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Lingue straniere e italiano L2: dall'insegnamento all'apprendimento

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Academic year: 2021

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Introduzione

Il presente lavoro si propone di illustrare sia le variabili interne ed esterne, le interferenze e strategie di comunicazione che caratterizzano i processi di apprendimento e insegnamento linguistico delle lingue straniere e, in particolare, dell’italiano L2, sia gli approcci, i metodi e le tecniche che possono favorirlo.

Il primo capitolo, intitolato L’acquisizione di una seconda lingua: apprendere l’italiano L2, parte da una generale presentazione delle varie tesi che si sono susseguite nel corso del tempo riguardo alle modalità di apprendimento linguistico sia della L1 che della L2, per poi concentrarsi sugli aspetti legati all’acquisizione dell’italiano L2, descrivendo le fasi principali dell’interlingua, le interferenze, le strategie di apprendimento e altri aspetti cognitivi, affettivi e sociali utili a delineare il profilo dell’apprendente l’italiano L2.

Il secondo capitolo, Insegnare le lingue straniere e l’italiano L2: approcci e metodi, ci presenta due tipi di evoluzioni. La prima riguarda il passaggio da una concezione tipica degli anni Novanta che considerava l’insegnamento prioritario all’apprendimento, ad una visione, sviluppatasi negli ultimi trent’anni, che considera i processi di insegnamento e apprendimento come “due facce della stessa medaglia”, ovvero due componenti legate da un rapporto di reciprocità, fino ad arrivare a parlare di un processo di apprendimento/insegnamento (i/a).Visione, questa, che conduce ad una maggiore attenzione verso la figura dell’apprendente, il quale ricopre per la prima volta il ruolo di protagonista dell’intero processo. La seconda si riferisce al percorso evolutivo degli approcci e metodi che si sono susseguiti in ambito glottodidattico, al cambiamento dei ruoli propri dell’insegnante e dell’apprendente. Si passa quindi ad una rassegna dei principali approcci e metodi, partendo da quelli più tradizionali (come, ad esempio, il metodo grammaticale-traduttivo) rigidi ed incentrati sul ruolo guida dell’insegnante, fino ad arrivare a recenti approcci e metodi di stampo

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2 “umanistico” i quali, cercando di individuare i bisogni, la personalità, il background culturale e tutte le componenti soggettive dell’apprendente, lo pongono al centro del processo i/a, in tutta la sua interezza. Nel secondo capitolo si affronta anche il tema dell’interculturalità, descrivendo i bisogni, le difficoltà e i problemi di un particolare tipo di apprendente, e cioè l’immigrato adulto, il quale difficilmente si sentirà immediatamente integrato in una nuova cultura.

Il terzo capitolo, Tecniche finalizzate all’insegnamento delle lingue straniere e dell’italiano L2, si concentra sulle tecniche ed attività didattiche intese come “concretizzazione” delle teorie elaborate dall’approccio e delle strategie didattiche definite dal metodo. In primo luogo, il capitolo descrive le tecniche relative all’insegnamento delle lingue straniere, prendendo spunto da una classificazione che le suddivide sulla base dello sviluppo di determinate abilità (lessicali, grammaticali, ricettive, produttive e di trasformazione di testi). In secondo luogo, esso si focalizza sulle attività più adatte per l’insegnamento dell’italiano L2, dividendole in tre gruppi distinti che corrispondono allo sviluppo di tre tipi di competenze: linguistiche; linguistico-comunicative e comunicative. L’ultimo paragrafo è dedicato al ruolo che la tecnologia sta assumendo in ambito glottodidattico, data la possibilità di trovare in rete non solo materiale autentico, ma anche una vasta gamma di attività stimolanti e motivanti da offrire agli studenti.

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Capitolo primo

1 L’acquisizione di una Seconda Lingua: apprendere

l’Italiano L2

Nel corso degli anni, varie tesi sono state formulate circa le modalità di apprendimento linguistico.

Una delle prime ipotesi è quella comportamentista che si basa su alcuni esperimenti dello scienziato russo Ivan Pavlov il quale aveva osservato che se si presentava ad un cane il cibo al suono del campanello, l’animale, al suono del campanello, produceva un’intensa salivazione (Pavlov 1966). Questi esperimenti lo portarono a concludere che questo fenomeno (chiamato riflesso condizionato) fosse alla base anche del comportamento umano. Secondo Skinner (1957), che viene considerato il rappresentante delle tesi comportamentiste, l’apprendimento della lingua madre (d’ora in avanti L1) altro non è che il risultato della formazione di abitudini, ovvero ripetute catene di stimoli, risposte e rinforzi, e l’apprendimento della seconda lingua (L2)1

consiste nella formazione di nuove abitudini. Secondo questa prospettiva lo stimolo riceve una risposta che ha bisogno di un rinforzo (ad esempio, una ricompensa) per essere immagazzinata in memoria. Al contrario, se il rinforzo è negativo, cioè se la risposta non viene premiata, non si avrà nessun tipo di apprendimento.

All’ipotesi comportamentista si oppone quella innatista, il cui maggior esponente è senza dubbio Chomsky (1965). Secondo questa ipotesi, l’acquisizione della L1 avviene grazie al cervello umano, il quale non è un semplice ricettore di

1 Il termine L2 verrà utilizzato, per ragioni di comodità, per riferirsi a qualunque lingua appresa

dopo quella materna (L1), sia essa acquisita in un contesto naturale (cioè nel paese in cui viene parlata come prima lingua), sia essa appresa in un ambiente in cui non è presente (ad esempio lo studio della lingua inglese in Italia).

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4 stimoli, ma è capace di elaborare in maniera creativa i dati provenienti dall’ambiente. La creatività è considerata una delle caratteristiche fondamentali dell’apprendimento linguistico e permette agli individui di creare frasi nuove rispetto al numero limitato di parole e di regole esistenti.

Inoltre, Chomsky presuppone l’esistenza di un meccanismo di acquisizione linguistica innato (LAD: Language Acquisition Device) grazie al quale l’uomo è in grado di riconoscere e produrre frasi corrette da un punto di vista grammaticale pur non avendole mai né udite né pronunciate. Krashen (1981), che si rifà all’innatismo di Chomsky, ritiene che la L2 si impari con le stesse modalità con le quali si apprende una L1, rispettando cioè quel periodo di silenzio (periodo muto) dopo il quale l’apprendente comincerà a parlare la lingua che è stata assorbita secondo un processo naturale e spontaneo grazie ad input comprensibili forniti durante l’insegnamento.

L’ipotesi pragmatica prende le distanze sia dalla concezione ambientalistica dei comportamentisti, sia da quella innatista di Chomsky. Se da una parte essa presuppone l’esistenza di un meccanismo innato di natura linguistica e cognitiva che consente al bambino di acquisire la lingua, dall’altra riconosce l’influenza dell’ambiente, ipotizzando l’esistenza di un supporto esterno, ovvero quello che Bruner chiama Language Acquisition Support System (LASS), all’interno del quale l’apprendimento linguistico avviene grazie ai formati (Bruner 1983). Si tratta di unità comunicative ovvero strutture microcosmiche fra adulto e bambino caratterizzate da suddivisione di compiti, alternanza di turni e complementarietà di ruoli regole e convenzioni. Il formato nasce nel momento in cui il contesto naturale viene convenzionalizzato attraverso strutture routinarie fisse e semplici che caratterizzano gli scambi tra adulto e bambino i quali si realizzano nel seno della reciprocità e della cooperazione.

Una prospettiva più umanistica di carattere dialogico elaborata da Coppola (2000), infine, pone in primo piano la figura dell’apprendente e questo comporta un’attenzione maggiore per le variabili psicoaffettive e psicolinguistiche (motivazione, età dell’apprendente, desiderio di imparare ecc.) su cui focalizzerò la mia attenzione nei successivi paragrafi.

