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Intersoggettività in Husserl e Sartre. I limiti del pensiero speculativo nella coscienza dell'Altro.

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Academic year: 2021

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Introduzione

Il mio lavoro nasce dall’interesse sorto a seguito della lettura delle Meditazioni cartesiane, specificamente in relazione alla tematica dell’intersoggettività, affrontata soprattutto nella Quinta meditazione.

Durante il corso di questa tesi emergerà a più riprese la convinzione che nell’approccio alle Meditazioni sia necessario dover tracciare, passo dopo passo, le linee guida da seguire per muoverci in un ambiente che presenta degli inevitabili chiaroscuri, dovuti alla complessità della materia in questione ma soprattutto al tipo di indagine, quella fenomenologica, che Husserl fonda e, contemporaneamente, utilizza. Sarà dunque necessario restare bene ancorati alle premesse portanti dell’indagine husserliana perché solo in questo modo è possibile comprendere il senso di ciò che si trova, ma anche motivare il sorgere di alcuni interrogativi e perplessità, che mostrerò attraverso la critica sartiana in L’essere e il nulla.

Edite nel 1931, le Meditazioni nascono, sulla scia del lavoro di Cartesio, con l’urgenza di riformare la filosofia «[…] in direzione di una scienza di fondazione assoluta»1. Al di là del richiamo esplicito alle premesse del filosofo francese, non sono poche le diversità riscontrabili fra i due lavori, nello svolgimento e nella realizzazione del fine prefissato.

Nello smarrimento scettico propedeutico all’allontanamento dall’evidenza ingenua, Husserl riprende l’argomentazione cartesiana che conduce all’evidenza dell’ego cogito, ma con differenti obiettivi di ricerca: se Cartesio intende trovare una certezza dalla quale dedurre l’intero edificio del sapere, Husserl contrappone alla deduzione la descrizione come metodo filosofico, perché intende descrivere la genesi e l’articolazione dei concetti a partire dal loro apparire:

L’esperienza dei fatti della coscienza è l’origine di tutte le nozioni che si possono legittimamente impiegare. La descrizione – ed è questa la pretesa eccezionale con cui essa rivendica la sua dignità filosofica – non ricorre ad alcuna nozione, preliminarmente isolata e che si pretenda necessaria alla descrizione. Così, in Descartes, la descrizione del cogito […] ammette, in fin dei conti, il suo riferimento all’idea dell’infinito e della perfezione: l’idea della perfezione,

1HUSSERL, Edmund,Meditazioni cartesiane (1931), traduzione di Andrea Altobrando,

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data anticipatamente, rende possibile la descrizione della finitezza. La descrizione fenomenologica cerca il significato del finito nel finito2.

L’errore che individua Husserl nel lavoro del filosofo francese è quello di aver presupposto l’ideale scientifico della geometria come scienza matematica della natura, il che determina «[…] come un pregiudizio fatale i secoli seguenti, così come ha determinato, senza vaglio critico, le stesse Meditazioni» (Husserl, M.C., p.42). Pertanto, la prima cosa che si ripromette Husserl è proprio quella di non dare per dato né per valido alcun ideale scientifico, ma di rifondare la scienza ex novo: posto come obiettivo la rifondazione della scienza, Husserl in un primo momento non presuppone alcuna scienza data.

Un primo focus si aprirà con la messa in luce dei differenti risultati ai quali giungono i due filosofi: l’ego cogito per Cartesio; l’apertura di una sfera d’esperienza trascendentale per Husserl. All’interno di questo quadro di ricerca, ho intenzione di osservare le modalità attraverso le quali la coscienza solipsisitica, individuata mediante l’astrazione metodologica dell’epochè, giunge alla formazione del senso dell’Altro ponendo particolare attenzione, nella prima parte della mia analisi, al ruolo che riveste il corpo in queste dinamiche.

A tale scopo, inizierò col ripercorrere le fasi della teoria dell’empatia husserliana per poi confrontarle con le recenti scoperte neuroscientifiche nel campo dell’alterità, approfondendo, nello specifico, nascita, caratteristiche e funzioni dei neuroni specchio, attraverso una panoramica che ripercorre gli studi del gruppo di ricerca parmense di Fogassi, Gallese e Rizzolatti. Riprenderò pertanto la scoperta del sistema specchio mostrando le attese della scienza nei suoi confronti ed evidenziando le difficoltà resistite alle precedenti teorie della mente che i neuroni specchio sembrano ovviare.

Lo studio comparato con le Meditazioni mi permetterà di descrivere i risultati ai quali giungono le due ricerche evidenziando i punti di contatto e le divergenze, le numerose incomprensioni sorte da una riflessione sulle due teorie condotta in maniera non contestualizzata, che ha tenuto poco conto della dimostrabilità.

Porterò all’attenzione il fatto che sia il processo dell’accoppiamento, sia le dinamiche neuronali del sistema specchio sono meccanismi non ragionati, non discorsivi, che pertanto non dipendono dall’azione attiva dei soggetti. Sarà possibile notare che il

2LÉVINAS, Emmanuel, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (1949), traduzione di

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primissimo passo per l’accesso all’altro, quello che consiste nella riconosciuta motivazione delle azioni più elementari, è indipendente dall’apparato sociale, storico e culturale che influenza solo in un secondo momento le dinamiche fra soggetti e un più complesso apparato relazionale. A tal proposito, sulla base della proposta di Gallese, mostrerò la continuità che sussiste fra la teoria dell’empatia husserliana e la “consonanza intenzionale” come processo di risonanza interindividuale la cui base neurocognitiva viene fornita dal sistema specchio.

Così, emergerà che il sistema specchio, per quanto fondamentale nel riconoscimento dell’altro, non è sufficiente, di per sé, a tradurre l’alterità nella sua totalità e compiutezza in quanto l’evidenza neurofisiologica, da sola, non è in grado di rendere interamente conto dello scarto relativo ai caratteri strutturali del vissuto, ma costituisce soltanto un primissimo elemento fra quelli necessari per l’avvicinamento agli altri. Quello che il sistema specchio sembrerebbe rendere è una forma diretta, ma anche assolutamente elementare, di comprensione degli altri che non dipende in alcun modo dalla riflessione o dal ragionamento discorsivo, ma che viene viceversa a innescarsi in maniera automatica, senza il coinvolgimento di alcuna funzione attiva da parte del soggetto:

«Definendo il meccanismo specchio in termini di riutilizzo di stati mentali, la simulazione incarnata fa riferimento alla somiglianza intrapersonale, o corrispondenza, tra il proprio stato mentale quando si esegue un’azione o si esperisce un’emozione o una sensazione, e quando osserviamo le azioni, le emozioni e le sensazioni degli altri»3

Sempre di retaggio neuroscientifico, presenterò i concetti di coscienza in prima e in terza persona, per evidenziare di quale coscienza possa occuparsi la scienza; se col primo termine si indica una coscienza oggettiva, misurabile e rilevabile, traducibile con le dinamiche dei neuroni specchio, con il secondo termine si allude alla coscienza soggettiva, in prima persona, individuale e qualitativa, in relazione alla quale si esclude la possibilità di una conoscenza diretta.

Parlare di coscienza in prima persona mi permetterà di fare un paragone con la sfera primordinale della teoria entropatica, e mostrare il nucleo originario che a detta di Husserl rende possibile la relazione.

3AMMANITI Massimo, GALLESE Vittorio, La nascita dell’intersoggettività: lo sviluppo del

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L’ultimo discorso a interessare il campo neuroscientifico svilupperà l’interrogativo circa la possibilità di acquisire coscienza di sé indipendentemente dalla coscienza d’altri. A tale riguardo sosterrò la necessità del sistema specchio nella formazione di una coscienza di sé ben strutturata e completa, e ripresenterò il caso dell’autismo come controprova alle mie affermazioni; l’obiettivo è quello di dimostrare che una nozione standard di “coscienza di sé”, quella ascritta alla sfera della normalità e sanità psicofisica, non può prescindere dal possedere la coscienza dell’altro.

Poter presentare elementi di continuità fra la teoria husserliana e il sistema specchio mette in evidenza l’incredibile lungimiranza delle analisi delle Meditazioni, nonché la portata rivoluzionaria della scienza fenomenologica che presenta una struttura veramente corrispondente all’obiettivo presentato da Husserl durante le conferenze del 23 e 25 febbraio 1929 a Parigi, ovvero quella di un edificio del sapere totalmente rifondato, all’interno del quale si realizzi l’unità universale delle scienze nell’unità di una fondazione razionale assoluta.

