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Lo stato del federalismo americano: fra gli Stati Uniti dei Padri Fondatori e la nuova America di Trump

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di laurea magistrale in

Scienze delle Pubbliche Amministrazioni – LM-63

LO STATO DEL FEDERALISMO AMERICANO:

FRA GLI STATI UNITI DEI PADRI FONDATORI

E LA NUOVA AMERICA DI TRUMP

Il Candidato

Il Relatore

Annalisa Spagnoli

Prof.ssa Elettra Stradella

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INDICE

INTRODUZIONE ... 4

1. L’EVOLUZIONE DEL FEDERALISMO AMERICANO ... 7

1.1 – Sezione I: il modello duale o garantista ... 13

1.1.a – Inquadramento storico: dalle tredici colonie originarie alla

Convenzione di Philadelphia (1787) ... 13

1.1.b – La Costituzione americana del 1787 ... 20

1.2 – Sezione II: dal modello duale al modello cooperativo ... 28

1.2.a – Le garanzie politiche del federalismo ... 33

1.2.b – Le garanzie giurisdizionali del federalismo ... 39

2. LO STATO DEL FEDERALISMO AMERICANO NEL

BIENNIO 2016-2018: la transizione da Obama a Trump e i primi

due anni della presidenza Trump ... 45

2.1 – La legalizzazione dell’uso della marijuana: il crescente

conflitto fra governo federale e Stati ... 54

2.2 – L’istruzione: lo scale back da parte del governo federale ... 58

2.3 – L’azione della Corte Suprema: implicazioni federaliste ... 61

3. LA POLITICA AMBIENTALE ... 64

3.1 – Administrative presidency e cooperative federalism ... 64

3.2 – L’agenda politica di Scott Pruitt ... 68

3.3 – Il Clean Power Plan e la Waters of the United States rule ... 73

(3)

4. L’IMMIGRAZIONE: l’azione esecutiva unilaterale, l’inerzia del

Congresso e l’attivismo statale ... 77

4.1 – L’evoluzione del quadro normativo sull’immigrazione:

dalla presidenza Clinton alla presidenza Obama (1996-2016) ... 79

4.2 – L’ amministrazione Trump: l’uso degli ordini esecutivi e la

reazione degli Stati ... 85

4.3– L’acuirsi del divario fra le immigration policies degli Stati ... 88

5. SANITÀ: l’Affordable Care Act (ACA) ... 90

5.1 – Il tentativo di repeal and replace dell’ACA: il braccio di

ferro all’interno del Congresso ... 92

5.2 – L’azione dell’Esecutivo: l’uso degli strumenti

amministrativi ... 96

CONCLUSIONI ... 101

BIBLIOGRAFIA ... 105

SITOGRAFIA ... 107

(4)

INTRODUZIONE

Fin dalla sua nascita il federalismo è stato uno degli argomenti maggiormente studiati ed analizzati sia dalla dottrina giuridica che nel campo delle dottrine politiche, esercitando da secoli il suo fascino sugli studiosi di tutto il mondo. Il federalismo è un tema di ricerca che non si esaurisce esclusivamente in una dimensione puramente storica e teorica, ma ha ripercussioni sul nostro presente e sul nostro futuro; in particolare tale argomento ha acquisito una nuova rilevanza nell’attuale contesto politico degli Stati Uniti.

Questa tesi ha preso infatti spunto dalle recenti vicende dell’ordinamento americano: pur essendo gli Stati Uniti il primo paese al mondo ad essersi dotato di una forma di stato federale, esso non è rimasto statico ed immutabile nel corso del tempo, ma al contrario ha registrato fasi di spostamento degli equilibri del sistema.

Il primo capitolo tratta l’evoluzione del federalismo americano, partendo da una definizione del concetto e delle sue caratteristiche fondamentali, per poi proseguire con l’illustrazione a livello teorico di tutte quelle peculiarità che contraddistinguono le due forme principali di federalismo, cioè il modello duale o garantista ed il modello cooperativo.

Questi modelli sono analizzati in maniera più approfondita nelle due sezioni in cui è articolato il primo capitolo: nella Sezione I, dedicata al modello duale, si è ritenuto necessario includere un excursus storico relativamente alla formazione degli Stati Uniti d’America, soffermandoci in particolare sulle vicende che hanno portato all’elaborazione ed in seguito all’approvazione della Costituzione del 1787; nella parte conclusiva di questa prima sezione sono presi in esame gli articoli che compongono la Costituzione americana, spiegando la ripartizione delle competenze sia in orizzontale fra le istituzioni che in verticale fra i vari livelli di governo.

Nella Sezione II è illustrato il lungo processo che ha trasformato la natura stessa del sistema federale americano, avvenuto attraverso la transizione da un modello di tipo duale, anche nella sua versione più matura di fine Ottocento, ad un modello di tipo cooperativo, tipico invece degli ordinamenti di metà Novecento.

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Infine sono esposte e spiegate le diverse teorie concernenti le garanzie del federalismo, le quali possono essere sia politiche che giurisdizionali, riservando una particolare attenzione all’istituto della judicial review e alle sue implicazioni se applicato a questioni collegate al federalismo.

A partire dal secondo capitolo il nostro focus si sposta sulla contemporaneità, facendo emergere il quesito di ricerca alla base di questo elaborato: alla luce dei primi due anni della presidenza Trump, ci interrogheremo infatti sullo stato in cui versa attualmente il federalismo americano.

Per questa ricerca si è scelto di analizzare una serie di settori di politiche che possono avere ripercussioni future sugli equilibri del sistema federale americano, poiché si tratta di ambiti che toccano da vicino i governi subnazionali ed inoltre hanno importanti implicazioni in merito ai rapporti fra le istituzioni federali. Il secondo capitolo prosegue con l’articolazione di alcune policies scelte a tale scopo, cioè l’istruzione e la questione della legalizzazione della marijuana, mettendo in evidenza il ruolo giocato dagli Stati; inoltre sono esposte alcune considerazioni relativamente all’azione della Corte Suprema nel periodo 2016-2018 e sulle sue decisioni con implicazioni federaliste.

Il terzo capitolo affronta l’argomento della politica ambientale, la quale ha subito una brusca inversione di rotta rispetto alla linea seguita in precedenza durante la presidenza Obama. In questo campo l’amministrazione Trump si è mossa innanzitutto per concedere un maggiore spazio di manovra agli Stati attraverso la promozione del cosiddetto federalismo cooperativo, in particolare su spinta del direttore dell’Environmental Protection Agency Scott Pruitt; dall’altra ha usato gli strumenti tipici dell’administrative presidency per perseguire un’opera di smantellamento dei regolamenti ereditati dell’era Obama, come ad esempio il

Clean Power Plan e la Waters of the United States rule.

Il quarto capitolo tratta la questione dell’immigrazione: dopo un breve riepilogo sul quadro normativo che si è sviluppato intorno ad essa negli ultimi venti anni, emerge chiaramente la sostanziale inerzia del Congresso in tale ambito.

In questo contesto si è inserita l’azione della presidenza Trump attraverso l’esteso utilizzo degli ordini esecutivi, i quali hanno in più occasioni suscitato veementi

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reazioni da parte degli Stati, ed è proprio a livello statale che si può infatti osservare un sempre più ampio divario fra le rispettive immigration policies.

Il quinto ed ultimo capitolo si focalizza infine sul settore della Sanità, concentrandosi nello specifico sull’Affordable Care Act (ACA), voluto fortemente da Obama ed osteggiato a più riprese dal Partito Repubblicano.

Questo conflitto è riemerso con prepotenza sin dagli inizi della presidenza Trump: si illustrano i vari tentativi di repeal and replace portati avanti dai repubblicani, i quali hanno cercato di sfruttare il proprio controllo unificato sul Congresso, seppur registrando nel tempo scarsi risultati. Infine prenderemo in considerazione tutti quegli strumenti amministrativi impiegati dall’amministrazione Trump con l’intenzione di minare le fondamenta stesse dell’ACA.

Nelle conclusioni si tenterà di tirare le somme del filo logico che ha animato questa ricerca, attraverso una comparazione diacronica fra il federalismo storico e quello attuale ed evidenziando in particolare l’evoluzione a cui è stata soggetta la figura del presidente.

