciale che finanziario, e i risconti di titoli, insieme ai finanziamenti ai privati e ai corpi morali nella solita forma del mutuo. Incominciarono a flettere in modo consistente i tradizionali impieghi in titoli pubblici.

In quel periodo si ebbero anche le prime forme di partecipazione delle casse di risparmio alle grandi operazioni finanziarie nazionali, quali salvataggi di banche e costituzione di enti economici pubblici. Alcune intervennero nel salvataggio della Società Bancaria Italiana e, alcuni anni dopo, nella fondazione del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali.

Nell’ambito della riorganizzazione dell’attività bancaria e finanziaria posta in essere dal governo fascista a partire dal 1926, fu emanata nel settembre 1927 una legge che modificava la legislazione relativa alle casse di risparmio, alla quale fu fatto seguire un testo unico di sistemazione di tutta la materia emanato il 25 aprile 1929. Queste nuove norme diedero un forte impulso al cambiamento della strategia delle casse. Molte di essere dovettero confluire in istituti di maggiore dimensione, pena la loro liquidazione, dando così origine ad un rilevante processo di concentrazione che portò il numero delle casse da 200 nel 1926 a 85 nel 1942. Una sorta di collaborazione coattiva a livello locale fu imposta anche attraverso la creazione obbligatoria di federazioni provinciali e interprovinciali.

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Furono inoltre rafforzate le garanzie di solvibilità degli istituti appartenenti alla categoria con la creazione di uno speciale fondo nazionale a sostegno delle casse in difficoltà.

Fu infine realizzata una significativa apertura di tali banche verso la realtà economica e finanziaria del tempo attraverso il sostegno da loro prestato al mondo agricolo e alle grandi iniziative finanziarie intraprese dal governo, sottoscrivendo quote di partecipazione e titoli obbligazionari del Consorzio nazionale per il credito agrario di miglioramento, degli istituti regionali di credito agrario di esercizio, del Crediop (consorzio di Credito per le Opere Pubbliche),

dell’Icipu (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità), dell’Imi (Istituto Mobiliare Italiano) e dell’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale).

La riforma bancaria del 1936 ebbe una ricaduta sulle casse di risparmio due anni più tardi allorché un decreto collocò questa categoria di banche tra gli istituti che raccoglievano denaro a breve termine, uniformandola in questo modo alle banche ordinarie. Si trattò di un’ulteriore spinta alla modernizzazione delle casse e alla loro apertura verso l’economia e il mercato.

Nel periodo furono fortemente sollecitate dal governo ad appoggiare in modo concreto la sua politica economica, soprattutto in agricoltura e in parte anche nell’industria. Poiché il sostegno alle imprese industriali avvenne nel nostro paese anche attraverso forme diverse dalla pura e semplice sottoscrizione di titoli azionari, come ad esempio attraverso rinnovi prolungati di sconti di effetti finanziari, oppure tramite aperture di credito in conto corrente di lunga durata, le casse di risparmio si mossero anch’esse lungo questa via, anche se agendo con grande prudenza. Ed infine, per assecondare la politica di bilancio del governo, sottoscrissero una notevole quantità di titoli di stato.

In conclusione, una caratteristica tipica delle prime esperienze italiane è stata quella di creare delle banche dirette soprattutto alla tutela del piccolo risparmio. Solo molto più tardi, in tali istituti, si sono affrontate tematiche riguardanti modalità di impieghi e di prestiti.

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1.1 Ruolo e finalità delle Casse di Risparmio

La storia del credito nel nostro paese è una storia che affonda le proprie radici nei secoli più lontani, vale a dire nella concomitanza con lo sviluppo dell’economia e l’espansione dei mercati in età medievale, quando gli operatori delle città della penisola intrattenevano affari in tutte le principali piazze del mondo ed i banchieri italiani erano i più ricercati nelle corti dei nascenti stati nazionali. Il sottile filo della storia che da essi si dipana conduce negli ultimi due secoli all’affermazione di un sistema bancario e creditizio moderno e completo, dove le casse di risparmio diventano protagonisti di primo piano ed il sistema che oggi ci sta di fronte è il frutto di tale lunghissimo periodo di affermazione e trasformazione, per cui appare importante, per cogliere i cambiamenti di oggi, conoscere la genesi svoltasi nel passato.

In questa esposizione intendo affrontare l’argomento focalizzando tre aspetti in particolare: il primo riguarda la nascita e la diffusione delle casse di risparmio nel tempo; il secondo fornisce una chiave interpretativa sulle differenti motivazioni che sottostanno alla loro comparsa e alla loro diversa tipologia; il terzo approfondisce, invece, la natura delle casse stesse e cerca di circoscriverle nella loro intrinseca essenza normativa.

1.1.1 Origini e diffusione

Sul primo aspetto va subito detto che, nonostante il fiorire degli studi degli ultimi anni sulla storia della casse di risparmio, rimane ancora incerta quale sia stata in assoluto la prima cassa apparsa nel mondo occidentale. Giuseppe Prato nel 1927, celebrando il centenario della Cassa di Risparmio di Torino, puntualizzava la correlazione tra lo sviluppo economico dei secoli XVIII e XIX e la necessità di capitale per la mobilitazione delle risorse, ma non indicava con assoluta certezza la comparsa della prima cassa di risparmio. Di certo è nella corrispondenza tra domanda di credito e sviluppo economico che compaiono le primordiali forme organizzative assimilabili alle casse di risparmio, anche se nella specifica natura a valenza sociale (De Candolle 1836) essere furono il risultato tangibile di un

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misto di istanze assistenziali, caritatevoli e educative che non sempre aveva a che vedere con le funzioni creditizie propriamente dette.

I primi esempi, comunque, non sono del tutto corrispondenti ai criteri tipici delle casse di risparmio.

