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La valutazione delle aziende nelle procedure fallimentari. Aspetti teorici ed evidenze empiriche.

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Academic year: 2021

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PARTE I 3

1. AZIENDA: VALORE E VALUTAZIONE 3

1.1. L’Azienda e l’oggetto di valutazione 3

1.2. L’Obbiettivo dell’azienda: Creare valore 4

1.3. Tipologie e relatività del Valore 5

1.4. Differenza tra valore e prezzo 6

1.5. Valutazione strategica dell’azienda 7

1.6. Fasi del processo valutativo 8

2. PRINCIPALI METODI DI VALUTAZIONE (CENNI) 10

2.1. Approccio e scelta del metodo 10

2.2. Metodo Patrimoniale 11

2.3. Metodo Reddituale 13

2.4. Metodi Finanziari 15

2.5. Metodi Misti 15

2.6. Metodi Empirici 16

3. ASPETTI FORMALI DELLA RELAZIONE DI STIMA 17

3.1. Profilo professionale del valutatore 17

3.2. Scelte e contenuto della relazione 18

3.3. Errori e responsabilità del valutatore 19

PARTE II 21

4. LA CRISI DELL’IMPRESA 21

5. UNITED STATES BANKRUPTCY CODE 24

5.1. L’AICPA 26

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5.3. Problematiche affrontate nella valutazione 32

5.4. I metodi di valutazione 37

5.4.1. Income Approach 37

5.4.2. Market Approach 54

5.5. Gli Intangible Assets e il Goodwill 63

5.6. Le rettifiche di valore sistematiche e non sistematiche 74

5.7. Studio delle relazioni tra caratteristiche aziendali e risultati del Chapter 11 di imprese entrate

nella procedura fallimentare tra gli anni 1985-1994. 80

5.7.1. Influenza sulla durata nel Chapter 11. 82

5.7.2. Influenza sugli esiti del Chaper 11. 83

5.7.3. Performance dopo il rientro sul mercato come impresa indipendente. 86

PARTE III 87

6. ANALISI RELAZIONI DI STIMA DI AZIENDE ITALIANE SOGGETTE A

PROCEDURE CONCORSUALI. 87

6.1. Breve analisi sulle relazioni di stima considerate 90

6.2. Informativa sulla relazione 130

6.2.1. Cambiamenti nel settore farmaceutico in Italia. 135

6.3. Metodi di valutazione. 137

6.4. Parametri. 154

6.5. Sintesi valutativa 159

7. CONCLUSIONI 160

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3 Parte I

1. Azienda: valore e valutazione

1.1. L’Azienda e l’oggetto di valutazione

La valutazione d’azienda è oggi uno degli argomenti centrali della ricerca teorica e degli studi professionali; questo è dovuto al moltiplicarsi del numero di operazioni straordinarie come acquisizioni, cessioni, ristrutturazioni, quotazioni , fusioni, scissioni, ecc.., che hanno portato ad una sempre maggiore attenzione alla materia e alla nascita di innovative metodologie da affiancare alle tecniche valutative tradizionali. Queste nuove tecniche, tuttavia, ad oggi non dispongono di un saldo approccio teorico, e quindi non trovano, sul piano operativo, un’ampia e generalizzata diffusione. La valutazione d’azienda non esaurisce l’ambito nelle sole operazioni straordinarie. Il bilancio e l’informativa ordinaria di esercizio non sono adatti a stimare il valore dell’azienda, soprattutto in ottica strategica: le metodologie di valutazione d’azienda, invece, rilevare e presentare le tematiche di creazione e mantenimento del valore, ad oggi sempre più importanti visto i continui impulsi competitivi.

Il codice civile, all’articolo 2555, definisce l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio d’impresa”1. L’azienda si distingue infatti nettamente dai singoli beni che la compongono: essa è infatti considerata come complesso organico di elementi organizzati per l’esercizio d’impresa, dotata di avviamento. Si ha “azienda” non con una semplice somma di beni destinati all’esercizio dell’impresa, ma con un insieme di elementi, materiali e immateriali, che costituiscono un complesso organico e funzionalmente coordinati per il raggiungimento del fine per quale sono stati aggregati. Le valutazioni possono riguardare l’azienda nel suo complesso, oppure i suoi “rami”, e cioè sezioni operative suscettibili di valore autonomo. Un esempio sono le ASA, area strategica d’affari, che consistono un insieme di risorse aventi logiche di prodotto e di mercato a valenza strategica, dotate di una certa autonomia e capaci di creare valore. Suscettibili di valutazione sono anche le divisioni aziendali, e cioè entità produttive e commerciali aventi responsabilità di profitto, e anche i processi (progettazione, marketing, produzione) visto il fine di creare valore. Tutte queste entità hanno in comune l’unitarietà funzionale dei fattori aziendali. Nel caso di una cessione, ad esempio, si parla di cessione d’azienda quando l’universalità dei beni viene alienata e destinata a un nuovo

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imprenditore, con l’ottica di continuazione dell’attività aziendale. Si ha sempre cessione d’azienda quando, anche con ripetute alienazioni di singoli beni aziendali, viene mantenuta l’unitarietà funzionale. Si parla invece di liquidazione quando i beni vengono disgiunti e valutati singolarmente. La finalità della valutazione incide sulla configurazione del capitale: se si ha cessazione dell’attività e si alienano i beni in maniera atomistica e non sistemica, la valutazione esprimerà un capitale di liquidazione; al contrario, se l’ipotesi è quella di continuazione d’impresa, si ricercherà il valore del capitale di funzionamento.

1.2. L’Obbiettivo dell’azienda: Creare valore

L’azienda esiste per il fine di creare valore, e la sua sopravvivenza nel lungo periodo deriva dal maggior aumento di valore della stessa rispetto alle risorse che ha impiegato per ottenerlo. La massimizzazione del valore del capitale d’impresa, in un sistema economico di mercato, costituisce indubbiamente l’obbiettivo primario, al punto che il valore del capitale costituisce il più significativo indicatore della qualità economica della gestione aziendale. La base per ricercare l’obbiettivo della creazione di valore è la definizione di strategie aziendali idonee, attuando inoltre un adeguamento della struttura organizzativa dell’impresa: tutta l’azienda deve avere il solito obbiettivo. Le basi teoriche che avvalorano questo tipo di approccio strategico ed operativo vengono rafforzate anche dalla teoria di creazione e diffusione del valore. Quest’ultima si basa sulla ricerca di legami tra le regole della finanza e quelle di conduzione strategica e operativa dell’azienda. Secondo questa teoria, la creazione di valore in azienda si basa su due momenti organizzativi: il controllo, cioè la misurazione periodica del valore, e la gestione, cioè l’applicazione operativa di un approccio sistematico alla ricerca di un nuovo valore. L’obbiettivo di creazione di valore dovrà essere supportato da un’analisi di ogni opportunità che si presenterà nella vita giornaliera dell’azienda, e quindi non dovrà essere ricercato solo attraverso scelte oculate di natura straordinaria, ma dovranno riguardare tutte le scelte riguardanti alla gestione operativa. Lo strumento che ha avuto negli ultimi anni una diffusione ed un’accettazione anche al di fuori dei confini degli Stati Uniti consiste nel value-based planning2. Questo strumento consente all’azienda di effettuare un’analisi sulla capacità di creare valore delle proprie aree strategiche d’affari, e fornire un valido aiuto al management sulle scelte di distribuzione delle risorse all’interno dell’azienda: le aree caratterizzate da performance più alte riceveranno quindi maggiori risorse, poiché più capaci di creare valore, mentre per