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1. L’EVOLUZIONE DEL FEDERALISMO AMERICANO

Gli Stati Uniti d’America rappresentano a livello storico il primo caso di paese ad aver adottato una forma di stato federale in seguito alla celebre Costituzione del 17871; nel corso del tempo sono così diventati in maniera naturale sia un modello di riferimento che una pietra di paragone per tutti gli Stati interessati a muoversi in tale direzione e a sposare il federalismo, percepito da essi come la forma ideale di organizzazione e ripartizione dei poteri tra i vari livelli di governo.

Il concetto di federalismo, fin dalle sue origini messo in contrapposizione alla nozione di Stato unitario, può essere inteso in una doppia accezione:

1- istituzionale, cioè visto meramente coma una tecnica giuridica di ripartizione del potere su base territoriale tra governo centrale e governi federati. Questa concezione ha preso piede in particolar modo fra fine Ottocento e inizio Novecento, figlia del positivismo giuridico, affermando inoltre l’idea della neutralità di questa tecnica organizzativa rispetto al regime politico vigente nei vari ordinamenti;

2- politica, nella quale viene messa in luce l’importanza della separazione verticale ed orizzontale del potere così da garantire la tutela delle libertà individuali dei cittadini, tipica del costituzionalismo liberale.

È importante notare come entrambi i significati siano alla base della Costituzione federale americana, la quale ha assunto un valore paradigmatico per le costituzioni di altri ordinamenti federali, ma da cui ha origine anche la ricorrente ambiguità del termine che si è registrata nel corso dei secoli2.

Gli Stati Uniti sono il frutto di un processo dinamico di tendenziale unificazione, il cosiddetto federalizing process3: grazie all’approvazione della Costituzione si è

1 Fino a quel momento l’esperienza istituzionale più vicina era stata la confederazione, come era stato il caso degli Stati Uniti stessi durante gli avvenimenti della guerra d’indipendenza americana e gli anni immediatamente successivi (1777-1788); altri esempi simili sono la Confederazione elvetica fra i Cantoni svizzeri dal 1291 fino alla costituzione del 1848 e le Province unite nei Paesi Bassi (1581-1795).

2 P

AOLO CARROZZA, I rapporti centro-periferia: federalismi, regionalismi e autonomie, in P. CARROZZA,A.DI.GIOVINE,G.F.FERRARI (a cura di), “Diritto costituzionale comparato”, Tomo II, Roma-Bari, Editori Laterza, 2014, pp. 903 s.

3 Questo noto concetto è stato elaborato dallo studioso tedesco Carl Friedrich in Trends of Federalism in Theory and Practice, New York, 1968. Friedrich concepiva il federalizing process

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potuto assistere alla nascita di una nuova entità centrale, rappresentata in questo caso dalla federazione, la quale, nel lungo periodo e attraverso una dinamica di tipo centripeto, tenderà a spingere verso la centralizzazione dell’autorità rispetto agli enti territoriali costitutivi, senza mai però raggiungere un’unificazione completa e realizzare così l’assetto dello Stato unitario4.

Nell’ambito degli Stati a pluralismo territoriale è inoltre possibile tracciare un percorso evolutivo e diacronico che ha interessato tali forme di Stato; questa evoluzione abbraccia gli ultimi due secoli e parte dalle forme storiche di pluralismo territoriale, corrispondenti al modello duale o garantista e di cui la costituzione del 1787 degli Stati Uniti rappresenta l’esempio principale, fino ad arrivare, in seguito alla nascita e al successo del welfare state, al modello cooperativo tipico delle forme più contemporanee di pluralismo territoriale.

Attraverso un’analisi dei singoli testi costituzionali, è bene tenere a mente sia le norme costituzionali che regolano la separazione delle sfere d’azione tra Stato centrale ed enti decentrati, e di conseguenza anche la rispettiva ripartizione delle competenze, sia le norme che determinano le modalità e le tecniche attraverso cui si realizza il raccordo tra i due livelli di governo precedentemente citati.

Al fine di regolare i rapporti tra Stato centrale ed enti territoriali decentrati, si possono raggruppare le norme interessate in quattro diverse tipologie:

1- le disposizioni che disciplinano il riparto di competenze, solitamente basate sull’enumerazione materiale degli ambiti d’intervento che spettano esclusivamente allo Stato centrale, esclusivamente agli enti decentrati o in alternativa ad entrambi nel caso delle competenze concorrenti;

2- le disposizioni che danno la possibilità agli enti decentrati di condizionare o partecipare alle funzioni principali dello Stato centrale;

3- le norme che consentono allo Stato centrale di limitare o almeno condizionare l’autonomia degli enti decentrati, cioè le cosiddette garanzie politiche del pluralismo territoriale;

come un continuum di situazioni e trasformazioni che interessano le comunità sociali, oscillando fra due poli: ad un estremo si trova l’indipendenza totale e all’altro l’unificazione assoluta. Merito di Friedrich è il superamento della tradizionale dicotomia confederazione-federazione sostenuta dalla dottrina europea continentale, in particolare quella tedesca, vedendole piuttosto come fasi diverse di uno stesso processo evolutivo.

4 C

ARROZZA,op. cit., p. 896.

8

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4- le regole alla base della risoluzione dei conflitti tra Stato centrale ed enti decentrati, le quali si configurano anche come garanzie giurisdizionali del pluralismo territoriale.

Il modello duale o garantista è la prima forma storica di pluralismo territoriale e deriva il proprio nome dal decentramento di tipo binario stabilito dall’enumerazione materiale delle competenze, il quale è caratterizzato dalla separazione totale e assoluta delle sfere d’azione dello Stato centrale da quelle degli enti decentrati.

Come precedentemente menzionato, tale modello ha il suo esempio principe nella Costituzione americana del 1787: in essa si trova delineata una separazione verticale dei poteri in base al principio di competenza, la quale prevede da una parte l’esclusività dei poteri legislativi spettanti allo Stato federale (individuati attraverso l’enumerazione materiale delle competenze) e dall’altra l’esclusività di quelli previsti per gli Stati federati, in quest’ultimo caso attraverso la tecnica della residualità; come conseguenza si registra quindi una rigida separazione tra i rispettivi poteri legislativi esclusivi.

Nel sistema statunitense la doppia separazione dei poteri a livello verticale e orizzontale è andata di pari passo al concetto di doppia garanzia politica e giurisdizionale, tipica del liberalismo moderato, registrando il prevalere di tale esigenza rispetto a quelle di raccordo e coordinamento fra i livelli di governo5. Con il proseguire del Novecento, però, questo equilibrio inverte la sua tendenza: negli Stati Uniti ciò avviene già ai tempi della presidenza Roosevelt, seguiti a breve distanza dall’Europa del secondo dopoguerra, quando viene percepita una maggiore esigenza di coordinamento e raccordo tra le sfere d’azione dello Stato centrale e quelle degli enti federati, mettendo invece in secondo piano le esigenze garantiste che erano prevalse in precedenza.

Comune a tutti gli ordinamenti caratterizzati da una struttura decentrata, tale evoluzione si è rivelata un fenomeno tendenzialmente omogeneo già a partire dai presupposti, fra cui ad esempio si possono citare: lo sviluppo del welfare; l’ampliamento generalizzato degli interventi pubblici in numerosi settori

5 Ibidem, pp. 921-923.

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dell’economia; l’erogazione dei servizi pubblici essenziali da parte dello Stato; la necessità di incanalare nella stessa direzione la politica economica, monetaria e fiscale. Visto il prevalere delle politiche di indirizzo e controllo da parte dello Stato centrale, una delle principali conseguenze è inevitabilmente stata la diminuzione dell’autonomia accordata agli enti decentrati.

A questo passaggio corrisponde un nuovo modello di stato a pluralismo territoriale, cioè la forma cooperativa.

Essa presenta alcuni elementi comuni a tutti gli ordinamenti decentrati:

1- la crisi dell’enumerazione materiale come tecnica in grado di garantire un’efficace separazione delle competenze tra i livelli di governo, dovuta alla crisi più generale della stessa concezione garantista di autonomia territoriale; 2- una marcata flessibilità degli ambiti materiali dell’esercizio delle funzioni

affidate rispettivamente allo Stato centrale e agli enti decentrati, con le elencazioni materiali svuotate di peso in favore piuttosto della prassi di cooperazione verticale tra i livelli di governo;

3- la centralità degli strumenti di raccordo, con un conseguente rafforzamento delle relazioni intergovernative fra Stato centrale ed enti decentrati nei casi in cui risulti necessario raggiungere una decisione condivisa in ambito di politiche pubbliche.

