UNIVERSITÀ DI PISA
Dipartimento di Economia e Management
Corso di Laurea Magistrale in Strategia, Management e Controllo
TESI DI LAUREA
Il rischio clinico nelle aziende sanitarie:
prospettive evolutive e implicazioni gestionali.
Relatore Candidato
Prof. Simone Lazzini Martina Salzano
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INDICE
Introduzione ... 5
1. Gestione del rischio clinico nelle aziende sanitarie ... 7
1.1. Il rischio clinico nelle aziende sanitarie ... 7
1.1.1 La gestione strategica del rischio ... 8
1.1.2 Il modello ISO 9001:2015 ed il Risk Based Thinking ... 12
1.2 L’errore umano... 13
1.3 La mappatura del rischio clinico aziendale ... 17
1.3.1 Le tecniche di mappatura dei sinistri ... 18
1.3.2 Le tecniche di mappatura dei rischi ... 19
1.4 Gli strumenti per la gestione del rischio clinico ... 27
1.4.1 Il processo di gestione del rischio clinico e gli strumenti ... 28
1.4.2 Incident Reporting ... 29
1.4.3 Eventi sentinella ... 33
1.4.4 Root Cause Analysis... 35
1.4.5 Patient Safety Walkaround ... 36
1.4.6 Significant Event Audit ... 38
1.4.7 FMEA – Failure Mode and Effect Analysis ... 39
1.4.8 Farmacovigilanza, dispositivo vigilanza ed emovigilanza ... 45
1.4.9 Analisi delle cartelle cliniche... 47
2. Legge Gelli-Bianco: ... 54
“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” ... 54
2.1. Il contesto nazionale ... 54
2.2. Contestualizzazione della legge Gelli-Bianco ... 55
2.3. Premessa: tutte le novità della riforma ... 57
2.4. Analisi e commento articoli ... 63
2.5. Osservazioni finali... 81
3. La Regione Toscana: Azienda Usl Toscana nord ovest ... 87
3.1. La Regione Toscana ... 87
3.1.1. Il centro regionale per la Gestione del Rischio clinico ... 88
3.1.2. Struttura sistema sanitario toscano ... 94
3.2. Azienda Usl Toscana nord ovest ... 97
3.2.1 Funzioni di Staff per la Qualità e la Sicurezza ... 100
3.2.2 Gestione del rischio clinico ... 103
3.2.3 Attività di coordinamento fra le tre figure professionali ... 105
3.2.4 Le aree di conoscenza per la formazione degli attori nella rete GRC ... 106
3.2.5 Le attività di gestione del rischio clinico ... 107
3.2.6 I metodi e gli strumenti per la gestione del rischio clinico ... 108
4 3.2.8 Raccomandazione sul corretto utilizzo delle soluzioni concentrate di cloruro di
potassio – KCL – ed altre soluzioni concentrate contenti potassio ... 111
3.2.9 Procedura operativa dell’Azienda Usl Toscana Nord Ovest sulla gestione delle soluzioni concentrate di potassio ... 116
Conclusioni ... 128
Bibliografia e Sitografia ... 132
5
Introduzione
Pur in presenza di un innegabile progresso scientifico e tecnologico della medicina, aumentano i casi di malpractice medica, con conseguente incremento esponenziale delle azioni giudiziarie intentate da pazienti e loro congiunti nei confronti dei medici e/o delle strutture sanitarie. Il crescente aumento dei sinistri e delle richieste di risarcimento connesse all’insorgere di eventi avversi in ambito clinico ha reso sempre più importante il concetto di rischio. Per tale motivo è opportuno individuare strumenti capaci di valutare e prevenire i rischi insiti nelle attività cliniche e di proporre miglioramenti al fine di ridurli o eliminarli.
È fondamentale migliorare la qualità dei servizi sanitari, evitando così, o quanto meno riducendo, il rischio di eventi avversi. Parlare di “qualità delle cure” significa riferirsi non solo all’efficacia e all’efficienza delle prestazioni, ma anche e soprattutto di sicurezza del servizio offerto; quest’ultima nel contesto sanitario risulta essere un bene prioritario sia per gli operatori che per i cittadini.
L’obiettivo è quello di far sì che il rischio clinico rientri nel modo di agire usuale di tutti gli operatori al fine di limitare o evitare che si verifichino eventi avversi a danno dei pazienti. Per poter riuscire in questo intento, è necessario innanzitutto conoscere quali strumenti utilizzare per prevenire l’errore, quali metodi utilizzare per le analisi delle diverse realtà, quali comportamenti sono orientati alla costruzione di sistemi sicuri e quali sono i rischi in cui è possibile imbattersi. Per poter effettuare un’analisi dei rischi occorre avere un’adeguata conoscenza dei processi e comprendere le sequenze operative e le motivazioni che sono alla base delle singole azioni, la cui concatenazione ha portato il verificarsi di una situazione avversa o di un near miss. È necessario favorire le condizioni lavorative ideali e porre in atto un insieme di azioni che renda difficile per l’uomo sbagliare ed attuare difese in grado di arginare le conseguenze venutesi a creare dal verificarsi di un errore. È importante considerare l’errore come fonte di conoscenza e miglioramento per evitare il ripetersi di circostanze che lo hanno generato e mettere in atto iniziative capaci di presidiare la sicurezza dell’assistenza sanitaria.
Il seguente elaborato è strutturato in tre capitoli:
Il primo capitolo propone un approccio alla gestione del rischio clinico di carattere sistemico che prende avvio dalla strategia aziendale. A seguire la mappatura dei sinistri
6 finalizzata alla determinazione delle priorità per il rischio clinico e la mappatura dei rischi aziendali dove sono stati analizzati approcci e possibili metodi con lo scopo di determinare le priorità di intervento. Questa prima parte si conclude con un approfondimento di gestione del rischio clinico fornendo una panoramica applicativa sui suoi principali strumenti.
Il secondo capitolo ha l’obiettivo di fornire una chiave di lettura sulla Legge 8 marzo 2017 n. 24 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Dopo una prima analisi sui cambiamenti che ha portato suddetta legge, troviamo una focalizzazione sugli articoli che si occupano della gestione del rischio clinico. Lo spirito che anima tale dettato normativo è quello di contemperare tutte le esigenze: promuovere la sicurezza delle organizzazioni garantendo la trasparenza nei confronti del cittadino e orientando proprio la disponibilità dei dati alla rappresentazione dell’impegno che le stesse organizzazioni spendono per la sicurezza ed il miglioramento.
Il lavoro si chiuderà con un terzo capitolo trattante la Regione Toscana, in particolar modo l’Azienda Usl Toscana nord ovest, dove andremo a ricercare come ha impattato la nuova normativa e come è stata recepita. Andremo ad esaminare la sua struttura aziendale e la sua organizzazione e ad analizzare l’applicazione di una Raccomandazione Ministeriale con la creazione di una nuova procedura operativa tramite l’analisi della cartella clinica e il procedimento dell’Audit clinico.
La suddetta ricerca ci consente non solo di capire meglio il tema del rischio clinico da un punto di vista teorico ma anche come prefissarsi degli obiettivi e dotarsi di buone politiche e procedure per prevenire il rischio e come la capacità di cogliere immediatamente gli eventi avversi o i quasi eventi sia fondamentale per riuscire a ottenere buoni risultati che siano mirati ad assicurare la sicurezza del paziente, e come la diminuzione dell’insorgere di errori permetta anche di ridurre i costi legati alle richieste di risarcimento.
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1.