La questione su quale sia nella storia la prima cassa dell’Occidente non è poi così importante e per la verità fino all’inizio del XIX secolo appare improprio pensare a vere e proprie casse di risparmio, dal momento che gli esempi precedenti richiamano organizzazioni "finalizzate alla raccolta dell’elemosina da parte di benestanti per la costituzione di fondi per il funzionamento delle strutture sociali e di supporto alla collettività nella lotta alla miseria e all’accattonaggio” (Fanfani 1986). Soltanto con l’avvento dell’industrializzazione e dei processi di formazione della società economica capitalista le casse di risparmio diventano istituzioni per la raccolta di depositi tra le fasce deboli della società e di erogazione di prestiti per gli impieghi a enti pubblici e a privati.

E’ solo nei primi 15 anni del XIX secolo che sorgono organizzazioni con le finalità e le caratteristiche di raccogliere e conservare il risparmio delle categorie più deboli della società.

In Italia la Cassa d’Imprestanza avviata il 12 marzo 1790 a Gorizia, nel Friuli austriaco, la Cassa de’ Censi, Prestiti e Annualità fondata a Torino il 30 aprile 1795, sono alcuni dei pochi esempi di istituzioni di raccolta in funzione del piccolo risparmio, ma non sono riconducibili alle casse vere e proprie, anche se – proprio a Torino – all’atto della soppressione della Cassa de’ Censi, essa <<racchiudeva in sé – scrive Luigi Figliolia – la Cassa di Risparmio>>.

Le prime vere casse di risparmio nella penisola – vale a dire quelle istituzioni dettate da filantropismo per finalità di educazione al risparmio e alla previdenza per le categorie più deboli della società – compaiono nei territori di dominazione austriaca dove – sull’esempio della Prima Cassa di Risparmio Austriaca fondata nel 1819 – il 12 febbraio 1822, genetliaco dell’Imperatore Francesco I, aprono le Casse di Risparmio di Venezia, Udine, Padova e Rovigo. La spinta promozionale per la loro nascita veniva dal governo austriaco. Il ministro degli Interni – conte Franz von Saurau – aveva spedito ai governatori del Veneto, della Lombardia e

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del Tirolo molte copie dell’opuscolo dal titolo Sull’utilità dell’istituzione delle

Casse di Risparmio, parole di un filantropo a tutti i genitori, curati, maestri di scuola, padroni di casa, di fabbriche e di negozi (Mastrangelo 1994). La

promozione del governo era indirizzata a sollecitare lo spirito filantropico di chi aveva i mezzi e la cultura per dare vita ad una cassa di risparmio e di dedicare parte del proprio tempo ad un’iniziativa di utilità pubblica e di sensibilizzazione alla previdenza: i titolari dei libretti di risparmio – si legge – potranno “un giorno provvedere un figlio, maritare una figlia, procurare al figlio un traffico, sostenere un canuto padre, mantenere una vecchia madre, procurare a se stessi una vecchiaia libera da affanni”. L’appello ai filantropi, oltre che dalla corte di Vienna, si leva da tutti i sovrani dell’epoca in Italia e dalle classi colte che comprendono l’importanza del risparmio per migliorare le precarie condizioni di vita delle famiglie più povere, in coincidenza con la carestia degli anni 1816-1817.

Le casse nel Lombardo-Veneto furono frequentemente emanazione dei monti di pietà esistenti nelle varie città, allo stesso modo di altre località del Nord d’Italia e in qualche caso anche degli Antichi stati dell’Italia Centrale.

L’esempio delle province venete e lombarde viene presto seguito ed il filantropismo del primo momento trova terreno fertile in Piemonte, in Toscana, nello Stato pontificio, là dove si registrano esempi sempre più numerosi di privati, professionisti, nobili, uomini di stato che dedicano gratuitamente il loro tempo e che procurano il fondo di dotazione iniziale per dare avvio alle casse di risparmio.

L’istituzione delle casse di risparmio come associazione di persone rappresenta un caso a parte nella storia delle società in quanto la legislazione degli Antichi stati italiani ostacolava la formazione delle società, in particolare delle società per azioni; il divieto era il risultato della tragica esperienza del banchiere John Law in Francia nel 1717-1719 e dell’esperienza altrettanto negativa in Inghilterra per le azioni della South Sea Company (Compagnia dei Mari del Sud) negli anni 1719-1720. L’epilogo disastroso di entrambe le esperienze, con relativo strascico di fallimenti e propagazione a catena della crisi finanziaria su tutti gli azionisti,

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portò i singoli stati a definire barriere contro le bubbles, gli eccessi speculativi sulle azioni; nell’agosto 1720 il Parlamento inglese emanò il Bubble Act che vietava qualsiasi emissione di azioni trasferibili e poneva vincoli alla costituzione di nuove compagnie come società anonime, senza previa autorizzazione del Parlamento stesso (De Simone 1987). Non solo in Inghilterra ma in altri paesi occidentali, dopo la crisi del 1720, divenne complessa e difficile l’autorizzazione governativa per costituire una società per azioni. L’effetto fu la conseguente riduzione della nascita di società per tutto il XVIII e per buona parte del XIX secolo. Le casse non sono giuridicamente ascrivibili alle società per azioni modernamente intese, esse sono prive dei requisiti essenziali caratteristici di queste, ma lo stesso rappresentano società che consentono alla normativa di “riconciliarsi” con nuove organizzazioni di persone che sottoscrivono quote, spesso riferite come azioni, per intraprendere un’attività economica. Le casse hanno il merito di riavviare il mercato delle società: date le loro finalità, le autorità di governo, i parlamenti o i sovrani autorizzano la formazione del fondo di dotazione, sottoscritto da enti o personaggi che sono sempre il fior fiore della società locale laica ed ecclesiastica.