Per la forma cooperativa, in contrasto a quanto avvenuto con quella duale, non è possibile indicare un testo costituzionale che ne rappresenti il modello ideale; appare piuttosto come una tappa a cui tendono nella loro evoluzione tutti i vari ordinamenti di pluralismo territoriale: in alcuni di questi, l’affermazione e il consolidamento della forma cooperativa sono stati il risultato di aggiustamenti avvenuti tramite le procedure di revisione costituzionale, mentre in altri ordinamenti si è giocato sulla flessibilità permessa dalle formule del testo costituzionale originario6.

In riferimento, nello specifico, alla Costituzione americana del 1787, è interessante notare come alcuni studiosi7 abbiano sottolineato il succedersi di

6 Ibidem, pp. 926-929.

7 Nell’ambito della dottrina italiana che si è occupata di queste tematiche, spicca Giovanni Bognetti con Lo spirito del costituzionalismo americano, Torino, G. Giappichelli Editore, consistente dei volumi La Costituzione liberale (1998) e La Costituzione democratica (2000).

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diverse costituzioni materiali8, nonostante negli ultimi due secoli il testo costituzionale originale abbia registrato solo ventisette emendamenti. La tesi portata avanti dai sostenitori di tale osservazione è che, nell’arco della propria storia, gli Stati Uniti siano stati interessati da una molteplicità di mutamenti costituzionali sia formali che informali: alcuni più circoscritti e quindi classificabili come minori, mentre altri hanno portato un vento di profonda innovazione sull’intero impianto politico-istituzionale, interessando non solo le regole ma anche i principi del costituzionalismo americano.

Come sostenuto da Bognetti, il periodo della cosiddetta politica del New Deal portata avanti da Roosevelt negli anni ’30 del Novecento rappresenta la maggiore cesura a livello costituzionale nel sistema americano ed in essa individua il passaggio da una costituzione “liberale” ad una costituzione “democratica”. Questo passaggio, però, non è avvenuto con emendamenti formalizzati attraverso il procedimento di revisione costituzionale, come previsto dall’articolo V della Costituzione, ma attraverso interventi legislativi federali profondamente innovativi, la cui conformità costituzionale è stata confermata dalla Corte Suprema solo in un secondo momento, di fatto adeguando la Costituzione alla volontà espressa dal Congresso. Il ruolo giocato dalla Corte Suprema fra gli anni 50’-60’ del Novecento ha ulteriormente contribuito al consolidamento della costituzione democratica, grazie ad alcune storiche sentenze della Corte Warren in materia di diritti civili, con lo scopo di rafforzare la tutela dei diritti individuali. Secondo questo punto di vista, la storia degli Stati Uniti è stata caratterizzata dal susseguirsi di tre diverse costituzioni: la prima costituzione va dalla sua elaborazione nel 1787 fino alla Guerra Civile, periodo in cui si è osservato in azione il già citato federalizing process, con la nascita e il rafforzamento dello Stato federale attraverso una dinamica centripeta; la seconda è la tappa intermedia vissuta nell’arco temporale fra la fine della Guerra Civile e il New Deal, con la Costituzione nel ruolo di gatekeeper dell’individualismo liberale; infine, successivamente all’affermazione del New Deal e al periodo che ne è conseguito,

8

Secondo la nota dottrina esposta da Costantino Mortati in La costituzione in senso materiale, Milano, 1940, la costituzione materiale si distingue da quella prettamente formale poiché è influenzata dal costante susseguirsi nel corso del tempo dei mutamenti politici e sociali, i quali a loro volta si riflettono sulla lettura e la comprensione dei principi fondamentali dell’ordinamento.

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la cosiddetta Costituzione “democratica”, con il rafforzamento del potere del livello federale su quello locale9.

Risulta interessante notare come i concetti di forma duale o garantista e di forma cooperativa di decentramento degli ordinamenti a pluralismo territoriale vadano di pari passo all’idea proposta da Bognetti dell’esistenza negli Stati Uniti rispettivamente di una costituzione “liberale” e di una costituzione “democratica”, condividendo numerose caratteristiche ed elementi in comune.

Andremo ad approfondire ulteriormente tali argomenti nel prosieguo di questo capitolo: nella Sezione I si andrà ad analizzare il modello duale relativamente al federalismo americano, prima mediante un inquadramento storico per meglio comprendere la genesi della Costituzione del 1787 e successivamente esaminandone i contenuti; nella Sezione II si illustrerà il passaggio dalla forma duale allo forma cooperativa, soffermandosi poi in particolare sulle garanzie politiche e sulle garanzie giurisdizionali del federalismo americano.

9 M

ARIO COMBA, Gli Stati Uniti d’America, in P.CARROZZA,A.DI.GIOVINE,G.F.FERRARI (a cura di), “Diritto costituzionale comparato”, Tomo I, Roma-Bari, Editori Laterza, 2014, p. 77.

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1.1 Sezione I: il modello duale o garantista

1.1.a – Inquadramento storico: dalle tredici colonie originarie alla Convenzione di Philadelphia (1787)

Il primo nucleo di quelli che in seguito sarebbero diventati gli odierni Stati Uniti d’America ebbe origine dalla colonizzazione del Nord America intrapresa dall’Inghilterra. Le tredici colonie inglesi nel nuovo continente si formarono principalmente nel corso del Seicento, con la colonia di Jamestown nel 1607 a rappresentare il primo insediamento di successo.

Il territorio abbracciato dalle colonie comprendeva l’intera costa atlantica e, in base alla comunanza di fattori geografici, economici, sociali e religiosi10, si possono individuare tre categorie d’insediamenti: le colonie del New England (Massachusetts, Connecticut, New Hampshire, Rhode Island), con un’economia fondata sul commercio e una popolazione principalmente di origine inglese e scozzese, espatriata in buona parte per motivi di scontri religiosi; le colonie della regione intermedia del Middle Atlantic (New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania), contraddistinte dalla presenza di ricche città portuali e da minoranze nazionali – ad esempio olandesi e tedeschi – e religiose; le colonie del Sud (Virginia, South Carolina, North Carolina, Maryland, Georgia), caratterizzate da un’economia di piantagione basata sulla schiavitù della popolazione nera di origine africana. Seppur istituite in base a presupposti giuridici e politici diversi fra loro11, tutte le colonie finirono per essere accomunate da una struttura di governo simile: ogni colonia infatti era dotata rispettivamente di un governatore, di un consiglio e di un’assemblea legislativa.

Il governatore, nella maggior parte dei casi, era nominato dalla Corona o in alternativa dal proprietario della colonia; egli era a capo del governo, della

10 Per informazioni storiche più dettagliate si rinvia a M

ALDWYN A.JONES, Storia degli Stati Uniti D’America (edizione italiana aggiornata) Milano, Bompiani, 2015, e ARNALDO TESTI, La formazione degli Stati Uniti, Il Mulino, 2013.

11 Esistevano tre modalità per la creazione di una colonia inglese: attraverso la patente reale accordata direttamente dalla Corona inglese; su spinta di una compagnia commerciale (es. la Compagnia della Virginia); su iniziativa di privati e quindi di loro proprietà. Tutte godevano però di una qualche forma di riconoscimento regio.

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magistratura e delle forze armate, ed inoltre aveva il potere di sciogliere l’assemblea legislativa e di porre il veto alle leggi promosse da quest’ultima. L’assemblea era elettiva su base censitaria ed aveva la facoltà di proporre leggi, fissare le tasse e controllare le spese; infine il consiglio seguiva la falsariga di una sorta di camera alta del parlamento. Per quanto riguarda le amministrazioni locali, vale la pena citare il caso del New England, dove le riunioni cittadine per decidere questioni concernenti la comunità locale erano prassi diffusa; questo modello conoscerà ampia diffusione nei futuri Stati Uniti, garantendo una fase di pubblico dibattito a livello di sistema amministrativo locale12.

Questa fase di equilibrio politico all’interno delle colonie conobbe, nell’arco di un decennio e in seguito alla conclusione della Guerra dei Sette Anni (1756-1763), un rapido deterioramento. La Gran Bretagna varò una serie di leggi che andarono a toccare da vicino gli interessi commerciali delle colonie americane, fra cui il

Revenue Act (1764) e lo Stamp Act (1765).

Quest’ultima legge provocò una reazione diffusa e violenta in tutte le colonie, trattandosi della prima volta in cui il Parlamento inglese impose loro una tassazione diretta; le proteste ebbero successo, portando all’abrogazione della legge in questione.13 Il Tea Act (1773) esacerbò nuovamente le tensioni con la madrepatria, ma la reazione della Gran Bretagna non si fece attendere: vennero approvati i cosiddetti Intolerable Acts (1774) che minarono ulteriormente l’autonomia delle colonie, in particolare del Massachusetts14.