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1.1

Il processo di apprendimento dell’Italiano L2

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1.1.1 L’interlingua e le sue fasi

Durante il percorso di apprendimento di una lingua diversa da quella materna l’individuo cerca di assimilare la L2 sulla base di una lingua di partenza, ovvero, la sua madrelingua, compiendo così un sorta di percorso evolutivo attraverso il quale egli tenta di costruirsi una propria identità linguistica. Tra le varie definizioni che gli studiosi hanno cercato di dare a questo processo emerge quella di interlingua proposta da Selinker (1972). Egli definisce l’interlingua come un sistema autonomo, una lingua vera e propria che obbedisce a determinate regole ed è il prodotto di una grammatica mentale, ovvero, di un sistema di regole, alcune riconducibili alla L1, altre alla L2, altre a meccanismi mentali universali che possono essere in parte inconsci, in parte consapevoli. A causa di un processo di fossilizzazione, l’interlingua è destinata a rimanere un codice imperfetto e approssimativo che può condurre a fenomeni di ipergeneralizzazione e semplificazione.

A questa concezione statica si oppongono le definizioni più recenti che considerano l’interlingua come un sistema linguistico dinamico in costante evoluzione creato dallo stesso apprendente, il quale manipola e organizza le forme linguistiche acquisite durante la sua maturazione linguistica (Ciliberti 1994). L’interlingua, in questo caso, viene considerata una lingua instabile, dotata di una grammatica sistematica che non corrisponde né alla L1 né alla L2, ma è caratterizzata da elementi che appartengono sia all’una che all’altra lingua. Ovviamente le forme linguistiche dell’apprendente dipenderanno dalla sua vicinanza all’una o all’altra lingua. Se in una fase iniziale l’interlingua sarà caratterizzata da fenomeni di interferenza provenienti dalla L1, in uno stadio più avanzato questi elementi della lingua di partenza diminuiranno considerevolmente per lasciar posto a quelli appartenenti alla L2. Si tratta di una concezione di interlingua di tipo lineare alla quale seguono proposte e raffigurazioni diverse per quanto riguarda la rappresentazione dell’interlingua. Heubner (1983), ad esempio, usa la metafora del labirinto all’interno del quale l’apprendente inizia a vagare

2 Con il termine Italiano L2 ci si riferisce alla lingua italiana studiata o acquisita da uno straniero in

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6 senza una meta, imboccando la strada che gli appare più promettente e tornando indietro per intraprendere un altro percorso ogni qual volta la strada gli appaia sbarrata. Vedovelli (1994), dal canto suo, paragona l’interlingua ad una rete a maglie che possono essere elastiche o rigide. Mentre quelle elastiche corrispondono alle aree più flessibili che consentono una rielaborazione del sistema, quelle rigide costituiscono zone in cui non è possibile attuare tale rielaborazione poiché è già in corso un processo di fossilizzazione.

Gli studiosi hanno individuato tre fasi principali nell’interlingua dell’italiano L2: fase iniziale o pre-basica; fase basica e fase post-basica. Mentre gran parte degli studiosi (tra cui Krashen e Ciliberti) sottolinea il carattere anarchico della grammatica durante le prime fasi dell’interlingua, frutto di interferenze tra conoscenze linguistiche della propria lingua e della L2 che caratterizza il processo di acquisizione in un contesto spontaneo e naturale, Corder (1981) parla di un sillabo interno, dotato di una grammatica universale comune a tutti gli apprendenti una L2 e totalmente indipendente dai condizionamenti della L1.

1.1.1.1

Fase pre-basica

Per quanto riguarda l’acquisizione di Italiano L2, molto spesso il processo di assimilazione di una L2 è preceduto da un periodo muto, che è la conseguenza di uno shock linguistico in cui l’apprendente rifiuta inconsciamente qualsiasi tipo di input della nuova lingua per lui incomprensibile; nella maggior parte dei casi questo rifiuto viene accompagnato anche da un rigetto dell’individuo nei confronti della nuova cultura nella quale egli non si sente ancora integrato. Tuttavia molti stranieri non attraversano il periodo muto e si misurano fin da subito in quelli che sono gli elementi linguistici propri della fase pre-basica dell’interlingua. In questa prima fase, che è caratterizzata da una grammatica elementare, l’apprendente possiede solo alcuni elementi lessicali necessari alla sopravvivenza e quindi parole che appartengono, ad esempio, alla sfera professionale, oppure parole necessarie a richiamare l’attenzione (routines); a espressioni convenzionali di saluto ecc.

Inoltre, nella fase pre-basica possono comparire anche enunciati più complessi e corretti da un punto di vista grammaticale:

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7 - Come ti chiami?

- Io vengo da… - Io abito a…

I critici hanno però sottolineato la vera natura di questi enunciati, definendoli “stringhe prefabbricate di linguaggio” ovvero formule memorizzate in blocco in maniera del tutto inconsapevole e quindi grammaticalmente corretti in maniera incidentale.

Nel corso di un mio stage (da aprile a dicembre 2014) presso l’associazione volontaria CIF (Centro Italiano Femminile) che organizza lezioni di italiano per stranieri, ho potuto constatare ciò che è stato detto precedentemente. Durante alcune lezioni a studenti africani, essi erano soliti chiedere all’insegnante: - Come si dice…? (indicando un oggetto). In realtà si trattava di una formula che essi udivano con una certa frequenza in quanto veniva ripetuta assiduamente dalla docente con l’obiettivo di arricchire il loro lessico. Se la domanda veniva posta dall’insegnante, gli studenti non erano un grado di formulare una frase ma si limitavano a rispondere tramite parole nella loro lingua madre (livre, chaise). È quindi evidente che si trattava di un blocco di parole memorizzato senza una riflessione analitica.

Da un punto di vista morfosintattico, la fase iniziale è caratterizzata da un uso inconsapevole degli elementi lessicali che comporta la neutralizzazione della flessione delle parole (es. S: io dorme, tu dorme). Da un punto di vista della temporalità, si osserva la tendenza a ridurre gli avverbi temporali (prima, poi ecc):

- I: Josdan, cosa hai fatto ieri? S: Io andare lavorare e cenare. (Prima sono andato a lavorare poi ho cenato).

Inoltre, la fase pre-basica comporta il ricorso a forme di negazione espresse tramite la particella no:

- I: Renato, perché sei venuto in Italia? S: No lavoro.

Infine, questa prima fase si distingue per l’assenza della copula tra soggetto e predicato

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8 e per l’omissione di preposizioni ed articoli:

- I: Josdan, perché sei arrivato in ritardo? S: Autobus tardi. - I: Maria, dove sei andata ieri? S: Andata dottore.

Per quanto riguarda gli aspetti fonetico-fonologici è stato osservato che il periodo più adatto per ottenere un controllo perfetto sulla pronuncia di una L2 termina con l’età puberale. Dopo quest’età le aree del cervello che si occupano della produzione di fonemi perdono la loro plasticità, quindi per un adulto sarà molto difficile raggiungere un’ottima padronanza della L2 sul piano fonetico.

Per quanto concerne il nome, nel primo stadio dell’interlingua, lo straniero non è in grado né di individuare il genere e il numero di un nome, né di accordare a quel nome gli altri elementi flessibili della frase. Sebbene, in italiano, la maggior parte dei nomi singolari femminili finiscano in –a, e quelli maschili in –o, le cose si complicano laddove un nome che termina in –a appartenga in realtà al genere maschile (problema).

1.1.1.2

Fase basica

Tutti gli aspetti elencati nel paragrafo precedente vengono perfezionati nella fase successiva dell’interlingua ovvero quella basica, fino ad ottenere ottimi risultati in quella post-basica dove l’apprendente avrà raggiunto un alto livello di padronanza della L2.

La fase basica è caratterizzata dalla presenza di un lessico più ricco, dalla comparsa di articoli e preposizioni e dall’uso del predicato e delle prime forme verbali. Se in una prima fase il parlante straniero ricorre all’uso dell’infinito, successivamente egli utilizzerà il participio passato per riferirsi ad azioni passate:

-I: Cos’hai fatto ieri, Severino? S: Andato lavorare

Per quanto riguarda il nome, durante la fase basica il parlante straniero inizia a sperimentare sia l’accordo tra nome a aggettivo, sia l’accordo tra nome e articolo, sebbene egli non sia ancora in grado di utilizzare correttamente i due articoli maschili singolari (il, lo) e quelli maschili plurali (i, gli).