Nel 1823 nasceva la Cassa di Risparmio di Lombardia per iniziativa della Commissione centrale di beneficenza (poi divenuta Cassa di Risparmio delle Province lombarde – Cariplo) (Cova, Galli 1991); nel 1827 era Torino che si dotava della Cassa di Risparmio, collegata (fino al 1853) alla Cassa de’ Censi, Prestiti e Annualità; due anni dopo nell’Italia Centrale, precisamente a Firenze, nasceva la Cassa di Risparmio che poi gemmava casse affiliate in altre città della Toscana (nel 1834 a Pisa e nel 1836 a Livorno). Nel 1835 nasceva la Cassa di Risparmio di Lucca attraverso la sottoscrizione delle azioni organizzata dal gonfaloniere del comune, Nicolao Giorgini, e dai nobili locali. Il primo a sottoscrivere fu il duca di Lucca Carlo Lodovico, seguito dal principe ereditario e dall’arcivescovo; l’iniziativa ebbe talmente successo che le azioni (al valore unitario di scudi 12) anziché 100, come previsto dal decreto del sovrano, vennero portate a 150, per evitare di escludere quanti avevano aderito al progetto. Facendo di Lucca un esempio significativo per molte altre analoghe esperienze,

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tra i primi 117 soci, 39 sono nobili, 25 sono laureati (notai, avvocati, medici, ingegneri, professori); seguono industriali, commercianti e uomini di chiesa; i locali furono offerti gratuitamente dal conte Cenami al pianterreno del suo palazzo di città, “compreso l’arredamento”.

La Cassa di Bologna viene fondata nel 1837 sotto forma di società di privati; la Cassa di Risparmio di Roma è fondata nel 1836 per iniziativa di 100 sottoscrittori di altrettante azioni al valore unitario di 50 scudi (anche qui i locali e l’arredamento furono messi a disposizione gratuita da parte di un nobile Francesco Borghese che ospitò la benefica istituzione nel suo palazzo di Piazza Borghese). La Cassa di Risparmio di Volterra fu emanazione del locale Monte pio, mentre quella di Siena fu voluta dal Monte dei Paschi. La Cassa di Risparmio di Genova fu fondata nel 1846 dal Monte di Pietà, come lo fu quella di La Spezia (1842), mentre fu l’amministrazione comunale a dare vita alle casse di Savona (1840) e di Chiavari (1851); a Sarzana fu la Congregazione della carità che fondò la Cassa nel 1865. Nel 1843 il duca di Modena autorizza la fondazione della Cassa di Carpi, lo stesso anno in cui nasce la Cassa di Carrara. Nel 1846 furono fondate la Cassa di Risparmio di Modena (come emanazione del comune), quella di Reggio Emilia, di Parma e Piacenza. L’elenco sarebbe molto lungo, dato che tra la metà del secolo e l’unità quasi tutte città del Centro-Nord avevano la propria cassa.

L’origine delle casse italiane per tipo giuridico-istituzionale si distingue pertanto in due forme principali: la prima è data dalle casse che nascono come fondazione dai monti di pietà o da altri corpi morali; la seconda forma include le casse nate come società anonime, fondate da gruppi di privati cittadini ai quali compete totalmente l’amministrazione dell’istituto. Il primo tipo si concentra e si diffonde prevalentemente nel Nord e nel Sud del paese, il secondo invece in Toscana e nelle terre dello Stato pontificio.

Capita anche che alcune casse nate come società di persone finiscano per appoggiarsi ai monti di pietà, analogamente alle altre; di solito ciò avviene in conseguenza di qualcuna delle numerose crisi finanziarie precedenti l’unità, quando le casse, sottoposte alla “corsa agli sportelli” dei propri depositanti,

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necessitano improvvisamente di liquidità e allora si appoggiano al locale monte pio o impegnano i propri amministratori con mutui presso altre banche.

La propagazione delle casse al Sud fu molto più lenta e complessa rispetto al resto d’Italia: al Sud e nelle isole era radicata la presenza dei monti frumentari o dei monti biade, destinati a fornire le sementi dell’annata ai contadini più poveri. Si trattava di una forma di assistenza diffusa che rappresentava un tipo di credito in natura capace di assolvere comunque alla funzione di sostegno cui era chiamata (Fortunato 1927). Nel 1861 si contano in tutta la penisola 1690 Monti biade o frumentari, situati nella stragrande maggioranza al Sud e nelle Isole, ma anche nelle altre regioni del Nord, dove vi erano esempi di istituzioni analoghe e con le stesse finalità di provvidenza e di sostegno agli agricoltori (Corbino 1981). Solo il 21 ottobre 1861 il conte Ignazio Genova di Pettinengo, luogotenente generale del re d’Italia per le province siciliane, firmò il decreto per l’istituzione della Cassa centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le province siciliane. Sempre per iniziativa del governo, furono fondate la Cassa di Risparmio Principe Umberto a Catania nel 1863 e nel 1868 la Cassa di Risparmio Principe Amedeo di Messina, entrambe poi liquidate: la prima nel 1890, vale a dire nel momento culminante della gravissima crisi finanziaria del sistema italiano, la seconda nel 1895. In Sardegna le prime casse vennero fondate nel 1845 (Cagliari, Sassari ed Alghero); ma come per le due casse siciliane, anche le casse sarde finirono travolte dalla crisi degli anni 1888-1893, dopo che quella di Alghero era già uscita di scena nel 1880. A Napoli la cassa nacque per iniziativa del Banco di Napoli nel 1862 e dopo dieci anni venne incorporata dalla banca madre.

Confrontate con lo sviluppo di Germania e Inghilterra le casse italiane nascono in ritardo e faticano a recuperare rispetto alla diffusione media europea nei paesi più avanzati, compresa la Francia, che pure aveva avviato il processo di fondazione e diffusione contemporaneamente all’Italia. Sulle cause del ritardo non mancano posizioni che conducono alla scarsa propensione alle innovazioni degli Antichi stati italiani (Martello, Montanari 1874), ma la causa principale è da ritrovarsi nel grado di arretratezza dell’economia e dunque nella asfitticità del mercato dei capitali. Anche qui possiamo continuare a discutere se sia la mancanza di capitali

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a provocare l’arretratezza o se sia la scarsa attività economica a non mobilitare il mercato dei capitali: dal momento che il capitale è uno dei fattori della produzione, la sua disponibilità è causa della crescita, come la sua mancanza è causa di arretratezza, ma nei processi di industrializzazione si verificano normalmente interazioni tra le variabili che guidano lo sviluppo, per cui la carenza del credito è si effetto del ritardo economico, ma al tempo stesso esse ne è anche la causa. La tendenza è rilevabile dai dati.