Quest’azione ebbe però l’effetto opposto a quanto sperato poiché fece da catalizzatore ad una collaborazione fra le colonie, concretizzatasi poi materialmente nella convocazione del Primo Congresso Continentale a Philadelphia nel settembre 1774; in tale sede venne da una parte deciso il boicottaggio delle merci inglesi e dell’altra venne inviata una petizione a Re Giorgio III affinché revocasse gli Intorable Acts. Non ricevendo risposta, la protesta si trasformò in ribellione seppur non ancora esplicitamente dichiarata.

12M

ALDWYN A.JONES, Storia degli Stati Uniti d’America, (edizione italiana aggiornata) Milano, Bompiani, 2015, p. 18.

13 Ibidem, p. 41. 14 A

RNALDO TESTI, La formazione degli Stati Uniti, Il Mulino, 2013, p.69.

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Nell’aprile 1775 la situazione precipitò nel Massachusetts, con i primi scontri armati fra le truppe inglesi ed i coloni ribelli nelle battaglie di Lexington e Concord che diedero inizio a tutti gli effetti alla Rivoluzione Americana.

Nel maggio 1775 si riunì allora il Secondo Congresso Continentale, il quale autorizzò la creazione di un esercito continentale sotto il comando di George Washington; nonostante ciò, i delegati si appellarono nuovamente a Giorgio III sperando di poter raggiungere un accordo conciliatorio. Ma le loro speranze vennero deluse dall’approvazione del Prohibitory Act da parte del Parlamento inglese, il quale dichiarò l’esclusione delle colonie ribelli dalla protezione della Corona e impose un embargo sul commercio con esse.

L’idea di un’indipendenza dall’impero britannico iniziò ad essere considerata una seria possibilità, alimentata da un lato dai ripetuti scontri militari che contribuirono a diminuire sempre più l’attaccamento verso la madrepatria e dall’altro dal clamoroso successo a livello di opinione pubblica del pamphlet

Common Sense (1776) di Thomas Paine, il quale si fece portavoce del malumore

collettivo e, attaccando la legittimità della monarchia inglese, sostenne con forza l’inevitabilità dell’indipendenza delle colonie15.

Nel maggio 1776 il Congresso invitò le colonie a dotarsi di nuovi governi repubblicani e a giugno venne presentata ufficialmente una mozione16 in cui si dichiarava che: “ […] these United Colonies are, and of right ought to be, free and independent States, that they are absolved from all allegiance to the British Crown, and that all political connection between them and the State of Great Britain is, and ought to be, totally dissolved […]”17.

Dopo aver ottenuto il consenso da parte di tutti i governi delle colonie, la mozione venne approvata all’unanimità il 2 luglio e il 4 luglio 1776 venne infine ratificata

15 J

ONES, op. cit., pp. 44-46.

16 Nota anche come Lee’s Resolutions poiché presentata da Richard Henry Lee, delegato della Virginia, e assecondata da John Adams.

17Lee's Resolutions: Resolution introduced in the Continental Congress by Richard Henry Lee

(Virginia) proposing a Declaration of Independence, June 7, 1776. Testo reperibile all’indirizzo http://avalon.law.yale.edu/18th_century/lee.asp, consultato in data 17/01/2019.

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la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, il cui autore principale fu Thomas Jefferson18.

Lo scopo principale di tale testo fu quello di fornire una giustificazione morale e legale alla ribellione americana, indicando tutte le azioni commesse dalla Corona inglese contro le colonie e percepite da quest’ultime come ingiustizie; nel famoso preambolo vengono enunciati i diritti naturali (vita, libertà e felicità) spettanti a tutti gli uomini in quanto tali, sottolineando inoltre come il potere dei governi sia basato sul consenso dei governati con lo scopo di garantire loro tali diritti e, se questa finalità dovesse venire meno, allora sarebbe possibile per i secondi rovesciare legittimamente i primi.

Il Congresso, nel frattempo, aveva nominato un comitato per elaborare una prima bozza della costituzione per la nuova unione di stati; tale documento, passato poi alla storia con il nome di Articoli della Confederazione, venne approvato dal Congresso dopo una lunga discussione nel novembre 1777 e divenne effettivamente operativo solo nel febbraio 1781, dopo essere stato ratificato all’unanimità da tutti gli Stati. Nonostante ciò, gli Articoli della Confederazione vennero usati dal Congresso già nel corso della Rivoluzione Americana, con quest’ultimo che agì come governo di fatto.

Gli Articoli della Confederazione prevedevano un governo centrale con poteri però limitati: poteva dichiarare guerra e regolamentare le forze armate, formare alleanze e concludere trattati, battere moneta, ripartire le spese comuni fra gli Stati dell’Unione, regolare i rapporti con i nativi americani.

Non aveva però il potere di regolare il commercio ed imporre le tasse, cioè mancava di autonomia finanziaria, carattere essenziale della sovranità; tutti i poteri non esplicitamente assegnati alla Confederazione, ed esercitati inoltre solo attraverso il Congresso, spettavano ai singoli stati, i quali quindi mantenevano la propria sovranità e indipendenza.

Tutti i provvedimenti più importanti necessitavano dell’approvazione di una maggioranza qualificata (nove stati su tredici) e gli Articoli potevano essere emendati solo ed esclusivamente con l’approvazione unanime di tutti gli stati19.

18 T

ESTI, op. cit., p. 73. 19 J

ONES, op. cit., p. 62.

16

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Dopo la fine della Guerra d’Indipendenza, conclusasi formalmente in seguito al trattato di Parigi (1783) con la vittoria degli Stati Uniti sulla Gran Bretagna, si accentuarono ulteriormente i problemi legati all’efficacia e all’efficienza degli Articoli della Confederazione. Il Congresso, infatti, non era riuscito ad elaborare una politica monetaria efficace, poiché la carta moneta si svalutava rapidamente, né ad imporre agli Stati una politica doganale comune.

Si fece sempre più evidente la debolezza insita nel sistema e soprattutto nel Congresso, il quale non aveva il potere di far valere le proprie decisioni sugli Stati, avendo necessariamente bisogno del consenso di quest’ultimi per agire20. In particolare fu la difficoltà ad intraprendere un’efficace politica commerciale confederale a dare la spinta decisiva verso una riforma dell’intero sistema.

Una prima convenzione ebbe luogo ad Annapolis (Maryland) nel settembre 1786 con l’obiettivo di discutere la questione del commercio interstatale, ma da questo punto di vista fu un fallimento a causa della bassa partecipazione21 da parte degli Stati. In questa sede i delegati si resero però conto che la questione del commercio era, per così dire, solo la punta dell’iceberg di tutte le pressanti problematiche riguardanti la Confederazione e decisero quindi di organizzare un’altra convenzione che trattasse il tutto da una prospettiva più ampia, anche andando ad emendare gli stessi Articoli della Confederazione22.

Fu così che nel maggio 1787 si riunì la famosa Convenzione di Philadelphia: presieduta da Washington, vi parteciparono cinquantacinque delegati, fra cui numerose personalità di spicco dell’epoca come ad esempio James Madison, Alexander Hamilton e Benjamin Franklin, i quali ricevettero l’incarico dalle assemblee legislative dei rispettivi Stati.

Seppur il mandato loro accordato dal Congresso fosse specificatamente quello di revisionare gli Articoli della Confederazione, ciò fu presto messo da parte quando i delegati si presero la responsabilità di stilare una costituzione ex novo, consci della necessità di dover riorganizzare l’assetto istituzionale fin dalle sue stesse fondamenta.

20 Ibidem, p. 65.

21 Alla Convenzione di Annapolis si presentarono a malapena una dozzina di delegati, la cui provenienza era ripartita oltretutto solo fra cinque dei tredici Stati che costituivano l’Unione. 22 Ibidem, p. 67.

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La principale linfa intellettuale della futura Costituzione fu fornita dalle riflessioni di Madison riguardo una forma di stato federale coadiuvata da una forma di governo repubblicana, la cui somma e scontro fra interessi diversi avrebbe garantito stabilità politica a tutto l’ordinamento; fondamentale sarebbe quindi stato un sistema caratterizzato dalla separazione dei poteri23 e da meccanismi di

checks and balances. Facendo derivare l’autorità della federazione direttamente

dalla sovranità del popolo degli Stati Uniti nel suo complesso, superò quindi l’autorità dei singoli Stati in favore di quella del governo centrale, quest’ultimo scelto attraverso elezioni indirette24.