Gestione del rischio clinico nelle aziende sanitarie
1.1. Il rischio clinico nelle aziende sanitarie
Il rischio clinico è la probabilità che un paziente sia vittima di un evento avverso, cioè subisca un qualsiasi danno o disagio imputabile, anche se in modo involontario, alle cure mediche prestate durante il periodo di degenza, che causa un prolungamento del periodo di permanenza nella struttura sanitaria e quindi un peggioramento delle condizioni di salute o la morte. Per la gestione del rischio sono necessarie le conoscenze adeguate a prevenire gli errori, valutare i rischi, analizzare le soluzioni, pianificare le attività formative e di aggiornamento continuo del personale sanitario. L’evento avverso non è una conseguenza di un singolo errore umano, ma il frutto di un’interazione tra fattori tecnici e organizzativi, non si deve pertanto perseguire un approccio punitivo ma promuovere invece l’analisi approfondita e la ricerca delle cause con la finalità di prevenire il ripetersi delle stesse condizioni di rischio o di limitare il danno quando questo si è ormai verificato. La conoscenza dei problemi collegati al rischio sono finalizzati al miglioramento dell’organizzazione stessa. Infatti, gestire il rischio significa anche migliorare le cure. Parlare di qualità delle cure oggi significa parlare non solo di efficienza ed efficacia delle prestazioni, ma anche e soprattutto di sicurezza del servizio offerto. Nella gestione del rischio le organizzazioni possono non solo minimizzare il rischio nel momento in cui un evento negativo accade, ma essere anche in grado di sfruttare in maniera attiva le opportunità che potrebbero presentarsi nel raggiungimento dei propri obiettivi. Molte organizzazioni nel mondo utilizzano, al fine di fronteggiare il rischio, specifici strumenti e processi di gestione del rischio, che finiscono per integrarsi con la gestione del proprio business. In altre parole, le organizzazioni stanno iniziando a comprendere che il rischio non è più un onere da sopportare, ma al contrario, se ben gestito, può diventare un fattore critico di successo e dare un vantaggio competitivo.
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1.1.1 La gestione strategica del rischio
Nella fase di analisi dei possibili approcci della gestione del rischio, diviene determinante prendere in considerazione la relazione tra creazione di valore e l’impatto nella gestione.1
Il primo aspetto, relativo alla creazione di valore, può essere considerato come il contributo che la gestione del rischio fornisce alla generazione del vantaggio competitivo sostenibile, del miglioramento della performance e dell’ottimizzazione dei costi.
Il secondo aspetto, relativo all’impatto sulla gestione, è invece inerente alle prospettive di gestione del rischio. Queste si estendono alla trattazione dei soliti aspetti finanziari sino al livello strategico.
Correlando questi due aspetti, riusciamo a schematizzare tre possibili configurazioni: la gestione finanziaria del rischio: i focus sono i rischi finanziari-assicurativi e
catastrofali. L’ambito è quello della gestione assicurativa del rischio;
la gestione del rischio a livello di alcune Unità Operative: i focus sono i processi dell’Unità Operativa, dove l’ambito è quello relativo ai livelli di responsabilità dei Direttori di Unità Operativa o al più dei Direttori di Dipartimento;
la gestione del rischio a livello aziendale: i focus sono tutte le componenti del rischio a livello di azienda. In questo caso l’ambito è quello di allineamento di strategie, processi, risorse umane e tecnologiche dell’intera Azienda.
Dai tre livelli nella gestione del rischio, si evince che la gestione a livello aziendale risulta essere la naturale configurazione desiderata del risk management.
Dopo aver indicato come la gestione del rischio debba interessare l’area delle strategie, è necessario definire che cosa intendiamo per risk management.
Prendiamo come riferimento la norma ISO 31000 “Risk management- Principles and guidelines”, il termine risk management è classificato come “Le attività coordinate per guidare e tenere sotto controllo un’organizzazione con riferimento al rischio”. Questa definizione pone enfasi sul concetto di “guidare” e “tenere sotto controllo”. La “guida” presuppone che l’organizzazione abbia una meta, nel nostro caso rappresenta
1Bizzarri, Canciani, Farina, Strategia e gestione del rischio clinico nelle organizzazioni sanitarie, FrancoAngeli, Milano, 2018
9 degli obiettivi di lungo periodo relativi al rischio clinico, e che sia stata definita la strada da seguire per raggiungere tale meta.
Quest’ultimo aspetto è indicato dagli obiettivi di breve periodo e dalle modalità per conseguirli. Il “tenere sotto controllo” richiama il concetto di misura, di indicatori, non collegati allo stato di raggiungimento degli obiettivi ma necessari a monitorare lo stato di attuazione del processo di gestione del rischio.
Ecco quindi che gli obiettivi misurabili e le misure per il monitoraggio diventano elementi necessari per l’introduzione del sistema di gestione del rischio in azienda. Considerando il contesto sanitario, le tipologie di rischi presenti possono essere ad esempio:
il rischio operatore: correlato con la sicurezza nei luoghi di lavoro;
il rischio ambientale: correlato alle attività che possono avere un impatto ambientale diretto o indiretto;
il rischio amministrativo-contabile: correlato alla sicurezza delle attività amministrative e contabili;
il rischio dei sistemi informatici ed informativi: correlato alla sicurezza dei dati; il rischio clinico: correlato alla sicurezza del paziente.
Per ciascuna delle famiglie di rischio, pertanto, esistono modelli organizzativi guidati da leggi e norme specifiche il cui sviluppo richiede un approccio sistemico e non puntale. La necessità di integrazione dei modelli è un bisogno sentito a livello internazionale.
Nel caso in cui l’Azienda Sanitaria intenda sviluppare la gestione sistemica del rischio si rende necessario definire:
il processo di gestione del rischio; l’owner (responsabile) del processo;
gli obiettivi che tale processo deve perseguire e trasformare in risultati. Il primo passo è rappresentato dalla definizione del processo di gestione del rischio a livello di azienda.
L’approccio metodologico proposto, anche in considerazione del livello di complessità delle organizzazioni sanitarie, è rappresentato da:
definizione delle fasi del processo; definizione dei livelli di responsabilità;
10 identificazione del modo di operare (le procedure) per le diverse fasi del
processo;
identificazione degli strumenti da utilizzare nelle diverse fasi del processo. Per analizzare e gestire adeguatamente il processo, occorre prendere a riferimento una figura organizzativa che ne abbia l’autorevolezza, o il riconoscimento, gli strumenti e la motivazione: il “Process Owner”.
Il “Process Owner” (o responsabile del processo) è colui che:
ha piena responsabilità ed autorità sul processo e opera per incrementare l’efficacia (cioè l’ottenimento del risultato) e l’efficienza (cioè l’utilizzo di risorse per ottenere i risultati);
è responsabile del raggiungimento degli obiettivi del processo definiti nella fase di programmazione e pianificazione aziendale;
è in grado di entrare con competenza in tutte le fasi del processo per identificare i colli di bottiglia, i vincoli ed i problemi.
Analizzando il contesto italiano, il responsabile del processo, per le diverse tipologie di rischi, spesso si configura con:
il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione per il rischio operatore sui luoghi di lavoro;
il Responsabile Ambientale per i rischi ambientali;
il Responsabile del Sistema di Controllo Interno per i rischi amministrativi; il Responsabile del Rischio clinico (Clinical Risk Manager) per il rischio del
paziente.
Oltre alla identificazione del responsabile del processo è necessario che il rischio si integri nella pianificazione e programmazione aziendale. Tale integrazione può essere sviluppata attraverso la realizzazione del Piano di settore denominato “Piano del rischio clinico”.
La programmazione e la pianificazione aziendale, per quanto attiene l’area delle strategie, sviluppano documenti programmatori che hanno la finalità di definire le modalità per tradurre le strategie in azioni concrete ed in risultati tangibili.
11 Tali documenti possono essere identificati con:
il piano triennale (Piano delle Performance): evidenzia le priorità strategiche e, per il triennio di riferimento, gli obiettivi operativi (obiettivi dell’anno) da conseguire;
il piano annuale (Documento delle Direttive): riprende gli obiettivi dell’anno ed evidenzia la loro articolazione (deployment) ed impatto sui processi e sulle strutture organizzative per giungere alla formulazione degli “obiettivi di budget”;
i piani di settore: sono caratterizzati da tutti quei piani (a valenza triennale per garantire la coerenza con il Piano Strategico) che hanno impatto sui processi di supporto.
In relazione ai contenuti del piano triennale, ogni funzione responsabile (owner) dei diversi piani di settore, dovrebbe sviluppare, o revisionare se già presente, il proprio piano al fine di:
identificare le politiche di sviluppo dello stesso;
identificare gli obiettivi per il periodo di riferimento (triennio o anno in funzione dei diversi casi);
articolare l’obiettivo sui processi aziendali e sull’organizzazione, al fine di consentire la corretta ed adeguata identificazione dei sotto obiettivi.