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le aree strategiche d’affari in cui si registri una distruzione di valore dovranno essere prese decisioni riguardo alla possibile cessione o liquidazione. Un aspetto della teoria di creazione e di diffusione consiste nel considerare la massimizzazione del valore per gli azionisti un elemento fondamentale per la sopravvivenza dell’azienda nel lungo periodo. L’evidenza empirica riscontrata nel mercato americano indica che la ricerca di creazione del valore per l’azionista non danneggia nessun tipo di altro stakeholders, ma, al contrario, crea valore per tutti i soggetti aventi interessi all’azienda, soprattutto in un’ottica di lungo periodo. Le imprese vincenti sul mercato infatti creano valore per tutti gli stakeholders, che siano essi clienti, lavoratori, pubblica amministrazione o fornitori. Al fine di controllare la dinamica del valore, le imprese utilizzano idonei indicatori volti a rilevare dei differenziali. Tali differenziali di valore assumano denominazioni diverse a seconda del criterio di definizione dei valori di riferimento. Si parlerà quindi di valore del capitale economico per indicare quel valore che, meglio di altri, esprime le caratteristiche dei metodi analitici di stima (razionalità, dimostrabilità, neutralità). Si parlerà di valore potenziale del capitale per indicare il valore rapportabile alle sinergie da porre in essere e che esprime risultati futuri. Il valore di mercato di capitale è, infine, quel valore che esprime prezzi probabili ovvero negoziabili per una data azienda, le cui tecniche più usate per rilevarlo sono l’approccio delle società comparabili e l’approccio delle transazioni comparabili. Il valore creato, però, è difficilmente quantificabile con i classici strumenti di misurazione aziendale quali bilanci, rendiconti, indici ed analisi finanziarie, ecc. Per queste ragioni sono in corso elaborazione misurazioni, non ancora perfezionate teoricamente, di performance sulla creazione o distruzione di valore. Gli indicatori che stanno prendendo sempre più importanza nei controlli strategico-gestionali dell’aziende sono l’EVA (economic value added), il REI (risultato economico integrato), e il REIR (risultato economico integrato residuale).

1.3. Tipologie e relatività del Valore

Valutare il capitale economico d’impresa significa attribuire un valore all’azienda. Il capitale economico d’impresa è caratterizzato essenzialmente da due requisiti: astrattezza e genericità. Astratto in quanto prescinde dalle caratteristiche e dalla natura delle parti, dagli specifici interessi in gioco e dalla forza contrattuale che esprimono i soggetti protagonisti della negoziazione; generale in quanto l’ammontare è valevole per tutti i potenziali attori

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coinvolti in condizioni normali di mercato3. Per essere realmente obbiettivo, il valore non deve essere influenzato da fattori esogeni di mercato e da circostanze esterne. Il valore del capitale economico di un’azienda, anche se per definizione obbiettivo, non può essere considerato una unità assoluta e univocamente determinabile, ma è un valore relativo, anche in funzione dell’obbiettivo perseguito dalla valutazione. Se il valore è stimato per conto di una specifica parte (cedente o acquirente), esso risentirà dei vantaggi conseguibili dall’implementazione nel complesso aziendale già di proprietà del soggetto, e sconta le attese dei soggetti economici interessati all’operazione. Sarà dunque un valore soggettivo. L’asimmetria informativa presente ed ineliminabile tra venditore ed acquirente comporta differenze di valore anche sulla valutazione stand alone, ossia quando l’azienda viene valutata in se stessa, nelle condizioni in cui si trova, operante gestionalmente in via autonoma, e priva di legami operativi e finanziari con il contesto in cui si colloca. Se invece si intende ricercare il valore in ottica prospettica, in quanto espressione del prevedibile futuro aziendale, il valore è chiamato potenziale. Il valore potenziale lega il risultato della valutazione a obbiettivi il cui raggiungimento è solo possibile, in quanto derivante dalle aspettative su flussi non derivanti da risultati pregressi e su diversi panorami e assetti strategici. Anche la scelta del metodo produce un risultato finale diverso da quello quantificato da un altro metodo perché le ipotesi e gli elementi considerati sono differenti, e le varie formule considerano certi aspetti invece non trattati con metodi diversi. I risultati valutativi, per tutti questi aspetti, possono andare a sopravvalutare o a sottovalutare, seppur non di proposito, il complesso aziendale, con il rischio di distrorcerne i valori e di minare l’attendibilità della stima. Per mitigare il rischio di attendibilità, possono essere attuati alcuni accorgimenti operativi, come ricorrere ad una pluralità di criteri valutativi, e far riferimento a giudizi di valore esterni al proprio ambito valutativo. In generale, per circoscrivere l’aleatorietà delle scelte soggettive del valutatore, nelle valutazioni d’azienda ci si ispira sempre a dei principi, elencati a volte dalla legge ed a volte dalla prassi professionale: neutralità delle valutazioni, unitarietà dei dati aziendali, significatività dei dati, chiarezza di analisi, rigore metodologico e trasparenza del mandato.

1.4. Differenza tra valore e prezzo

Il prezzo di contrattazione raramente coincide con il valore teorico di valutazione. Il prezzo, economicamente, si determina come l’incontro tra domanda ed offerta, tra il

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venditore e uno o più offerenti, ed è quindi espresso dai mercati e dai singoli contraenti. Appurato ciò sarebbe sbagliato considerare valore e prezzo come due concetti autonomi e reciprocamente indipendenti: al contrario si può affermare che la base di partenza di ogni prezzo è il valore teorico dell’oggetto in questione4. Un fattore determinante per la differenza empirica tra valore e prezzo è l’unicità e il contesto in cui si svolgono le trattative. Il prezzo è influenzato da diversi fattori nella fase di contrattazione: situazione personale e prestigio dei contraenti, interessi economici, preferenze, utilità prospettiche (sinergie dell’offerente, migliorie tecniche e tecnologiche, eliminazione concorrenti), forza negoziale, abilità commerciale, modalità di pagamento, clausole contrattuali, ecc. Quando sono individuabili elementi di vantaggio o di svantaggio per le parti, il prezzo assume quindi un valore diverso, maggiore o minore, rispetto al valore economico, influenzato anche dalla specifica fattispecie di trasferimento.

1.5. Valutazione strategica dell’azienda

La valutazione strategica non si pone come alternativa rispetto alla valutazione tradizionale, bensì in maniera complementare. La valutazione strategica è infatti considerata integrativa della valutazione tradizionale. La valutazione tradizionale non prende in considerazione, ed è questo un suo evidente limite, il sistema competitivo in cui l’azienda è inserita, l’attrattività del settore e l’area strategica d’affari. Essa appare dunque limitata rispetto la valutazione strategica, che invece fornisce informazioni sul contesto nel quale si inserisce l’azienda. La valutazione strategica pone la sua attenzione su determinati argomenti: finalità dell’azienda, contesto ambientale e competitivo, e dotazione delle risorse umane e materiali. In sostanza la strategia traduce risorse ed opportunità in vantaggi competitivi. Il riferimento a vantaggi competitivi riguarda una valutazione redatta nell’ottica dell’acquirente: la valutazione strategica, in tale dimensione, riguarda le condizioni tecniche per acquisire o meno l’azienda, per cui l’acquirente decide di finalizzare l’operazione in relazione dei vantaggi competitivi che prevede di conseguire e/o mantenere nel tempo. In altre parole, l’acquirente valuta e privilegia le potenzialità sinergiche derivanti dall’inserimento dell’azienda nel proprio contesto economico, quantificando l’impegno delle risorse aziendali nell’ottica di incremento del valore economico di entrambe le entità una volta separate e, dopo l’operazione, integrate e coordinate per il raggiungimento di obbiettivi comuni. L’assorbimento delle risorse e la

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creazione di valore sono, dunque, gli elementi essenziali dai quali trarre conferma della convenienza dell’investimento. La quantificazione del capitale strategico può avvenire anche nell’ottica del venditore, e in questo caso il valore ricercato sarà quello derivante dal costo della perdita, ossia l’onere che il soggetto cedente dovrà subire per effetto dell’uscita dell’azienda-target dalla propria complessiva economia. Nell’operazione di cessione, nell’ottica di stima del valore strategico del capitale per il cedente, viene considerata una decisone di disinvestimento mediante il quale l’azienda valuta quale sia il valore minimo da conseguire, al fine di mantenere la capacità del complesso aziendale di creare valore, o nel caso di vendita totale del complesso aziendale, di quantificare monetariamente la capacità di creare valore. Anche la valutazione strategica ha però i suoi limiti: infatti, non evidenzia il valore latente e potenziale dell’azienda, che spesso è solo in embrione ed è impossibile quantificarlo con gli strumenti di analisi previsionale. Il valore cela una serie di opportunità che le scelte strategiche possono far nascere in futuro, ma le cui dimensioni e/o tempi di attuazione sono tutt’altro che prevedibili nel momento in cui tale scelta si va formando. La possibilità di sottostimare il valore di una scelta strategica è concreta con i metodi di valutazione strategica, a maggior ragione con i metodi tradizionali.