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1.1.1.3

Fase post-basica

La fase post-basica è caratterizzata da continue conquiste a livello morfologico e lessicale. In generale possiamo affermare che i traguardi più importanti di questa fase si verificano a livello della temporalità. Infatti, in questo stadio della lingua che presuppone competenze avanzate, inizia a comparire l’opposizione tra attualità e controfattualità, vale a dire tra ciò che è sentito come vero e concreto e ciò che viene percepito come astratto e virtuale. Comincia così a farsi strada l’uso del condizionale per esprimere desideri o formulare richieste cortesi.

Oltre ai tempi basici dell’indicativo (presente, passato e futuro), gli apprendenti, durante questa fase, si cimentano nell’uso del congiuntivo per esprimere l’opposizione tra oggettività (vedo che sei triste) e soggettività (mi dispiace che tu sia triste).

Infine, compare anche l’uso del futuro di tipo modale a cui si ricorre per esprimere dubbi o incertezze (è nuvoloso, penso che pioverà).

Per quanto concerne l’interlingua, quindi, non si può parlare di semplificazione, quanto piuttosto di un processo di complicazione che porta al raggiungimento di varietà avanzate che hanno sempre minori deviazioni rispetto alla lingua target, fino alle varietà quasi native (Chini, 2005).

Si può quindi concludere citando un’espressione ossimorica di Baldassarri, il quale definisce l’interlingua come una “fase transitoria che non finisce mai” (Baldassarri 2008: 45).

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1.2

Interferenze e strategie di apprendimento

1.2.1 Il transfer

Nel corso del processo di assimilazione linguistica da parte di allofoni, entrano in gioco vari tipi di influenze legate alla loro L1. La manifestazione più comune dell’influenza linguistica è il transfer che si verifica nel momento in cui alcune proprietà presenti nella L1 vengono trasferite alla L2. L’analisi contrastiva vedeva il transfer come la causa degli errori prodotti dal parlante straniero, mentre l’analisi degli errori considera anche altri fattori tra cui l’età, la motivazione e molto altro. Il transfer è comunque considerato un fattore negativo durante l’acquisizione di una L2, specialmente laddove le interferenze provocate dalla madrelingua diano luogo a produzioni scorrette nella L2.

Il transfer può interessare qualsiasi livello del linguaggio. Poiché, come già accennato, la fonologia rappresenta l’area più debole del linguaggio, saranno le interferenze fonologiche dalla L1 alla L2 a manifestarsi più frequentemente. In questo caso, si parla di transfer fonologico e può essere suddiviso in due tipologie: quello segmentale e quello sovrasegmentale. Nel primo caso il parlante straniero avrà difficoltà a pronunciare certi fonemi perché tenderà a utilizzare i parametri articolatori della propria lingua di appartenenza. Personalmente, durante la mia permanenza al CIF, ho notato l’estrema difficoltà dei nativi filippini nel differenziare l’occlusiva bilabiale sorda /p/ dalla fricativa labiodentale /f/, essendo quest’ultima assente nel loro alfabeto. Nonostante fossero ripetutamente invitati a ripetere parole che iniziavano con /f/, i filippini, non riuscendovi, ricorrevano alla bilabiale. Vediamo alcuni esempi:

- Pirenze è una bella città. - Posso uscire, per pavore? - Ho pinito l’esercizio.

Per quanto concerne il livello sovrasegmentale, lo straniero incontrerà enormi difficoltà a dare la giusta intonazione, soprattutto se la sua lingua di arrivo appartiene al gruppo delle lingue tonali, le quali utilizzano la frequenza delle parole che può essere più o meno alta come elemento discriminatorio.

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11 Nell’italiano, invece, come in tutte le lingue accentuali, l’accento serve per discriminare le parole e l’intonazione è utilizzata per disambiguare diverse funzioni comunicative (affermazione, domande). Per questo motivo, è importante che lo straniero conosca le norme accentuali dell’italiano. In caso contrario, possono verificarsi fraintendimenti in grado di compromettere la conversazione. Ecco un caso in cui, utilizzando l’intonazione sbagliata, lo studente fa apparire quella che in realtà è un’affermazione come una domanda agli occhi dell’insegnante:

- I: Ray, dove è andato Severino? S: Ė uscito?

I: Non so, evidentemente neanche tu sai dove è andato.

Il transfer lessicale si manifesta con i falsi amici ovvero, coppie di parole che si assomigliano da un punto grafico o fonetico tra le due lingue. Ad esempio, un parlante nativo spagnolo potrà confondere il significato italiano dell’aggettivo largo che in spagnolo significa lungo. È possibile udire un ispanofono alle prese con la lingua italiana dire:

- Questa strada è larga e stretta. - I miei capelli sono larghi e biondi.

Si parla, inoltre, di transfer sintattico quando un parlante straniero presenta difficoltà ad utilizzare le regole sintattiche della seconda lingua, ricorrendo così a strutture che caratterizzano la lingua madre. Gli studi sull’acquisizione dell’italiano da parte di ispanofoni hanno dimostrato come l’alta vicinanza strutturale delle due lingue porti allo sviluppo di fenomeni di ibridazione linguistica. A questo proposito, Della Putta (2012) ha notato il frequente ricorso a costruzioni sintattiche non contemplate dall’italiano: le perifrasi. Fra le più comuni ricordiamo ir + a + infinito di valore deittico di futuro, e volver + a + infinito con valore reiterativo. L’italiano degli ispanofoni, anche dopo tanti anni di istruzione, è caratterizzato da trasposizioni fedeli a questo tipo di costruzioni:

- Pensavo che andava a piovere oggi. - Che cosa andiamo a fare dopo?

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12 Riguardo all’aspetto morfologico l’interferenza appare più circoscritta. Tuttavia sono stati osservati casi in cui apprendenti grecofoni pronunciavano:

- Quattri libri - Due euri

e ispanofoni che mantenevano il morfema spagnolo della prima persona singolare quando parlavano l’italiano:

- Io faceva - Io andava

Si parla di transfer omissivo quando i parlanti stranieri non trasferiscono niente dalla loro L1 alla L2. Questo può accadere se alcuni elementi della L1 sono diversi da quelli propri della L2, oppure nel caso in cui essi siano completamente assenti nella lingua madre del parlante straniero. A tale proposito è possibile udire un parlante inglese dire: “voglio uno”, omettendo la particella ne in quanto assente nella sua lingua. Per quanto riguarda gli articoli, un polacco o un russo diranno: libro su tavolo, poiché gli articoli non esistono nelle loro lingue.

Affinché una conversazione avvenga con successo, è importante condividere, non solo gli aspetti linguistici, ma anche quelli culturali. Le interferenze di tipo culturale (transfer culturale) sono dovute alla mancata condivisione di aspetti della vita e a un modo diverso di interpretare il mondo. Oltre a creare problemi di comunicazione, esse possono rendere difficoltoso l’inserimento dello straniero all’interno di una società e più problematica la sua accettazione da parte del nativo. Ogni lingua appartiene ad una cultura che risponde a regole pragmatiche che la differenziano dalle altre. Queste differenze si notano, non solo a livello linguistico, ma anche a quello cinesico. Gli inglesi sono soliti presentarsi ad una persona appena conosciuta con un semplice saluto (Hello, Good morning) omettendo il proprio nome perché, secondo loro, non si è ancora stabilito quel grado di intimità necessario per farlo. Un italiano che si avvicina ad un inglese dicendo “Hello, I’m Paola from Italy”, con tanto di pacca sulla spalla, provocherà imbarazzo e l’inglese giudicherà l’italiano come una persona spavalda e troppo sicura di sé. Agli occhi dell’italiano, invece, l’inglese risulterà essere asociale e taciturno.