Per integrare il rischio clinico con la gestione aziendale, è necessario sviluppare il piano di settore, così come avviene in diverse organizzazioni sanitarie.
il piano di settore che potrebbe essere articolato in: politiche, linee guida e progetti. Le politiche rappresentano le indicazioni e gli indirizzi generali per tradurre le strategie aziendali nell’ambito specifico del rischio clinico.
Le linee guida, invece rappresentano le modalità scelte per le lo sviluppo del contenuto del piano di settore e devono costituire il ponte di collegamento tra il contenuto della politica e le progettualità contenute nel piano. In sostanza possiamo affermare che le linee guida rappresentano la garanzia di allineamento del contenuto del piano di breve e/o medio periodo con gli obiettivi strategici di lungo periodo.
Infine è necessario sviluppare l’ultimo aspetto: gli obiettivi annuali e le relative progettualità che consentono di conseguire gli obiettivi.
12 La stesura del piano di settore, che rappresenta l’attività di articolazione degli obiettivi, può essere sviluppata nel modo seguente:
definire le scelte per conseguire gli obiettivi; definire le modalità di attuazione delle scelte; definire i sotto-obiettivi da conseguire;
articolare i livelli di responsabilità dei sotto-obiettivi al fine di identificare le strutture organizzative interessate e i responsabili;
definire i progetti che hanno il compito di tradurre le azioni in risultati. Procedendo in questo modo, disponiamo di tutti gli “elementi” necessari per poter condurre il budget aziendale quale ultima fase del processo di programmazione e pianificazione aziendale.
Tutto ciò che è stato visto e sviluppato sino ad ora potrà essere inserito nel piano triennale di gestione del rischio clinico.
1.1.2 Il modello ISO 9001:2015 ed il Risk Based Thinking
La nuova versione del 2015 della norma ISO 9001, nell’ottica di migliorarne il contenuto ed affinare i requisiti del sistema di gestione per la qualità, ha introdotto il risk-based thinking.
È stato di fatto introdotto un elemento aggiuntivo nella gestione della qualità che è il rischio inteso come “effetto dell’incertezza che può avere conseguenze positive o negative”. L’effetto positivo rappresenta un’opportunità da sfruttare mentre un effetto negativo è da mitigare con la logica di gestione del rischio.2
Il concetto del rischio viene introdotto principalmente in tre punti della norma: Nel requisito “Comprendere l’organizzazione ed il suo contesto”, la norma
richiede che le organizzazioni effettuino l’analisi del contesto caratterizzato dall’analisi dei fattori interni ed esterni che possono influenzare la capacità di raggiungere i risultati del sistema di gestione per la qualità. Tale attività legata all’analisi delle aspettative ed esigenze delle parti interessate, risulta essere propedeutica alla determinazione dei rischi e opportunità da prendere in considerazione per la formulazione delle strategie e delle relative priorità.
2Bizzarri, Canciani, Farina, Strategia e gestione del rischio clinico nelle organizzazioni sanitarie, FrancoAngeli, Milano, 2018
13 Nel requisito “Focalizzazione sul cliente”, nel quale la norma, oltre a richiedere di determinare i requisiti del cliente, esplicita la necessità che la direzione assicuri che siano determinati e affrontati i rischi che possono influenzare la conformità dei prodotti e dei servizi.
Nel requisito “Azioni per affrontare rischi e opportunità”, nel quale la norma evidenzia, relativamente alla pianificazione, la necessità di affrontare il rischio che il sistema di gestione possa non conseguire i risultati attesi. Questi ultimi sono rappresentati dagli obiettivi della qualità e pertanto l’oggetto dell’analisi dei rischi sono gli obiettivi.
La discussione sui rischi relativi agli obiettivi consente di maturare, nel management aziendale, un approccio ai problemi ed alle situazioni che prenda in considerazione non solo le performance ma anche i rischi ed inoltre consente di sviluppare pianificazioni degli obiettivi che contengano configurazioni e azioni di mitigazione dei rischi. Questi aspetti consentono di maturare una ottima reattività al cambiamento di contesto e una flessibilità per la riallocazione delle risorse in funzione non solo delle priorità, ma anche dei rischi.
1.2 L’errore umano
Il concetto di errore umano è stato particolarmente studiato, negli ultimi decenni. Un errore è definito come il fallimento nel portare a termine, come nelle intenzioni, una azione precedentemente pianificata, errore di esecuzione, oppure come l’uso di una pianificazione sbagliata per raggiungere un obiettivo, errore di pianificazione. Per evento sfavorevole si intende un danno causato a un paziente dalla gestione sanitaria che non dipende dalla sua malattia oppure un incidente, mancato infortunio, di particolare rilevanza per le conseguenze che avrebbe potuto avere per il paziente.3 Nell’ambito delle teorie che si sono sviluppate per lo studio degli errori in medicina, tra le più accreditate risulta essere quella formulata da Rasmussen (1987), secondo il quale si può suddividere il comportamento dell’uomo in tre diverse tipologie:
Skill-based behaviour: è il comportamento di routine basato su abilità apprese per le quali l’impegno cognitivo è bassissimo ed il ragionamento è
14 inconsapevole, automatico. All’individuo si propone uno stimolo cui reagisce meccanicamente senza porsi problemi di interpretazione dello stesso.
Ruled-based behaviour: il comportamento è guidato da regole che sono state definite in quanto ritenute più idonee da applicare in determinate circostanze. Knowledge-based behaviour: è il comportamento da attuare quando ci si trova
in presenza di situazioni nuove o impreviste, cioè non conosciute per le quali non si conoscono delle regole o delle procedure di riferimento.
I tre tipi di comportamenti si conseguono in sequenza: dal basso verso l’alto. Quindi qualsiasi comportamento prima di diventare automatico è stato di tipo Ruled-based e ancora prima di tipo Knowledge based. Sulla base del modello di Rasmussen del 1987 appena enunciato, Reason, nel 1990 individua tre diverse tipologie d’errore:
Errori d’esecuzione che si verificano a livello d’abilità (slips): si tratta di un tipo di errore che si verifica quando le azioni vengono attuate in modo diverso rispetto a quanto era stato definito, cioè quando il soggetto sa come svolgere un compito ma lo fa in maniera diversa oppure non lo svolge.
Errori d’esecuzione provocati da un fallimento della memoria (lapsus): a causa di un “lapsus” il risultato preventivato viene meno. A differenza degli slips, i lapsus non sono direttamente osservabili.
Errori non commessi durante l’esecuzione pratica dell’azione (mistakes): in questa categoria includiamo errori che si sviluppano durante i processi di pianificazione di strategie: l’obiettivo preventivato non viene raggiunto perché i mezzi e le strategie per raggiungerlo non lo permettono. Possono essere di due tipi:
- Ruled-based: si è scelto di utilizzare una regola o una procedura, che non permette il conseguimento di quel determinato obiettivo.
- Knowledge-based: sono errori che riguardano la conoscenza. In questo caso è il piano preventivato ad essere sbagliato, per la presenza di una conoscenza spesso troppo scarsa che porta ad intraprendere percorsi che non permettono di raggiungere l’obiettivo prefissato, nonostante le azioni compiute siano eseguite in modo corretto
Una delle distinzioni più importanti è quella tra errori attivi ed errori latenti pronunciata da Reason nel 1990. L’errore attivo è maggiormente individuabile, è possibile osservarlo al momento del verificarsi dell’evento avverso causato, ad
15 esempio, da una procedura non eseguita, da un errore di memoria o di attenzione, da mancata vigilanza, da un malfunzionamento della strumentazione e può essere effettuato con o senza intenzionalità. Gli errori latenti invece, sono riconducibili ad inefficienze che hanno innescato il verificarsi di un errore attivo come ad esempio la somministrazione di un farmaco sbagliato. Non tutti gli errori latenti però, producono un errore attivo, né tutti gli errori provocano un danno. Infatti affinché il danno si verifichi è necessario che vi siano una serie di condizioni tali da permettere all’errore di superare tutte le barriere di sicurezza tecniche e organizzative predisposte all’interno della struttura per contenere gli effetti di possibili errori. La sicurezza del paziente deriva, dunque, dalla capacità di trovare delle soluzioni idonee sia a ridurre la probabilità che si verifichino errori attraverso un buon sistema di prevenzione, sia di individuare e contenere gli effetti degli errori che spesso, inevitabilmente, si verificano (protezione).