1.6. Fasi del processo valutativo

Il processo di valutazione può essere sintetizzato in almeno quattro fasi ritenute essenziali: definizione dell’obbiettivo della valutazione, raccolta e analisi delle informazioni, scelta e applicazione del metodo di stima, stesura della relazione sulla valutazione.

Nella prima fase vengono definiti l’obbiettivo della valutazione, in modo tale da limitare il campo da considerare e l’utilizzo specifico che ne verrà fatto. In un secondo momento si determinerà il valore di stima ritenuto, al caso, più appropriato e la data effettiva della valutazione, la più recente possibile. Il motivo della valutazione viene messo a punto nel corso di un colloquio preliminare con chi richiede la valutazione d’azienda; contemporaneamente verrà definito anche l’obbiettivo, e quindi il tipo di valore da stimare. Quest’ultimo è la prima delle conseguenze logiche dell’obbiettivo e comporta la scelta della definizione specifica di valore da utilizzarsi nel corso della valutazione.

Nella seconda fase vengono raccolte tutte le informazioni necessarie, interne ed esterne. Le informazioni interne vengono classificate tra quelle relative all’azienda e il suo assetto giuridico (storia, struttura, rapporti) e tra quelle tratte dai documenti contabili (dati generali, dati analitici, dati di bilancio, prodotti, personale). Le informazioni per gli aspetti

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esterni invece riguardano il mercato in cui si colloca l’azienda, la concorrenza, i clienti, la disponibilità di materie, e gli aspetti macroeconomici. La raccolta dei dati e delle informazioni costituisce il primo aspetto operativo: essa rappresenta una fase cruciale del processo di valutazione, perché dalla qualità delle informazioni raccolte dipende gran parte dell’attendibilità dei risultati della valutazione. Preliminare alla raccolta delle informazioni è la conoscenza, anche a grandi linee, della storia dell’azienda e delle sue situazioni attuali. Dalla fondazione alla sua situazione attuale, i dati raccolti, con indagini esterne ed interviste interne, forniscono al valutatore un quadro di riferimento al quale rapportare tutte le altre informazioni di cui verrà a conoscenza. L’importanza della visione storica dell’azienda sta nel fatto che le previsioni economiche future devono essere coerenti con l’evoluzione storica dell’azienda, e quindi in un certo senso, legittima le stesse previsioni. La fase successiva di analisi coinvolge i documenti contabili, le più qualificate fonti del quale può disporre il valutatore. Maggiore interesse sarà dato, ovviamente, agli ultimi esercizi, soprattutto gli ultimi cinque (per effettuare confronti e verificare situazioni di instabilità). I documenti di maggiore rilevanza sono gli stati patrimoniali, i conti economici, le note integrative, i rendiconti finanziari, i libri contabili, le dichiarazioni fiscali. Per quanto riguarda le analisi esterne, queste riguarderanno soprattutto il settore e l’ambiente (locale, nazionale, internazionale) nel quale l’azienda opera. L’analisi strategica e del contesto ambientale rappresenta un elemento molto importante su cui poggia l’affidabilità e la credibilità degli scenari previsionali necessari nella valutazione. Le informazioni inerenti il settore vertono sull’analisi della concorrenza, delle situazioni di mercato, la crescita futura del settore, vincoli normativi e legislativi, l’evoluzione delle tecniche di marketing, l’andamento dell’inflazione e dei tassi d’interesse, relazioni tra imprese ed enti pubblici e privati. L’analisi della documentazione raccolta spesso non è sufficiente a valutare le risorse dell’azienda, specie quelle intangibili, che concorrono a determinare il vantaggio competitivo e quindi il valore. Per questo si rendono necessari anche dei sopralluoghi, delle riunioni e delle interviste ai responsabili. Le informazioni devono inoltre avere dei requisiti essenziali, al fine dell’analisi per la valutazione, che sono l’affidabilità, la completezza, l’aggiornamento, specie se sono ricavate da dati previsionali, per le quali occorre verificare plausibilità e coerenza. Successivamente tutte le informazioni raccolte verranno controllate con scrupolosità e verranno scartate quelle ritenute inutili o insignificanti. Anche in questa fase sarà indispensabile l’abilità del valutatore, sia grazie alle proprie esperienze, che alle conoscenze di tipo economico-aziendale, e alle conoscenze di funzionamento del tipo di azienda da valutare.

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10 2. Principali metodi di valutazione (cenni)

2.1. Approccio e scelta del metodo

La valutazione dell’azienda è un’operazione complessa e delicata. Il valutatore ha l’onere di vagliare criticamente le soluzioni e i metodi meglio adattabili al caso in questione, con adeguate motivazioni. L’importanza delle scelte del metodo di valutazione è fondamentale, poiché a seconda della scelta si ottiene un valore dell’azienda diverso. Al fine di limitare il livello di soggettività che condiziona ogni valutazione, il valutatore dovrà seguire dei principi: obbiettività, neutralità, razionalità, stabilità. L’obbiettività è riferita al contenuto del metodo, depurato da considerazioni soggettive e discrezionali, ma riferito a dati certi, autonomi e controllabili. Senza questa caratteristica, alcuni procedimenti potrebbero essere perfetti dal punto di vista teorico, ma non attendibili nei risultati poiché fanno riferimento a scelte arbitrarie e dati non disponibili. Maggiore è il grado di soggettività dei dati, minore è l’affidabilità del metodo. Quando tuttavia è inevitabile la stima da parte del valutatore di alcuni dati, la credibilità dei risultati è in funzione della professionalità, esperienza e indipendenza del valutatore stesso. Proprio per questo motivo, la valutazione dovrà avere il carattere della neutralità, e quindi prescindere dagli interessi delle parti, ed essere autonoma e generale. Il terzo carattere fondamentale, e cioè la razionalità, si basa sul presupposto di presentare un processo logico chiaro e convincente, oltre che compatibile con l’applicazione della formula teorica adatta al caso in questione. Anche con questi accorgimenti, è molto difficile applicare un metodo perfetto al caso in questione, a causa della variabilità e numerosità delle variabili in gioco. Infine il metodo deve essere stabile, e cioè il valore non deve essere influenzato da elementi provvisori, mutevoli, elementi straordinari non ripetibili, situazioni eccezionali una tantum. Il mancato rispetto di questo principio potrebbe minare l’attendibilità dell’intera valutazione, dato che il considerare elementi effimeri e instabili, potrebbe portare a risultati validi al momento della stima, ma perdere attendibilità in breve tempo a causa di sostanziali mutamenti nelle ipotesi che le hanno generate.

Riguardo gli approcci valutativi, a differenza della maggiore varietà delle metodologie di valutazione, sono riconducibili a 4 tipologie: approccio patrimoniale, approccio basato sui flussi di risultato, approccio basato sulle creazioni di valore, approccio di mercato. L’approccio patrimoniale si fonda sul principio della valutazione analitica dei singoli elementi dell’attivo e del passivo che compongono il capitale. A seconda della considerazione o meno degli elementi immateriali nella considerazione di stima, si