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13 Fraintendimenti di questo tipo possono registrarsi anche attraverso i gesti. Infatti, mentre in Italia si muove la testa da sinistra a destra per dire no, in Turchia la negazione viene fatta sollevando il mento. In Francia e in Olanda, quando si conta, non si parte dal pollice come in Italia, bensì dall’indice. Tutti questi esempi ci fanno capire quanto sia importante conoscere, non solo gli elementi linguistici, ma anche quelli culturali appartenenti alla lingua che vogliamo conoscere.

1.2.2 Strategie comunicative

Il dialogo tra un parlante nativo e uno straniero non è mai simmetrico come quello che si realizza tra due nativi. Per superare questa asimmetria, che deriva sia dalla differenza di status, sia dalle differenze linguistiche e culturali, i due parlanti elaborano strategie che li aiutano a raggiungere i propri scopi comunicativi. È fondamentale, quindi, che lo straniero sviluppi anche la competenza strategica che gli consentirà di gestire al meglio le situazioni comunicative in cui si troverà ad interagire.

Quando un parlante nativo si rivolge ad uno straniero, ricorre all’uso del foreigner talk che consiste in una serie di semplificazioni che riguardano tutti i livelli del linguaggio e che si realizza attraverso fenomeni di restrizione ed espansione del codice linguistico.

Del fenomeno della restrizione fanno parte l’omissione; la semplificazione; la conversione:

L’omissione si verifica quando vengono eliminati alcuni elementi: per autobus serve biglietto.

La semplificazione, invece, si ha quando il parlante nativo tende a comunicare con lo straniero utilizzando una sintassi semplice ed un lessico ad alta frequenza d’uso.

La conversione avviene quando il nativo elabora certe costruzioni linguistiche in maniera diversa dallo standard, ad esempio, il ricorso alla forma infinita dei verbi: Dove andare oggi?

L’espansione, al contrario, si verifica quando si ricorre alla ridondanza (nella maggior parte dei casi pronominale), vale a dire quando si tende ad enfatizzare alcuni elementi al fine di facilitare la comprensione del parlante straniero.

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14 Esiste, inoltre, un tipo di foreigner talk “didattizzato”, ovvero dotato di strutture grammaticalmente corrette che si differenzia dal foreigner talk “non istituzionalizzato”, il quale si caratterizza per la sua agrammaticalità. Esso viene utilizzato per sviluppare le strategie comunicative dell’apprendente straniero ed è definito da alcune caratteristiche:

L’interrogazione totale la quale, a differenza di quella parziale che richiede una risposta più articolata, si rivela essere molto gestibile in quanto, per rispondere, è sufficiente un sì o un no: - I: Ti è piaciuto il film? S: Si.

La ridondanza pronominale ovvero l’enfatizzazione di pronomi: - Tu dove sei andato ieri?

La focalizzazione, attraverso la quale si mettono in campo le stesse strategie che vengono usate durante un dialogo tra due endofoni: - I: Vai a scuola in bicicletta? S: No I: E allora come ci vai a scuola?

La ripetizione, che si verifica nel momento in cui si ripetono alcuni elementi chiave della frase: - I: Da dove vieni? S: No capito S: Tu ora sei in Italia.adesso, e prima?

Un parlante straniero, quando comunica in L2, ricorre ad espedienti linguistici e non per raggiungere determinati scopi comunicativi. Tra le strategie più utilizzate si ricordano:

L’approssimazione, che consiste nel ricorso ad elementi lessicali che ne sopperiscono altri e che condividono con essi caratteristiche semantiche. Questo accade quando lo straniero non conosce la parola o l’espressione che vuole esprimere: - I: Severino, cosa fa il ragazzo della foto? S: Parla una canzone (invece di canta).

Il ricorso a perifrasi, le quali hanno la funzione di veicolare i significati di cui lo straniero non conosce il termine esatto e che lo portano ad utilizzare espressioni come la grande barca e piccolo sci scarpe al posto di barca e pattini di ghiaccio e all’uso di neologismi (rubatore; cuciniere).

La commutazione di codice, (più comunemente chiamata code switching), che si verifica quando il parlante si serve sia della L1 che della L2 per

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15 veicolare un messaggio: - I: Cos’hai fatto ieri? S: Andato al cinema con mi novia (in spagnolo novia vuol dire fidanzata).

L’appello all’esperto, a cui il parlante straniero ricorre quando, avendo bisogno di conferme da parte dell’interlocutore, si appella ad esso chiedendo aiuto esplicitamente: - Come si chiama questo? (indicando un pennarello).

La riduzione, che consiste nella produzione di enunciati brevi e semplici che sostituiscono quelli che lo straniero teme si rivelino scorretti: - I: Che hai fatto domenica? S: Io ho dormito e….ho dormito e…ah…ho fatto un un poco di ah..lavoro, ecco tutto.

Anche se il parlante produce enunciati corretti, egli produce solo quelli di cui è certo, evitando quelli in cui non si sente sicuro.

Infine, c’è una strategia che il parlante straniero condivide con quello nativo: la ridondanza di elementi, che consiste, come spiegato precedentemente, nell’enfatizzare certi elementi importanti all’interno della frase: - Quando tu arrivi, tu entri nella casa.

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1.3

Aspetti cognitivi, affettivi e sociali

1.3.1 Le variabili esterne

Quando uno studente si approccia ad una L2 entrano in gioco alcune variabili legate alla sfera cognitiva, affettiva e sociale. Gli studiosi hanno individuato due tipi di variabili: quelle esterne all’individuo e quelle interne. Delle variabili esterne fanno parte: l’input, l’interazione e la socializzazione.

Con il termine input ci si riferisce a tutte le manifestazioni linguistiche alle quali l’apprendente è esposto e a partire dalle quali egli si costruisce la sua competenza in L2. Secondo Krashen, l’input in L2 deve essere: comprensibile, rilevante e coinvolgente dal punto di vista dei contenuti e della relazione comunicativa, infine non sporadico e occasionale, ma accessibile e ripetuto (Krashen, 1981). È possibile distinguere tra gli alti generatori di input e i bassi generatori di input; i primi vengono identificati con coloro che partecipano attivamente alle lezioni di L2 e cercano contatti con i nativi anche al di fuori del contesto scolastico, mentre i secondi si distinguono per il suo atteggiamento passivo e di chiusura nei confronti della nuova lingua. Se l’input diventa eccessivo e stressante, si crea nell’apprendente uno stato di ansia che ostacola il processo di apprendimento. È quindi fondamentale da parte del docente stabilire i limiti che non devono essere oltrepassati. Secondo Brooks, che riprende le tesi comportamentiste di Skinner, ci sono errori in cui l’insegnante può incombere spesso: l’uso del già menzionato foreigner talk e il ricorso alla lingua madre dell’apprendente. Egli sostiene che, durante la lezione di lingue, gli studenti devono capire che la loro lingua madre non va usata a scopo di comunicazione e che, anche se l’insegnante può, a volte, impiegarne una parola o una frase, lui stesso non deve usarla per comunicare con loro. È quindi della massima importanza che l’insegnante con dica niente nella lingua nativa degli allievi, perché nulla più rapidamente di questo distrugge l’illusione dell’isola culturale (Brooks, 1960).

L’interazione è un altro fattore che si inserisce all’interno delle variabili esterne. Essa, infatti, non solo favorisce la comprensione e l’apprendimento della nuova lingua, ma è anche fondamentale per lo sviluppo della attività ricettive e produttive del parlante straniero. È stato osservato che la negoziazione del

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17 significato viene mantenuta attiva se i parlanti hanno la possibilità si interagire con i nativi. Inoltre, vari esperimenti dimostrano che i parlanti che ricevono un input non semplificato riescono ad assimilare un maggior numero di parole della L2 solo se viene data loro la possibilità di interagire con un nativo. Tramite l’interazione con i nativi, inoltre, gli apprendenti hanno la possibilità di verificare la correttezza o meno delle loro ipotesi interlinguistiche: se esse si riveleranno esatte, essi li immagazzineranno nella loro memoria, al contrario, se esse risulteranno false verranno eliminate e l’apprendente formulerà nuove ipotesi (Baldassarri, 2008).