Durante le discussioni all’interno della Convenzione Costituzionale, una delle questioni maggiormente dibattute fu il peso da accordare alla rappresentanza degli Stati all’interno del futuro Congresso.

I progetti su cui si aggregò e si divise la maggior parte del consenso dei delegati furono due: il Virginia Plan, proposto dallo stesso Madison, prevedeva un Parlamento diviso in due Camere e in ciascuna di esse il numero dei deputati sarebbe stato proporzionale alla popolazione degli Stati, andando così a favorire i cosiddetti grandi Stati; il New Jersey Plan delineava invece un’unica camera legislativa in cui ogni Stato avrebbe avuto diritto soltanto ad un voto a testa, con l’idea di proteggere l’influenza degli Stati meno popolosi.

Venne infine raggiunto un compresso con la creazione di un parlamento bicamerale, da una parte garantendo un’eguale rappresentanza degli Stati nella Camera alta25 e dall’altra assicurando una rappresentanza proporzionale in base alla popolazione all’interno della Camera bassa26.

Nel settembre 1787 venne presentata la versione finale del testo costituzionale, la quale venne approvata e firmata dalla maggioranza dei delegati.

A questo punto iniziò la parte più delicata del processo di entrata in vigore della Costituzione, cioè la ratifica: fu prevista una ratifica stato per stato in via indiretta, attraverso convenzioni elettive create ad hoc; per entrare formalmente in vigore, il

23 Madison riprende la nota teoria sulla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) formulata dal filoso francese Montesquieu nel suo famoso De l’esprit des lois (1748).

24 T

ESTI, op. cit., p. 92.

25 Ogni Stato avrebbe avuto diritto a due rappresentanti a testa all’interno del Senato, garantendo un’uguale rappresentanza all’interno di esso e configurandolo così come una “camera degli Stati”. 26 J

ONES, op. cit., pp. 68, 69.

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testo costituzionale necessitava dell’approvazione da parte di almeno nove Stati dei tredici facenti parte dell’Unione.

Nei mesi successivi la Costituzione venne rapidamente ratificata da Delaware, Pennsylvania, New Jersey, Connecticut e Georgia. La ratifica fu più problematica in Massachusetts ed avvenne nel febbraio 1788 solo dopo che fu loro garantita la presentazione di una serie di emendamenti in difesa dei diritti politici; in seguito fu approvata anche in Maryland e South Carolina27.

Ma il vero dibattito avvenne con gli oppositori della Costituzione all’interno della Virginia e di New York, due degli Stati più influenti dell’Unione e la cui approvazione era necessaria per dare credibilità all’intero progetto.

I detrattori della Costituzione, fra cui lo stesso governatore Clinton dello Stato di New York, denunciavano la mancanza di una dichiarazione che garantisse i diritti individuali ed inoltre mettevano in guardia sulla possibilità di un potente governo centrale, indifferente alle problematiche e agli interessi locali.

A difendere il proprio operato si mossero gli stessi Madison ed Hamilton che, insieme al giurista John Jay, furono gli autori anonimi dietro una serie di saggi, pubblicati su diversi giornali e raccolti poi in The Federalist Papers (1788), in cui spiegarono nel dettaglio i principi ispiratori della Costituzione28.

Il 21 giugno 1788 il New Hampshire divenne il nono stato a ratificare la Costituzione, raggiungendo così la soglia tanto desiderata; solo pochi giorni dopo, il 26 giugno, il testo venne approvato anche dalla Virginia ed infine, un mese dopo, dallo Stato di New York. Gli ultimi due Stati mancanti, il North Carolina e Rhode Island, la ratificarono rispettivamente nel 1789 e nel 1790.

Venne concordato che la Costituzione americana sarebbe entrata ufficialmente in vigore a partire dal 4 marzo 1789, dando così il via libera all’elezione e alla formazione del primo Congresso e del primo governo all’interno di un assetto istituzionale federale, il primo della storia moderna29.

27 Ibidem, p. 71. 28 T

ESTI, op. cit., p. 96. 29 J

ONES, op. cit., pp. 71, 72.

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1.1.b – La Costituzione americana del 1787

La Costituzione americana è considerata la prima costituzione dell’era moderna e possiede una struttura apparentemente semplice, essendo costituita da sette articoli originari a cui poi, nel corso del tempo, si sono aggiunti ventisette emendamenti; i primi dieci emendamenti vennero approvati già nel 1791 e sono noti con il nome di Bill of Rights, cioè la carta dei diritti fondamentali. Questo blocco – articoli originari e Bill of Rights – rappresenta quindi la parte più antica del testo costituzionale, il quale esibisce le caratteristiche tipiche di una costituzione rigida e la cui modifica è possibile solo tramite l’approvazione di emendamenti, successivamente ad un procedimento piuttosto complesso in cui hanno voce anche gli Stati membri30.

A rimarcare la distanza rispetto agli Articoli della Confederazione, un principio cardine della nuova Costituzione riguarda i rapporti che si andranno a stabilire tra l’ordinamento federale e gli ordinamenti interni degli Stati membri: la cosiddetta

supremacy clause, contenuta nell’art. VI, afferma che la Costituzione, le leggi

emanate in base ad essa ed i trattati conclusi o che si concluderanno dagli Stati Uniti costituiranno la legge suprema del paese (“the supreme Law of the Land”); di conseguenza i giudici degli Stati membri, in caso di contrasto con i diritti statali, dovranno necessariamente dare la loro preferenza al diritto federale. Per quanto riguarda la ripartizione dei poteri fra federazione e Stati, alla prima vengono attribuiti una serie di poteri espressamente indicati attraverso il principio dell’enumerazione materiale delle competenze; ai secondi spetta una fetta di poteri, derivanti anche dalla sovranità di cui godevano all’interno della Confederazione, i quali però sono soggetti a limitazioni attraverso specifici divieti. Tenendo conto di tutto ciò, Bognetti nota come l’assetto federale americano originale stabilito inizialmente dai Padri Fondatori fosse principalmente orientato alla tutela e alla promozione di un’economia basata su proprietà privata, autonomia contrattuale e libertà d’iniziativa e di lavoro su tutto il territorio; se quindi gli Stati erano inquadrati come l’unità di base

30 V

ITTORIA BARSOTTI,La tradizione di common law, in VINCENZO VARANO,VITTORIA BARSOTTI, La tradizione giuridica occidentale, Volume I, Testo e materiali per un confronto civil law common law, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010.

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dell’ordinamento a cui spettava il compito di regolare gli aspetti quotidiani della vita di ognuno, da propria parte il governo federale avrebbe invece agito come una sorta di garante del mercato nazionale, concentrando piuttosto i suoi sforzi maggiori sulle questioni di politica estera31.

Per quanto riguarda i poteri riservati in via esclusiva allo Stato federale, questi possono essere ricavati principalmente - ma non solo - dall’Articolo I, sezione 8 e 9, dove vengono delineate le competenze del Congresso32.

In particolare la cosiddetta clausola dei poteri impliciti è una disposizione pensata per garantire una certa legittimità giuridica alla facoltà dello Stato centrale di dare attuazione ai compiti ad esso assegnati; tuttavia questa clausola è pur sempre soggetta ad interpretazione e la sua estensione riguardo le attività interessate varia a seconda del significato in senso più o meno stretto che viene attribuito ai termini “necessità” e “appropriatezza”33.

Seppur in via teorica agli Stati membri venga garantita la facoltà di poter regolare in via esclusiva tutto ciò che rientra nell’ambito delle proprie competenze, nei fatti la Costituzione federale impone loro dei limiti, andando a specificare divieti ed obblighi a cui gli Stati devono sottostare.

Un esempio è la forma interna di governo che ogni Stato membro deve necessariamente avere, cioè la forma repubblicana, con l’ulteriore divieto di

31 G

IOVANNI BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, Volume I, La costituzione liberale, Torino, G. Giappichelli Editore, 1998, p.35.