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distinguono in: metodi patrimoniali semplici che escludono i beni immateriale (intangibles); metodi patrimoniali complessi, che comportano la valorizzazione specifica delle risorse intangibili. Il principio secondo cui il valore dell’azienda è dato dalla capacità di generare risultati economici è alla base dell’approccio basato sui flussi di risultato. Con questo approccio, il valore del capitale aziendale è stimato in funzione dei flussi dei risultati futuri attesi e può essere ottenuto mediante: metodi reddituali, che stimano il valore dell’azienda con il reddito aziendale; metodi finanziari, che individuano nei flussi di cassa l’elemento fondamentale al fine della determinazione della stima. La terza tipologia di approccio, basato sulla creazione di valore, valuta il capitale dell’azienda in funzione sia della dotazione dei beni disponibili, sia della capacità del management di ottenere margini di remunerazione superiori del nomale. Rientrano nell’approccio in esame il metodo misto patrimoniale/reddituale, e il metodo EVA. L’ultimo approccio è quello di mercato e concepisce il valore dell’azienda in funzione dei prezzi espressi dai mercati regolamentati o in negoziazione private. I metodi derivanti da questo approccio sono il metodo dei multipli di borsa, il metodo delle società comparabili, e delle società comparabili. Nonostante le diverse metodologie valutative, non esiste il metodo ottimale da applicare alla fattispecie operativa, né esistono precise disposizioni normative, ma occorrerà scegliere il maggiormente adatto all’azienda oggetto di valutazione. Per ovviare all’eccessiva incidenza di scelte soggettive da parte del valutatore, si ricorre solitamente a più metodi. Si definisce metodo base il metodo che meglio si adatta al caso in questione, e metodi di controllo quei metodi secondari calcolati per essere confrontati con il valore stimato nel metodo base. Il ricorso a una pluralità di metodi è possibile a condizione che ognuno di essi sia compatibile con la finalità della valutazione e con le caratteristiche dell’azienda. Le influenze delle scuole di pensiero in materia di valutazione ha portato ad applicare maggiormente i metodi economico-patrimoniali (patrimoniali, reddituali, misti) in Europa continentale, Giappone e in molti paesi asiatici. Nell’area anglosassone e nei paesi di influenza anglosassone, invece, sono più utilizzati i metodi finanziari.

2.2. Metodo Patrimoniale

I metodi patrimoniali si distinguono in semplici e complessi a seconda del trattamento dei componenti immateriali.

Il metodo patrimoniale semplice è senza dubbio il meno complesso nella sua applicazione pratica, e consente di valutare l’azienda riesprimendo le poste attive e passive di bilancio,

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da valori contabili, in valori correnti. Per applicare correttamente il metodo sarà dunque necessario analizzare ogni singola componente, attiva e passiva, dello stato patrimoniale ed operare un adeguato intervento di revisione contabile e quindi di rettifica dei valori. Partendo dal patrimonio netto contabile, dato dalla differenza tra l’attivo e il passivo patrimoniale che risulta dal bilancio redatto secondo criteri ordinari, si applicheranno rettifiche in aumento o diminuzione. Esistono criteri ben precisi per operare le rettifiche descritte: il valore delle immobilizzazioni materiali dovrà essere esposto al valore di mercato o di sostituzione; riguardo le rimanenze, invece, dovranno essere delle distinzioni a seconda delle rimanenze trattate. Se la valutazione ad oggetto i prodotti finiti, questi dovranno essere valutati al minore tra il più recente costo di produzione e il costo medio di vendita al netto dei costi di commercializzazione previsti, oppure al prezzo di mercato; le materie prime al valore di mercato o di sostituzione; i semilavorati al costo più recente di produzione. I crediti potranno essere esposti al valore nominale, salvo il caso in cui siano parzialmente esigibili, nel cui caso dovranno essere espressi secondo il criterio del presunto realizzo. Per quanto riguarda i debiti sono generalmente valutati al valore nominale. Infine, i fondi accantonamenti (ad esempio il TFR) dovranno passare un giudizio di congruità. Una volta operate le rettifiche, il valore dell’azienda sarà quindi espresso dalla formula: W=K, dove: W è il valore dell’azienda: K è il patrimonio netto contabile più le variazioni in aumento, e meno le variazioni in diminuzione, ovverosia il patrimonio netto rettificato. La principale critica a cui è soggetto questo metodo è di tipo concettuale, dal momento che esso non prende in considerazione l’attitudine e la propensione a generare reddito da parte dell’azienda stessa. D’altro canto, il modello presenta la caratteristica di mantenersi fortemente ancorato alla composizione qualitativa e quantitativa del patrimonio aziendale.

Il metodo patrimoniale complesso si discosta da quello semplice per il fatto che vengono stimate le grandezze immateriali di durata pluriennale (come ad esempio marchi, brevetti, diritti d’autore), e la cui cessione può avvenire anche separatamente rispetto agli altri beni, con anche la possibilità che non siano inseriti in contabilità. I metodi di valutazione dei beni immateriali possono essere di natura empirica in quanto basati sulla conoscenza dei prezzi di cessione relativi agli stessi beni individuati da aziende operanti in settori simili. Altri modi di valutare queste risorse sono la sommatoria dei costi sostenuti per la realizzazione del bene o degli oneri necessari per la sua riproduzione, oppure la stima dei benefici, calcolati in termini di maggiori ricavi futuri, conseguenti dal possesso del bene in

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questione e attualizzando i dati ottenuti. La formula rappresentativa di questo metodo è: W=K+I, dove I rappresenta il valore dei beni immateriali stimati.

Sia per il metodo patrimoniale semplice che per quello complesso, infine, è necessario considerare il risultato di esercizio infrannuale, e il relativo carico tributario, oltre agli oneri legati alla fiscalità latente dovuta, ad esempio, alle eventuali plusvalenze potenziali date dalla rivalutazione dei beni strumentali e delle rimanenze. I valori così trovati e l’impatto fiscale derivante andranno a influenzare il valore complessivo dell’azienda.

2.3. Metodo Reddituale

Il metodo reddituale considera l’azienda come complesso unitario organizzato e il suo valore è posto in funzione del reddito che la stessa è in grado di conseguire. Il valore dell’azienda può essere stimato con riferimento ad un arco temporale illimitato grazie alla formula W=R/i, dove R è il reddito medio prospettico normalizzato, ed i il tasso di valutazione. Il calcolo di R presenta notevoli difficoltà date dal fatto della sua stessa natura previsionale, e quindi da un’alta incidenza della soggettività del valutatore. Proprio per il rischio di compiere errori nelle previsioni, è consuetudine non eccedere la stima oltre i 3/5 esercizi. Un metodo di riferimento per la valorizzazione della capacità reddituale futura potrebbe essere rappresentato dalla media dei redditi prodotti negli ultimi 3/5 esercizi. La possibilità di avere informazioni certe o comunque attendibili, circa elementi in grado di influenzare il reddito futuro rispetto al reddito medio derivante dai risultati storici, darebbe al valutatore la possibilità di migliorare il calcolo del reddito medio aggiungendo tali dati previsionali agli elementi consolidati. La disponibilità da parte dell’azienda di budget già redatti e relativi ai successivi 3/5 anni costituiscono un notevole aiuto al valutatore per stimare la capacità reddituale prospettica. Previsioni di mercato, studi mirati sulle potenzialità dell’azienda in funzione del posizionamento geografico e/o del tipo di attività svolta, sono tutti altri elementi di aiuto per eliminare per quanto possibile il grado di soggettività. Una volta calcolato R è necessario depurarlo di putti gli elementi positivi e negativi di natura straordinaria e anomala, sia che lo hanno condizionato nel passato (nel caso di utilizzo di dati storici), sia che si presume lo influenzeranno nel futuro; si dovrà cioè procedere alla normalizzazione del reddito medio prospettico. Infine il valore sarà ulteriormente diminuito del carico tributario (imposte dirette). La fase successiva del processo di stima riguarda la determinazione del tasso di valutazione, il quale è composto da due diverse componenti: il tasso puro i’ (o risk free), caratteristico degli investimenti

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con rischio considerato nullo (titoli di stato a reddito fisso), e il premio per il rischio (i’’). Mentre i’ è facilmente reperibile, per la determinazione di i’’ la pratica funzionale fa riferimento alla teoria del C.A.P.M. (capital assets pricing model), la quale indica nel coefficiente β uno degli elementi essenziali per il calcolo del premio per il rischio. Il coefficiente β è un indice che misura il rischio legato al settore in cui opera l’azienda e può oscillare tra il valore maggiore di 1, indicando che l’investimento presenti un rischio superiore alla media del settore, o minore di uno, indicando il contrario. Il valore del β sarà quindi uguale ad uno quando l’investimento presenterò un rischio in linea con la media di settore. Una volta trovato β, per trovare il premio per il rischio, dovremmo attuare la formula: i’’=β *(r-i’), dove r è il rendimento medio di mercato. A questo punto saranno disponibili tutti gli elementi per trovare il tasso di valutazione i, che sarà espresso dalla formula: i = i’ + β ( r-i’ ) + s, dove s è il tasso di inflazione atteso.