Ultima di ordine ma non di importanza è la variabile relativa alla socializzazione che riveste una grande importanza ai fini dell’apprendimento linguistico. Poiché la lingua è la prima espressione di una società e della sua cultura, è fondamentale, da parte dello straniero, sentirsi parte integrante del nuovo tessuto sociale. È ben noto che coloro che hanno un atteggiamento aperto nei confronti della nuova cultura, sono quelli che riescono ad ottenere risultati soddisfacenti anche in breve tempo. Contrariamente, un atteggiamento di chiusura da parte dello straniero, il quale non accetta la cultura d’arrivo, può causare fenomeni come la fossilizzazione. Alla luce di quanto detto finora, quindi, è necessario sottolineare l’importanza dell’interazione e della socializzazione tra parlanti stranieri e nativi durante il processo di apprendimento di L2.

1.3.2 Le variabili interne

Le variabili interne all’individuo possono essere di natura biologica, attitudinale, psicoaffettiva e motivazionale.

In riferimento alla variabile di natura biologica, ovvero l’età, gli studiosi parlano di un periodo critico per indicare quel lasso di tempo che generalmente si situa nel primo ciclo di vita in cui l’acquisizione di una lingua avviene in modo ottimale. In seguito, tale acquisizione può avere scarsi risultati. La fine del periodo critico viene fatta coincidere con l’adolescenza. Se l’esposizione alla nuova lingua avviene in ritardo, ma tuttavia entro il periodo critico, le possibilità di acquisizione risultano buone se non ottimali. Se l’esposizione avviene troppo tardi, però, il tipo di lingua che si riesce ad acquisire è piuttosto rudimentale (Guasti, 2007). È stato dimostrato che i bambini riescono ad acquisire una lingua

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18 diversa da quella materna in modo nettamente superiore agli adolescenti ed agli adulti. Probabilmente questo avviene perché, sebbene gli adulti facciano maggiormente ricorso ad abilità cognitive, quest’ultime non permettono loro di avvicinarsi alla nuova lingua in maniera spontanea e naturale. I bambini, invece, non avendo coscienza del loro apprendimento, mantengono più basso il filtro affettivo, si cimentano nella nuova lingua in maniera spontanea e sono meno inibiti. Pare che esistano molteplici periodi critici che riguardano vari aspetti della lingua. Come già accennato precedentemente, esiste un lasso di tempo più proficuo per quanto concerne gli aspetti fonetici. Poiché la fonologia sembra essere l’area più sensibile del linguaggio, già dopo i 6/7 anni diminuisce la capacità di acquisire una pronuncia non marcata che è destinata a scomparire quasi totalmente dopo i 12 anni. La morfosintassi, invece, sembra essere accessibile in un periodo che va dall’adolescenza ai 40 anni circa. Infine, il lessico pare possa essere appreso a qualunque età.

Per quanto riguarda la variabile attitudinale, il test di Carroll (Modern Language Aptitude Test), distingue tre tipi di attitudini: attitudine fonetica, attitudine lessicale e attitudine grammaticale. Mentre la prima consente di gestire l’aspetto paralinguistico della comunicazione, la seconda è essenziale per comprendere con rapidità il significato di nuove parole. La terza, infine, consiste nella capacità di riconoscere la natura morfologica delle parole e le relazioni sintattiche tra i vari elementi all’interno di una frase. Sebbene l’attitudine sia stata correlata all’intelligenza, oggi questo termine non viene usato per sottintendere alla particolare predisposizione di alcuni individui ad apprendere una lingua, bensì a scopi promozionali, ovvero per una differenziazione della proposta didattica (Coppola, 2004).

Riguardo alle variabili psicoaffettive, infine, ci sono studi che si concentrano su quei fattori che rientrano nella sfera soggettiva e che diversificano il processo di apprendimento, ovvero: gli stili di apprendimento (denominati anche stili cognitivi), la personalità, i canali di apprendimento e le intelligenze.

Gli stili cognitivi si riferiscono alle modalità con cui ognuno affronta i compiti di natura cognitiva durante il processo di apprendimento di una L2; esse sono molto soggettive e variano da individuo a individuo. Sono state fatte due classificazioni riguardo agli stili cognitivi. La prima distingue i campo-dipendenti dai campo-indipendenti. Mentre i primi, avendo difficoltà ad isolare i fenomeni

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19 linguistici dal contesto, preferiscono una visione globale della comunicazione i secondi, che non hanno così bisogno del supporto contestuale, sono più inclini all’autorità/insegnante, riescono ad isolare gli elementi dal contesto e sono più capaci ad analizzare i fenomeni linguistici. La seconda classificazione differenzia i soggetti riflessivi da quelli impulsivi. Una maggior accortezza nel prendere decisioni permette ai riflessivi di commettere pochi errori nelle loro produzioni. Al contrario le produzioni degli impulsivi, saranno più rapide e quindi, automaticamente, scorrette nella maggior parte dei casi (Baldassarri 2008).

Riguardo ai tratti della personalità e le emozioni, ci sono dei fattori responsabili dei risultati negativi che si possono verificare durante l’apprendimento di una L2, tra cui ansia, inibizione, introversione/estroversione, autostima ed empatia.

L’ansietà comprende tutti quei sentimenti relativi all’imbarazzo e al senso di inadeguatezza provati da un parlante che si ritrova a parlare in una lingua poco conosciuta. L’ansietà, che si acuisce quando un individuo è chiamato a svolgere un determinato compito di fronte all’intera classe, è considerato un fattore negativo nell’apprendimento di una L2. Pertanto, è dovere dell’insegnante creare un’atmosfera in grado di mettere gli apprendenti a loro agio.

L’inibizione, dovuta a timidezza, paura, introversione, impedisce l’assimilazione di una nuova informazione. Il soggetto inibito avverte l’apprendimento come un processo che va a destrutturare il bagaglio linguistico che si crea fin dai primi anni dell’infanzia e che è costituito da tutte le esperienze legate alla L1.

Un buon risultato in L2 è direttamente proporzionale al livello di autostima dell’apprendente. È constatato che chi ha una buona opinione di sé, è in grado di raggiungere risultati migliori rispetto a chi ha un livello di autostima più basso.

Come nel caso dell’autostima, i soggetti estroversi, i quali amano mettersi in gioco e cercano di avere più contatti possibili con i parlanti nativi saranno coloro che raggiungeranno risultati migliori rispetto agli introversi i quali, per paura di sbagliare e di essere inadeguati, assumono un atteggiamento passivo che si rivela dannoso per l’apprendimento della L2.

L’empatia, infine, è un altro tratto della personalità che possiamo tradurre con l’espressione “mettersi nei panni dell’altro”, vale a dire sospendere momentaneamente il proprio punto di vista per adottare quello dell’altro

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20 assumendo un atteggiamento empatico che aiuta a relazionarsi con l’altro attraverso una maggiore predisposizione all’interazione.

Esistono diversi tipi di canali di apprendimento che variano a seconda delle modalità con cui un individuo elabora e codifica le informazioni attraverso il proprio canale sensoriale. A seconda della predisposizione individuale viene sfruttato maggiormente il canale visivo, uditivo, motorio o cognitivo secondo un modello elaborato da Grinder, Bandler ed altri negli anni Ottanta. Questo modello, applicato in ambito glottodidattico, ha dato vita al multi-sensory teaching approach, il quale, utilizzando in particolar modo il canale visivo, uditivo e cinesico, ricorre a strategie e tecniche al fine di stimolare l’apprendimento attraverso i sensi. Nato per venire incontro alle diverse esigenze degli alunni, questo approccio mira a superare tutte quelle difficoltà che possono emergere dall’uso di compiti dello stesso tipo.