Per errore di terapia si intende ogni evento prevenibile che può portare ad utilizzare un farmaco sbagliato e causare un pericolo per il paziente. Il rischio relativo all’uso di un farmaco sbagliato riguarda reazioni avverse, effetti collaterali oppure a tutti quegli errori non direttamente collegabili al farmaco come ad esempio scarsa informazioni su dosi modi e tempi di somministrazione. Vengono fondamentalmente riconosciute cinque categorie di errori:
Errori di prescrizione: possono riguardare la mancanza di informazioni importanti, nome del paziente o del farmaco ad esempio, la prescrizione di un dosaggio eccessivo o di un farmaco che va in conflitto con un altro farmaco già assunto dal paziente.
Errori di trascrizione: si verifica nel momento in cui viene effettuato un errore nella trascrizione o nell’interpretazione di quanto è stato scritto.
Errori di preparazione: fa riferimento ad un’errata preparazione o manipolazione del farmaco prima della somministrazione.
Errore di distribuzione: riguarda l’errore intercorrente tra il periodo di preparazione e la consegna all’unità sanitaria che somministrerà il farmaco. Errore di somministrazione: indica una variazione di quanto prescritto dal
16 Le strategie possibili per ridurre l’incidenza di errori in terapia all’interno di una struttura sanitaria sono essenzialmente di due tipi:
1. modifiche organizzative con l’introduzione di strumenti di lavoro quali protocolli, linee guida, checklist, controlli incrociati;
2. modifiche strutturali che comprendono l’introduzione di sistemi di gestione informatizzati, naturalmente a integrazione delle modifiche organizzative sopra descritte.
Le linee guida sono indicazioni che orientano l’operatore nello scegliere in modo consapevole la migliore opzione possibile nell’agire, ciò che è necessario e ciò che non lo è, ciò che è di provata efficacia e ciò che non lo è. Rappresentano uno dei modi più diffusi per ridurre l’ingiustificata abitudine di modificare il metodo di somministrare le cure e hanno lo scopo di standardizzare i comportamenti dei singoli professionisti, in modo da ridurre gli errori nella pratica clinica e nell’assistenza infermieristica. Le linee guida sono “proposizioni relative a specifiche situazioni cliniche, sviluppate sistematicamente allo scopo di aiutare il medico o l’infermiere nelle decisioni di cura o di assistenza più appropriate per una specifica condizione”. Le linee guida si basano principalmente sulle evidenze cliniche disponibili con più alto grado di raccomandazione, ovviamente non rappresentano mai un sostituto della decisione medica o infermieristica. Infatti, la pratica sanitaria è affidata a quel processo che unisce capacità, abilità e orientamenti nell’attuazione di decisione.
Oltre alle linee guida vi sono anche le procedure e protocolli.
Le procedure sono descrizioni dettagliate di atti da compiere in successione per l’attuazione di specifiche attività. Esse sono definite da “competenti” o da organi direttivi e sono uno strumento rigido che applica integralmente concetti scientifici senza lasciare adito a discrezionalità a differenza delle linee guida che al contrario si posso adattare alle esigenze del reparto.
Le procedure relative ad atti assistenziali devono:
1. riportare una descrizione dettagliata delle fonti stilizzate per raccogliere i dati; 2. essere costruite rispondendo al criterio dell’appropriatezza, ovvero debbono prevedere atti corretti (sulla base di quanto verificato a livello scientifico) e verificati nella pratica clinica, tant’è vero che hanno validità di pochi anni.
17 I protocolli:
rendono omogenea la prestazione assistenziale; sono uno strumento di formazione permanente; facilitano l’inserimento dei nuovi assunti;
costituiscono un elemento di tutela professionale da un punto di vista giuridico perché seguendo il protocollo si ha la certezza di aver agito correttamente; funge da promemoria per il ripristino del materiale;
è la traduzione delle linee guida;
viene redatto dagli infermieri presenti all’interno dell’unità operativa perché bisogna tenere presente le risorse che si hanno a disposizione;
non si possono fare protocolli per ogni azione ma i primi che devono essere creati sono quelli per le situazioni a rischio;
nel protocollo può anche essere inserita una procedura cioè la sequenza dettagliata di azioni da seguire.
I protocolli di lavoro e le linee guida costituiscono un utile strumento di guida, garantendo adeguati standard di cura, sicurezza, del paziente, risultati migliori delle cure, perché usati nel modo più saggio possibile. In ogni caso la formulazione delle linee guida e dei protocolli deve essere un lavoro multidisciplinare e coinvolgere in maniera adeguata tutte le figure. Soprattutto, ognuno deve portare il proprio contributo in merito.
1.3 La mappatura del rischio clinico aziendale
La mappatura del rischio clinico è intesa come quella fase della gestione del rischio che consente di identificare le priorità di intervento. La mappatura del rischio clinico altro non è che l’analisi preliminare che consente di definire, attraverso tecniche diverse, dove intervenire e con quale ordine di priorità, fornendo così un indirizzo puntuale e preciso di sviluppo del piano per la gestione del rischio clinico triennale e annuale.
Lo scopo della mappatura è di mettere a fuoco la priorità di intervento, ovvero: dove intervenire;
18 Il dove intervenire, ossia le aree e/o le strutture organizzative in cui sviluppare l’analisi dei rischi, può essere determinato attraverso l’identificazione delle aree prioritarie di intervento evidenziate dalla letteratura.
1.3.1 Le tecniche di mappatura dei sinistri
Per mappatura dei sinistri si intende un’analisi epidemiologica del rischio clinico che utilizza come fonte dati i sinistri denunciati a seguito di eventi accaduti, o presuntamente accaduti, correlabili alla sicurezza del paziente.
La mappatura dei sinistri permette di individuare le aree prioritarie di intervento al fine di mitigare il rischio e quindi di ridurre la probabilità che gli accadimenti oggetto del sinistro possano ripetersi. Il risultato è una ricaduta positiva sia sul processo di gestione del rischio clinico che sul bilancio dell’azienda. I dati oggetto di analisi consentono inoltre di disporre di una base oggettiva tramite la quale definire coerentemente il fondo rischi.4
La mappatura dei sinistri può quindi essere utilizzata quando è necessario disporre di dati oggettivi per poter intervenire con azioni mirate:
mappatura del rischio clinico (di cui la mappatura dei sinistri costituisce un sottoinsieme);
definizione del fondo rischi;
analisi di tendenza su particolari fenomeni o accadimenti; valutazione dell’efficacia di azioni di mitigazione dei rischi; ecc.
I sinistri vengono inseriti nel Sistema Informativo per il Monitoraggio degli Errori in Sanità (SIMES) che ha l’obiettivo di raccogliere le informazioni relative agli eventi sentinella ed alle denunce dei sinistri su tutto il territorio nazionale consentendo, da una parte, la valutazione dei rischi ed il monitoraggio completo degli eventi avversi, dall’altra, di disporre di indicazioni per lo sviluppo e la diffusione dei best practice (Raccomandazioni) in grado di promuovere la cultura “dall’apprendere dagli errori”. Le banche dati sui sinistri in azienda, alimentate e aggiornate periodicamente sulla
4Bizzarri, Canciani, Farina, Strategia e gestione del rischio clinico nelle organizzazioni sanitarie, FrancoAngeli, Milano, 2018
19 base dell’iter di sviluppo dei singoli sinistri, rappresentano quindi un bagaglio di informazioni che deve essere utilizzato per lo sviluppo di una mappatura dei sinistri.