Nel caso, invece, in cui si faccia riferimento ad un periodo ti tempo limitato per la valutazione dell’azienda, oltre a R e i, figurerà nella formula n, ossia l’arco temporale di riferimento (il numero di anni), e il valore dell’azienda sarà dunque espresso dall’attualizzazione del reddito medio prospettico con durata n al tasso i.

W = R * a_n/i

Se in alternativa, anziché utilizzare il reddito medio prospettico, si utilizzassero i valori puntuali: W = Σ Rt / (1+i)^t . In questo caso la componente reddituale è fornita da singoli redditi calcolali per ogni annualità di durata dell’azienda, o comunque per tutti gli anni dell’arco temporale scelto ai fini della valutazione ( t = 1 ; 2 ; …).

Il modello reddituale rispecchia perfettamente i principi della dottrina economico-aziendale. Il valore dell’azienda, infatti, non sarà valutato grazie alle risorse di cui essa si avvale per svolgere l’attività, ma dipenderà dalla capacità di generare risultati positivi in futuro attraverso l’impiego di suddette risorse. Tuttavia il metodo reddituale soffre di una maggiore soggettività, e quindi una minore attendibilità, a causa dell’incertezza insita nelle stime relative al futuro sia dei flussi reddituali attesi, sia del tasso di attualizzazione. Per questo motivo, tale metodo è usato prevalentemente nei casi in cui gli altri parametri di riferimento (in particolare il capitale) non possono considerarsi significativi nella definizione del valore aziendale.

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15 2.4. Metodi Finanziari

Si basano sulla determinazione del valore attuale dei flussi monetari attesi della gestione aziendale futura. Il presupposto logico sottostante a tali metodologie considera che ogni attività generi, in un determinato arco di tempo, flussi finanziari correlati sia ai fenomeni caratteristici della gestione (costi e ricavi), sia a quelli esclusivamente patrimoniali-finanziari ( investimenti e disinvestimenti, aumento o diminuzione del capitale circolante). Pertanto il valore di un’azienda deve considerarsi pari al valore (attualizzato) di tutti i flussi di cassa che genererà in futuro. Da questa concezione, che si ispira al criterio di stima finanziaria di qualsiasi investimento, discendono diverse alternative.

Una prima versione è quella dei flussi monetari complessivi disponibili, o free cash flow, che considera i flussi traducibili in somme via via erogabili ai detentori del capitale sociale, senza alterare l’equilibrio finanziario dell’azienda. Il free cash flow viene determinato tenendo conto di tutte le componenti sia reddituali che patrimoniali-finanziarie che originano i flussi finanziari, e viene influenzato, quindi, non solo dalle politiche di investimento, ma anche e soprattutto dalle politiche di accensione e rimborso di eventuali finanziamenti.

Una seconda versione, assai più diffusa nella pratica, si basa invece sull’analisi del free unlevered discounted cash flow, o debt free cash flow, in cui le politiche di indebitamento, e le relative conseguenze di ordine finanziario, non sono prese in alcuna considerazione. In questa versione l’analisi viene svolta come se l’azienda operasse esclusivamente con il capitale proprio: il cash flow determinato con questa metodologia non è di competenza dei soli soci, ma è globalmente al servizio dei fornitori di capitale, sia essi di rischio o di debito. Procedendo all’attualizzazione di tali flussi, mediante un tasso che esprima una media ponderata del costo del capitale proprio e del costo del capitale di debito, si trova il valore globale del capitale impiegato nell’azienda. Deducendo poi a tale valore l’importo del capitale di debito, si perviene alla stima del solo capitale proprio, e quindi del capitale economico di pertinenza dei soci. Tali metodologie possono essere considerate veramente valide solo ed esclusivamente in presenza di previsioni pluriennali attendibili.

2.5. Metodi Misti

La dottrina aziendalistica propone due metodi: il metodo del valore medio e il metodo della stima autonoma dell’avviamento.

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Il metodo del valore medio è dato dalla formula W = ( K + R/i ) /2, dove K è il patrimonio netto rettificato, R il reddito medio prospettico normalizzato, e i il tasso di remunerazione del capitale, calcolato tramite il rendimento medio del settore in cui l’azienda opera. Il metodo patrimoniale misto con stima autonoma dell’avviamento risulta molto diffuso nella pratica italiana ed europeo continentale. Esso prevede la determinazione del valore del patrimonio netto aziendale mediante la verifica della consistenza delle attività investite in azienda, al netto delle corrispondenti passività, a cui si aggiunge l’avviamento che rettificherà in aumento (goodwill) o in diminuzione (badwill) il predetto valore patrimoniale. L’avviamento rappresenta in sostanza la capacità che viene riconosciuta all’azienda di generare redditi futuri, in grado di rimunerare il capitale investito in misura maggiore (o minore) rispetto al rendimento offerto da investimenti alternativi. La formula utilizzata per la valutazione varia a seconda del periodo di durata del soprapprofitto individuato. Il caso più frequente è di avviamento limitato, relativo ad un periodo compreso tra 3 e 7 anni. Il limite temporale è imposto dalle difficoltà connesse al mantenimento di un vantaggio rispetto alle altre imprese presenti sul mercato, senza ulteriori investimenti nel futuro; a meno che non si tratti di vantaggi tali da non permettere comportamenti imitativi da parte di altre aziende (per esempio una concessione o licenza esclusiva). In questo caso, la formula per trovare il valore dell’azienda è:

W = K + a n_i’ * ( R – iK) , dove W è il valore dell’azienda, K il valore del capitale netto rettificato, i il tasso di remunerazione normale del capitale di rischio investito in azienda, R il reddito medio normalizzato prospettico, n la durata dell’investimento, i’ il tasso di attualizzazione del sovrareddito (o sottoreddito).

Un altro modo consiste nella possibilità di proiettare l’avviamento per un periodo illimitato. Seppur restando un metodo molto meno frequentemente utilizzato, potrebbe fare al caso di quelle aziende che, per posizioni riconosciute di eccellenza raggiunta, sono considerate comunque nel tempo più profittevoli di aziende similari. La formula in questo caso sarà W = K + ( R – iK)/i’.

2.6. Metodi Empirici

L’utilizzo dei metodi empirici per la valutazione delle aziende è spesso osteggiato dai teorici della disciplina, poiché questi risultano privi di un reale riconoscimento formale da

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parte degli esperti, e per una forma abbastanza semplice e derivanti da grandezze che variano caso per caso. Tuttavia, questi metodi risultano molto spesso utilizzati nella prassi. Il loro utilizzo viene considerato giustificato dalla dottrina quando l’oggetto di valutazione è un’azienda di piccole dimensioni, quando il valutatore applica il metodo empirico come metodo di controllo, oppure se, altri criteri, a causa di particolari caratteristiche del caso in questione, come l’inesistenza di sovra redditi, risultati in perdita, imprevedibilità di redditi e flussi di cassa futuri, o mancanza di riferimento per aziende omogenee, appaiono non applicabili per una valutazione affidabile. Tali metodologie, come già riportato, risultano molto spesso estremamente semplici e derivanti direttamente dal mercato, consentendo tuttavia di indicare in maniera abbastanza precisa la domanda e l’offerta di un’azienda in un determinato settore. I metodi empirici si presentano nella prassi di molti settori sotto forma di multipli di alcune variabili, come il fatturato e il profitto, oppure di elementi tipici esclusivamente del settore di riferimento, come il numero di contratti e il numero di utenti.