A supporto di questa idea, e con l’obiettivo di mostrare perché la teoria dell’intersoggettività husserliana sia così poco “attaccabile”, analizzerò la critica sorta in risposta alle analisi di Husserl, riprendendo le fasi e le caratteristiche del processo empatico quale comprensione delle intenzioni altrui. Mi soffermerò principalmente sull’entropatia, intesa come processo intenzionale attraverso il quale avviene la costituzione stessa dell’altro, nonché come precondizione della comprensione empatica e il primo momento della stessa.

Utilizzerò la critica sartiana che si interroga sulla possibilità, all’interno dell’impianto fenomenologico presentato nelle Meditazioni, di raggiungere un’alterità che sia totalmente autonoma e indipendente, pienamente svincolata dal soggetto che la intenziona. L’urgenza di spiegare come sia possibile che all’interno del mio flusso di coscienza si formi una coscienza che sia veramente altra da me appartiene allo stesso Husserl, perché sulle prime tutto si costituisce all’interno di questa mia coscienza, compreso l’altro soggetto che può essere qualcosa per me solo come mia formazione sintetica:

Come può ciò che per me esiste realmente, dunque non in quanto meramente inteso, bensì che si attesta in modo concorde in me, essere in altro modo che, per così dire, come punto d’incrocio della mia sintesi costitutiva? È dunque, in quanto concretamente inscindibile da essa, qualcosa di mio proprio? (Husserl, Meditazioni Cartesiane, p.144).

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Pertanto, allo scopo di mostrare la liceità di questa difficoltà, aprirò una parentesi all’interno della quale affronterò le caratteristiche dell’ego trascendentale che lo rendono l’assoluto creatore di tutto ciò che comprende e di ciò che in definitiva è. Chiarirò quindi il concetto di intenzionalità e del significato che assume nella fenomenologia trascendentale per poi condurre una problematizzazione dello scopo che motiva il lavoro di Husserl: fondare una scienza filosofica che, a partire dai fenomeni, descriva i processi tali a porre un mondo esistente in sé e metta in luce la legittimità con la quale questo mondo in sé viene posto.

In opposizione allo studio di Husserl, porterò la riflessione sull’altro che emerge in L’essere e il nulla, la quale mira a individuare un’alterità completamente svincolata dalle intenzioni, dal senso e dalla conoscenza più in generale, in quanto l’altro viene indagato a partire dal sentire e dal vivere.

Se Husserl àncora la propria analisi al terreno dell’esperienza, Sartre si concentra sul cogito, e cerca l’Altro nella struttura stessa della coscienza di me, facendone un’esperienza interiore; e se la domanda dalla quale prende avvio l’indagine husserliana è “Come si manifesta l’Altro?”, l’interrogativo dal quale muove Sartre è “Che cos’è l’Altro?”, il che esclude, immediatamente, la posizione di un problema che possa riguardare le condizioni di possibilità e la fondazione di validità di questa esperienza. Emergerà pertanto l’idea secondo cui l’altro si assume in due modalità che non si ascrivono alla sfera della verità o della falsità, ma che si escludono vicendevolmente: l’Altro come oggetto e l’Altro come soggetto. Sartre è pertanto convinto della necessità di uno studio rivolto al corpo fisico e alle relazioni interpersonali mondane, ma esclude fin dal primo momento che questa riflessione possa condurre a discoprire ciò che l’alterità propriamente è. La relazione con l’altro come soggetto verrà affrontata attraverso i concetti di sguardo e di vergogna, con la relativa dinamica del guardare e dell’essere guardati e la costante sensazione di pericolo sempre associata alla struttura dell’essere-per-altri. Si noterà che il rapporto che si instaura fra l’io e l’altro è sempre un rapporto che coinvolge, vicendevolmente, un soggetto e un oggetto, e che i due termini che entrano in contatto non si trovano mai a relazionarsi contemporaneamente come due soggetti o due oggetti. A questo riguardo, si aprirà il quadro di disparità e sopraffazione, di paura e mancato riconoscimento, di espropriazione e mutismo che comporta la relazione degli individui empirici nel mondo.

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Pur condividendo entrambi il concetto di un altro quale trascendenza, che denuncia l’idea di un’alterità irriducibile alle relazioni mondane intrecciate con gli altri, per Husserl si tratta di trascendenza nell’immanenza, mentre per Sarte di trascendenza trascesa. Affermare che l’altro è trascendenza nell’immanenza, significa circoscrivere una parte dell’altro che inevitabilmente mi sfugge, nonostante i tentativi di girarle intorno. Come per l’intenzionalità diretta agli oggetti, per ogni lato che viene esperito ce ne sono sempre altri che si sottraggono al mio sguardo, ed è a questo che Husserl si riferisce quando afferma che la cosa è sempre un di più rispetto a ciò che si dà. Tuttavia, a differenza della cosa, a cui potenzialmente posso girare completamente intorno, l’intenzionalità rivolta all’altro è destinata a scontrarsi con un lato che non mi è dato esperire; ciò che dell’altro sfugge alla mia possibilità di intenzionarlo è la sua sfera primordiale, residuo dell’esclusione astrattiva di tutto ciò che mi è estraneo rispetto al senso. Si discopre così il mio carattere essenziale di essere interamente per me, quel carattere irripetibile che appartiene a ogni individuo in carne e ossa e che è non può essere dato originariamente a nessun altro. Se la caratteristica della cosa è dunque questo aspetto del darsi, la caratteristica dell’altro, che essenzialmente lo rende un estraneo, è proprio questa sfera ultima che sfugge alla mia intenzionalità.

Partendo dall’assunto che il luogo dell’altro è «[…] accanto alla coscienza, come una coscienza in cui e per cui la coscienza si fa essere ciò che è»4, Sartre intende che la trascendenza dell’altro è trascendenza rispetto al mondo. L’errore di Husserl sarebbe stato quello di cercare un legame con l’altro all’interno della conoscenza, così che la trascendenza dell’altro rispetto a me è l’inaccessibilità, per le mie intenzioni, della sua sfera d’interiorità, così come, reciprocamente, la mia sfera primordinale risulta inaccessibile per le sue.Sebbene Sarte riconosca che Husserl è stato in grado di cogliere il significato dei fenomeni psichici grazie al concetto di intenzionalità, egli ritiene che il rapporto fondamentale tra la coscienza e il mondo non sia un rapporto conoscitivo. Nella speculazione sartriana infatti, la trascendenza dell’Altro non emerge dalla dinamica fra l’intenzionalità a lui diretta e la sfera dell’interiorità che non può essere intenzionata; l’Altro è trascendenza perché in quanto sguardo-che-guarda è fuori dal mondo e, come tale, neppure l’epochè trascendentale può metterlo fuori circuito. Perché l’altro possa

4SARTRE, Jean-Paul, L’essere e il nulla (1943), traduzione di Giuseppe Del Bo, Milano: il

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essere veramente altro, è infatti escluso che lo si intenzioni, in quanto la conoscenza è subitanea reificazione e tematizzazione.

Dato ciò, la differenza principale fra Husserl e Sartre in relazione all’indagine dell’alterità sembra essere costituita dalla sfera a cui si rivolgono nella ricerca dell’estraneo: per il primo, si tratta della sfera della conoscenza, caratterizzata dal senso e dalle intenzioni; per il secondo, si tratta della sfera emozionale e sentimentale, dove l’altro è sentito come sguardo che incombe su di sé; e indubbiamente la prima linea di demarcazione fra le Meditazioni e L’essere e il nulla appare essere questa. Andando oltre questa osservazione, voglio dimostrare che ciò che in primis manca a Sartre è un’idea di coscienza come sintesi temporale, come coscienza temporalmente costituente e costituita, e che questo gli impedisce di comprendere che l’alterità originaria con cui la coscienza husserliana si relaziona è ascritta alla coscienza stessa, e che è in virtù di questa alterità che la coscienza può rapportarsi con ogni altra alterità che è al di fuori. Pertanto, anche la relazione husserliana con l’alterità, sebbene emerga e si concretizzi nel mondo e nella conoscenza, ha le sue premesse e condizioni di possibilità nella stessa coscienza intenzionale.