32 Il Congresso ha facoltà: d’imporre e percepire tasse, diritti, imposte e dazi, i quali però dovranno essere uniformi sull’intero territorio; di pagare i debiti pubblici e di provvedere alla difesa comune e al benessere generale degli Stati Uniti; di contrarre prestiti; di regolare il commercio con le altre Nazioni, fra i diversi Stati membri e con le tribù indiane (nota come la cosiddetta commerce clause); di fissare le norme generali per la naturalizzazione degli stranieri immigrati negli Stati Uniti; di emanare norme generali in materia di bancarotta valide su tutto il territorio; di battere moneta e di stabilirne il valore, andando inoltre a punirne la contraffazione; di stabilire uffici e servizi postali; di costituire tribunali di grado inferiore alla Corte Suprema; di dichiarare guerra; di reclutare e mantenere eserciti in tempo di pace, ma i cui stanziamenti in bilancio non potranno mai superare i due anni; di creare e mantenere una Marina militare; di stabilire regole per la disciplina delle forze armate; di definire e punire i reati di pirateria e, più genericamente, i reati commessi in acque internazionali e in violazioni degli obblighi di diritto internazionale; di ammettere nuovi Stati all’interno dell’Unione, ma ciò non potrà avvenire per distacco di porzioni di territorio appartenenti ad uno Stato gà membro. Le fusioni di due o più Stati o di parte di essi è permessa solo attraverso il consenso dei legislativi statali coinvolti e del Congresso; di disporre e fare regole per il governo dei territori appartenenti agli Stati Uniti; di fare tutte le leggi necessarie ed adatte per l’esercizio dei poteri elencati nella Costituzione ed attribuiti al governo federale o ai suoi organi (implied powers clause). La Costituzione americana è stata consultata nella traduzione italiana contenuta in VINCENZO VARANO, VITTORIA BARSOTTI, La tradizione giuridica occidentale, Volume I, pp. 424-436.

33Ibidem,p.43.

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conferire titoli nobiliari. Se da una parte viene confermato il diritto di ogni Stato a disporre di una milizia, cioè un insieme di cittadini capaci di utilizzare le armi, la sua organizzazione dovrà comunque rientrare negli standard stabiliti dai regolamenti del Congresso, il quale inoltre si riserva la facoltà di prevedere quei casi in cui la Milizia potrà essere usata dagli Stati Uniti.

In tempo di pace lo Stato membro non potrà nemmeno disporre di un esercito professionale o di navi da guerra, essendo una prerogativa riservata esclusivamente allo Stato centrale; in caso di violenza interna o di ribellione, lo Stato membro potrà fare appello all’aiuto della federazione.

Per quanto riguarda i rapporti con i paesi esteri, lo Stato membro non può stringere alleanze o concludere trattati con essi senza il permesso da parte del Congresso, né può entrare in conflitto armato se non in casi estremi (come ad esempio situazioni di pericolo imminente o d’invasione).

Si rende necessario il consenso del Congresso anche nel caso in cui lo Stato membro voglia imporre dazi su importazioni o esportazioni con i paesi esteri; il divieto d’imporre dazi era poi inteso anche nei confronti dei rapporti fra stati membri, visto nell’ottica della più generica clausola del commercio che riservava tale competenza esclusivamente al Congresso.

Sempre da un punto di vista di rapporti interstatali, ancora una volta ogni Stato membro necessita del permesso del Congresso per poter concludere trattati. La Costituzione, inoltre, vincola la legislazione statale da una parte ad assicurare il riconoscimento al suo interno degli atti pubblici, di varia natura, prodotti dagli altri Stati e dall’altra a garantire la tutela dei diritti individuali, non facendo quindi discriminazione fra il trattamento dei propri cittadini e quello dei cittadini degli altri Stati membri.

Allo Stato membro è vietato sia di fare leggi retroattive, individuate successivamente dalla giurisprudenza nelle leggi penali retroattive, sia leggi che vadano ad incidere sulle obbligazioni dei contratti.

Essendo competenza esclusiva dello Stato centrale, agli Stati membri è negata la possibilità di battere una propria moneta ed emettere titoli di credito; la creazione di un’unica moneta centrale è infatti una caratteristica essenziale al corretto funzionamento di un vero e proprio sistema federale e l’esistenza di più monete

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cartacee statali era stata una delle questioni più problematiche durante gli anni della Confederazione, danneggiandone i relativi commerci34.

Dopo aver quindi descritto la divisione verticale dei poteri fra federazione e Stati membri, andremo ora ad osservare la divisione orizzontale dei poteri.

I Padri Fondatori presero spunto dalla teoria della divisione dei poteri elaborata da Montesquieu, la quale però era stata elaborata dal filosofo francese attraverso lo studio della costituzione inglese35; per le diverse circostanze e caratteristiche di partenza, quella americana sarebbe quindi dovuta essere una versione rivisitata della divisione dei poteri, andandosi ad innestare su un sistema federale repubblicano invece di una monarchia.

Vengono individuate tre funzioni statali fondamentali (legislativa, esecutiva, giudiziaria) a cui a loro volta corrispondono tre Poteri (Legislativo, Esecutivo, Giudiziario); a questi poteri viene attribuita la competenza esclusiva delle rispettive funzioni, così da garantire ad ognuno di loro la più totale indipendenza rispetto agli altri due.

Nel contesto repubblicano americano, il modo per rendere indipendenti e politicamente responsabili sia il Legislativo che l’Esecutivo è stato quello di rendere entrambi elettivi ad intervalli periodici, ma basandone l’elezione su corpi elettorali diversi fra loro e stabilendo inoltre un mandato svincolato dalle rispettive volontà. Fra Congresso e Presidente non esiste quindi un vincolo di fiducia e l’unico metodo per rimuovere il Presidente dalla propria carica è attraverso la tecnica dell’impeachment; infine il Giudiziario è reso indipendente grazie alla previsione dell’inamovibilità dei giudici e del loro mandato a vita. Seppure la Costituzione americana sia più rigorosa di quella inglese nell’imporre il principio dell’attribuzione esclusiva di una funzione ad un Potere, prevede dei casi in cui ad un Potere è data la possibilità di partecipare dall’esterno alla funzione assegnata ad un altro Potere, per esempio rendendo necessario il suo

34 Ibidem, pp. 36-38.

35 Nel capitolo sesto del libro XI dell’Esprit des Lois Montesquieu analizza la costituzione inglese. Questo capitolo ha come oggetto due argomenti strettamente collegati fra di loro, cioè la teoria della separazione dei poteri e la descrizione dei meccanismi del governo inglese.

Una spiegazione più dettagliata dell’argomento può essere trovata nel capitolo dedicato a Montesquieu in JEAN-JACQUES CHEVALLIER, Le grandi opere del pensiero politico, pp. 148-157.

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consenso: è questo il caso del veto presidenziale sulle leggi fatte dal Legislativo, il quale risulta però superabile in certe circostanze.

Tutto ciò rientra nella più generale volontà dei Padri Fondatori d’istituire dei freni interni al sistema, dei pesi e contrappesi fra i vari Poteri, così da creare una situazione di tendenziale equilibrio senza tuttavia dimenticare l’idea di garantire al potere legislativo, e quindi al Congresso, una posizione centrale36.

Il Congresso è un parlamento bicamerale, composto dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato: i membri37 della Camera dei Rappresentanti sono eletti ogni due anni dai cittadini dei rispettivi Stati e il numero dei Rappresentanti assegnati ad ogni Stato varia proporzionalmente in base al totale degli abitanti dei diversi Stati membri, ma ad ognuno di essi deve essere garantito almeno un rappresentante. Il Senato è formato da due Senatori per ogni Stato, garantendo così loro eguale rappresentanza; la durata della carica per ogni Senatore38 è di sei anni e, grazie ad uno specifico meccanismo39, è stato previsto il rinnovo di un terzo del Senato ogni due anni. Inizialmente nella Costituzione era stato previsto che i Senatori fossero eletti dalle assemblee legislative dei rispettivi Stati, ma in seguito al XVII emendamento (1913) il corpo elettorale ha potuto eleggere direttamente anche il Senato.

La Costituzione stabilisce che il Vicepresidente degli Stati Uniti ricoprirà anche la carica di Presidente del Senato, senza però essere dotato della facoltà di prendere parte alle votazioni, fatto salvo il caso di pareggio dei voti (Art. I, sez. 3, comma 3). Sia ai Senatori che ai Rappresentanti è garantita un’indennità da parte degli Stati Uniti per lo svolgimento delle loro funzioni, rappresentando il primo esempio di una previsione di questo genere nella storia degli ordinamenti liberali; ai parlamentari è inoltre concessa l’immunità assoluta per le opinioni da loro

36 Ibidem, pp.44-46.

37 Esistono dei requisiti minimi per essere eletto Rappresentante, così come stabilito dall’Art. I, sezione 2: la persona deve avere almeno 25 anni, deve essere cittadina degli Stati Uniti da almeno sette anni ed infine, nel periodo elettorale, deve essere residente nello Stato in cui sarà eletta. 38 Ogni Senatore deve avere compiuto almeno 30 anni, essere cittadino degli Stati Uniti da almeno nove anni e deve essere residente dello Stato in cui sarà eletto (Art. I, sez.3).