3. Aspetti formali della relazione di stima 3.1. Profilo professionale del valutatore

La posizione professionale del valutatore in ordine alla valutazione delle aziende è subordinata alle specifiche finalità della stima. Le valutazioni, a seconda del grado di formalizzazione vengono distinte in stime informali, formali, e ufficiali5. Le stime informali vengono eseguite esclusivamente per scopi conoscitivi, ad uso interno o esterno, anche senza l’intervento di periti o esperti. In generale, si raccolgono dati per informazioni varie, trattative, opportunità aziendali, finalità esplorative, e non necessariamente vengono redatte per iscritto. Rientrato nelle stime informali i controlli, casuali o periodici, e l’analisi del valore creato in rapporto alle misure di performance attese. Le stime informali, invece, vengono redatte da professionisti autonomi e vengono documentate nella valutazione di stima (o perizia) redatta in forma necessariamente scritta, spiegando metodi, motivazioni, criteri, informazioni e le conclusioni. Infine, le stime ufficiali vengono eseguite per scopi conoscitivi, cautelativi, ma soprattutto vincolanti, e sono di norma asseverate con giuramento. Il valutatore, nella prassi professionale, assume una di tre posizioni possibili: perito neutrale, consulente, arbitro. Come perito neutrali, il valutatore determina il valore generale dell’azienda, cioè il valore teorico per ogni situazione, prescindendo dalle

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situazioni e dagli elementi soggettivi delle parti. È un valore obbiettivo, che può essere la base per trattative o un qualificato punto di riferimento. Il consulente invece agisce in ottemperanza di un mandato di parte e valuta le aspettative soggettive della parte interessata, senza venir meno al suo dovere professionale di neutralità e indipendenza. Infine l’arbitro valuta l’azienda sulla base degli orientamenti delle parti interessate con l’obbiettivo di arrivare ad un valore equo nella composizione del giudizio arbitrale. Il valutatore, nello svolgimento del suo incarico si dovrà attenere a determinati principi e regole comportamentali, non codificate, ma di comune accettazione, che riguarderanno: l’indipendenza professionale e intellettuale, considerate qualità essenziale per l’integrità della valutazione e la tutela degli interessi delle parti; la competenza specifica e l’autonoma capacità di giudizio, elementi tra loro collegati dal fatto che la competenza professionale è una condizione necessaria della valutazione e sufficiente a garantire autonomia di giudizio; l’obbiettività, la correttezza, e la trasparenza, la dirigenza e lo scrupolo, oltre che alla riservatezza delle informazioni acquisite.

3.2. Scelte e contenuto della relazione

La valutazione di un’azienda è un’operazione che richiede analisi e conoscenze specifiche dell’azienda, sia in ordine ai componenti passati, che alle prospettive future. Per raggiungere questo patrimonio di conoscenze, durante il periodo dell’attività di valutazione, il perito effettua una serie di verifiche, a livello generale ed a livello specifico, richiedendo l’esame di tutta la documentazione a suo parere rilevante ai fini dell’equilibrato e diligente svolgimento dell’incarico affidatogli. La fonte primaria di ogni informazione per la valutazione aziendale è costituita dai fascicoli di bilancio degli anni più recenti. Le altri fonti di informazioni per il valutatore sono: l’atto costitutivo, lo statuto, i patti parasociali (se predisposti), autorizzazioni e licenze necessarie all’attività, verbali degli ultimi 5 anni, libro dei soci, piani economico-finanziari e previsionali, budget di esercizio, bilancio infrannuale recente. Il valutatore dovrà analizzare la documentazione e organizzare una serie di colloqui con i responsabili dell’azienda per appurare il livello di attendibilità dei dati ricevuti.

Riguardo alla stesura della relazione di stima, il valutatore dovrà mettere a disposizione degli interessati tutti gli elementi necessari per comprendere il risultato finale della valutazione stessa. Nella prima parte saranno indicati gli aspetti introduttivi della relazione, e quindi elementi come la finalità, l’oggetto, i documenti e le fonti utilizzati, eventuali

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perizie di terzi, data di riferimento della valutazione, impostazione e svolgimento dell’incarico. In particolare, l’oggetto della relazione sarà analizzato in più punti: presentazione dei dati identificativi della società, una breve storia dell’azienda, la tipologia dell’attività e il settore in cui opera, descrizione del prodotto, e i principali punti di forza e di debolezza dell’organizzazione, con evidenziazione della strategia del management. Nella parte centrale (il corpo della relazione) dovranno essere esposte e motivate le ragioni che hanno indotto il valutatore a scegliere uno o più criteri di valutazione, in relazione ad analisi di tipo interno e di tipo esterno. Prima dell’applicazione delle metodologie all’azienda, è prassi descrivere i tratti identificativi del metodo applicato, presentando i pregi e i difetti. La parte conclusiva è costituita da una sintesi riassuntiva, sia di ordine qualitativo che quantitativo, di quanto esposto e dei risultati finali raggiunti.

3.3. Errori e responsabilità del valutatore

Gli errori riguardanti le operazioni di valutazione di complessi aziendali possono investire tutte le fasi del processo valutativo, ma si manifestano con maggiore frequenza e intensità laddove sia presente un maggior margine di soggettività da parte del professionista. Gli errori nei processi valutativi (se si considera presunta la buona fede) sono molto diversificati ed eterogenei, e possono essere classificati in quattro raggruppamenti: errori di metodo, negli input, di approssimazione, di previsione a posteriori6. La prima categoria di questa classificazione, ovvero gli errori di metodo, riguardano sia la scelta metodologica, sia le applicazioni operative e professionali conseguenti l’adozione della metodologia. In primo luogo, la scelta del o dei metodi adatti al caso in oggetto dipenderà dall’analisi dell’azienda in questione e dalle finalità assegnate alla stima, orientando così, per non dire vincolando, il valutatore a una soluzione coerente e compatibile. L’incoerenza tra il metodo adottato e lo scopo valutativo può generare errori significativi, portando a un valore fuorviante. Sotto il secondo profilo, gli errori connessi alle applicazioni operative e professionali conseguenti alla scelta metodologica, si riscontrano maggiormente in valutatori non adeguatamente preparati e/o non all’altezza del compito assegnato, poiché concentrandosi maggiormente sul piano modulistico e formulistico, tralasciano l’analisi economica del complesso aziendale, comportando errori metodologici sulla stima del valore. La competenza dello stimatore rappresenterà la maggior forma di garanzia sulla qualità del risultato valutativo, soprattutto nel caso di comparazione di valori del capitale

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economico ottenuti con metodologie differenti. Gli errori negli input rifletteranno, invece, carenze di dati ed informazioni. Le conseguenze potranno condurre a risultati totalmente difformi dalla reale situazione del complesso aziendale. Vista la gravità delle conseguenze, il valutatore sarà tenuto ad analizzare attentamente e selezionare, nella mole di dati disponibili, quelle informazioni maggiormente significative per rappresentare al meglio il valore dell’azienda. Gli errori di approssimazione si attestano nella fase finale del processo valutativo laddove occorrerà approssimare appunto i valori ottenuti nelle varie metodologie. L’errore non sarà appunto nell’approssimazione stessa, poiché questa è insita nella natura stessa del calcolo, ma il problema riguarderà la misura dell’accettabilità dell’approssimazione. La prassi considera un’approssimazione del 5-10% accettabile, se i calcoli sono accurati; un’approssimazione superiore, anche se prudenziale, potrebbe infatti portare ad errori. Infine, gli errori di previsione a posteriori si originano da interventi di ricostruzione successiva, operati dal valutatore in epoca notevolmente differita rispetto alla data di riferimento della valutazione, a volte anche a distanza di molti anni, quando risultano spesso mutate le condizioni e le assunzioni di riferimento. Quando le operazioni di stima di complessi aziendali vengono svolte in periodi successivi, la conoscenza di cui si dispone al momento della redazione della relazione potrà orientare verso criteri e attribuzioni di valori che non sarebbero stati prescelti e attuali se l’operazione di valutazione fosse stata svolta contestualmente a ciò che si sta valutando. Il differimento del momento della stima, da ex ante a ex post, racchiude quindi implicitamente un errore di prospettiva, dato dal gap dei flussi informativi propri di momenti valutativi differenti. La responsabilità del valutatore è disciplinata dalla disposizione prevista all’articolo 64 del codice di procedura civile, che tratta anche le sanzioni penali, oltre che civili. Dal punto di vista civilistico, l’articolo 2236 esenta il valutatore dalla responsabilità per colpa solo quando la sua prestazione comporti la soluzione di problemi di particolare difficoltà, residuando quindi la sola responsabilità per dolo o colpa grave, e risponde dei danni arrecati secondo le regole ordinarie. Dal punto di vista penalistico, il valutatore può rendersi colpevole di alcuni reati previsti nel codice penale, ovvero: delitto di rifiuto di uffici legalmente dovuti, delitto di falsa perizia o interpretazione, contravvenzione nell’esecuzione degli atti, falsa testimonianza, intervento materiale nella distribuzione prove. I valutatori devono inoltre denunciare al pubblico ministero o ad un ufficiale di polizia giudiziaria eventuali circostanze penalmente rilevanti apprese nel corso dell’esercizio dell’incarico.