Dallo studio condotto in parallelo fra il pensiero di Husserl e Sartre emergeranno delle profonde inconciliabilità: ogni volta in cui i due autori sembrano avvicinarsi, finiscono per allontanarsi in maniera sempre un po' più netta, e al di là della divergenza di pensiero che li divide come filosofi, sono convinta che un diverso “spirito” li divida come uomini, e che dalle loro pagine questo spirito emerga chiaramente.

Un’ultima riflessione mira a chiarire il titolo del presente lavoro che a seguito di queste analisi, e dei meriti riconosciuti alla fenomenologia, risulta persino contraddittorio.

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I cap.

Analisi dell’alterità nella Quinta Meditazione

1.1 Alcune premesse: il concetto di intenzionalità; le caratteristiche e gli obiettivi di indagine della fenomenologia husserliana; panoramica generale sulla coscienza

Già dalle battute di apertura della Quinta Meditazione, le quali presentano la contrapposizione fra l’esperienza dell’estraneo e l’obiezione di solipsismo, si capisce che l’obiettivo fissato, ovvero l’indagine della soggettività estranea, apre la strada a preventivi problemi da risolvere, primo fra tutti quello di comprendere l’altro alla luce di una coscienza che, ridotta alla propria sfera di appartenenza, è una coscienza solitaria, formatrice di se stessa e della realtà circostante.

Non sono state poche le voci alzatesi contro il solipsismo dell’ego trascendentalmente ridotto, ma sono del parere che uno sguardo attento sulle Meditazioni riveli sì, la difficoltà di recuperare la coscienza dell’estraneo una volta messa fuori gioco, ma certo non affermi la possibilità di una coscienza che potrebbe prescindere dall’altro per formare integralmente se stessa e il mondo circostante.

Con l’idea di riprendere il problema del solipsismo in un secondo momento, intendo ora analizzare il concetto di intenzionalità che emerge dalle Meditazioni con lo scopo di mostrare che sulla base di tale caratteristica essenziale della coscienza può risultare complesso fare emergere un’alterità che sia assolutamente autonoma e indipendente e non un mero prodotto della coscienza intenzionale, la quale sembra costruire l’altro sulla base di se stessa, come copia di sé.

Si parla di relazione intersoggettiva laddove io sono in rapporto con uno come me, il quale tuttavia non è me, che riconosco dotato di una mente alla quale io non ho accesso. L’obiettivo della fenomenologia husserliana è quello di indagare le strutture essenziali, a priori e invariabili, che permettono l’esperienza dell’estraneo, e pertanto essa mira a mettere in luce le formazioni intenzionali attraverso le quali la soggettività trascendentale forma l’alter ego, dunque non i casi particolari in cui questo avviene o la particolare coscienza individuale che ne permette l’avvenimento. Già mediante il lessico ora utilizzato, riscontriamo la forza del problema che sta alla base di questa ricerca, perché è evidente che la fenomenologia husserliana muova dal punto di vista della soggettività intenzionante, come è evidente che l’alter ego, per poter effettivamente essere tale, debba sciogliersi e dichiararsi indipendente da questo punto di vista, che è anche il punto di partenza, dal quale scaturisce.

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Ma vado con ordine.

Non senza sostanziali modifiche, Husserl riprende l’idea di intenzionalità dalle speculazioni di Franz Brentano (1917), che attraverso questo concetto aveva definito la caratteristica fondamentale dei fenomeni psichici.

Con l’intenzionalità, si vuole affermare che il soggetto intenziona gli oggetti nella misura in cui l’oggetto si caratterizza sulla base della struttura del pensiero, il quale si orienta attorno a un polo di identità da esso stesso posto.

Le conseguenze speculative che comporta adottare questa visone si rivelano tuttavia differenti per Husserl e per Brentano, e comportano per i due pensatori conclusioni profondamente discordanti.

L’idea di Brentano è che le cose siano ed esistano solo come correlati di una coscienza intenzionale, la quale provvede a una vera e propria costruzione dell’oggetto. Di conseguenza, non sembra sbagliato affermare che la qualifica dell’oggetto da parte del soggetto derivi dal modo in cui gli occhi del primo si posano sul secondo, ovvero infondendovi quelle caratteristiche che sono, in primis, il modo di guardare di colui che si rivolge all’oggetto.

Se la filosofia medievale faceva dell’oggetto mentale il duplicato coscienziale di quello reale, la dicotomia fra spirito e realtà non ha ulteriore collocazione nel quadro filosofico di Brentano, ma sarebbe difficile affermare che l’oggetto non viene ad assumere quei colori che il soggetto è in grado di vedere e, ancora più radicalmente, che l’oggetto non subisce una sorta di plasmazione mentale. La coppia soggetto/oggetto, la cui dicotomia non trova ulteriore affermazione, vede ora nell’oggetto il “contenuto della coscienza”, così che l’universo del reale è ricondotto a un costrutto mentale: gli oggetti sono per come li intendiamo.

La posizione assunta dalla psicologia descrittiva lega l’esistenza degli oggetti a un evento mentale, affermando pertanto che ogni conoscenza dipende dal soggetto conoscente. Da qui il relativismo scettico, con l’affermazione della non esistenza di alcuna verità basata sulla convinzione che esistono solo dei punti di vista, determinati da differenti costituzioni di fatto: «Ciò cui siamo condotti è cioè un vero e proprio scetticismo circa le capacità della ragione di accedere al reale […] Di qui, a partire dal 1906, l’emergere di una nuova istanza nel pensiero di Husserl: dare ragione dell’accesso della coscienza al reale e all’oggettività in generale»5.

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Il concetto di intenzionalità sviluppato da Husserl assume dunque connotazioni diverse da quello di Brentano e apre una sfera di problemi per la cui insorgenza non erano finora state poste le basi. Oltre alla nascita di problemi e interrogativi nuovi, si assiste al mutare radicale dello stesso significato di verità, finora riconosciuta tale solo all’interno di una ben determinata costituzione psichica, perché l’attenzione era rivolta ai contenuti psichici concreti di un individuo, e a quelle regole che stabilivano il funzionamento di una concreta psiche umana. L’impianto fenomenologico, al contrario, si rivolge alla coscienza e ai suoi vissuti, come sfera di assoluta evidenza che esclude la possibilità del dubbio; il fenomeno è indubitabile perché malgrado io possa ingannarmi sull’esistenza di ciò che vedo, non posso ingannarmi sul fatto che lo sto vedendo.

Lo scenario che apre la fenomenologia husserliana è essenzialmente nuovo, e si caratterizza attraverso i concetti di descrizione, di manifestatività, di soggettività intenzionale ed esperienza trascendentale che affronterò nel mio procedere, perché attraverso di questi sarà possibile spiegare il lavoro di Husserl fin dalle sue premesse e valutarne i risultati.

Prima di tutto, questa affermazione:

[…] resta il fatto che se vi è una caratteristica dell’impostazione fenomenologica, che inerisce all’idea stessa di intenzionalità, questa consiste nell’idea secondo cui gli oggetti, il mondo e gli altri non sono nella nostra mente, ma sono ciò verso cui la mente si dirige. A caratterizzare l’impostazione fenomenologica è, infatti, l’idea secondo cui il modo di apparire degli oggetti di esperienza non può essere ricondotto o ridotto a come è fatta la nostra mente6.

Attraverso la nozione di intenzionalità, Husserl definisce l’essere come “rivelazione”, e identifica l’essenza dell’essere con la sua verità. Ciò che dunque caratterizza la coscienza è l’essere tesa, diretta all’oggetto, costantemente interessata e indirizzata; una coscienza orientata al riempimento delle sue intenzioni.

Malgrado i numerosi modi di intendere le cose, la coscienza è, sempre, coscienza “di” qualcosa:

Universale resta comunque per qualunque tipo di coscienza in generale il fatto che sia coscienza di qualcosa. Questo qualcosa, l’“oggetto intenzionale in quanto tale” che è dato di volta

6COSTA, Vincenzo, Fenomelogia dell’intersoggettività: Empatia, socialità, cultura, Roma:

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in volta in essa, è cosciente in quanto unità identica di modalità di coscienza noetico-noematiche mutevoli, siano esse intuitive o non-intuitive» (Husserl, M.C., p.75).

E ancora, a pagina 67, si legge: «I vissuti di coscienza si chiamano anche intenzionali, col che però la parola intenzionalità non significa altro che questa caratteristica fondamentale della coscienza di essere coscienza di qualche cosa, di portare in sé, in quanto cogito, il suo cogitatum».