Nel 1838 si contano ancora poche casse, visto che su 1.194 esistenti in Europa, soltanto 15 sono in Italia di fronte a 484 in Inghilterra e Irlanda, 250 in Francia e 300 in Germania. In quanto all’attività, la raccolta dei depositi nel 1830 (primo anno disponibile) fu di 6.300.000 lire, su una popolazione di 21 milioni di abitanti; dopo 10 anni i depositi ammontano a 21,5 milioni di lire. La crisi annonaria del 1847 e i moti del 1848-49 incisero sulla situazione finanziaria, provocando – come accadeva allora – crisi improvvise e relativa <<corsa agli sportelli>>, ma la fase di crescita riprendeva dopo la momentanea battuta d’arresto. Il credito medio per abitante dato dal rapporto tra il numero degli abitanti ed i depositi era salito da 90 centesimi del 1840 a 1 lira e 77 centesimi nel 1850 (Demarco 1987). Al momento dell’Unità negli ex Stati sabaudi c’erano 22 casse di risparmio, 15 nel Lombardo-Veneto, 27 in Toscana, 43 nell’ex Stato pontificio; depositi erano saliti e il credito medio pro-capite aveva raggiunto 6,26 lire. In tutto il nuovo regno si contano nel 1861 91 casse di risparmio, 136 dieci anni dopo, 183 nel 1880, 218 nel 1895, 184 nel 1900 e 184 nel 1906 (Confalonieri 1980), 187 nel 1915. La lunga rincorsa per la diffusione delle casse di risparmio raggiunge qualche risultato tra il 1860 ed il 1880.

Più che i dati sulla quantità, appare significativo registrare che all’inizio degli anni Ottanta esse rappresentano il 42% sull’attivo globale di bilancio degli istituti di credito ordinario, rapporto che sale oltre il 50% nel 1894 (all’indomani della crisi) e al 53% nel 1897, ovvero nel momento dell’avvio del take off e dunque della crescente domanda di credito per accompagnare il “decollo” dell’economia italiana. La tendenza dei depositi da poco più di 2,6 milioni di lire nel 1825, supera i 157 nel 1860 (dei quali più della metà – 85,9 – nella sola Cariplo).

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Dal 1864 al 1872 il numero dei libretti passò da 404.839 a 672.995 con un incremento del 67%; il credito dei depositanti aumentò nello stesso periodo del 121%, passando da 203 milioni a 445 (Guastapane 1990); si avvicina ad un miliardo nel 1885 distribuito in 1,2 milioni di libretti, lo supera l’anno successivo e raggiunge 1,5 miliardi alla fine del secolo nella tendenza generale documentata nella figura del grafico seguente.

La cassa che vanta il maggior volume di raccolta è la Cariplo, seguita dalle casse di risparmio toscane, quindi dalla Cassa di Venezia, poi dalle casse emiliane e quindi da quelle piemontesi.

Sui dati e sulle tendenze appena indicate merita conto soffermarsi per definire due aspetti importanti della vita delle casse durante il XIX secolo. Se è vero che in concomitanza con la crisi del 1847 – 48 in molte banche, casse comprese, si verificò la <<corsa allo sportello>> per il ritiro dei depositi, dopo l’Unità la tendenza cambia: nel ripetersi delle crisi economiche, causa di gravi squilibri sul sistema finanziario e creditizio, il fenomeno della corsa agli sportelli per le casse ha un andamento inverso rispetto alla gran parte delle altre banche. Dopo l’Unità ogni volta che la diffusione del panico provoca il repentino ritiro dei depositi dai forzieri delle banche, le casse non registrano la corsa ai ritiri, ma in molti casi la corsa ai depositi, dato che i risparmiatori si rivolgono alle casse di risparmio per versarvi quegli stessi risparmi appena ritirati dai banchi privati e di credito

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ordinario. Cresce costantemente la considerazione delle casse come istituti più sicuri, maggiormente stabili rispetto alle altre banche, in un giudizio collettivo che si rafforza costantemente dagli anni ’60-’70 in poi. Il fenomeno provoca un forte aumento dei depositi nelle casse di risparmio che, date le rigidità statutarie per gli impieghi, giungono in qualche caso perfino a denunciare un eccesso di deposito. A volte infatti la forte crescita della massa raccolta crea gravi problemi, per cui alcune casse introducono provvedimenti e regolamenti tendenti a penalizzare i depositi, come l’abbassamento del limite massimo di deposito infruttifero o la differenziazione del tasso d’interesse in maniera proporzionalmente inversa alla crescita della somma depositata. Questo succede per la Cassa di Firenze e sue affiliate toscane, anche per la Cariplo e per qualche altra cassa.