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Parte II

4. La crisi dell’impresa

Le imprese presentano generalmente quattro stadi nel loro ciclo di vita: quella iniziale di nascita e sviluppo (start up), una fase di crescita, una di maturità e stabilità, e in molti casi l’ultima fase di declino che, se prolungato e non invertito, porta all’uscita dell’impresa dal mercato. Nella fase di declino le imprese si trovano di fronte ad una scelta: attuare azioni correttive in modo da far tornare l’impresa competitiva e con un adeguato redditività, attuando anche manovre profonde come la dismissione di rami importanti per il volume di business, ma in perdita, fino anche a cambiare la struttura di capitale e la struttura organizzativa, oppure essere liquidate7. La valutazione è spesso necessaria per l’impresa in difficoltà come parte degli sforzi dell’impresa stessa e dei suoi creditori per risolvere la crisi finanziaria o le inefficienze operative. Per esempio se un’impresa, a causa delle difficoltà operative, ha violato la garanzia presente nel contratto di prestito riguardante un determinato livello minimo di determinati indici finanziari, il creditore può richiedere e ottenere dal tribunale una valutazione del business. In maniera analoga, gli sforzi per vendere l’azienda, o una porzione di essa, dovranno essere preceduti da una valutazione come parte fondamentale del processo di due diligence. Lo stato di difficoltà in cui l’azienda può venirsi a trovare è causato da due principali fattori, tra loro spesso interconnessi, ossia la perdita di competitività e il peso del debito8. Per perdita di competitività si intende tutta una serie di decisioni gestionali errate, o quantomeno sub ottimali rispetto a quelle messe in campo dai concorrenti, che hanno portato l’azienda ad una perdita di efficienza operativa e consenso sul mercato, con una progressiva erosione dei margini. Oltre a mosse gestionali interne errate, la sempre più dura concorrenza presente sui mercati, spesso derivante dai cosiddetti Paesi Emergenti, potrebbe aver comportato un aumento delle aspettative nei clienti nei riguardi di maggiore contenuto nei prodotti offerti a prezzi sempre più bassi. L’incapacità da parte dell’impresa di far fronte a questi fattori esterni, nel lungo periodo, porta all’uscita dell’impresa dal mercato. I fattori che possono costituire dei gap competitivi con i concorrenti sono: una mancata innovazione del prodotto, rispondente alle esigenze di maggiore funzionalità ed evoluzione dei bisogni del mercato; una inadeguatezza della componente di servizio, dalla modalità di acquisto all’assistenza post vendita, elemento che ha guadagnato una notevole importanza

7RATNER,STEIN,WEITNAUER, Business valuation and bankruptcy, HOBOKEN, Wiley, 2009, pag.20

8 MARIANI, Dalla crisi alla creazione di valore. Il processo di turnaround, PISA, Pisa University Press, 2012,

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negli ultimi anni, poiché collegato alla cura del cliente e alla sua fidelizzazione; una carenza di investimenti nel processo produttivo ed una insufficiente incisività degli interventi per razionalizzare la struttura dei costi, con conseguente perdita di efficienza dell’intera organizzazione. Per quanto riguarda il peso del debito, generalmente il progressivo aumento della tensione finanziaria è conseguenza di una più o meno prolungata assenza di redditività, come effetto di quanto sopra riportato. Tuttavia possono esistere altre ragioni, che non originano direttamente dal Conto Economico, anche se il loro effetto viene amplificato per il peso degli interessi passivi. Le cause più frequenti che possono portare a tensioni finanziarie possono essere: l’effetto di operazioni di acquisizione a leva, specie se le dinamiche dei tassi di interesse si fossero evolute sfavorevolmente; l’espansione di attività o l’acquisizione di asset rilevanti in tempi troppo ristretti e non adeguati rispetto alle capacità di integrazione proprie dell’azienda; un prolungato e non equilibrato drenaggio di risorse a favore degli azionisti. La crisi è una manifestazione di tipo patologico nella vita dell’azienda che può manifestarsi in più stadi9. I fenomeni di declino e di crisi nella vita di tutte le imprese sono di solito preceduti da sintomi premonitori che possono essere detti di decadenza, prevalentemente di tipo qualitativo, e di squilibrio, di carattere quantitativo. La prima fase della crisi d’impresa si presenta con una situazione di declino, cioè quando quest’ultima distrugge valore e cioè il capitale economico subisce nel tempo una riduzione di valore derivante dal deterioramento dei flussi reddituali attuali e prospettici. La crisi propriamente intesa è invece una fase conclamata ed esteriormente apparente del declino; essa è un’evoluzione inevitabile della fase di declino in assenza di interventi molte volte rapidi e profondi, e si manifesta come uno stato di grave instabilità originato da rilevanti perdite economiche, con forti squilibri nei flussi finanziari, con la riduzione della capacità di credito e l’insolvenza finanziaria. Per evitare l’insorgere di problematiche sempre più varie e difficilmente gestibili, l’impresa dovrebbe cogliere i primi segnali di squilibrio ed inefficienza, ed attuare nel più breve tempo possibile delle adeguate azioni correttive. Tuttavia spesso il management tende a minimizzare le prime avvisaglie, imputandole a fenomeni passeggeri e fisiologici lungo il percorso di vita dell’impresa, e che si risolveranno con il passare del tempo. Il tempo rappresenta invece uno degli elementi fondamentali su cui fare riferimento per invertire il processo di erosione del valore aziendale, che nelle prime fasi si presenta in maniera molto graduale, con manifestazione tipiche come l’assorbimento delle risorse di

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bilancio o di quote di capitale, e quindi erosione della liquidità, appesantimento dei debiti, l’impossibilità di distribuire dividendi, la riduzione delle risorse destinate a funzioni essenziali per la sopravvivenza nel lungo periodo dell’azienda come le divisioni di ricerca e sviluppo, marketing, comunicazione. Se le adeguate azioni correttive non dovessero essere attuate, la crisi si trasformerebbe in insolvenza, fase che si caratterizza da effetti molto più marcati, producendo effetti palesi anche all’esterno della compagine aziendale, evidenziando una incapacità di fronteggiare le scadenze, una perdita di fiducia e di credito, lo sfaldamento della struttura organizzativa e la progressiva perdita della clientela10. Ormai giunti a questa fase tutto il sistema aziendale risulta sconvolto, a tal punto che qualsiasi intervento riparatore appare problematico e con probabilità di successo molto ridotte, aiutando a diffondere un panico gestionale che aggrava la situazione. Nell’evoluzione più grave dell’insolvenza segue il dissesto, che è una condizione permanente di squilibrio patrimoniale, il cui rimedio è impossibile senza uno stravolgimento del contesto e con forti supporti da parte di tutti gli stakeholders. L’impresa si troverà in uno stato di squilibrio finanziario strutturale, di carenza di liquidità, di difficoltà riconosciuta dal mercato nel rispettare le scadenze dei pagamenti. Arrivati a questa situazione le possibilità di far tornare l’impresa in bonis sono molto scarse, e nella maggioranza dei casi si arriva al fallimento dell’azienda. La valutazione dell’azienda fallita si inserisce nel già peculiare ambito della valutazione dell’azienda in crisi, rappresentandone un caso estremo. Il fallimento consiste infatti l’esito terminale di uno stato patologico di crisi, che l’impresa non è stata capace di fronteggiare e a cui il soggetto imprenditoriale e/o management non è stato in grado di reagire. Il percorso di incapacità e mancanza di successo sul mercato dell’azienda si concluderà con la sentenza emessa dal tribunale competente. Uno dei principali effetti determinanti dalla sentenza dichiarativa di fallimento, capaci di incidere sull’aspetto valutativo, consiste nella liberazione dell’azienda dai debiti: le passività accumulatesi fino al momento del fallimento vengono infatti integralmente attribuite alla procedura concorsuale, consentendo così una eventuale cessione degli elementi attivi costituenti il complesso aziendale (o un ramo di esso), senza l’aggravio dei relativi debiti e con un effetto liberatorio da eventuali pretese di terzi11. Infatti, ai sensi dell’articolo 105 della Legge Fallimentare, salvo diversa pattuizione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento. La circostanza evidenziata, di conseguenza, comporta la caduta delle