Questo significa, prima di tutto, che «Ogni coscienza – Husserl lo ha dimostrato – è coscienza di qualche cosa. Ciò significa che non c’è coscienza che non sia posizione di un oggetto trascendente o, se si vuole, che la coscienza non ha <contenuto>» (Sartre, Ibid., p28).

Cade la visione della cosa come fenomeno che rimanda a un noumeno, e così la distanza frapposta fra la coscienza e l’oggetto, fra la coscienza e il “vero essere in se stesso” delle cose. Di conseguenza, cadono le basi necessarie a poter parlare di un soggetto che sia osservatore esterno frapposto tra due universi; quello del vero essere, al di fuori della coscienza, e quello dell’ego, che si limita a osservare il fenomeno. Intenzionando le cose introno a sé, il soggetto le rende oggetti per la coscienza, attraverso la stesura di un mondo di significati e di qualificazioni che danno concretezza alla sua esistenza.

Più di un contributo a chiarimento del rapporto soggetto-oggetto coinvolti nella relazione intenzionale lo si trova in Idee II:

L’io è sempre soggetto di intenzionalità, e ciò implica che un noema e un oggetto normativo vengono costituiti nell’immanenza («appercezione»), che un oggetto viene presentato alla coscienza, e specialmente: che un oggetto posto come essente, presente nel suo «come» alla coscienza, stabilisce una relazione «intenzionale», intenzionale in un senso nuovo, col soggetto: il soggetto assume un certo comportamento nei confronti dell’oggetto, e l’oggetto stimola, motiva il soggetto7.

Nell’esperienza dell’interessamento, ci si appropria degli oggetti, si penetra in essi, ma non è questa l’unica dinamica che si istaura perché, contemporaneamente, il soggetto viene attratto, interessato e stimolato dall’oggetto.

7Husserl, Edmund, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro

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L’esposizione del nuovo quadro filosofico introdotto da Husserl attraverso la nozione di intenzionalità fa cadere i vecchi preconcetti della filosofia classica che neppure Cartesio era riuscito a eliminare del tutto. Viene cancellata l’opposizione fra reale e mentale, fra fenomeno e noumeno ma, ancora prima, è stato possibile eliminare la domanda stessa sul noumeno e sul suo valor d’essere, introducendo un concetto di coscienza che eleva il fenomeno dall’essere “l’oggetto per come appare” a costituire “la descrizione di qualcosa di essenziale”.

Così movendo, si è cessato di parlare della percezione associandola alla relatività, perché essa viene a ridefinirsi come il “modo di manifestarsi delle cose”.

Come scrive Vincenzo Costa nelle pagine introduttive di Filosofia prima, il fenomeno perde il suo significato di copia dell’oggetto, e viene inteso come la sua pura e semplice manifestazione. In questo modo, allo stesso tempo, il vero essere della cosa non è una realtà metafisica ma sempre un senso, il che rimanda in ultima istanza alla soggettività che fa esperienza: la soggettività è il luogo stesso della manifestatività.

L’attenzione rivolta all’atto soggettivo è dovuta al fatto che gli eventi mentali sono le condizioni soggettive necessarie al manifestarsi di un senso, ed è a partire dalla necessità interna al modo di apparire che dobbiamo di rimando studiare la necessità psicologica. Non viceversa.

Dato ciò, se la domanda della psicologia suona come “Perché pensiamo così?”, quella della fenomenologia si profila la stessa solo dopo avere indagato la struttura interna al modo di apparire di dato oggetto, data legge matematica, e così a seguire.

Un’analisi fenomenologica non tenderà quindi a evidenziare quali soggetti empirici siano in grado, materialmente, di accedere alle verità matematiche, bensì a precisare attraverso quali atti, necessari, un’oggettualità matematica possa venire compresa. Che li si comprenda o meno, o che si sia più o meno in grado di spiegarli, i numeri primi sono sempre gli stessi, e tutto ciò che possiamo fare è indicare le sintesi intenzionali attraverso le quali portarli a emergere.

Ogni sintesi, ogni oggettità, ogni valore d’essere e ogni essere stesso scorrono all’interno della coscienza che illumina, profilo dopo profilo, ogni elemento sottoposto al suo sguardo, e questo significa che il peso della coscienza non è misurato in termini di realtà, ma che la coscienza significa, propriamente, attraverso l’intenzione che racchiude.

Il senso in cui la coscienza intenziona l’oggetto non è dato una volta per tutte, ma vediamo aprirsi una molteplicità di variabili e istaurarsi plurimi orizzonti, plurime luci che rischiarano, in modo diverso, la stessa cosa. Tutto questo non sta a significare,

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naturalmente, che non è necessaria la corrispondenza fra intenzione e oggetto, anche perché, in tal caso, ci ritroveremmo con un pugno di intenzioni vuote (che, come tali, neppure potrebbero dirsi intenzioni), ma anzi l’accento viene posto, esattamente, sulla caratteristica descrittiva degli atti intenzionali: «Quindi il rispettivo cogito non è cosciente del proprio cogitatum in un vuoto indistinto, bensì in una struttura descrittiva di molteplicità relativa a un ben preciso edificio noetico-noematico che appartiene essenzialmente proprio a questo identico cogitatum» (Husserl, M.C., p.75).

Il modo attraverso il quale l’oggetto appare alla coscienza, ovvero secondo profili, lati, porzioni che via via si palesano allo sguardo del soggetto intenzionante, non dipende dalle caratteristiche di visione della coscienza, ma da come l’oggetto le si dà; poco per volta:

Forse, la concezione secondo la quale ogni categoria di oggetti ha un suo tipo particolare di evidenza che non deriva dalla costituzione empirica del nostro spirito, ma dalla struttura propria al suo oggetto, è stata una delle concezioni più feconde apportate da Husserl, e in ogni caso, una delle caratteristiche della fenomenologia8.

Il mondo è pertanto già strutturato, e la fenomenologia non deve far altro che portare alla luce questa strutturazione.

Necessario è definire l’oggetto intenzionato come ciò che stabilisce la regola universale per una possibile coscienza che lo intenziona, ma allo stesso tempo si deve affermare che il mondo risulta costituito dal soggetto come opera della sua evidenza. Questo significa che il senso di cui l’oggetto viene investito è posto come esistente, e che tale oggetto non potrebbe essere dato in un pensiero con una deversa natura.

Di conseguenza, la coscienza è il fenomeno stesso del senso, e lo scarto maggiore rispetto alla psicologia descrittiva consiste nell’aver riconosciuto che la coscienza è dotata di pensiero e che l’oggetto del pensiero non deve essere compreso nella sua astrazione, ma nella sua natura di senso; esso è il polo di una sintesi di identificazioni operate dalla coscienza:

La conoscenza non si compie, o meglio, non trova il proprio fondamento nel fatto di stabilire un principio generale che la spieghi; essa risiede invece nel fatto di chiarire il proprio senso e nella descrizione della vita psichica che lo anima. È una fenomenologia il cui ideale non

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consiste più nella spiegazione del fatto, sempre ingenua, ma nel chiarimento del senso che è il modo filosofico della coscienza9.

La conclusione che deriva dalle premesse appena poste è che la coscienza si definisce con la coincidenza temporale fra contenente e contenuto, ed è possibile individuare una pluralità di sensi dell’oggetto, corrispettiva alla molteplicità delle intenzioni che lo hanno preso di mira.

Indicando con il termine “identificazione” la forma fondamentale delle sintesi, è possibile spiegare come si possa parlare, in relazione allo stesso oggetto, di una molteplicità di sensi, di una molteplicità di intenzioni e di atti coscienziali nonostante la coscienza, in ultima istanza, sia una sola.

Questo accade perché lo stesso oggetto, ossia lo stesso livello di coscienza può allo stesso tempo essere cosciente in modalità di coscienza separate (sotto forma di ricordo, valutazione, aspettazione, etc.), che sono unificate nell’intero flusso coscienziale che è l’intera vita di coscienza.

L’attività sintetica, dunque, non opera solo in relazione ai singoli vissuti, ma l’intera vita di coscienza è unificata sinteticamente. Segue da queste posizioni che con “identificazione” si definisce la «sintesi onnipervasiva che prosegue passivamente nella forma della continua coscienza interna del tempo» (Husserl, M.C, p.76), cosa che consente di definire il concetto di “temporalità interna” come la forma temporale dei cogitata (che appunto non sono una penna o un dado, bensì la percezione della penna, il desiderio, il ricordo del dado…).