La Gestione del rischio clinico è l’elaborazione aggregata dei dati al fine di individuare aree prioritarie di intervento in termini di processi e Unità Operative interessate da accadimenti o presunti tali che hanno generato una denuncia di sinistro. Intervenire in tali ambiti significa agire in termini di “prevenzioni”, per evitare il ripetersi di tali accadimenti. La mappatura è finalizzata a determinare le aree prioritarie di intervento che devono poi ricadere sulle articolazioni organizzative interessate e sui processi. La Gestione del contenzioso è la seconda faccia della medesima medaglia relativa al rischio clinico. Questo perché i sinistri sono un elemento importante dal quale partire per eseguire delle analisi e definire dei piani di migrazione dei rischi. Per ogni sinistro è quindi necessario dare avvio all’analisi delle informazioni disponibili, con le tecniche e gli strumenti necessari, al fine di determinare l’accaduto e le cause che possono averlo determinato, per definire la strategia da adottare per la gestione del contenzioso.
1.3.2 Le tecniche di mappatura dei rischi
Le tecniche di mappatura dei rischi sono state sviluppate per un utilizzo diverso in funzione di alcuni aspetti e caratteristiche che contraddistinguono le varie organizzazioni. Le tecniche che verranno illustrate sono rappresentate dalla mappatura dei rischi tramite:
l’analisi dei dati;
la consulenza del personale; l’adozione delle buone pratiche.
La prima tecnica è rappresentata dalla mappatura dei rischi tramite l’analisi dei dati presenti in azienda relativi ai diversi aspetti del rischio clinico come per esempio i dati su: sinistri, farmacovigilanza, emosorveglianza, cadute, schede di incident reporting, ecc. Questa tecnica è sicuramente consigliata per le grandi organizzazioni come le ASL pubbliche o le grandi organizzazioni private. Il pre-requisito per questo approccio è la presenza di dati a livello di azienda.
20 La mappatura tramite la consultazione del personale è l’approccio suggerito nel caso in cui non vi siano dati strutturati oppure vi siano dati strutturati ma si voglia coinvolgere il personale.
Questo caso si potrebbe presentare nelle piccole organizzazioni senza un numero elevato di dati oppure quando si coinvolge una parte dell’azienda. In questo caso la mappatura sarà focalizzata nella identificazione dei processi prioritari.
L’ultima tecnica di mappatura, o meglio di modalità per identificare le priorità di intervento, è caratterizzata dalla implementazione delle buone pratiche.
In quest’ultimo caso le priorità di intervento sono automaticamente determinate ed è necessario avviare il piano di implementazione nella propria organizzazione.5
La mappatura dei rischi attraverso l’analisi di dati si fonda su due assunzioni di base: la prima è la teoria di H.W. Heinrich6 la quale prevede che possano essere
presi in considerazione, al fine della mappatura dei rischi, gli effettivi accadimenti all’interno dell’organizzazione (eventi o eventi avversi). Questa teoria è spesso rappresentata graficamente dall’Iceberg e indica che quando un evento avverso emerge significa che non è l’unico ma rappresenta un segnale che vi sono altri eventi che potranno accadere con buona probabilità. Prendendo come riferimento il caso delle organizzazioni sanitarie, la punta dell’iceberg è sicuramente rappresentata dai sinistri, dagli eventi sentinella o più in generale dai casi di errori di somministrazione della terapia, dalle cadute dei pazienti e da tutti questi eventi conosciuti all’organizzazione. La teoria di Heinrich, datata ma ancora valida nel suo contenuto, ci consente di sostenere che la mappatura può essere sviluppata per quei dati ed eventi conosciuti perché sicuramente rappresentano la punta di un iceberg e quindi i singoli eventi rappresentano una situazione da gestire per ridurre il rischio di accadimento.
la seconda è la teoria di Reason7 la quale prevede che i buchi nelle fette di
formaggio svizzero rappresentano le insufficienze latenti che sono presenti nei processi. Quando si modificano più fattori che normalmente agiscono come
5Bizzarri, Canciani, Farina, Strategia e gestione del rischio clinico nelle organizzazioni sanitarie, FrancoAngeli, Milano, 2018
6Heinrich H. W., Industrial accident prevention: a scientific approach, McGraw-Hill, 1931 7Reason J., Human Error, Cambridge University Press, 1990
21 barriere protettive, i buchi si possono allineare e permettere il concatenarsi di quelle condizioni che portano al verificarsi dell’evento avverso. Questa teoria, semplice ma estremamente significativa ed efficace, ci consente di comprendere che per la gestione del rischio è opportuno che le organizzazioni sviluppino ed implementino delle barriere al fine di ridurre il rischio che si verifichino degli accadimenti.
L’approccio metodologico che sta alla base della mappatura dei rischi è rappresentato dalle seguenti cinque fasi:
fase 1 – Analisi dei dati (eventi) storici; fase 2 – Mappatura iniziale dei rischi; fase 3 – Scelta delle barriere/difese; fase 4 – Mappatura dei rischi con barriere;
fase 5 – Piani e strumenti per il contenimento dei rischi. Fase 1 – Analisi dei dati (eventi) storici
Questa prima fase è costituita dalla individuazione delle diverse tipologie di dati che sono presenti in azienda e riguardano accadimenti di eventi associabili al rischio clinico; questi possono essere a loro volta rapportati ai costi sostenuti dall’azienda per la loro gestione.
Tornando all’epidemologia del rischio, in funzione del contesto aziendale e dei dati presenti a livello di azienda, è necessario raccogliere i dati relativi a tutti i flussi informativi obbligatori ed anche quelli raccolti ma relativi ai flussi non cogenti. Tra questi ci sono sicuramente i seguenti elementi:
sinistri denunciati; farmacovigilanza; emosorveglianza; dispositivo – vigilanza cadute; incident reporting; ecc.
una volta raccolti i dati è necessario catalogarli in base ad un principio di gravità per poterli inserire nelle tre categorie della piramide di Heinrich. Pertanto i singoli eventi potranno essere classificati in funzione del livello di gravità.
22 Fase 2 – Mappatura iniziale dei rischi
Con la prima fase abbiamo classificato i dati, rendendoli omogenei in funzione della loro gravità ed in funzione di quest’ultima è possibile attribuire un punteggio di “pesatura” finalizzato a normalizzare i dati stessi.
Stabilito il punteggio è necessario classificare gli eventi e correlarli a tutte le strutture organizzative, Unità Operative, Dipartimenti e Strutture Operative che costituiscono l’Azienda al fine di poter rappresentare il livello di rischio per le diverse articolazioni organizzative.
In questo modo per ogni Unità Operativa si attribuiscono gli eventi, derivanti dalle diverse fonti informative, con il loro peso.
Questi eventi opportunatamente classificati in funzione della gravità generano ed alimentano il punteggio finale di priorità.
Il punteggio così ottenuto rappresenta la prima mappatura che dovrà essere opportunatamente revisionata per prendere in considerazione le barriere ed i fattori di contenimento presenti ed implementati nei processi delle diverse Unità Operative. Fase 3 – Scelta delle barriere/difese
Questa fase è caratterizzata dalla definizione delle barriere che si intendono analizzare per comprendere il grado di maturità relativo alle fonti di riduzione del rischio presenti in azienda. Le barriere che si possono prendere in esame sono molteplici ma è opportuno comunque considerare solo quelle che hanno attinenza diretta con la riduzione o gestione del rischio clinico di Unità Operative.