Ciò che emerge durante il processo di apprendimento non è solo lo stile cognitivo dell’apprendente, ma anche un particolare tipo di intelligenza. Gardner (1987), infatti, parla di intelligenze multiple per riferirsi alle molteplici facoltà di cui un individuo è dotato. Ciò significa che alcuni di noi possiedono livelli molto alti in tutte o quasi le intelligenze, mentre altri hanno sviluppato in modo più evidente solo alcune di esse. Oltre a quella logico-linguistica, Gardner identifica differenti tipologie di intelligenza tra cui quella spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale, naturalistica, esistenziale, le quali possono essere sviluppate se l’individuo è messo nelle condizione appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione.

Con il termine motivazione, infine, ci si riferisce allo scopo che l’individuo desidera perseguire grazie all’apprendimento di una L2. Essa è costituita dal desiderio di raggiungere uno scopo, lo sforzo compiuto per raggiungerlo e la soddisfazione che si prova nel conseguirlo. Essa può essere suddivisa in motivazione estrinseca ed intrinseca. Nel primo caso la lingua viene vista dall’apprendente come mezzo per conseguire determinati obiettivi. Questi obiettivi possono essere di origine scolastica (conseguimento di un titolo universitario) o lavorativa (necessità di trovare un lavoro); oppure può essere legato al piacere di viaggiare o di integrarsi nel tessuto sociale in cui uno straniero vive. La motivazione intrinseca, invece, è legata al desiderio personale che un apprendente ha nell’imparare una lingua nuova. In questo caso, l’individuo

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21 cercherà di avere il maggior numero di contatti con essa. Possiamo dire che questo è il tipo di apprendente che ogni insegnante vorrebbe nella propria classe ed è compito suo offrirgli gli stimoli adatti per far sì che non si abbassi il suo livello di interesse verso la lingua.

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22

Capitolo secondo

2 Insegnare le lingue straniere e l’Italiano L2: approcci e

metodi

Fino agli anni Novanta del XX secolo l’insegnamento veniva considerato condizionante l’apprendimento e quindi prioritario ad esso. In questi ultimi trent’anni si è giunti a privilegiare la figura dell’apprendente e, in particolar modo, le sue esigenze e i suoi ritmi ai quali l’insegnamento deve adattarsi. Si è adottata, dunque, una nuova prospettiva più ricca e complessa in cui apprendimento e insegnamento non sono più considerati come due fenomeni distinti, bensì due entità strettamente correlate tra loro, tanto da parlare di un vero e proprio processo di insegnamento/apprendimento (processo i/a) in cui le due componenti sono legate da un rapporto di reciprocità. Tale processo si distingue per la sua unicità poiché l’insegnamento non è più inteso come una semplice trasmissione di saperi dal docente all’apprendente, ma come una co-costruzione di conoscenze in cui l’apprendente può rivestire il ruolo di protagonista; per la sua circolarità in quanto non è più un processo unidirezionale da insegnante a alunno, bensì bilaterale in cui informazioni nuove e originali possono provenire dall’apprendente stesso. È inoltre un processo evolutivo data l’interscambiabilità dei ruoli dei soggetti interagenti e relazionale poiché le relazioni attraverso cui esso trae origine sono influenzate dalle componenti soggettive delle persone che interagiscono (Coppola 2000).

Tra le componenti soggettive che garantiscono o, al contrario, minano l’efficacia dell’insegnamento vi sono quelle relative agli stili educativi e comunicativi del docente. Lo stile dell’insegnante è strettamente connesso all’idea che egli ha del processo di apprendimento. In questo modo, se il docente intende

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23 l’apprendimento in termini di sapere precostruito basato sulla semplice acquisizione di informazioni, ridurrà l’interazione didattica ad una passiva trasmissione di informazioni, al contrario, se egli lo considera come una costruzione di saperi, prediligerà attività che promuovono il carattere circolare e bilaterale dell’interazione.

Per quanto riguarda lo stile educativo, si è cercato, fin dagli anni Quaranta, di fare una classificazione di tutti quei comportamenti e atteggiamenti del docente che hanno determinate conseguenze sull’apprendimento del discente. I vari tipi di comportamenti emersi sono riferibili a due particolari tipi di stile: quello dominante (detto anche centrato sul docente) caratterizzato da un regime autoritario, rigido e formale e quello integrativo (centrato sull’apprendente) che si distingue per il suo carattere cooperativo, democratico e comunicativo. Lo stile educativo si riflette nelle scelte didattiche del docente ed interessa diversi livelli, da quello della programmazione (che può essere predefinita o negoziata), a quello della verifica e valutazione (che può essere incentrata sui prodotti o sui processi), passando per le metodologie e tecniche e l’organizzazione della classe. Da esso dipende anche la scelta tra una didattica normativa, che adotta la norma dominante quale criterio di valutazione in ogni tipo di compito, e una didattica plurinormativa, che si interessa alla capacità di utilizzare una lingua in diversi contesti. Ciò che più interessa è l’influenza che lo stile educativo può avere sull’apprendimento e sul comportamento dello studente. È stato dimostrato che un atteggiamento rigido e autoritario provoca un evidente calo di interesse, partecipazione e attenzione, oltre all’aumento di vari fattori tra cui ansia e frustrazione nell’apprendente.

Dello stile comunicativo fanno parte tutti quei fattori che entrano in gioco durante l’interazione didattica e quindi i ruoli, le convenzioni comunicative e gli usi socio-politici della comunicazione. Mentre alcuni studi si sono concentrati sull’interazione intesa come sistema di alternanza di turni, ricerche italiane hanno focalizzato la loro attenzione sul carattere asimmetrico che un’interazione in classe può assumere. Il loro obiettivo non è solo quello di scoprire come le modalità comunicative del docente influiscono sul comportamento dell’apprendente, ma soprattutto quello di incitare all’abbandono di modalità rigidamente asimmetriche a favore di altre che siano in grado di ridurre tale asimmetria e di confinare il ruolo del docente-regista a quello di moderatore.

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24 Questa volontà di porre l’apprendente al centro del processo di apprendimento come soggetto attivo e responsabile, ha causato quella che Serra Borneto definisce un’evoluzione delle proposte di insegnamento degli ultimi anni, grazie alla quale si è passati dall’utilizzo di metodi solidamente incentrati sulla lingua e sulla descrizione sistematica delle sue caratteristiche, in cui l’insegnante svolge un ruolo dominante, all’applicazione di approcci sempre più eterogenei, i quali, oltre a fare leva su un ruolo più attivo del discente e quindi prestare attenzione ai suoi bisogni e alle sue esigenze, hanno condotto ad una vera e propria “crisi del metodo tradizionale”( Serra Borneto, 1999).

2.1

Che cos’è il metodo

Il concetto di metodo nasce dall’esigenza di rispondere alla complessità relativa alla scelta del “che cosa” e del “come” insegnare una lingua straniera di cui l’insegnante deve essere consapevole. Come sostiene Serra Borneto (1999), un metodo è qualcosa di più di una tecnica o di una strategia di insegnamento poiché esso fa riferimento ad un approccio teorico, ovvero ad una teoria dell’insegnamento che pone l’accento sulle variabili del processo insegnamento/apprendimento e che funge da sistema di riferimento per l’insegnante il quale difficilmente è in grado di risolvere i problemi legati alla scelta, articolazione e progressione dei materiali didattici da utilizzare nell’interazione con alunni senza l’appoggio di uno sfondo teorico. Mentre l’approccio rimane un modello teorico, una filosofia di fondo della glottodidattica, il metodo, basandosi sugli assunti di un approccio, traduce i dati pedagogici, linguistici, psicologici in una strategia didattica, in uno strumento che permette di realizzare gli obiettivi didattici e linguistici che ci si prefigge di raggiungere (Luise 2006).

Come anticipato precedentemente, si può parlare di percorso diacronico dei metodi attraverso il quale metodi del passato, come quello grammaticale-traduttivo, concentrati sulla lingua oggetto di apprendimento, hanno lasciato il posto ad approcci che si affidano sempre più alle motivazioni del discente.