Gli oggetti pertanto, si trovano nella coscienza in un senso ben specifico, in quanto continuativamente immanenti a questa che scorre. Nella coscienza si costituisce l’unità degli oggetti intenzionali dalla molteplicità delle loro manifestazioni; è una sintesi che produce la coscienza di identità come una coscienza unitaria che agisce sui vissuti distinti, e la sintesi si determina nel tempo.

Naturalmente il concetto di sintesi temporale presentato, come in definitiva tutte le analisi delle Meditazioni sono analisi statiche, ha un valore di tipo descrittivo, e non deve essere inteso nel senso della successione temporale di una genesi.

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In definitiva quindi, le premesse poste individuano un cogito universale che al suo interno comprende tutti i singoli vissuti di coscienza, tutte le sintesi intenzionali, i molteplici e diversificati cogitata particularia.

Il nucleo centrale attorno al quale si articola la ricerca husserliana individua pertanto l’assoluta evidenza degli oggetti reali come mera idea: «[…] il problema è invece quello di illustrare la struttura dell’essenza di quella evidenza stessa, o meglio la struttura essenziale delle dimensioni di infinità che costituiscono in modo sistematico la sua sintesi ideale infinita, secondo tutte le strutture interne» (Husserl, M.C., p.89).

Quello che resta, come fondo indubitabile e necessario, è l’ego cogito che Cartesio aveva trattato come un assioma apodittico fondamentale, il quale forniva la base di una scienza deduttiva che procedeva dai principi innati dell’ego alla dimostrazione dell’esistenza del mondo.

A differenza di Cartesio, che a detta di Husserl non coglie a pieno quello che è il significato della soggettività trascendentale, questi giunge a definire l’esperienza di sé fenomenologico-trascendentale a seguito della riduzione dell’io naturale umano e del vivere psichico:

Il mondo oggettivo, che per me è, era, sarà e che sempre potrà essere con tutti i suoi oggetti, attinge, come dicevo, il suo senso intero e il suo valor d’essere, quello ch’esso ha per me, da me stesso, da me in quanto io trascendentale, quell’io che primo emerse dalla epochè fenomenologico-trascendentale (Husserl, M.C., p.58).

Il fondamento scoperto mediante l’epochè non è l’“io sono”, ma il continuum dell’esperienza trascendentale di sé; ciò che determina la svolta delle conclusioni husserliane è che l’epochè fenomenologica presenta una sfera infinita d’essere di un nuovo genere, ossia di esperienza trascendentale.

L’approdo alla certezza del mondo esterno non è presente nelle speculazioni husserliane, perché dell’esistenza del mondo si può sempre dubitare. Ciò che infatti rimane indubbio è il mondo in quanto vissuto, come atto di coscienza, mentre l’esistenza del mondo non è apodittica.

Il campo della fenomenologia è costituito dalla coscienza e dai suoi vissuti, e vorrebbe dimostrare che ciò che ci permette di porre un mondo esistente in sé è la maniera stessa in cui i vissuti si danno alla coscienza, mentre la credenza relativa a un mondo

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esistente in sé senza alcun riferimento alla soggettività è riservata all’atteggiamento ingenuo, detto “naturale”.

Il processo d’indagine intrapreso da Husserl non consiste nell’avere a che fare con «[…] conclusioni insensate da una immanenza presunta a una trascendenza presunta, come la trascendenza relativa a quali che siano cose in sé che si presumono ignote per principio» (Husserl, M.C., p.108), bensì con le operazioni della coscienza quali operazioni intenzionali.

La modalità attraverso la quale l’ego si rapporta al mondo viene a delinearsi in termini di “sistema”, e ogni cosa dell’ego che questo pensa, valuta, ricorda, desidera, è da intendersi come correlata a un sistema dell’ego e solo come tale essa esiste: «È quindi una proprietà essenziale dell’ego avere costantemente sistemi, inclusi sistemi di concordanza, dell’intenzionalità, che in parte si sviluppano al suo interno, in parte stanno a disposizione come potenzialità permanenti che possono essere svelate in virtù di orizzonti predelineati» (Husserl, M.C., pp.101-102).

L’indagine del soggetto che Husserl effettua è l’analisi di soggetti egologici che indagano sul proprio indagare.

Il senso e il fine dell’epochè fenomenologica come messa fra parentesi degli assunti conseguiti nel vivere naturale e, in definitiva, del mondo, è quella di comprendere le modalità attraverso le quali la coscienza esperisce tutto ciò che la circonda e se stessa. Per tanto, l’obiettivo che motiva l’andamento di ricerca fenomenologico, chiunque sia il filosofo che intende perseguirlo, non è quello di aderire a un corpus di proposizioni date, ma quello di affrontare le questioni in un determinato modo.

Perseguire uno studio fenomenologicamente orientato non significa seguire determinate regole, ma assumere un atteggiamento radicalmente differente da quello del vivere e dell’esperire naturale.

L’analisi da intraprendere deve partire da una vera e propria depurazione di tutto il pensare e l’agire sulla base di considerazioni e conclusioni non messe in discussione e, in definitiva, non messe fra parentesi.

La riflessione naturale della vita quotidiana, ma anche della scienza psicologica, è una riflessione sul piano del mondo già dato come esistente, e ciò che manca nell’indagine avviata da queste discipline è esattamente un punto di partenza che possa dichiararsi scevro da errori e ingenuità di fondo. Questo perché riflettere naturalmente sulle cose significa riflettere direttamente su di esse, senza riflettere sul fatto e sul modo in cui avviene la riflessione, ovvero in mancanza di un previo controllo del modus operandi.

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La situazione che si delinea nella riflessione naturale è dunque quella di una percezione ingenua che avviene in una sorta di “dimenticanza di me”, nella quale non sono consapevole di essere diretto all’oggetto che sto esperendo.

Mettere fra parentesi il mondo permette di concludere che:

Se io mi attengo puramente a ciò che a me, in quanto meditante, mediante la libera epochè rispetto all’essere del mondo dell’esperienza, entra nello sguardo, il fatto significativo è che io con la mia vita rimango intatto nella mia validità ontologica, comunque stiano poi le cose riguardo all’essere e al non-essere del mondo e comunque io possa mai decidere a riguardo. Questo io che mi rimane in modo necessario in virtù di una tale epochè e la sua vita egoica [sein Ich-Leben] non costituiscono un pezzo del mondo… (Husserl, M.C., p.59).

In quanto io della riflessione, allo stesso tempo in cui sono diretto all’oggetto, coeffettuo anche la credenza dell’io che percepisce la cosa, e ogni enunciato strutturato come “vedo questo oggetto” non significa, aprioristicamente, “credo che questo oggetto esista”.

A seguito della critica diretta all’esperienza mondana e all’esistenza del mondo, emerge come risultato il miglioramento e la purificazione dell’esperire filosofico, nonché la consapevolezza secondo la quale «Il mondo c’è per me indubitabilmente, grazie alla mia percezione concordante. Grazie alla mia serie infinita di ricordi che posso ridestare, che sono ricordi del flusso delle mie percezioni precedenti, il mondo si estende lungo un passato senza fine»10; in virtù delle mie esperienze che hanno luogo nel reale e che si adattano saldamente le une e le altre, io posso «[…] mantenere saldamente la credenza nell’unità di un mondo, di questo mio mondo» (Husserl, Ibid., p.85).

Ma il discorso relativo alla verità del mondo è un discorso ben più complesso, che coinvolge la soggettività trascendentale, prima, e l’intersoggettività, poi. La scienza intersoggettiva deve essere in grado di parlare della realtà esterna, e coinvolgere da una parte, la questione della realtà oggettiva, dall’altra, quella della comunità intersoggettiva nella sua storicità. Per tanto allo studio e alla posizione dell’alterità seguiranno un’esplicitazione della natura come correlato della comunità delle monadi, e l’esplicitazione della storia come comunità monadica di grado superiore.