Quindi dopo aver ottenuto i punteggi di rischio iniziale per la singola Unità operativa, è necessario valutare il grado di maturità di particolari barriere/difese, in maniera da modulare i punteggi ottenuti sulla base della effettiva “gestione” sistemica del rischio dovuta alle barriere messe in atto dall’organizzazione. Esempi di barriere possono essere quelle di seguito elencate8:
1. raccomandazione n 1 Ministero della salute – Corretto utilizzo delle soluzioni concentrate di cloruro di potassio;
2. raccomandazione n 2 Ministero della salute – Prevenzione della ritenzione di garze, strumenti o altro materiale all’interno del sito chirurgico;
23 3. raccomandazione n 3 Ministero della salute – Corretta identificazione dei
pazienti, del sito chirurgico e della procedura;
4. raccomandazione n 4 Ministero della salute – Prevenzione del suicidio in ospedale;
5. raccomandazione n 5 Ministero della salute – Prevenzione della reazione trasfusionale incompatibilità AB;
6. raccomandazione n 6 Ministero della salute – Prevenzione della morte materna correlata al travaglio e/o parto;
7. raccomandazione n 7 Ministero della salute – Prevenzione della morte, coma o grave danno derivati da errori in terapia farmacologia;
8. raccomandazione n 8 Ministero della salute – Prevenzione atti di violenza a danno degli operatori sanitari;
9. raccomandazione n 9 Ministero della salute – Prevenzione degli eventi avversi conseguenti al malfunzionamento dei dispositivi medici/apparecchi elettromedicali;
10. raccomandazione n 10 Ministero della salute – Prevenzione dell’osteonecrosi della mascella/mandibola da bifosfonati;
11. raccomandazione n 11 Ministero della salute – Prevenzione della morte o grave danno conseguenti ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedalierio, extraospedalerio);
12. raccomandazione n 12 Ministero della salute – Prevenzione degli errori in terapia con farmaci “Look-alike/Sound-alike”;
13. raccomandazione n 13 Ministero della salute – Prevenzione e la gestione della caduta del paziente nelle strutture sanitarie;
14. raccomandazione n 14 Ministero della salute – Prevenzione degli errori in terapia con farmaci antineoplastici;
15. raccomandazione n 15 Ministero della salute – Morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice triage nella Centrale operativa 118 e/o all’interno del Pronto soccorso;
16. raccomandazione n 16 Ministero della salute – Prevenzione della morte o disabilità permanente in neonato sano di peso>2500 grammi non correlata a malattia congenita;
17. raccomandazione n 17 Ministero della salute – Riconciliazione della terapia farmacologica;
24 18. altre indicazioni specifiche come previsto dalle indicazioni Regionali in
termini di gestione del rischio clinico.
Come si può notare le barriere possono avere un’applicazione a livello di azienda oppure in alcune strutture organizzative e non in altre. Quindi non tutte le unità operative potranno beneficiare della valutazione delle barriere in essere. Per la valutazione dello stato di maturità delle barriere è stato sviluppato un punteggio che rappresenta anche un fattore moltiplicativo del valore numerico della mappatura di ogni struttura e che ne descrive il grado di applicazione. Questo è verificabile attraverso l’intervista con gli operatori in modo da ottenere informazioni precise e veloci.
Al termine di questa fase avremo ottenuto, per ogni barriera applicabile, il punteggio complessivo dello stato di maturità e potremo quindi procedere alla fase successiva. Fase 4 – Mappatura dei rischi con barriere
La quarta fase è molto più semplice e si esplica nel conteggio e nella correzione dei dati di mappatura delle singole Unità Operative per un fattore moltiplicativo che è stato ottenuto dalla valutazione dell’applicazione delle barriere.
Questo aspetto matematico è rappresentativo dei seguenti ambienti relativi alla gestione del rischio clinico:
se la struttura organizzativa ha adottato nel migliore dei modi la barriera allora il punteggio della mappatura non subirà variazioni in quanto verrà moltiplicato per un coefficiente che risulta essere pari ad uno. Questo significa che il punteggio della mappatura è quello derivato degli eventi che si sono verificati e non subisce alcuna amplificazione in quanto l’articolazione organizzativa adotta una serie di barriere che riducono la probabilità di accadimento dell’evento;
se la struttura organizzativa ha adottato solo parzialmente le barriere il punteggio relativo allo stato di maturità sarà maggiore di uno e al massimo potrà raggiungere il valore di due. Questo significa che le barriere che l’azienda nel suo complesso ha chiesto di adottare non sono adottate in modo sistematico e per tale motivo il valore della mappa subisce una amplificazione tramite il coefficiente di maturità. Questo può anche raddoppiare il punteggio.
25 Da questi conteggi otteniamo la mappatura dei rischi che consente di classificare le strutture organizzative nelle tre macro-categorie: alto, medio e basso rischio. Ottenuta la mappatura possiamo procedere a definire i contenuti dell’ultima fase di lavoro. Fase 5 – Piani e strumenti per il contenimento dei rischi
L’ultima fase dell’approccio è caratterizzata dalla definizione “del cosa” fare e dove all’interno dell’azienda. Si suggerisce sempre di prendere in considerazione prima le aree ad alto rischio sulle quali intervenire, applicando gli strumenti pro-attivi della gestione come la FMEA; mentre per le aree a medio rischio si suggerisce di applicare strumenti re-attivi come l’Incident Reporting. Questo approccio consente di adottare gli strumenti in modo modulare e coerente con il livello di rischio. L’applicazione di tali strumenti deve essere il contenuto del piano triennale ed annuale di gestione del rischio clinico. Questo modo di procedere ci porta all’identificazione delle aree prioritarie, degli strumenti da analizzare e i risultati da ottenere.
La mappatura dei rischi attraverso la consultazione interna è una seconda metodologia di mappatura dei processi, da utilizzarsi quando è necessario identificare le priorità di intervento in una porzione di struttura sanitaria o in organizzazioni più semplici e comunque caratterizzate da un patrimonio informativo esiguo rispetto all’azienda sanitaria.
Le assunzioni di base di questo approccio sono le seguenti:
il personale che lavora nei processi conosce e “vede” quotidianamente ciò che accade, pertanto ha tutte le informazioni necessarie per identificare le aree o i processi maggiormente esposti a rischio. Questo significa che se vogliamo raccogliere le informazioni è necessario definire quali problematiche possono emergere, come ad esempio il fatto che il personale non ha famigliarità con il concetto di eventi e quasi eventi, oppure non considera alcuni accadimenti come parti della gestione del rischio clinico ecc. Questi aspetti dovranno essere quindi opportunatamente presi in considerazione per lo sviluppo della metodologia;
le diverse professionalità, appartenenti alle varie articolazioni organizzative, riescono a cogliere aspetti diversi della gestione del rischio e a rischi diversi nello stesso accadimento. Questo ci aiuta a prendere in esame tutti gli aspetti dei diversi eventi in modo completo ed esaustivo.
26 Queste due assunzioni di base ci portano ad elaborare un approccio metodologico caratterizzato dalle seguenti fasi:
fase 1 – Elenco dei processi a rischio; fase 2 – Esecuzione delle interviste;
fase 3 – Elaborazione dati e identificazione delle priorità; fase 4 – Piani e strumenti per il contenimento dei rischi. Fase 1 – Elenco dei processi a rischio
I processi “critici”, e quindi quelli a maggior rischio, sono da ricercarsi nell’ambito dei processi della struttura organizzativa oggetto di analisi.
Fase 2 – Esecuzione delle interviste
Dopo aver identificato i processi prioritari è necessario definire il personale della struttura che è necessario intervistare e come intervistarlo con lo scopo di ottenere informazioni sulla frequenza degli incidenti e dei quasi incidenti.
I criteri utilizzati per la consultazione sono rappresentati da:
frequenza dei “quasi incidenti”. Per quasi incidente intendiamo l’accadimento di una attività che poteva generare un danno, anche lieve, per il paziente; frequenza degli “incidenti”. Per incidenti intendiamo l’accadimento di una
attività che ha generato un danno, anche lieve, per il paziente.
Per ogni processo critico identificato l’intervistatore chiede la frequenza dei casi di quasi incidenti ed incidenti rilevati per ogni processo in un dato periodo.
Fase 3 – Elaborazione dati e identificazione delle priorità
Le interviste del personale sono documentare e quindi per ogni processo si ha a disposizione un punteggio. Identificati i processi prioritari si decide come intervenire e con quali strumenti.
Fase 4 – Piani e strumenti per il contenimento dei rischi
Anche con questa metodologia, come per la mappatura tramite l’analisi dei dati, l’ultima fase è caratterizzata dal definire cosa fare all’interno dei processi che sono emersi come i prioritari e quindi quale strumento applicare.
La mappatura dei rischi attraverso l’adozione delle buone pratiche è un’altra modalità per la mappatura delle priorità d’intervento per il rischio clinico. Le buone pratiche a
27 noi maggiormente note sono quelle del Ministero della Salute e le Pratiche Obbligatorie per l’Ente (POE) dell’Accreditation Canada.