La politica e le scelte degli impieghi in molte casse mutano profondamente nell’intervallo di tempo che corre dalla loro nascita all’inizio del ‘900. Se è possibile schematizzare e pure in presenza di comportamenti autonomi in controtendenza rispetto alla generalità delle casse, alle origini l’attivo si compone per lo più di crediti chirografari e ipotecari, registrando solo piccole quote nell’investimento in titoli pubblici. Nel 1860 il 56% degli impieghi è in crediti chirografari e ipotecari, registrando solo piccole quote nell’investimento in titoli pubblici. Nel 1860 il 56% dell’attivo, di fronte al 16% in crediti ai privati o alle comunità. Il mutamento non è tanto spiegato dai cambiamenti nella struttura economica del paese, quanto dal prevalere delle linee di tendenza prudenziali nella gestione della grande maggioranza delle casse italiane e dalla comparsa sul mercato del credito e del risparmio di nuovi istituti sia per il credito popolare che per gli impieghi più consistenti nelle attività di gruppi industriali più o meno grandi. Resta comunque da notare il fatto che se questa è la tendenza generale degli impieghi, in quanto è la tendenza operata dalle più grandi casse di risparmio, non tutte si comportano allo stesso modo, vale a dire esistono eccezioni che spostano i termini dell’analisi degli impieghi nello sconto cambiario e nei crediti ipotecari in valori percentuali differenti rispetto a questi

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mediamente riportati. Pe tutte vale il comportamento e l’esempio delle casse di risparmio emiliane.

1.1.2 Cause originali di sviluppo

Di fronte ai dati dell’affermazione industriale e alle due principali modalità nella nascita, la diffusione delle casse è frutto di una promozione dalle forme più disparate e fa leva su motivazioni profonde.

La diffusione dell’industrializzazione creava vaste schiere di nuovi poveri e mendicanti, effetto delle frequenti crisi di sovrapproduzione o comunque delle crisi economiche ricorrenti. Fino ad allora la previdenza era stata affidata alla buona volontà dei privati o delle comunità, parrocchie per prime, che avevano assolto non in forma propriamente previdenziale, ma attraverso l’azione caritatevole, il sostegno delle persone in difficoltà. Cambia la mentalità: viene sconfitta la determinazione, muta la filosofia nel rapporto tra accumulazione e operosità, muta il giudizio morale della ricchezza quando questa è ben impiegata. Cresce il valore positivo del risparmio: Adam Smith ne è l’esempio più significativo là dove sostiene come il risparmio, inteso come parsimonia praticata da chi la può praticare – vale a dire dalle classi agiate – contribuisce alla ricchezza della nazione.

Emerge nel secondo Settecento e si consolida nel primo Ottocento la convinzione che non sia la carità la giusta soluzione per la miseria, ma sia l’educazione al risparmio da praticare attraverso la creazione di strumenti capaci di raccogliere i piccoli risparmi delle categorie più deboli della società, farli crescere e consentire quel minimo di accumulazione utile e necessaria per la previdenza individuale. Si fanno sempre più forti le posizioni nettamente contrarie alle forme caritatevoli ritenute spesso dannose per la capacità produttiva, per l’operosità delle persone: David Ricardo è contro le imposte a favore dei poveri, vede nel lavoro la ricchezza e la soluzione ai problemi della miseria, pone la workhouses in netta contrapposizione alla sterile carità delle parrocchie.

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La progressiva sostituzione dell’educazione al risparmio e del risparmio stesso alla carità durante l’Ottocento otteneva gli obiettivi proposti al punto che Keynes nel 1919, nell’opera The Economic Consequences of the Peace, sostiene che nell’Ottocento il risparmio rappresenta i nove decimi della virtù! La molla principale che fa scattare il meccanismo genetico dunque è senza dubbio data da istanze di natura sociale pubblica ed in particolare dalla necessità di istituire forme di previdenza e di educare al risparmio.

Non vi erano forme di previdenza pubblica in Italia e poche in Europa (il primato spetterà alla Germania di Bismarck), per cui le casse ottocentesche italiane si propongono di fronteggiare il carico sociale e di pubblica utilità della previdenza individuale. L’espressione economica della previdenza diventa risparmio e pertanto la nascita delle casse di risparmio inaugura il progetto di dare organicità e continuità alla previdenza – risparmio.

La richiesta di previdenza in una società economica in trasformazione era profondamente avvertita in tutti gli strati sociali, così come affermato da J. Baptiste Say e da Luigi Luzzatti (il promotore del credito popolare in Italia). La previdenza significa non solo provvedere oggi per quanto può succedere domani, ma rimboccarsi le maniche per costruirsi una sicurezza futura. La società muta: motivazioni, sociali ed economiche finiscono per convergere verso l’unico obiettivo della previdenza e dell’educazione, per cui lo strumento operativo su cui si concretizzano le istanze e le buone intenzioni diventa appunto la cassa di risparmio. I migliori intelletti del tempo si fanno promotori dell’istituzione delle casse. In Toscana si chiamano Vieusseux, Ridolfi e Lambruschini, esponenti del gruppo del “Giornale agrario toscano” che <<si proponeva di educare le classi artigiane e piccolo borghesi all’astinenza, ovvero a sottrarre piccoli avanzi giornalieri al rischio di spendere, secondo la filosofia del paternalismo sociale dei campagnoli toscani>> (Conti e Ferri 1997).

Le casse si caricano di una funzione sociale che emerge in qualsiasi manifestazione e soprattutto emerge nel giudizio collettivo che su di esse viene dato.

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Per dare maggiore applicabilità alla loro funzione educatrice, le casse attuavano per lo più orari differenziati per il deposito rispetto a quelli per il ritiro dei risparmi: gli orari di apertura per i depositi di solito erano alla domenica mattina, al fine di salvaguardare la paga settimanale, stimolando i risparmiatori a passare dalla cassa dopo la messa festiva e prima di recarsi in osteria; per contro le operazioni di prelievo erano scoraggiate il più possibile e rese difficili: occorreva preavvisare con largo anticipo e si potevano effettuare operazioni di ritiro delle somme solo il venerdì o il mercoledì, con orario ridotto di una o due ore a metà mattinata.

Nell’istanza educatrice, in qualche modo paternalistica dei promotori, è sempre presente l’utilità sociale e pubblica dell’istituzione della cassa di risparmio: la cassa non è mai vista per sé stessa, come organismo creditizio fondato da privati più o meno illuminati, oppure da benefattori, ma è sempre vista in funzione del bene collettivo.