10Husserl, Edmund, Filosofia prima: Teoria della riduzione fenomenologica (1923/24),

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Di conseguenza, il tema dell’intersoggettività prende luogo nell’indagine husserliana fin da subito, già a partire dalla analisi che circoscrive il secondo oggetto di studio messo in discussione dall’epochè fenomenologica: il mondo. All’interno di queste analisi, soggettività e intersoggettività si coimplicano vicendevolmente, in quanto il mondo è il frutto delle sedimentazioni che ogni singolo soggetto presenta e delle reciproche correzioni che si istaurano fra soggetto e soggetto. La possibilità di costituire un mondo oggettivo è affidata dalla relazione intersoggettiva, attraverso la quale, laddove un soggetto vede rosso laddove è verde, sarà possibile ad altri occhi aggiustare il daltonismo dei primi e giungere a definire correttamente il colore dell’erba. Detto ciò, il senso attribuito al termine verità non allude a una credenza soggettiva, ma affinchè un enunciato possa dirsi vero è necessario che questo descriva la realtà, mentre la sua falsità sarà data dalla mancata corrispondenza.

A tale corrispondenza si giunge pertanto mediante la comparazione e lo scambio, fra soggetti intenzionali, delle proprie personali intenzioni che sintetizzano il mondo.

Sebbene il mondo mi appaia all’interno di una certezza ininterrotta perché è oggetto di un’esperienza continua, e sebbene sia sempre possibile confrontare i miei risultati con quelli degli altri soggetti, esso possiede una necessaria contingenza conoscitiva, nei termini per cui la possibilità del non-essere non gli è mai esclusa. Riguardo dunque alla pretesa di verità sul mondo, ciò che di assolutamente innovativo emerge da queste speculazioni è che il mondo, in quanto fatto, è contingente e potrebbe essere sempre diverso da come è.

Questo non vuol dire che il mondo sottostia alla indagine fenomenologica solo nelle sintesi intenzionali che lo riguardano, e che quindi di per sé esso sia escluso da uno studio che si rivolge esclusivamente agli atti soggettivi della coscienza.

L’idea è che il mondo ha un’esistenza che è basata su determinate regolarità all’interno dell’esperienza, ma non c’è modo di escludere che queste regolarità cessino di valere ad ogni nostro nuovo agire esperenziale, e che io trovi sempre qualcosa di diverso.

È possibile chiarire ulteriormente questa affermazione avanzando un confronto con la definizione di soggettività trascendentale che, al contrario del mondo, non può in nessun caso essere investita del termine contingenza. La soggettività infatti, intesa come struttura della ragione e apertura alla “manifestatività” delle cose, del mondo e degli altri uomini, può incappare in errori di valutazione e giudizi fallaci ma, come struttura di pensiero, non può mai essere messa in dubbio. Tale caratteristica di sottrazione totale dal dubbio di cui può predicarsi la coscienza è ciò che Husserl chiama coscienza pura:

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l’intero mondo delle cose potrebbe sparire d’improvviso e la coscienza, benché necessariamente modificata, non verrebbe toccata nella sua esistenza.

Avanzerei un altro confronto fra l’ego cogito husserliano e quello di Cartesio al fine di ampliare questo discorso, evidenziando una sorta di dinamismo del primo ego, e di staticità del secondo. Tale dinamismo ben rappresenta la caratteristica dell’ego indagato dalle Meditazioni di essere una struttura d’essere totalmente in grado di giustificare sé stessa e, solo attingendo da sé, la realtà circostante, senza bisogno di alcuna idea, come quella di Dio, alla quale appoggiarsi.

È per tale caratteristiche della soggettività intenzionale e della ricerca fenomenologica che da questa muove e allo stesso tempo la indaga, che ho mosso i miei dubbi sulla possibilità di raggiungere, in questo quadro, una motivazione dell’alterità che possa anche affermarne l’autonomia e l’indipendenza dalla soggettività che la indaga, perché sembra che non vi sia scampo, per alcun elemento del reale, dall’abbraccio della coscienza trascendentale. E in questa ottica, in effetti, non c’è.

Il grande merito di Cartesio è quello di aver cercato di mettere alla prova i presupposti dell’evidenza e della soggettività mediante un dubbio radicale che instillava nell’uomo la possibilità di ingannarsi su tutto ciò che lo circonda e, financo, su se stesso. Giunto per primo a tematizzare il soggetto nella sua purezza, e nella sua posizione di centralità, Cartesio non riesce a dotare di dinamicità questo ego al quale perviene, perché non riesce ad attribuirgli la concretezza che il soggetto ottiene solo nella relazione con gli altri, e neanche una connessione trascendentale col mondo. Il soggetto di Cartesio permane dunque in una posizione di fissità, nella sfera della soggettività pensante, perché non giunge ad immettersi in una sfera comunitaria dove incontrare il dinamismo della relazione.

Attraverso quella che Husserl chiama correlazione intenzionale invece, ogni essere e ogni realtà è qualcosa per noi dal momento che possiede un riferimento soggettivo.

Sebbene dunque da una parte la coscienza intenzioni le cose sulla base delle caratteristiche loro proprie, che sono il loro modo di darsi e di attirare, in un certo senso, l’occhio del soggetto esperiente, è anche indubbio che al di fuori della coscienza intenzionale per la quale l’universo del reale “significa”, non c’è caratteristica del reale che sia, perché appunto manca la soggettività per la quale essere.

La coscienza husserliana intesa, a seguito della riduzione dell’io naturale umano e della vita psichica, come esperienza trascendnetal-fenomelogica di sé, si qualifica in

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modo tale da non avere niente al di fuori di sé perché, come un grande occhio, non c’è nulla che essa non possa abbracciare, oggettivare, dotare di validità ontologica:

Il mondo oggettivo, che per me è, che di volta in volta era e sarà, che può di volta in volta essere con tutti i suoi oggetti, attinge, come dicevo, il suo intero senso e la validità ontologica che esso ha di volta in volta per me, da me stesso, da me in quanto io trascendentale, quell’Io che primo emerge dall’epochè trascendental-fenomenologica (Husserl, M.C., p.60).

Sulla scia di queste affermazioni non sarebbe impossibile, e nemmeno difficile, tornare a parlare degli oggetti del mondo e del mondo stesso come di costruzioni mentali, che come tali valgono soltanto all’interno della coscienza che li intenziona; cosa che abbiamo immediatamente escluso. Come conciliare, dunque, l’aver posto una coscienza sulla base della quale il mondo ottiene validità ontologica con la posizione di questo stesso mondo come valido in sé e per sé, indipendentemente dalla soggettività che gli si rivolge?

Il testo delle Meditazioni non offre pochi spunti che aiutino a rispondere a questi interrogativi, ma credo sia necessario, prima di tutto, circoscrivere ad ogni passo dell’indagine cosa stiamo cercando e, volta volta, quali sono i presupposti sulla base dei quali ci muoviamo. È per questo motivo che ho voluto strutturare il primo capitolo di questo lavoro al fine di spiegare quanto meglio le premesse che caratterizzano e indirizzano l’indagine fenomenologico-trascendentale e le caratteristiche peculiari della coscienza intenzionale.

Sebbene questo Io che emerge dalla riduzione fenomenologica trascendentale è ciò che motiva, in plurime modalità, le cose del mondo e questo mondo stesso, tali non sono dei pezzi del mio Io e pertanto non si trovano, realmente, nella mia coscienza e, pur avendo posto che tutto ciò che è mondano trova un senso a partire e all’interno della soggettività trascendentale, il mondo trascende la coscienza perché non è interamente riducibile al complesso di atti e di sensazioni di cui è oggetto.

Una domanda che potrebbe sorgere da queste premesse, essenziali a definire l’impalcatura delle riflessioni, è se importa veramente qualcosa il fatto che il mondo non sia esauribile nella coscienza dal momento che al di fuori delle mie intenzioni non c’è, per questo mondo, alcuna “validità”:

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Non soltanto ogni oggetto esterno è stato ridotto a un a un senso dell’essere, un fenomeno d’essere. Ma questo senso o fenomeno è a sua volta ridotto ad essere senso per un Ego. Ne risulta che il senso del mondo è l’esplicazione della vita dell’Ego, il senso nasce da e nell’Ego, inteso come ciò che risulta dalla riduzione di qualsiasi trascendenza11.

All’insorgere di questo dubbio potrebbe seguire l’affermazione che il mondo e le oggettità che gli appartengono non abbia una struttura necessaria e assolutamente propria, ma questo discorderebbe con tutto ciò finora posto. L’interpretazione corretta è che la soggettività, come mezzo necessario alla manifestatività del mondo, è anche ciò senza la quale il mondo, di per sé, resterebbe invisibile. Ma non per questo il mondo sparirebbe.