Piva individua tre fasi nello sviluppo cronologico dei metodi. La prima fase, che si estende dall’Ottocento ai primi decenni del Novecento, corrisponde

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25 all’introduzione dell’insegnamento delle lingue straniere in ambito didattico. In questo caso il metodo coincide con l’utilizzo di una manualistica normativa e specifica che costituisce lo strumento fondamentale per l’insegnamento delle lingue. La seconda fase inizia negli anni Quaranta fino a comprendere tutti gli anni Sessanta del Novecento, ed è caratterizzata dall’espansione dell’insegnamento delle lingue straniere. A partire dagli ultimi anni Sessanta, inizierà la terza fase in cui si registreranno importanti cambiamenti che porteranno alla nascita delle attuali tendenze glottodidattiche. Nella sua classificazione, Piva prende in considerazione vari fattori tra cui: a) il contesto storico in cui un determinato metodo si è affermato; b) l’approccio, cioè la relazione tra il metodo e i paradigmi della ricerca linguistica e glottodidattica; c) la produzione di tecniche, grazie alle quali si mantiene la vitalità del metodo (Piva 2000).

Serra Borneto, dal canto suo, delinea il percorso evolutivo dei metodi dal punto di vista del cambiamento di ruolo subìto dall’insegnante. Come egli osserva, si è passati da metodologie rigide e univoche centrate sul ruolo guida dell’insegnante, a forme sempre più aperte in cui il docente e il metodo stesso si mettono al servizio del discente e delle sue esigenze. Mentre con il metodo grammaticale-traduttivo e quello audiorale l’insegnante assume le vesti di un leader che stimola e orchestra gli interventi degli studenti rappresentando il modello linguistico da imitare, la sua posizione si modifica con l’avvento del metodo diretto che pone al centro della didattica il parlare la lingua straniera senza la mediazione della lingua madre come avveniva precedentemente. L’esigenza di ricorrere a situazioni nelle quali si possa esercitare la lingua orale porta l’insegnante ad assumere una posizione più vicina al discente, ricoprendo così un ruolo di partner, anziché leader. Se fino ad ora viene posto l’accento sul “che cosa” insegnare, la vera svolta si verifica con l’avvento dell’approccio comunicativo, grazie al quale ci si interesserà a “come” insegnare ad usare la lingua nelle diverse circostanze in cui si realizza la comunicazione, rendendo lo studente parte integrante della comunicazione di classe.

Secondo Richards e Rodgers (1986), il cambiamento di metodo è direttamente proporzionale alla diminuzione dell’insegnamento del latino che prevedeva metodologie didattiche basate su una rigida introduzione alla grammatica latina attraverso un rigoroso insegnamento delle regole grammaticali, declinazioni, coniugazioni e traduzioni, e la successiva comparsa delle lingue moderne nei

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26 curricola delle scuole europee a partire dal XVIII secolo. In un primo momento si ricorreva alle stesse procedure usate per l’insegnamento del latino e quindi si prediligevano manuali volti all’insegnamento di regole grammaticali astratte, liste di vocaboli e frasi da tradurre. Poiché il saper parlare una lingua straniera non era l’obiettivo principale, ai discenti veniva chiesto di leggere e tradurre delle frasi costruite in modo da illustrare loro il sistema grammaticale della lingua. Verso la fine del XX secolo vari fattori hanno contribuito a quella che gli studiosi chiamano “destrutturazione” del metodo tradizionale. L’incremento delle necessità di comunicazione tra stati europei ha portato all’esigenza di un’ottima competenza orale delle lingue straniere. Per questa ragione, in varie parti d’Europa, si è verificato un vero e proprio “Reform Movement” come è stato denominato da Richards e Rodgers, con il quale si è cercato di promuovere approcci e metodi alternativi a quelli del passato con l’obiettivo di riformare l’insegnamento delle lingue moderne.

Passiamo ora ad una rassegna dei vari tipi di approcci e metodi che si sono susseguiti nel corso degli anni, partendo da quelli tradizionali fino ad arrivare a quelli più recenti.

2.2

Tipologie di metodo

Metodo grammaticale-traduttivo

Sviluppatosi alla fine del Settecento, il metodo grammaticale-traduttivo viene utilizzato inizialmente per l’insegnamento delle lingue classiche. Ragioni di prestigio culturale e di ordine pratico contribuiscono al successo di questo metodo e alla sua vitalità. Il fatto che le lingue moderne si siano inizialmente affermate come lingue “di cultura” ha portato all’estensione del metodo grammaticale-traduttivo dalle lingue classiche alle lingue moderne; inoltre, poiché l’insegnamento è costantemente affiancato dall’uso del manuale, si presenta di facile adozione da parte del docente. Tutti questi fattori fanno sì che questo metodo antico sia ancora oggi parzialmente in uso.

Nella prospettiva di questo metodo conoscere una lingua equivale ad apprenderne le regole grammaticali e il lessico, e l’insegnamento della L2 avviene tramite la L1. Lo studio della lingua attraverso la grammatica, infatti, viene

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27 considerato un utile esercizio di tipo logico, oltre che uno strumento fondamentale per la lettura delle opere letterarie. Si ricorre quindi all’uso di un metalinguaggio grammaticale, espresso in L1, attraverso il quale si incentiva l’apprendimento delle regole grammaticali, le quali vengono memorizzate secondo una progressione che va dal semplice al complesso (dalla pronuncia ai paradigmi morfologici fino alla sintassi). Anche l’apprendimento lessicale avviene in maniera meccanicistica poiché la selezione del vocabolario è affidata esclusivamente ai testi utilizzati e le parole vengono insegnate attraverso liste bilingui in cui parole straniere vengono affiancate ai loro equivalenti tradotti.

Reading method

Elaborato negli anni Venti dello scorso secolo, il metodo di sola lettura si presenta come variante al metodo grammaticale-traduttivo. Sebbene condivida alcune caratteristiche del metodo precedente, come l’idea che la conoscenza linguistica implichi conoscenze grammaticali e lessicali e l’utilizzo della L1 come lingua d’insegnamento, questo metodo si concentra sullo sviluppo della sola abilità di lettura e comprensione dei testi senza mediazioni traduttive. Questo comporta una diversa visione della posizione delle lingue straniere moderne nella gerarchia del patrimonio culturale delle persone colte, implicitamente si stabilisce un diverso statuto culturale tra lingue classiche, specchio della logica del pensiero, e lingue moderne, che assumono qui il ruolo di veicolo per la comprensione di testi letterari e/o specialistici.

Per quanto riguarda le tecniche si prediligono sia esercizi di lettura orale in L2; sia attività volte alla stimolazione dell’apprendimento lessicale attraverso esercizi di controllo sul vocabolario e di ripetizione di parole nuove.

Metodo diretto

Con il termine metodo diretto ci si riferisce ad una serie di metodi (metodo riformato, metodo naturale, metodo psicologico) che mettono al centro della didattica il parlare direttamente la L2 senza il ricorso alla L1. È un metodo che nasce come conseguenza della mutata visione dell’insegnamento scolastico delle lingue straniere, che inizia ad essere motivato dalle esigenze pratiche della comunicazione tra paesi diversi e che quindi conferisce l’importanza prioritaria al

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28 parlato rispetto allo scritto. Tutti i metodi diretti si basano sull’assunto che l’apprendimento di una L2 sia tanto più efficace quanto più avviene in maniera naturale. Per favorire l’immersione totale dell’apprendente nel contesto d’uso della lingua da apprendere si cerca di simulare quel contesto all’interno della classe. Per farlo ci si avvale di alcune modalità didattiche che privilegino l’oralità come, ad esempio, la presentazione orale di testi autentici da parte del docente, lettura ad alta voce ed esercizi di dettato per la cura della pronuncia, esercizi di domanda-risposta, fino ad arrivare a brevi composizioni in L2.

Come possiamo vedere, non solo vengono abbandonate le pratiche traduttive, ma anche l’insegnamento grammaticale, poiché si ritiene che la correttezza grammaticale si apprenda inizialmente per imitazione e successivamente in maniera induttiva.