Un elemento ulteriore che rafforza la prima istanza pubblica delle casse è dato dagli impieghi delle casse stesse, dove in particolare per quelle che nascono come emanazione di enti morali o enti amministrativi (ma non solo per quelle), gli impieghi – come già accennato – sono indirizzati quasi esclusivamente al finanziamento delle opere pubbliche (mutui chirografari) e successivamente verso i titoli pubblici dello stato e delle singole città. Non tutte le casse seguono la stessa istanza, nonostante la simile configurazione statutaria. Per alcune la principale spinta è l’incentivo al risparmio in senso proprio, conseguente alle condizioni economiche che mutano e che conducono alla propensione al risparmio stesso. In questo caso si pone un collegamento stretto tra l’aumento delle disponibilità di reddito derivante dallo sviluppo economico del paese e la nascita e diffusione degli istituti: “è la nuova pressante domanda di capitali che aveva accompagnato i rivolgimenti economici in Europa (Pavanelli 1991) che stimolerebbe la nascita delle banche e con esse anche delle casse nella ricerca di forme e di canali per la formazione dei capitali autoctoni. Non è facile trovare esempi calzanti per tale seconda ipotesi di spiegazione della nascita delle casse: non lo è per l’Italia del XIX secolo, almeno fino agli ultimi due decenni, anche

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perché la spinta al risparmio in senso proprio richiama una fase di sviluppo economico sostenuto, dinamico e comunque ad un livello difficilmente attribuibile alla situazione della penisola, almeno fino alla fase del “decollo”, vale a dire al periodo giolittiano.

Antonio Confalonieri, nella sua opera Banca e industria, sottolinea il ritardo con cui la maggior parte delle casse ottocentesche giungono ad ampliare la forma degli impieghi, ovvero a destinarli non solo ai crediti ipotecari e ai titoli pubblici, ma anche allo sconto cambiario, investimento strettamente legato alle fasi dello sviluppo economico sia nella crescita che nella fase di depressione. L’accusa non lascia solo le casse, anzi per loro natura essere potevano avere qualche giustificazione in più a non praticare lo sconto bancario; l’osservazione è diretta a tutto il settore del credito ordinario. Nelle casse più che in altri istituti, prevale la cautela nella scelta degli impieghi, vengono mantenute le misure restrittive nella raccolta dei depositi, come nelle strategie degli investimenti, sia pure in presenza di qualche esempio (come le casse emiliane) che registrava metodi gestionali più vicini al credito ordinario praticato dalle banche private, orientate a forme d’impiego più legate alla domanda di sviluppo delle imprese. Nel 1907, per fare un esempio di un anno per il quale si dispone dei dati completi, la percentuale degli impieghi cambiari è del 41,9% rispetto al totale nella Cassa di Parma, del 37,6% nella Cassa di Ravenna, del 20,7% in quella di Venezia, 8,6% per Torino, 0,4% per Lucca, mentre non esiste proprio per quelle di Genova e Pisa (Confalonieri 1980). La differenza degli impieghi è in qualche modo il derivato netto del modo di concepire la funzione delle casse di risparmio nel contesto dello sviluppo economico e del ruolo che esse si accollano quando, dopo la crisi del 1887-1893, nascono nuove grandi banche d’affari e sono ormai molto diffuse le banche popolari. Molte casse rimarranno sempre caratterizzate da atteggiamento di grande prudenza negli impieghi, poco propense ad impegnarsi, se non marginalmente, al di fuori del finanziamento delle opere di pubblica utilità o dell’acquisizione di titoli di stato, come cartelle della rendita fondiaria, cartelle di debito pubblico delle singole città. Con l’età giolittiana, senza deroga alla tradizionale cautela e come dimostrano i dati riportati, alcune casse entrano nel

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circuito dei mercati finanziari e degli investimenti industriali; le operazioni di credito assumono la forma tecnica dello sconto cambiario. L’esempio non resterà isolato e sulla scia delle banche emiliane altre casse si pongono sulla stessa operatività in concorrenza con le banche ordinarie, con le banche popolari e con tutte le altre banche private. Si modificano gli impieghi, ma non diminuisce la stabilità né si attenua l’immagine solida delle casse di risparmio, anzi in quel momento si consolida la lunga tendenza alla crescita dei depositi e si stabilizza la quota del risparmio nazionale amministrato dalle casse per oltre il 53%. Di conseguenza, nonostante la loro tradizionale prudenza, le casse finiscono per mobilitare gran parte della liquidità esistente nel sistema, “contribuendo in misura importante allo sviluppo economico del paese”. Per fare un esempio, la Cariplo nel 1897 iscrive a bilancio titoli pubblici pari al 68% dell’attivo; nel 1913 tale posta è scesa di quasi 20 punti e il portafoglio effetti nel medesimo intervallo passa da 1,5% a 7%, a favore dello sconto verso le grandi compagnie ferroviarie e le imprese industriali di trasformazione o di produzione e distribuzione dell’energia elettrica.

1.1.3 Iter giuridico

Di fronte all’evoluzione quantitativa e alle tendenze negli impieghi la legislazione sulle casse faticherà a trovare un assetto certo e coerente. La dicotomia tra le casse nate come fondazioni emanate da enti morali o organismi della collettività, o sorte dall’associazione tra privati, come società di persone a responsabilità limitata, si ripercuote nella definizione della loro essenza e natura giuridica. Fu subito molto vivace il dibattito tra chi le riteneva elementi con forte valenza pubblica e dunque soggetti alle norme della giurisprudenza pubblicistica e chi invece le vedeva come istituti privati a tutti gli effetti e dunque collocabili alla normativa privatistica. La discussione portava in superficie una situazione profonda di fatto insita nella loro stessa natura, vale a dire nella doppia anima delle casse. Se è vero che esse tutte indistintamente nacquero per raccogliere i risparmi delle categorie più deboli, per educare alla previdenza e al risparmio, è altresì vero che una parte di esse dopo poco dalla loro fondazione – come si è

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visto – funzionarono come vere e proprie istituzioni bancarie, raccogliendo e impiegando con prudenza, ma liberamente.