La sfera d’esperienza trascendentale a cui apre l’epochè fenomenologica abbraccia veramente tutto l’universo del reale e ha pertanto una portata mai posta prima:

Infatti, anziché utilizzare l’ego cogito come premessa apoditticamente evidente per presunti sillogismi da svolgere in direzione di una soggettività trascendente, noi volgiamo la nostra attenzione al fatto che l’epochè fenomenologica presenta (a me, al filosofo meditante), una sfera ontologica infinita in quanto sfera di un nuovo genere d’esperienza, quella trascendentale. Notiamo che a ogni genere di esperienza reale e alle sue specifiche modalità (percezione, ritenzione, ricordo, ecc.) appartiene anche una corrispondente fantasia pura […] Possiamo perciò anche attenderci che si dia una scienza a priori che si mantenga nel regno della pura possibilità (rappresentabilità pura, fantasticabilità pura), la quale giudichi, invece che su realtà ontologiche trascendentali, piuttosto su possibilità a priori, e al contempo prescriva regole a priori alle stesse realtà effettive.

Pertanto, la sfida che avanza la fenomenologia è quella di riuscire a indagare e a motivare l’alterità in maniera tale da mantenere invariati quelli che sono i presupposti egologici posti inizialmente.

Guardando all’universo del reale, delle oggettità del mondo e di questo stesso mondo, Husserl pone che la cosa si dà alla coscienza in sé e per sé, e che quindi essa viene intenzionata sulla base delle caratteristiche di sua appartenenza. Corrispettivamente, sul fronte della coscienza, la struttura necessaria delle cose del mondo e del mondo in generale emerge attraverso le sintesi intenzionali, e pertanto la fenomenologia non aspira

11 VANZAGO, Luca, Coscienza e alterità: La soggettività fenomenologica nelle Meditazioni cartesiane e nei manoscritti di ricerca di Husserl, Milano: Mimesis, 2008, p.130.

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che ad affermarsi come scienza della conoscenza nella descrizione della struttura trascendentale della coscienza che permette la venuta in superficie del reale.

Una prima perplessità potrebbe sorgere in relazione al fatto che, nonostante la cosa si dia alla coscienza in sé e per sé, la certezza in relazione al mondo non è apodittica e posso sempre scoprire, affacciandomi oggi sul mondo, che le cose non sono come le pensavo ieri: «Non solo il singolo oggetto esperito può subire la svalutazione in quanto illusione dei sensi, ma anche l’intero insieme dell’esperienza afferrabile in uno sguardo unitario può rivelarsi come illusione, da rubricarsi sotto il titolo di sogno coerente (Husserl, M.C., p.51)».

Com’è che il mondo è sempre suscettibile di dubbio, e quindi mai predicabile di una certezza apodittica, se ha una validità intrinseca necessaria che la coscienza a tutti gli effetti riflette mediante una serie di sintesi concordanti?

A seguito dell’epochè fenomenologico-trascendentale, si fonda una scienza che indaga e individua le possibilità conoscitive della coscienza esperenziale, alla quale è sempre data la possibilità di sintetizzare il mondo in maniera concordante a come esso è in sé e per sé. L’infinità di rimandi ai lati del mondo, sebbene potenzialmente esperibili (e quindi effettivamente descrivibili in maniera appropriata dalla coscienza), rende impossibile, per una coscienza che è comunque nel tempo e lo è essenzialmente, definire in maniera apodittica il mondo: «[…] in sostanza il mondo è più della somma delle sue prospettive, delle sue “parti” perché proprio questa sua “eccedenza” è data attraverso ogni singola parte come irriducibile»12. Per tanto, affacciandomi oggi sul mondo, non troverò necessariamente quello che individuerò domani, e certo questo non dipende né da una mia “incapacità” intrinseca di riflettere il mondo (è esattamente il pensiero ciò che pone l’essere), né dal fatto che il mondo non è in sé.

Il mondo si dà sia come senso d’essere, come fenomeno mondo, che come ciò che permette a ogni soggetto di coglierlo come “fenomeno mondo” che tuttavia trascende ogni singolo fenomeno mondo e quindi la correlazione con l’io; anche tale trascendenza, però, è data in questa stessa correlazione (e dove, altrimenti?).

È in questi termini che Sartre individua il problema:

Questa nuova polarità, il «finito e l’infinito» o meglio, «il finito nel finito», si sostituisce al dualismo dell’essere e dell’apparire: ciò che appare, infatti, è solamente un aspetto dell’oggetto

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e l’oggetto è tutto intero in questo aspetto, e tutto fuori di esso. Tutto dentro in quanto si manifesta in questo aspetto: e si indica come la struttura dell’apparizione, che è nel medesimo tempo la ragione della serie. Tutto fuori perché la serie non apparirà mai, né può apparire. Così il fuori si oppone di nuovo al dentro, e l’essere-che-non-appare all’apparizione13

È indubbio che l’apparizione non rinvii all’essere come il fenomeno kantiano rinvia al noumeno, poiché tale apparizione non indica altro che se stessa, ma sembra tuttavia che il problema si sia solo tramutato dalla questione del noumeno alla questione dell’infinito.

Tuttavia, quello che la fenomenologia aveva promesso non era l’indubitabilità dei fatti, e dunque la necessità di affacciarsi su un mondo che è, ogni giorno, alla stessa maniera del giorno precedente, bensì l’identificazione di una struttura di pensiero attraverso la quale le cose possano emergere per come sono, e questo non perché diversamente non potrebbero essere pensate, ma perché diversamente non potrebbero essere.

Da un punto di vista “strutturale”, quindi, la coscienza intenzionale dispone della possibilità, o meglio, di quelle caratteristiche necessarie a fare emergere il reale.

La fenomenologia trascendentale non intende descrivere delle strutture innate alla specie umana (su questa base, infatti, analizzando le credenze di un popolo non alfabetizzato, la legge di gravità semplicemente non esisterebbe), bensì porre alla luce di quali atti una soggettività in generale deve essere in grado, per portare a manifestazione un certo ambito dell’essere. Attraverso questi atti, infatti, l’essere può entrare nei nessi dell’esperienza.

È attraverso queste affermazioni che si può spiegare l’ottica speculativa che dirige il lavoro di Husserl, sintetizzata dalla frase “come se il mondo non esistesse”, come il fatto che non è necessario determinare se il mondo esiste o non esiste dal momento in cui l’indagine da intraprendere si muove e permane nell’ambito di ciò che vale per una coscienza trascendentale: «[…] il mondo in generale non è più tenuto in valore come realtà ma solo come fenomeno di realtà».

A una prima lettura, queste affermazioni possono ancora far pensare che coscienza e mondo siano due ragioni ben distinte, e, addirittura, contrapposte, come altri passi, ad esempio delle Idee, sembrano suggerire:

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«Alla tesi del mondo, che è una tesi “contingente”, si contrappone la tesi del mio puro io e della sua vita egologica, che è “necessaria” e assolutamente indubitabile. Ogni cosa spaziale, anche se data in carne e ossa, può non esistere; al contrario, un vissuto dato in carne ed ossa può non esistere»14.

Tralasciando i facili fraintendimenti, la coscienza non è una scatola, un ambiente precostituito dove il fenomeno mondo ha valore, mentre il “vero essere” del mondo non è esperibile: l’antitesi tra fenomeno e vero essere non ha più alcun senso nella fenomenologia di Husserl, perché non c’è un “vero essere” che si nasconde dietro al fenomeno inteso come parvenza e illusione.

Il pensiero che la coscienza riflette il mondo per come esso propriamente è deve essere ricondotto al fatto che solo in una percezione dotata di processualità temporale, a una soggettività dotata di movimenti cinestetici si può manifestare il mondo, gli oggetti dotati di tridimensionalità.

Per poter percepire l’oggetto albero, sarà dunque necessario disporre delle possibilità motorie necessarie a “girarvi intorno”, e della capacità di ricordare via via i vari lati esperiti mentre se ne stanno esperendo di nuovi, insieme alla capacità di presentificare (di avere quindi delle aspettative), le prossime facce che andremo a scoprire. Ma non si tratta solo di percezione: un valore può manifestarsi solo attraverso atti emozionali, così uno scopo emergerà soltanto per la volontà.