Una ulteriore serie di buone pratiche è quella rappresentata dal modello di Join Commission. Indipendentemente dalle pratiche prese come riferimento, lo sviluppo del programma triennale ed annuale del rischio clinico sarà caratterizzato dalla priorità di intervento e della progettualità per implementare le buone pratiche illustrate. Alla base di questo approccio c’è l’assunzione di base che le buone pratiche rappresentano delle modalità che, opportunatamente messe in atto, aiutano l’organizzazione a ridurre il rischio e aumentare quindi la sicurezza del paziente.
1.4 Gli strumenti per la gestione del rischio clinico
La conoscenza degli strumenti per la gestione del rischio clinico e delle loro caratteristiche ne guida la scelta ed il corretto utilizzo.
Tutti gli strumenti hanno come fine ultimo quello di fornire il contributo per la riduzione del rischio clinico.
Nei processi di diagnosi, ricovero, cura, sia ospedalieri che territoriali, possono avvenire diversi “accadimenti” quali ad esempio: la mancata somministrazione di farmaci, la mancata identificazione di allergie ecc.
Molto spesso gli “accadimenti” vengono intercettati, si infrangono cioè su barriere più o meno strutturate e in tal caso possono essere tradotti identificandoli così come “quasi – eventi”.
Per contro, quando gli accadimenti non sono intercettati, diventano degli “eventi”. La condizione di evento si ha quindi quando le “barriere” sono state superate.
È importante però sottolineare che la presenza di un evento non è necessariamente correlata ad un danno; abbiamo infatti i così detti “eventi senza danno”, cioè eventi che non hanno portato una conseguenza diretta per il paziente.
Invece quando un evento provoca ripercussioni sul paziente, genera quelli che vengono definiti “eventi avversi”, quindi eventi che hanno generato un danno per il paziente. Le definizioni di “quasi evento”, “evento”, “evento senza danno” ed “evento avverso” sono le seguenti:
Quasi – evento (Near miss): ogni accadimento che avrebbe potuto, ma non ha, per fortuna o per abilità di gestione, originato un evento.
28 Evento: ogni accadimento che nei riguardi di un paziente, ha causato un danno o ne aveva la potenzialità, ovvero ogni evento che riguarda il malfunzionamento, il danneggiamento o la perdita di attrezzature o proprietà, ossia ogni evento che potrebbe dar luogo a contenzioso. Com’è noto l’evento ed il quasi evento sono l’oggetto della segnalazione dell’incident reporting, che è uno degli strumenti per la gestione del rischio clinico che tratteremo più avanti.
Evento senza danno: evento che aveva la potenzialità di dare origine ad un evento avverso/danno nei riguardi di un paziente ma, per condizioni particolari, non lo ha generato.
Evento avverso: una definizione diffusa è quella di “danno causato dalla gestione clinica piuttosto che dal processo della malattia, che si traduce in un prolungamento della degenza o in una disabilità al momento della dimissione”.
1.4.1 Il processo di gestione del rischio clinico e gli strumenti
Il processo di gestione del rischio clinico è dato da quattro fasi: identificazione del rischio;
analisi del rischio; trattamento; monitoraggio.
In questo contesto si inseriscono gli strumenti per la gestione del rischio clinico che possono essere visti da diverse prospettive:
possono essere cogenti, cioè richiesti nell’applicazione per legge, o volontari, quindi adottati ed applicati per libera scelta;
possono essere retrospettivi, quando l’evento è già avvenuto, o preventivi, quindi di tipo prospettico, cioè utilizzabili prima che l’evento accada, in modo da evitare l’accadimento e le relative conseguenze per il paziente.
Tra i principali strumenti per la gestione del rischio clinico troviamo: Incident Reporting;
Eventi sentinella;
29 Patient Safety Walkaround (PSW);
Significant Event Audit (SEA);
Failure Mode and Effect Analysis (FMEA);
Farmacovigilanza, dispositivo – vigilanza ed emovigilanza; Analisi delle cartelle cliniche.
L’unico strumento di carattere prospettico è la FMEA – Failure Mode and Effect Analysis, che affronta i possibili accadimenti prima che avvengano, agisce cioè in termini preventivi, mentre tutti gli altri sono di carattere retrospettivo, affrontano cioè l’accadimento quando è già avvenuto.
Talvolta gli strumenti possono essere cogenti e/o volontari allo stesso tempo, come nel caso della FMEA che, da strumento solitamente volontario, diventa cogente se l’organizzazione sanitaria intende adottare specifici modelli di accreditamento all’eccellenza, i quali prevedono la FMEA tra i requisiti di accreditamento, o nel caso di specifiche direttive regionali che prevedono l’applicazione di specifici strumenti nei propri modelli di gestione del rischio clinico.
Lo stesso vale per la Root Cause Analysis che può essere applicata volontariamente nelle organizzazioni che devono effettuare l’analisi delle cause di un accadimento ma diventa poi cogente nel caso di eventi sentinella.
1.4.2 Incident Reporting
L’Incident Reporting è uno strumento di rilevazione di un evento (Incident) o di un quasi – evento, che permette di tracciare l’accadimento e le sue conseguenze in modo strutturato.9
È una modalità retrospettiva, con la raccolta della segnalazione degli eventi e dei quasi – eventi, effettuata volontariamente dagli operatori. Solitamente la scheda di registrazione dell’Incident Reporting contiene informazioni relative a:
contesto;
dati del paziente e tipologia di rilevazione;
fattori che possono aver contribuito all’evento (le cause possono essere più di una ed occorre evidenziare quelle ritenute collegate all’accadimento);
9Bizzarri, Canciani, Farina, Strategia e gestione del rischio clinico nelle organizzazioni sanitarie, FrancoAngeli, Milano, 2018
30 le conseguenze dell’evento;
l’esito dell’evento;
informazioni su come si poteva prevenire l’evento; ecc.
La struttura del modello è proposta solitamente a livello delle singole Regioni, generalmente per l’ambito ospedaliero, talvolta personalizzato anche per il contesto territoriale, ne guida l’utilizzo con un avvio spesso anonimo della fase di segnalazione. L’Incident Reporting si utilizza nella fase di identificazione del rischio e copre solitamente le altre aree del processo di gestione del rischio quali l’analisi del rischio ed il monitoraggio. La finalità dello strumento è, pertanto, quello di raccogliere le segnalazioni su eventi o quasi eventi allo scopo di fornire una base di dati che consente la predisposizione di strategie, azioni di correzione e miglioramento per prevenire il riaccadimento nel futuro. Spesso l’uso dell’Incident Reporting, specialmente se lasciato nella sua applicazione alla “buona volontà del personale”, porta alla segnalazione dei “quasi eventi” piuttosto che agli “eventi” veri e propri.
Se da un lato la segnalazione del “quasi evento” permette di affrontare le cause che sono le stesse che portano “all’evento”, occorre accrescere strategie e modalità per far sì che vengano registrati gli eventi che possono riguardare i processi ed attività diverse da quelle nelle quali si riscontrano i “quasi eventi”.
La gestione dell’Incident Reporting, può essere vista come un processo, avviato dalla raccolta della segnalazione (input) sino alla verifica di efficacia delle azioni di contenimento del rischio (output).
Le diverse fasi e le relative attività potrebbero essere regolamentate in una procedura specifica dell’Azienda Sanitaria al fine di creare le precondizioni per l’omogeneità di applicazione. Si suggerisce di sviluppare, inoltre, un’attività di formazione del personale per l’applicazione dello strumento, possibilmente con momenti d’aula ed attività sul campo a supporto del personale stesso, coinvolgendo tutte le figure professionali dell’Unità Operativa interessata.
Le esperienze condotte in ambito nazionale hanno dimostrato che l’efficacia della compilazione delle schede di IR si accresce quando:
non si lasciano “soli” gli operatori davanti ad una scheda di Incident Reporting ma si aiutano nella descrizione degli accadimenti e nella loro analisi;
31 si genera fiducia nel personale in quando le segnalazioni sono effettivamente prese in considerazione ed affrontate per “risolvere” il problema, per fare in modo cioè che gli accadimenti non si ripetano;
sono prese in considerazione le esperienze di tutti coloro che operano in un processo assistenziale dato che, ciascuno nella multi – professionalità dei trattamenti, può vedere accadimenti che non tutti possono incontrare.