Le casse nate come emanazione diretta degli enti morali volevano mantenere integra l’identità originaria, ma si andavano caricando sul campo operativo di strumenti progressivamente ampi e dilatati rispetto al compito istituzionale della previdenza e del risparmio, vale a dire rispetto alle originarie funzioni. La causa della metamorfosi era da ricercarsi proprio nel fatto che verso le casse affluivano quantità elevate di depositi tali da modificare il “depositante tipo” delle origini; vale a dire il piccolo artigiano, il contadino, l’operaio lasciavano spazio al risparmiatore ricco, al proprietario terriero, al professionista, all’industriale. Il mutamento provocava stridenti contrasti con le finalità statutarie e non mancarono casi in cui esse posero pesi e contrappesi per scoraggiare – come già accennato – l’afflusso dei depositi, innalzando la soglia della parte infruttifera, ponendo altri vincoli per i depositanti più ricchi. In fondo, dopo la prima fase di istituti per la mobilitazione delle finalità previdenziali e di educazione al risparmio per le classi meno abbienti all’interno di iniziative filantropiche, il passaggio successivo registra la massimizzazione del risultato degli investimenti e l’espansione dell’attività, quale obiettivo per la propria operatività.

La distinzione tra fedeltà ai principi originari e istanze nuove di funzionalità operativa aveva dei riferimenti precisi: da una parte un gruppo di casse più propenso a riconoscere il proprio carattere di funzione sociale, cauto nella gestione, orientato ad impieghi sicuri, anche se di modesto rendimento, dall’altra un gruppo formato da istituti maggiormente disposti a privilegiare l’attività più propriamente bancaria e a investire buona parte delle disponibilità in sconti cambiari. Se l’anima è biunivoca, nel medio lungo periodo pressoché tutte le casse di risparmio si discostano, ma senza ripudiarlo, dal modello dell’opera pia e sviluppano funzioni tipiche degli istituti di credito ordinario. Di fronte al cambiamento sono soprattutto le fondazioni, quale emanazione pubblica, che chiedono autonomia operativa rispetto agli enti di appartenenza, per potere essere in grado di inserirsi in maniera dinamica sul mercato che va rapidamente mutando e richiedono ordinamenti più plausibili con le nuove strategie per la

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raccolta e l’impiego di capitale. Permaneva il loro carattere fondamentale di enti di utilità pubblica, utilità sociale. Originate da comuni, province, opere pie, o da privati esse mantenevano comunque finalità operative senza fini di lucro ed erano, come ebbe a dire Luigi Luzzati in parlamento nel 1875, “un’opera di Stato”. Il saggio d’interesse sui mutui era tra il 3 ed il 4% - 4,5% e così rimase praticamente dalle loro origini fino alla fine del XIX secolo; operavano in maniera non profit e svolgevano la loro attività non soltanto nei ristretti confini delle loro città o provincia. Soprattutto i crediti agli enti locali (o a chi forniva opere di pubblica utilità per conto delle amministrazioni pubbliche) erano una voce importante degli impieghi non limitati al solo territorio di loro stretta competenza.

Nella frizione tra le finalità statutarie e l’operatività finanziaria, le casse sono costantemente considerate dal legislatore opere pie. Nel 1855, le casse furono ancora classificate tra le istituzioni di beneficenza e accostate alle società operaie di mutuo soccorso, alle società di assicurazione sulla vita, alle casse di pensione e vecchiaia. La medesima qualifica rimase nei Congressi internazionali di Parigi del 1855 e successivamente del 1868. Nel quadro legislativo del nuovo regno, per decreto governativo, le casse sono incluse nell’elenco delle Opere pie e sottoposte al Ministero dell’Interno. Appena però fu istituito il ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, le Casse di risparmio, i Monti di Pietà ed i Monti frumentari, con decreto del 26 gennaio 1862 (n°449), passarono sotto le competenze del nuovo ministero. Il transito dagli Interni all’Agricoltura non risolveva di certo il problema di fondo, ma pareva dar ragione a chi vedeva nelle casse prevalenti caratteristiche commerciali anziché funzioni tipiche delle opere pie. Tre mesi dopo un nuovo regio decreto (21 aprile 1862, n°592) stabiliva che le casse “fondate da opere pie tornassero a dipendere dal ministero degli interni e fossero soggette alla normativa sulle istituzioni di beneficenza, mentre le altre continuassero a rimanere sotto la vigilanza del ministero di agricoltura”. L’ibrida situazione rispecchiava l’incertezza di fondo. Nel 1864, il r.d. del 26 giugno (n° 1911) ricondusse tutte le casse alla sorveglianza del ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Il ministro degli Interni nell’occasione emanò una

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circolare in cui sottolineava l’elemento predominante nella “mera beneficenza” (che dunque le avrebbe poste sotto la sua competenza), ma “frequenti sorgevano i conflitti per la loro classificazione, e quindi il ritardo nel corso degli affari, e le lagnanze degli interessati”, per cui il legislatore aveva ritenuto più opportuna l’assegnazione al ministero dell’Agricoltura. Il decreto – dice il ministro – distingue tra le intenzioni del fondatore e gli effetti che la cassa produce e attribuisce a questi il carattere, più “profondamente” che le intenzioni iniziali. Le casse di risparmio – continua – non hanno “per intrinseca e propria indole la beneficenza, ma più propriamente il credito ed il risparmio”.