Una seconda critica in relazione all’assolutezza della coscienza riguarda il fatto che il fenomenologo è sempre e in ogni caso un soggetto situato, figlio del suo tempo e caratterizzato da determinati attributi, tale per cui le descrizioni della soggettività in generale saranno comunque descrizioni non universalizzabili.

La linea di difesa che avanza la fenomenologia trascendentale non muove dal soggetto esperiente, bensì dall’oggetto di esperienza.

Il punto infatti non è quello di avanzare un’analisi del soggetto empirico, bensì utilizzare un certo metodo per poter cogliere quelle strutture invariabili che ad esempio motivano l’essere per il quale un certo oggetto è un oggetto logico, un albero o un uomo; Husserl è sempre rimasto convinto che ciò che è vero è assolutamente vero, ed è vero in sé. La verità è identica, che sia colta dagli uomini, dai o dagli dei.

La motivazione addotta da Husserl, quindi, è che ciò che si manifesta ha una sua necessità strutturale intrinseca, che è appunto la base del suo apparire. Se dunque qualcosa

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non può essere pensata diversamente, questo non dipende da un nostro limite, ma dalle leggi oggettive che determinano quel determinato manifestarsi della cosa. Ad esempio, il ricordo: la sua peculiare imprecisione, “debolezza” potrebbe chiamarsi, rispetto alla forza delle immagini davanti ai miei occhi, non è dovuta a una mia incapacità di ridestare vividamente esperienze passate, ma dalla caratteristica che il ricordo possiede di darsi così, di presentarsi in una sorta di nebbia che ne sfuma i contorni.

L’assolutezza della coscienza allude a un primato trascendentale sul mondo che è da intendersi nella misura in cui, al di fuori di una possibilità di manifestazione, non ha senso parlare di essere.

Pertanto, se qualcosa esiste per noi, questo è perché può darsi all’interno di ben determinate sintesi di esperienza, ma questo non significa che al di fuori della mia coscienza dato oggetto non esiste.

Se dico che qualcosa esiste in sé, in modo oggettivo, e dunque in maniera indipendente da me, lo dico perché nella mia esperienza vi sono ragioni sufficienti a questa posizione di esistenza; un riscontro di regolarità, nessi strutturali che suggeriscono data assunzione: «Quello che Husserl vuole dire è, dunque, che realtà e apparenza si costituiscono all’interno dei decorsi fenomenici. Così, se diciamo che qualcosa è solo un’illusione, lo diciamo perché l’esperienza ci suggerisce di abbandonare una precedente posizione di realtà»15.

Il discorso che ruota attorno all’oggettività del reale e all’agire intenzionale del soggetto esperiente ha spesso portato a tracciare una spessa linea di demarcazione fra l’atteggiamento della vita naturale e quello delle scienze, come se il primo si svolgesse sul piano della soggettività, e solo col secondo si giungesse a porre il vero essere.

Il discorso relativo al vivere naturale, come una dimensione all’interno della quale la coscienza assume il mondo come esistente in sé senza riferimento alla coscienza è già stato affrontato come legittimo, ma una visione che contrappone questo atteggiamento a quello delle scienze in termini di illusione e verità è frutto di non lievi fraintendimenti, e dell’aver dimenticato quei processi che hanno portato all’elaborazione dei concetti tipici della scienza obiettiva a partire dall’esperienza del mondo della vita. Si ritiene pertanto che la vita di tutti i giorni sia qualcosa di soggettivo e di poco vero; un’illusione dalla quale allontanarsi nella ricerca del vero essere, sempre oltre il mondo dell’esperienza. È necessario rivalutare le radici antipredicative delle scienze, guardare la “cosa”

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dell’esperienza che lo scienziato osserva, misura e pesa, sulla quale effettua esperimenti e teorie, come la cosa in sé, e non come un feticcio che nasconde sotto spoglie illusorie il vero essere, sempre escluso dalle nostre possibilità conoscitive.

In breve: vi è un primato del mondo dell’esperienza che non può essere negato, e ciò che la fenomenologia vuole portare alla luce sono proprio i processi che, dal terreno dell’esperienza, portano alla formazione dei concetti delle scienze e al loro costituirsi in quanto operazioni intenzionali della soggettività, sviluppando così un’interrogazione sul senso, la legittimità e i limiti di questi stessi processi e dei concetti cui essi conducono16.

L’invito di Husserl, a partire da questa posizione, sarà proprio quello di ridurre le scienze obiettive al mondo della vita, così da poter rivolgere lo sguardo all’esperienza.

1.2 La struttura intenzionale dell’altro, entropatia, empatia.

Nel tentativo di rendere chiari gli obiettivi dell’indagine fenomenologica e le sue caratteristiche essenziali, è stato necessario raggiungere una prima individuazione del soggetto esperenziale, ricondotto alla coscienza assoluta mediante epochè.

Per poter avviare una analisi dell’alterità, era infatti necessario comprendere il contesto all’interno del quale questa analisi si inserisce (quello della coscienza trascendentale, appunto) allo scopo di capire che lo studio fenomenologico dell’alterità intende portare alla luce la struttura che caratterizza l’esperienza dell’estraneo.

Dalle descrizioni finora avanzate, è emersa una coscienza che presenta tutte le caratteristiche necessarie a rendere ragione di sé e del mondo che la circonda; una coscienza che procede solitaria e autosufficiente nell’incessante lavoro di fare emergere sé stessa e l’universo del reale; la coscienza pura.

Al fine di evitare fraintendimenti, si presenta ora l’urgenza di chiarire la questione del solipsismo, emersa all’inizio di queste analisi.

La partenza potrebbe essere quella di immaginare la coscienza in un contesto di assoluta ed effettiva solitudine, e domandarsi se con tali presupposti potrebbe essere in grado, da sola, di formare un’appropriata (spiegherò la scelta di questo aggettivo più avanti) coscienza di sé e del mondo oggettivo, cosa che abbiamo già accennato ad escludere.

16COSTA, Husserl, p.39.

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Prima di propendere per una risposta affermativa o per una negativa, credo sia più utile, a questo punto del discorso, precisare innanzitutto che senso abbia per l’analisi fenomenologica l’individuazione di una coscienza solitaria, la quale viene circoscritta attraverso la progressiva espoliazione di tutto ciò che non le è originariamente proprio.

Alla luce delle Meditazioni cartesiane e dello studio husserliano finalizzato a scardinare la dinamica fenomenologica dell’intersoggettività, Mario Smargiassi, nel lavoro Solipsismo e intersoggettività nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl scrive: «Fino a che punto il problema del solipsimo in Husserl si differenzia da quello tradizionale, di impronta cartesiana? Esiste effettivamente un livello dell’esperienza del soggetto da cui è assente ogni riferimento ad altri soggetti?»17.

Bisogna ammettere che il pensiero di una coscienza che è, a tutti gli effetti, un solus ipse può insorgere con facilità, una volta percorse le fasi dell’epochè fenomenologica, perché alla fine di questa catena si ha l’impressione di trovare l’atomo non ulteriormente divisibile, il nucleo sufficiente e necessario a tutte le successive costituzioni. E sembra che non ci sia bisogno di nient’altro.

Proprio Husserl è il primo a giustificare come naturale la possibilità di identificare la fenomenologia con il solipsismo perché, in quanto egologia, in quanto studio rivolto all’io puro del fenomenologo, l’indagine fenomenologica circoscrive, passo dopo passo, un solus ipse come oggetto ultimo dello studio di questa rinnovata filosofia:

Quando l’io, l’Io meditante, attraverso l’epochè fenomenologica mi riduco al mio ego trascendentale assoluto, non sono con ciò forse divenuto un solus ipse e non lo rimango fino a che, sotto il titolo di fenomenologia, eseguo una coerente autoesposizione? Una fenomenologia che volesse risolvere i problemi dell’essere oggettivo e presentarsi già come filosofia, non sarebbe allora da stigmatizzarsi come solipsismo trascendentale? (Husserl, M.C., p.127).

Ed è lo stesso Husserl che decide di assumere questa posizione più che contestata al fine di approfondirla e dimostrare che la riduzione alla sfera del proprio non ha il significato di una solitudine empirica, e certo non esclude l’alterità.

17 SMARGIASSI, Mario, Solipsismo e intersoggettività nella fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, in Dialegestai. Rivista telematica di filosofia, anno 11 (2009), URL = https://mondodomani.org/dialegesthai/ms04.htm, p.8.

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