Metodo audio-orale

Nato come reazione al reading method, il metodo audio-orale afferma l’assoluta priorità dell’oralità e di un insegnamento orientato su obiettivi pratico-funzionali. Questo nuovo metodo adotta la prospettiva comportamentista secondo la quale la lingua può essere equiparata ad un comportamento e l’apprendimento linguistico viene visto come l’acquisizione di abitudini comportamentali: il comportamento verbale si integra con i comportamenti non verbali in un circuito di stimoli e risposte. L’apprendimento linguistico avviene tramite l’interazione linguistica con l’ambiente ed è determinato da due fattori: l’imitazione e la memorizzazione. Il processo di apprendimento della L2 viene quindi considerato analogo a quello della L1, tuttavia fenomeni di interferenza possono verificarsi nel momento in cui chi apprende una L2 deve sovrapporre nuove abitudini (i patterns della L2) alle abitudini già acquisite (i patterns della L1). Sebbene l’interferenza rappresenti un ostacolo per l’apprendente, una previsione delle interferenze negative consente all’insegnante di evitare e correggere gli errori di lingua servendosi di appositi esercizi.

Ciò che caratterizza il metodo in questione è la distinzione di quattro abilità linguistiche che verrà adottata anche dai metodi successivi. Le abilità di speaking e listening vengono incentivate per lo sviluppo dell’oralità, considerata prioritaria, mentre quelle relative a writing e reading per la produzione-ricezione della

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29 scrittura. L’insegnamento avviene a partire dall’enunciato, considerato l’unità strutturale di base, per poi acquisire aspetti fonologici, morfologici, sintattici fino ad arrivare alla conoscenza lessicale.

Per quanto concerne le tecniche, il metodo audio-orale introduce esercizi specifici, condotti con l’ausilio del laboratorio linguistico. Si tratta perlopiù di esercizi strutturali di vario tipo, da quelli fondati sul criterio delle coppie minime per l’apprendimento della discriminazione fonetico-fonologica, agli esercizi di tipo sintagmatico, volti alla memorizzazione dei paradigmi morfologici. L’insegnante, non dotato di particolare autonomia didattica, ha lo scopo di guidare l’apprendente lungo questo percorso e di effettuare verifiche sull’apprendimento, evitando ma non escludendo del tutto l’uso della L1.

Metodo audiovisivo

Elaborato presso il CREDIF (Centre de recherche et d’étude pour la diffusion du français), questo metodo presenta similarità col metodo precedente in quanto l’unità di partenza è rappresentata dalla frase sulla quale si costruiscono le conoscenze relative ai diversi livelli di analisi. Tuttavia presenta anche importanti novità. In primo luogo, il contesto comunicativo viene ricreato in classe attraverso l’ausilio di strumenti audiovisivi con i quali vengono simulate autentiche situazioni comunicative che offrono anche la possibilità di conoscere aspetti culturali della L2. In secondo luogo, il metodo rappresenta innovazioni anche sul piano teorico in quanto individua tre stadi di apprendimento linguistico. Il primo consiste in un’iniziale familiarità con la lingua, attraverso la conoscenza di usi linguistici che caratterizzano il parlato quotidiano e informale, il secondo coincide con la capacità di parlare con disinvoltura di argomenti generali, il terzo stadio prevede la capacità di produrre e capire discorsi che si fanno via via più formali e complessi.

Il fatto che questi strumenti audiovisivi vengano percepiti come contenitori di materiali linguistici a partire dai quali è possibile organizzare le unità didattiche, dimostra come le nuove tecnologie possano essere sfruttate efficacemente ai fini della didattica linguistica. Infatti, l’uso di questi programmi audiovisivi garantisce il passaggio da un’iniziale comprensione generica di tipo situazionale alla

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30 decodifica e interiorizzazione di elementi della L2 attraverso attività e tecniche sempre più innovative.

2.3

Metodi e approcci innovativi

Negli ultimi quarant’anni nuovi approcci alla didattica delle lingue si sono sviluppati in un determinato contesto storico. L’aumento delle esigenze di comunicazione tra stati di lingue e culture diverse comporta un crescente interesse nei confronti delle lingue straniere la cui conoscenza ha scopi pratici ben precisi che rispondono ad esigenze diverse che riguardano il lavoro, le interazioni, il commercio ecc. Possiamo dire che il contesto si dirige nella direzione del multiculturalismo e del multilinguismo, che comporta un cambio di prospettiva in ambito glottodidattico. Il mutamento verso obiettivi mirati sulla effettiva possibilità di comunicazione tra individui di lingue diverse conduce inevitabilmente alla problematizzazione del “che cosa” insegnare.

Si sviluppa così una didattica differenziata per fasce d’età, per gruppi di utenti, per base linguistica e per area, che determina la crisi del metodo univoco e globale il quale risulta inaccettabile per le ragioni appena elencate.

Tutto questo ha portato alla parcellizzazione di procedure e tecniche che caratterizzano gli approcci e i metodi didattici a partire dagli anni Settanta i quali, oltre a rifiutare il concetto tradizionale di metodo, si focalizzano su tutti i fattori coinvolti nel processo di acquisizione/apprendimento di una lingua.

2.3.1 Il metodo nozionale-funzionale

Sviluppatosi a partire dagli anni Settanta, il metodo nozionale-funzionale rappresenta una vera svolta in ambito glottodidattico in quanto conferisce grande importanza al concetto di sillabo che nasce dalla necessità di unire una rigida programmazione didattica ad una libertà operativa stimolata dal paradigma comunicativo. Tenendo conto non tanto della grammatica, quanto piuttosto delle funzioni e del lessico della lingua, questo approccio ha come obiettivo principale quello di far raggiungere ai propri apprendenti una certa fluidità linguistica che consenta loro di conseguire i propri scopi comunicativi.

(31)

31 Si sviluppa così il concetto di sillabo nozionale-funzionale, proposto per la prima volta da Wilkins (1976), che si presenta come un elenco di nozioni e di funzioni in grado di riprodurre diversi contesti d’uso comunicativo della lingua. Wilkins distingue tra sillabo nozionale e sillabo funzionale. Mentre il primo, interessato alla comunicazione corretta di certi contenuti, è determinato da criteri semantici ma include anche le funzioni comunicative, quello funzionale tiene conto esclusivamente di quest’ultime e risponde all’esigenza di chi ha l’obiettivo di raggiungere in tempi brevi una competenza di tipo funzionale.

Poiché, come sostiene Halliday (1973), la competenza funzionale gioca un ruolo importante nel raggiungimento di scopi comunicativi, esiste una correlazione tra approccio nozionale-funzionale e approccio comunicativo in quanto, entrambi, condividono lo stesso obiettivo: quello di mettere l’apprendente nelle condizioni di saper utilizzare al più presto la L2 a scopi comunicativi.

Tra i sillabi di tipo nozionale-funzionale, assume particolare importanza il threshold level (livello soglia), il quale, attento alle principali funzioni comunicative, è capace di dare all’apprendente iniziale quella competenza necessaria a sapersi districare nelle varie situazioni d’uso della lingua in un paese straniero. L’insegnamento special purposes, invece, è di tipo nozionale in quanto utilizzato per scopi speciali, ovvero orientato verso registri e usi linguistici specialistici e di settore.

Benché, come già sottolineato, i sillabi nozionali-funzionali apportano novità significanti in campo didattico, rivoluzionando il sistema di insegnamento tradizionale, un uso eccessivo di essi comporta dei rischi in quanto trascura quella complessità che deriva dalla molteplicità delle forme linguistiche proprie di una lingua, finendo così per trasmettere una visione limitativa di essa.

2.3.2 L’approccio lessicale

Per quanto riguarda l’approccio lessicale, non si può parlare di un nuovo metodo glottodidattico, ma di una tendenza che pone lo studio del lessico al centro della prassi didattica. Poiché l’importanza data al lessico non è una novità apportata da questo approccio, vari critici considerano l’approccio lessicale come una variante di quello nozionale-funzionale, di cui si enfatizza la dimensione nozionale. L’approccio lessicale parte dal presupposto che, come fece notare

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