Al fine di avviare e consolidare nel tempo la compilazione degli Incident Reporting come strumento “routinario” nella gestione e riduzione del rischio clinico, è necessario:
fare in modo che la raccolta delle segnalazioni entri nella pratica abituale del reparto, come già è oggi in molti ambiti la “discussioni dei casi clinici”; condurre riunioni/incontri settimanali, all’avvio del processo di registrazione
degli Incident Reporting, che rendano “familiare” lo strumento al personale dell’Unità Operativa;
valutare la possibilità di modificare le scadenze degli incontri dopo un primo periodo di almeno due mesi facendo in modo che non siano mai meno di uno al mese (ottimale uno ogni settimana, spesso ogni 15 giorno).
Altre considerazioni da fare sono relative alla descrizione dell’evento. È utile sottolineare, infatti, l’importanza del “come si descrive l’accadimento”: sia esso evento o quasi evento.
La sua descrizione deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
chiara: non deve dare adito a interpretazioni ed essere inequivocabile. La gestione delle schede di Incident Reporting prevede il coinvolgimento di più persone con differenti competenze e professionalità sino alle funzioni aziendali che periodicamente dovranno leggerle ed analizzarle, anche per alimentare le informazioni relative alla mappatura dei rischi aziendali;
sintetica: chi legge la scheda deve comprendere il contesto in poco tempo senza disperdere le energie ed attenzioni in elementi che non aggiungono valore alla descrizione della segnalazione;
espressa con parole semplici: questo aspetto è un’altra sfaccettatura della comprensibilità degli accadimenti segnalati;
32 comprensibile: sia per coloro che dovranno identificare le cause ed avviare adeguate azioni correttive e/o preventive che alle direzioni aziendali dovranno capire “cosa è avvenuto” o “cosa poteva accadere”;
circoscritta: collegabile ad un dato processo e/o momento assistenziale al fine di coinvolgere nelle successive disamine le persone interessate nell’analisi delle cause, nella definizione delle soluzioni e nella pianificazione ed attuazione delle azioni di miglioramento.
Al fine di avviare e consolidare nel tempo la compilazione degli Incident Reporting è importante che il referente del rischio clinico di Unità Operativa, eventualmente con il supporto delle altre funzioni aziendali identificate, quali il referente del rischio clinico dipartimentale e/o aziendale, verifichi l’efficacia delle singole azioni definite per ridurre il rischio.
Al fine di facilitare l’analisi degli Incident Reporting è utile, almeno all’avvio del processo, l’uso di semplici fogli di raccolta dati che facilitino l’elaborazione e l’analisi degli stessi.
Una volta identificata l’area di rischio prioritaria il metodo prevede:
l’identificazione delle cause probabili e di quelle sulle quali agire (la fase di diagnosi);
la definizione delle scelte da operare per rimuovere le cause (la fase di decisione, cioè che cosa fare);
la scelta e pianificazione delle contromisure (cioè il come fare); la realizzazione – introduzione dei cambiamenti;
la conferma del risultato desiderato; la standardizzazione.
Come per le altre competenze necessarie al personale nell’utilizzo degli strumenti di gestione del rischio clinico, anche la formazione sulle logiche di problem solving diviene il mezzo per poter attivare il miglioramento. È pertanto fondamentale che, nel piano formativo del personale interessato nel processo di analisi dei rischi, siano presenti momenti formativi sugli aspetti collegati alla gestione ed al miglioramento organizzativo dei processi, oltre che agli aspetti tecnico – professionali.
La fase di monitoraggio consente non solo di rivalutare l’efficacia delle azioni di contenimento ma anche di presidiare le aree/attività critiche per evitare che gli accadimenti si ripetano. Al fine di monitorare e rivalutare i processi critici è necessario:
33 monitorare a cadenze stabilite, in relazione ai tempi definiti per le azioni di
contenimento dei rischi, la verifica dello stato di avanzamento delle attività; verificare se le azioni decise hanno modificato le prassi operative, evitando il
ripetersi degli eventi e/o quasi eventi trattati come prioritari.
Il punto di forza dello strumento di Incident Reporting è certamente quello dell’aumento della consapevolezza degli operatori in merito alla gestione dei singoli casi trattati nelle segnalazioni. I vincoli nell’utilizzo sono rappresentati dal fatto che all’interno delle organizzazioni deve essere garantita la confidenzialità delle segnalazioni e la non punibilità di coloro che segnalano e, inoltre, si devono vedere risultati di miglioramento tecnico – organizzativo per alimentare le segnalazioni nel tempo.
1.4.3 Eventi sentinella
La registrazione dell’evento sentinella rientra tra gli strumenti retrospettivi per la gestione del rischio clinico ed è utilizzato per la segnalazione e gestione di un evento avverso di particolare gravità, potenzialmente evitabile, che può comportare morte o grave danno al paziente e che determina una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti del servizio sanitario. La gestione degli eventi sentinella è guidata da uno specifico protocollo che prevede la compilazione di due schede per le quali sono descritte le regole e i tempi di compilazione nella procedura Nazionale. Sono 1918 le segnalazioni di eventi sentinella (eventi avversi particolarmente gravi e potenzialmente evitabili, che possono comportare la morte o un grave danno al paziente) accaduti nelle strutture del Servizio sanitario nazionale (SSN) nel 2005 – 2012.
Lo strumento viene utilizzato nella fase di identificazione, analisi e trattamento di un evento di particolare gravità, dove il verificarsi di un solo caso è sufficiente per dare luogo ad un’indagine conoscitiva diretta ad accertare se abbiamo contribuito fattori eliminabili, o riducibili, per attuare le adeguate misure correttive da parte dell’organizzazione.
Gli eventi sentinella, descritti nella Comunicazione Ministero della Salute Osservatorio Nazionale Sugli Eventi Sentinella 200610, sono:
34 1. procedura in paziente sbagliato;
2. procedura chirurgica in parte del corpo sbagliata (lato, organo o parte); 3. errata procedura su paziente corretto;
4. strumento o altro materiale lasciato all’interno del sito chirurgico che richiede un successivo intervento o ulteriori procedure;
5. reazione trasfusionale conseguente ad incompatibilità AB0;
6. morte, coma o grave danno derivanti da errori in terapia farmacologica; 7. morte materna o malattia grave correlata al travaglio e/o parto;
8. morte o disabilità permanente in neonato sano di peso > 2.500 grammi non correlata a malattia congenita;
9. morte o grave danno per caduta di paziente; 10. suicidio o tentato suicidio di paziente in ospedale; 11. violenza su paziente;
12. atti di violenza a danno di operatore;
13. morte o grave danno conseguente ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedalierio, extraospedaliero);
14. morte o grave danno conseguente a non corretta attribuzione del codice triage nella Centrale operativa 118 e/o all’interno del Pronto Soccorso;
15. morte o grave danno imprevisti conseguente ad intervento chirurgico; 16. ogni altro evento avverso che causa morte o grave danno al paziente.
Come nel caso degli altri strumenti illustrati, anche la gestione degli eventi sentinella può essere vista come un processo che si avvia dalla segnalazione dell’evento e si conclude con la restituzione alle parti interessate dall’esito della gestione delle azioni definite. Tale processo è normato dal Ministero della Salute con una specifica procedura: il “Protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella” del luglio 2009. Ogni volta che si verifica un evento avverso, la Direzione Aziendale prende in carico il paziente per attuare tutte le misure necessarie al fine di mitigare il danno e attivare i dovuti processi di comunicazione con pazienti e/o loro familiari in modo trasparente e completo, inoltre, mette in atto le azioni richieste dalla procedura di segnalazione dell’evento sentinella, che è guidata da due schede:
Scheda A – che deve essere compilata entro 7 giorni dall’evento ed inviata al Ministero con alcune indicazioni di massima su evento e relative cause;