10 MARIANI, Dalla crisi, op.cit., pag.42

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differenza tra l’enterprise value ( valore dell’azienda dal punto di vista di tutti gli investitori, ossia al lordo dei debiti) e l’equity value ( valore dell’azienda dal punto di vista dei soli investitori di capitale netto), sia perché essendo il capitale netto presumibilmente perduto non ha più senso parlare di equity value, sia perché con l’avvio della procedura fallimentare l’azienda viene di fatto separata dai debiti, che rimangono invece interamente a carico della procedura fallimentare. Al contrario di ciò, il fallimento non produce anche la perdita di significato della distinzione, che ne risulta semmai accresciuta, tra stock holder value (che in questo contesto può essere intesa come il valore per un potenziale acquirente), e stakeholders value (ossia il valore per l’insieme dei soggetti che hanno un interesse in gioco riguardo il destino dell’impresa. In tal senso, può accadere che l’azienda fallita non presenti valide prospettive di risanamento e che peraltro il suo stock holder value sia negativo, ma al contempo la continuazione dell’attività dell’impresa assuma un valore positivo per i lavoratori, per le aziende del cosiddetto indotto, e per la comunità locale in generale per via dell’impatto talvolta disastroso che la chiusura definitiva dell’azienda potrebbe provocare all’economia della zona. Proprio per queste ragioni molto spesso accade che autorità di governo emanino provvedimenti che, almeno nelle intenzioni dichiarate, dovrebbero essere finalizzati ad attenuare la divergenza fra stockholder e stakeholder value. Un’altra importante conseguenza del fallimento, che influisce negativamente sul valore dell’azienda, è legata all’interruzione dell’attività aziendale, che nella generalità dei casi, salvo decisioni di esercizio provvisorio, si verifica in presenza del fallimento. La cessazione dell’attività, determinando il flocco delle forniture ai clienti, genera una gravissima perdita del patrimonio di fiducia accumulato presso la clientela; la dispersione del personale provoca poi la dissipazione delle conoscenze non codificate e del know how presenti e dislocati all’interno della struttura aziendale. Il tutto si traduce in un progressivo azzeramento del valore dei marchi e dell’avviamento, parallelamente al protrarsi dello stato fallimentare.

5. United States Bankruptcy Code

Per il valutatore che si appresta all’incarico di stimare un’azienda nella situazione di bancarotta, avere una dettagliata visione di tutto il contesto di riferimento, e dei principi applicabili al caso in questione, costituisce la condizione di base per svolgere la meglio l’incarico assegnatogli. Lo United States Bankruptcy Code costituisce uno dei testi di riferimento per il valutatore in suolo statunitense. Questo codice si divide il capitoli, dei quali i più famosi risultano il Chapter 7 (che disciplina le situazioni liquidatorie) e il

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Chapter 11 ( che disciplina le situazioni di ristrutturazione aziendale). Riguardo gli altri capitoli, il Chapter 1 detta le disposizioni generali e le definizioni di base; inoltre descrive i poteri, e le limitazioni, a capo del tribunale fallimentare (art.105), e le disposizioni che riguardano le entità potenti o meno dichiarare fallimento (art.109). Il Chapter 3 del Bankruptcy Code disciplina vari casi amministrativi, ad esempio come inizia un caso di volontaria dichiarazione di fallimento (art.301), o di involontaria dichiarazione di fallimento (art.303), oltre alle disposizioni sulle adeguate protezioni (art.363) e l’automatic stay (art.362)12. Il Chapter 5 si intitola “creditori, debitori e il patrimonio”, e contiene una varietà di disposizioni riguardo la richiesta (art.501) e il permesso (art.502) di reclami prima della petizione, e le spese amministrative dopo aver presentato la petizione (art.503), ed include i poteri a capo del curatore o del debitore in possesso di scongiurare trasferimenti preferenziali (art.547) e trasferimenti fraudolenti (art.548)13. I trasferimenti disciplinati all’art.547 riguarderanno quei pagamenti avvenuti entro i 90 giorni dalla data di fallimento, non collegabile al normale svolgimento del business del debitore. Il curatore sarà tenuto ad indagare su queste tipologie di trasferimenti, poiché potrebbero causare danni agli altri creditori chirografari, e quindi sarà tenuto a dimostrare che il debitore fosse insolvente alla data del trasferimento. Qualora risultasse tale, il pagamento verrebbe annullato, e il creditore potrà, successivamente alla restituzione del denaro, aggiungersi alla causa di fallimento insieme agli altri creditori chirografari. Le prime direttive che vengono rispettate al momento del deposito di un’istanza di fallimento riguardano l’assegnazione del caso in oggetto sotto la disciplina del Chapter 7 oppure sotto quella del Chapter 11. Dopo che l’istanza di fallimento è stata depositata, il nome di riferimento per indicare l’azienda in fallimento sarà il debitore, oppure fino a che il tribunale non avrà nominato un curatore che prenderà in consegna il business, debitore in possesso.

Riguardo il Chapter 7, una persona (termine che include persone fisiche, società di persone e aziende, ma non include unità ed enti governativi) che risiede o ha domicilio, un luogo da cui svolgere il business, o proprietà negli United State, può essere soggetto alla disciplina del Chapter 7, solamente se questa persona non sia una ferrovia, una compagnia assicurativa domestica o straniera, una associazione di risparmio e prestito, o altre simili

12 RATNER, Business valuation, op.cit., pp.83-85

13REILLY,SHAKED, Cases studies reveal how BV and Bankruptcy issues are intertwined, Business Valuation

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organizzazioni14. All’azienda rientrante sotto questa disciplina verrà nominato dall’ufficio del United States Trustee un curatore, che svolgerà il compito fino a che non verrà affidato l’incarico ad un altro curatore nominato dai creditori. Il curatore dovrà raccogliere e vendere tutte le attività del debitore. Inoltre dovrà investigare e far valere i reclami riguardo i trasferimenti preferenziali e fraudolenti. Al momento che il processo di liquidazione sarà terminato, il curatore dovrà distribuire i fondi raccolti attraverso le attività del debitore, al netto di commissioni e costi, e li distribuirà ai creditori in rispetto delle norme e priorità disposte nel Bankruptcy Code.

La disciplina del Chapter 11 potrà riguardare tutte le categorie di debitori indicate per il Chapter 7 (ad eccezione dei mediatori di beni e titoli), ma anche le ferrovie e una banca di uno stato membro priva di attività assicurativa. Il Chapter 11 è progettato al fine di preservare il valore dell’azienda going concern, mentre essa attuerà la ristrutturazione. Generalmente il debitore rimarrà in possesso del suo patrimonio, come debitore in possesso, e gestire il business mentre sarà in atto la formulazione del piano di ristrutturazione. Sotto determinate circostanze, un curatore può essere nominato per assumere la gestione del business del debitore, così che un caso sotto la disciplina del Chapter 11 potrà essere convertito in un caso sotto la disciplina del Chapter 7. L’obbiettivo di un caso sotto il Chapter 11 è la conferma del piano di ristrutturazione.

5.1. L’AICPA

La valutazione dell’azienda in crisi è quindi un passo fondamentale per appurare il valore residuo del complesso aziendale al fine di soddisfare in primo luogo di creditori, e distribuire il restante, qualora fosse presente, agli azionisti.

Al fine di avere una visione più ampia delle tecniche di valutazione delle imprese in crisi, in questa parte verrà analizzato il metodo valutativo statunitense, in particolare descrivendo gli standard emanati dall’organizzazione professionale di valutatori più diffusa in USA, ovvero AICPA. L’acronimo AICPA sta per American Istitute of Certified Public Accountants e, con i suoi 350.000 membri, emana disposizioni e standard per una varietà di specializzazioni, incluso l’ambito della revisione, tasse, e la valutazione d’azienda15. Proprio in questi anni è in corso un dibattito al fine di unificare il più possibile gli standard valutativi dettati dalle organizzazioni

14FRIEDLAND,XU,DYKSTRA, The paramount role of valuation in corporate restructurings, Gennaio/Febbraio

2008, pp.23-25.

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