Il decreto e le spiegazioni non convinsero tutti. Si mantenne ancora aperto un lungo contenzioso sul ministero da cui dovevano dipendere e di conseguenza restava irrisolta la questione della loro natura giuridica. Di fatto via via che le casse crescono per numero, che cresce il volume di capitale raccolto e il loro peso economico e finanziario nell’ambito delle comunità locali ed in quello nazionale, esse propendono sempre più verso la sponda di istituti di credito ordinario. Il ministero degli Interni chiese in merito alla natura delle casse il parere del Consiglio di Stato. Il 21 luglio 1874 nella sentenza il Consiglio pone come dovere del governo “di temperare e correggere il movimento di trasformazione che tira le casse di risparmio a costituirsi in banche e in istituti di credito”. Il Consiglio non fornì comunque una risposta ultimativa sulla vexata

quaestio della natura di beneficenza o di istituti commerciali, escluse però che le

casse potessero essere considerate opere pie e dunque soggette al controllo e alla normativa del ministero degli Interni, ma non potevano neppure essere considerate – aggiunse – vere e proprie società commerciali e come tali al di fuori da ogni ingerenza governativa. Esse erano considerate “istituzioni autonome di natura pubblica destinate a raccogliere ed impiegare il risparmio in conformità ai propri statuti”; alla fine – nella sentenza – furono considerate istituti di previdenza e come tali soggette alla vigilanza governativa, operata dal ministero dell’Agricoltura.

Il governo recepì il parere e un nuovo decreto reiterò nel 1878 (8 settembre) l’assoggettamento alle competenze del ministero dell’Agricoltura, Industria e

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Commercio. Inizia allora un lungo braccio di ferro tra casse di risparmio e stato dove da una parte c’è la difesa della propria autonomia senza rifiuto delle finalità originarie, dall’altra c’è la propensione a dettare le condizioni statutarie ed organizzative, innestando meccanismi di riduzione dell’autonomia delle casse stesse. In quegli stessi anni il parlamento aveva promosso l’inchiesta Lebrecht (1874-75), dalla quale emerge la convergenza delle casse per fronteggiare tutte insieme il progetto di ingerenza governativa, ma in ogni loro atto e mozione vi è sempre la forte puntualizzazione della loro funzione sociale, della loro natura di pubblica utilità e della loro efficienza, per cui dati i loro risultati decisamente positivi, non vi era necessità di alcun aggiustamento normativo che prevedesse controlli pubblici sul loro operato.

La questione sulla natura rimaneva ancora oggetto di discussione. Il 30 novembre 1881 l’onorevole Berti presenta al parlamento un suo progetto di legge che, oltre a fissare nuovi meccanismi di controllo da parte dello stato, prevedeva il contributo di due decimi dell’utile per ciascuna cassa a favore della Cassa nazionale di pensioni per la vecchiaia che doveva essere istituita sul progetto di legge dello stesso Berti, di concerto con il ministro delle Finanze Magliani e del ministro dei Lavori pubblici Baccarini. Il progetto esaltava la funzione di previdenza sociale delle casse, le classificava come opere pie, ma soprattutto entrava nel merito della destinazione degli utili, aprendo una breccia pericolosa per l’autonomia delle casse. La richiesta dei due decimi trova praticamente tutte le casse schierate contro il progetto di legge. Le casse si coalizzano e proprio sulla reazione al progetto si pongono le basi per l’avvicinamento tra loro degli istituti, non ancora organizzati in un organismo rappresentativo di categoria. Per la prima volta nella loro storia a Bologna si riunirono i rappresentanti di 44 casse per approvare una mozione di forte condanna al progetto. Berti, deputato eletto a Torino, trovandosi contro anche la cassa di risparmio della sua città, modificò il progetto ed inviò una lunga lettera di spiegazione proprio alla Cassa di Torino. La legge Berti non passò. Di fatto il governo in quel momento cercava il sostegno finanziario delle casse, cercava di convincerle ad esercitare più massicciamente il credito agrario e a divenire veri e propri istituti per il credito

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fondiario, attività fortemente carente per lo sviluppo del settore primario. Le clausole poste e la necessità dei controlli e delle autorizzazioni governative all’operatività delle casse per l’esercizio del credito agrario e di quello fondiario sconsigliarono di entrare in un terreno che avrebbe minato (a parere di alcuni) la loro autonomia. Già in precedenza la normativa del 14 giugno 1866 autorizzava quattro banche (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, Opera pia San Paolo di Torino) e due casse (Cassa di Risparmio di Lombardia e Cassa di Risparmio di Bologna) ad esercitare il credito fondiario, tentando di fare una breccia, per trovare risorse da destinare a questa particolare forma di credito. Il provvedimento derivava dalla strategia del ministro dell’Agricoltura Torelli per sollecitare le casse all’esercizio del credito speciale, secondo il principio per cui le casse di risparmio dei grandi centri urbani avrebbero dovuto praticare il credito fondiario, quelle operanti in realtà più rurali avrebbero dovuto invece esercitare il credito agrario. La normativa del 1864 prevedeva la divisione del territorio nazionale in zone, nelle quali gli istituti indicati potevano operare in maniera monopolistica, ma non ottenne apprezzabili risultati. Più efficace fu forse la legge del 21 giugno 1869 (n° 5610) per l’istituzione di società ed enti di credito agrario uno per ogni provincia. Le casse furono sollecitate in tale direzione, ma esse da una parte erano gelose della propria autonomia operativa, dall’altra ispiravano le loro scelte e strategie d’impiego nella maggioranza dei casi a criteri di massima prudenza e non si sentivano attratte verso avventurosi finanziamenti, in un settore soggetto alle incertezze della stagionalità dei raccolti, prive di adeguate garanzie e con obiettivi diversi rispetto alle loro finalità statutarie, per cui la risposta fu molto tiepida. In dieci anni (dal 1870 al 1879) il numero degli istituti che esercitavano il credito speciale passò da quattro a dodici, con appena 11 milioni di capitale. Con la nuova legge del 1885 in materia di credito fondiario e credito agrario l’entrata delle casse in questo settore speciale nel mercato del credito si fece moderatamente più consistente, anche se tale forma di credito – rispetto al livello dei paesi più avanzati – rimase ancora scarsamente praticato. Neppure l’entrata in vigore della legge del 23 gennaio 1887, che

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