39 “[…] Immediatamente dopo la riunione successiva alla prima elezione, i Senatori saranno divisi in tre classi, in numero possibilmente eguale. I seggi dei Senatori della prima classe diverranno vacanti allo scadere del secondo anno, quelli della seconda classe allo scadere del quarto anno, quelli della terza allo scadere del sesto anno, in modo che ogni due anni venga rieletto un terzo del Senato; […]” (Art. I, sez.3).

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espresse durante i dibattiti congressuali, né potranno essere arrestati durante le sessioni delle rispettive Camere, salvo che per aver commesso delitti o violato l’ordine pubblico (Art. III, sez. 6).

Al Congresso sono attribuiti tutti i poteri legislativi che la Costituzione conferisce agli Stati Uniti (Art. I, sez. 1) e questa funzione viene svolta in maniera congiunta da entrambe le Camere, non delegabile a nessun’altra autorità. Solo per i progetti di legge riguardanti i tributi e le altre entrate finanziarie vale la regola che l’iniziativa legislativa parta dalla Camera dei Rappresentanti, ma anche in questo caso il Senato ha comunque il diritto di presentare emendamenti (Art I, sez. 7). Il potere esecutivo è invece attribuito dalla Costituzione al Presidente degli Stati Uniti, il cui mandato è fissato a quattro anni; l’elezione del Presidente40 avviene in maniera indiretta41 tramite il meccanismo dei cosiddetti grandi elettori. L’idea dei Padri Fondatori è che gli Elettori, dopo un attento esame, avrebbero potuto scegliere come Presidente uno fra gli uomini più illustri e preparati che gli Stati Uniti potessero offrire al tempo. Ma con la formazione dei primi partiti politici, anche la scelta del Presidente divenne un’espressione della loro competizione; i partiti indicavano quindi preventivamente ai propri elettori coloro che avrebbero fatto parte del proprio ticket presidenziale, cioè Presidente e Vicepresidente. Tale prassi si è consolidata sempre più nel tempo e ad oggi non è più corretto parlare di fatto di elezione indiretta del Presidente, anche se formalmente lo è ancora per via della presenza dei Grandi Elettori42.

Il Presidente è Comandante in capo delle forze armate federali e, in casi particolari, della Milizia dei diversi Stati membri; la Costituzione gli attribuisce anche l’autorità di concedere la grazia (Art. II, sez. 2).

Il Presidente ha inoltre ampi poteri di nomina, potendo nominare di propria iniziativa ambasciatori, diplomatici e consoli, i giudici della Corte Suprema e tutti gli altri pubblici funzionari la cui nomina non sia disposta altrimenti dalla

40 Il Presidente, per potere essere eletto, deve necessariamente essere nato negli Stati Uniti d’America ed avere un’età minima fissata a 35 anni (Art. II, sez. 1, comma 5).

41 Gli elettori di ogni Stato membro eleggono un certo numero di Elettori presidenziali, equivalente al numero dei Rappresentanti e dei Senatori inviati al Congresso dal relativo Stato; questi Elettori si riuniranno poi a loro volta nei rispettivi Stati e voteranno a scrutinio segreto: il candidato con il maggiore numero di voti sarebbe diventato Presidente e il secondo più votato Vicepresidente. In seguito al XII emendamento, la votazione diventerà più funzionale poiché vengono introdotte due liste separate per le cariche, rispettivamente, di Presidente e Vicepresidente.

42 Ibidem, p. 56.

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Costituzione; sempre nel quadro dei pesi e contrappesi voluto dai Padri Fondatori, queste nomine devono però avere il consenso del Senato.

Anche nel caso del potere di concludere trattati assegnato al Presidente, ancora una volta deve esservi l’approvazione da almeno due terzi del Senato.

Infine, osservando il processo legislativo, il ruolo di “freno” tocca al Presidente attraverso l’esercizio del suo potere di veto rispetto ai progetti di legge presentati dal Congresso: affinché la legge entri in vigore è infatti necessaria l’approvazione da parte del Presidente e, in caso questa manchi, la legge viene rinviata al Congresso per essere ulteriormente discussa.

Ma il veto presidenziale è superabile dal Congresso se, in seguito alla seconda discussione in aula, il progetto di legge viene comunque approvato dalla maggioranza dei due terzi di entrambi i rami del parlamento, acquisendo quindi valore di legge (Art. I, sez. 7). Nell’ambito del potere legislativo risulta quindi piuttosto chiara la volontà originaria dei Padri Fondatori di attribuire al Presidente un ruolo subordinato rispetto al Congresso, considerando inoltre come quest’ultimo fosse dotato del potere esclusivo d’iniziativa legislativa43.

L’Articolo III attribuisce infine il potere giudiziario alla Corte Suprema, affidando al Congresso la scelta riguardo se e, nel caso, come istituire le Corti federali di grado inferiore. Sia ai giudici della Corte Suprema che a quelli delle Corti di grado inferiore viene garantito il mantenimento a vita della propria carica, a condizione del loro good behavior (Art. III, sez. 1).

L’Art. III sez. 2 contiene un’enumerazione delle materie attribuite alle Corti federali, ma in concreto viene lasciata al Congresso la facoltà di definire tramite legge l’ambito effettivo della giurisdizione federale: ciò venne fatto con il First

Judiciary Act (1789), il quale ad esempio assegnò ai giudici federali la

giurisdizione sulle controversie fra cittadini di Stati membri diversi; alla Corte Suprema toccò anche la giurisdizione riguardo le impugnazioni delle sentenze delle Corti Supreme statali, qualora fosse negata la validità di una legge o di un trattato federale o, in alternativa, se si fosse sostenuta la validità di una legge statale in contrasto con il diritto federale44.

43 Ibidem, p. 57. 44 Ibidem, pp. 61-62.

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Uno strumento fondamentale per il ruolo svolto dalla Corte Suprema è il potere di

judicial review, cioè il controllo di costituzionalità delle leggi. Tale potere non è

espresso esplicitamente nella Costituzione, ma è implicito nel concetto di

supremacy clause quando si afferma che le Corti degli Stati non devono applicare

le leggi del proprio Stato se queste si trovano in contrasto con il diritto federale45. Ma di judicial review si parlerà più diffusamente in seguito, in particolare nel paragrafo dedicato alle garanzie giurisdizionali del federalismo.

Bognetti giudica la Costituzione americana nel suo complesso come ispirata da un atteggiamento moderatamente antimaggioritario; sono infatti presenti dei meccanismi istituzionali il cui scopo è proteggere le libertà e i diritti fondamentali dell’individuo dai potenziali attacchi provenienti dalle maggioranze popolari46, siano esse a livello locale, statale o nazionale.

Tuttavia è pur sempre un antimaggioritarismo moderato poiché la Costituzione, imponendo agli Stati la forma repubblicana, garantisce al tempo stesso l’esistenza di tutta una serie di cariche politiche a cui si accede mediante elezioni popolari, lasciando inoltre agli Stati la possibilità di stabilire le regole relative al suffragio e non imponendo loro alcun requisito di censo47.

45 Ibidem, p. 63.

46 Un concetto simile viene espresso da James Madison nel Federalista n. 10, quando parla dei pericoli delle fazioni e della tirannia della maggioranza.

47 Ibidem, p. 73.

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1.2 Sezione II: dal modello duale al modello cooperativo

La fine della Guerra Civile produsse una serie di emendamenti che si sono rivelati una tappa fondamentale nello sviluppo del diritto costituzionale americano: a partire dall’adozione del XIII Emendamento (1865) che bandiva formalmente l’istituto della schiavitù in tutto il territorio degli Stati Uniti, passando per il XIV Emendamento (1868) che garantiva la cittadinanza a qualsiasi persona nata negli Stati Uniti e impediva inoltre agli Stati membri di limitare in maniera arbitraria i privilegi e le immunità dei propri cittadini, per arrivare infine al XV Emendamento (1870) con il quale si vietava ogni discriminazione in materia di elettorato attivo in base alla razza o alla condizione di precedente schiavitù. Attraverso questi emendamenti si volle cercare di uniformare gli ordinamenti statali attorno a principi e valori imposti dall’ordinamento federale, ma questa tendenza centralizzatrice fu nella realtà d’intensità minore a quanto effettivamente previsto sulla carta: agì in questo senso la giurisprudenza della Corte Suprema di quegli anni, ponendo dei paletti nei confronti dello Stato centrale e andando invece a salvaguardare i bisogni e l’autonomia degli Stati membri48.

Una versione matura della costituzione liberale americana viene così raggiunta nella sua pienezza nel periodo fra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale ed essa fungeva da garante ultimo dei valori tipici del modello liberale che permeavano ogni strato dell’ordinamento. L’interpretazione della Corte Suprema andava quindi a tutelare i diritti fondamentali dell’individuo sia nei confronti dei diritti statali che nei confronti della legislazione elaborata dal Congresso, stava a guardia del riparto delle competenze tra Stato Centrale e Stati membri all’interno del quadro federale ed infine difendeva la divisione verticale dei poteri relativamente ai diversi organi dello Stato federale, in conformità a quanto stabilito dalla Costituzione49.

Durante il periodo liberale maturo, nell’ottica del modello federale duale, gli Stati membri continuano a svolgere un ruolo centrale nel sistema americano, in particolare nell’ambito della politica interna. L’autonomia statale si osserva ad

48 Ibidem, p. 119. 49 Ibidem, pp. 125-126.

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esempio nell’ambito dell’organizzazione delle forme di governo adottate dagli Stati; le costituzioni statali prevedono perlopiù un parlamento bicamerale sulla falsa riga del Congresso, un Governatore eletto per via popolare ed inoltre si osserva come, in vari Stati, almeno una parte dei giudici siano scelti in base ad un’elezione popolare e abbiano un mandato a termine. Il suffragio universale maschile è solitamente la regola ed in alcuni Stati si registra anche la concessione del voto alle donne precedentemente al 1920, fra cui si inserisce il Wyoming come il primo stato a muoversi in tale direzione già nel 1869.

La sovranità dello Stato membro nell’ambito della legislazione speciale e delle correlate azioni amministrative poteva creare anche notevoli differenze all’interno dei rispettivi ordinamenti statali; tutte attività che andavano inoltre a toccare il cittadino comune nella sua vita quotidiana50.

Se quindi è vero che gli Stati membri si trovavano al centro del sistema federale americano durante l’età del liberalismo maturo, non bisogna tuttavia dimenticare che essi non potevano andare ad intaccare seriamente le caratteristiche distintive del costituzionalismo americano di quest’epoca, cioè la tutela giuridica e l’autonomia garantita alla società civile, composta sia da individui che da libere associazioni. Questi potevano infatti sfruttare il fatto che gli Stati membri non erano ancora in grado di coordinare le rispettive azioni legislative ed amministrative tramite accordi formali; ciò avverrà solo in seguito al periodo del

New Deal, quando il modello duale del federalismo americano si evolverà invece

nel modello cooperativo, registrando in questo ambito il coordinamento volontario fra gli Stati così da meglio esercitare i rispettivi poteri e migliorare di conseguenza la propria azione51.

Sempre nell’età liberale, osservando la divisione orizzontale dei poteri, era invece il Congresso ad esercitare il ruolo centrale a livello nazionale.

A livello di organizzazione interna delle Camere, in entrambe rivestono una notevole importanza le commissioni parlamentari permanenti poiché è all’interno di quest’ultime che inizia il percorso di ogni progetto di legge; divise per competenza in materia, il loro numero tende a crescere nel corso della seconda

50 Ibidem, pp. 219-221. 51 Ibidem, p. 225.

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metà dell’Ottocento e ciò ha alimentato la frammentazione del processo legislativo. In questo periodo, quindi, le commissioni permanenti esercitavano un grande potere arbitrario riguardo il destino stesso dei progetti di legge, potendo scegliere di respingerli in maniera esplicita o semplicemente non sottoponendoli mai ad esame; al tempo stesso una loro raccomandazione favorevole aveva un certo peso una volta che il progetto approdava in aula.

Una simile considerazione vale anche per il presidente della Camera, il cosiddetto

Speaker, che fino al 1910 era dotato di ampi poteri riguardo alla gestione dei

lavori in aula e alle nomine dei membri delle commissioni.

Non esiste una figura corrispondente all’interno del Senato, lasciando più libero l’ordine dei lavori e la discussione in aula dei progetti di leggi, ma al tempo stesso crea tattiche ostruzionistiche come ad esempio il filibustering52.

In questa situazione risultava irrealistico parlare di un programma politico che si potesse esplicare attraverso un insieme di leggi coordinate fra loro in maniera organica; la legge federale era quindi quasi un atto “occasionale” che presupponeva una serie di consensi diffusi fra i vari organi dello Stato federale e la conseguente sporadicità garantiva il perpetrarsi dell’equilibrio nell’assetto dell’ordinamento americano nel suo complesso53.

Ad inizio Novecento si registra però, grazie alla nascita di organi di partito all’interno delle Camere in grado d’incanalare l’azione dei rispettivi membri, una nuova fase relativamente alle commissioni permanenti: lo steering committee del partito di maggioranza riesce infatti ad influenzare il comportamento dei propri membri all’interno delle varie commissioni e del presidente stesso di commissione, andando così a limitare il potere d’arbitrio incontrastato che questi ultimi avevano esercitato fino a quel momento.

L’influenza degli ordini di partito all’interno del Congresso era tuttavia ancora molto limitata, essendo la linea politica di quest’ultimo formata piuttosto attraverso contrattazioni, promesse, pressioni e accordi di vario tipo. In questo meccanismo hanno cercato d’inserirsi anche alcuni Presidenti considerati “attivisti”, cioè Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, i quali avevano cercato

52 Il filibustering è una tecnica di ostruzionismo che permette alla minoranza politica di bloccare il passaggio dei progetti di legge attraverso il prolungamento dei discorsi.

53 Ibidem, pp. 226-229.

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di trasformare in legge i rispettivi programmi politici appoggiandosi in particolare sui leaders congressuali di partito che avevano sostenuto la loro campagna per le elezioni presidenziali; ma riescono ad ottenere risultati solo parziali poiché né i Repubblicani né i Democratici riconoscono a pieno titolo la leadership di Roosevelt e Wilson sui rispettivi partiti di riferimento, garantendo ancora una volta la centralità del Congresso nel sistema54.

In totale contrapposizione alla c.d. “concezione whig della Presidenza”55, vi è la teoria della “stewardship” formulata dallo stesso Theodore Roosevelt e sostenuta successivamente anche da Wilson: questa teoria sostiene la facoltà generale del Presidente ad agire per garantire la cura degli interessi della Nazione, di cui egli è rappresentante nella sua interezza, fatte salve restrizioni specifiche espresse chiaramente dalla Costituzione; supporta inoltre la convinzione che il Presidente debba cercare di dare un indirizzo politico alle azioni del Congresso, comportamento che – come si è visto precedentemente – sia Roosevelt che Wilson hanno cercato di realizzare nel corso delle rispettive presidenze. Questa concezione del ruolo del Presidente, seppur manifestatasi già nella sua versione embrionale durante l’epoca del liberalismo maturo, si affermerà poi a partire dagli anni ‘30 del Novecento quando si assisterà al passaggio da una costituzione liberale ad una costituzione democratica56.

La politica estera e i rapporti internazionali sono i principali ambiti in cui si registra un allargamento delle funzioni presidenziali; ad esempio è in questi anni che si afferma la prassi secondo la quale il Presidente, in quanto capo delle forze armate, poteva decidere d’intraprendere operazioni militari al di fuori del territorio degli Stati Uniti senza dover ottenere in via preventiva l’autorizzazione del Congresso. Grazie alle attività svolte nel campo della politica estera o in occasione dell’eccezionale scatenarsi di guerre, si assiste ad una crescita del prestigio della Presidenza e sarà il principale precedente dello sviluppo ancora più ampio e generale che avverrà intorno alla figura del Presidente con l’avvento della

54 Ibidem, pp. 230-231. 55

Secondo questa concezione, il ruolo principale del Presidente dovrebbe essere quello di esecutore fedele della volontà del Legislativo e delle sue leggi, in particolar modo in tempo di pace e nell’ambito della politica interna; i poteri conferiti al Presidente sarebbero quindi solo quelli espressi in maniera esplicita dalla Costituzione.

56 Ibidem, pp. 236-237.

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