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Vorrei ora spiegare più dettagliatamente a cosa mi riferisco quando parlo dei diversi luoghi di situazione del soggetto esperiente e del soggetto esperito, che è lo stesso motivo che mi porta ad attribuire allo stesso soggetto due diverse realtà spazio-temporali di collocazione, a seconda di come lo si osservi.

Attraverso il concetto di motivazione e di sintesi, i quali formano il senso dell’alterità, è possibile individuare delle caratteristiche dell’alter-ego che lo rendono, contemporaneamente, estremamente vicino e incommensurabilmente lontano dall’ego che lo intenziona.

Entrambi questi aspetti appartengono all’alter-ego in maniera strettamente propria e, nella loro specificità, caratterizzano da un lato il suo strettissimo legame con la soggettività motivante, e dall’altro la sua indipendenza ontologica.

L’esperienza dell’altro è sempre, in primo luogo, un’esperienza percettiva (fondamento estetico-percettivo dell’alterità): situato nel mondo permeato dalle mie sintesi intenzionali, io scopro qualcosa che non è semplicemente una cosa, e vi intrattengo un legame corporeo.

La figura dell’altro, tuttavia, vien chiamata in causa ancora prima che questo entri nella mia sfera percettiva, ovvero già a partire dalla percezione della mia corporeità. Questo perché, dal punto di vista fisico, io sono presente a me stesso solo in modo parziale, perché alcuni lati della mia persona restano irrimediabilmente preclusi al mio sguardo. La percezione del mio corpo è quindi una percezione originaria e diretta ma mai completa, tanto che un’idea finita del mio corpo è quella che viene resa dall’estraneo, il quale ha la possibilità di girarmi intorno e di esaurire mano a mano tutti i profili del mio corpo.

L’estraneo può dunque vantare nei miei riguardi questa possibilità, e lo stesso posso fare io, nei confronti dell’alter-ego, osservandolo da diversi punti di vista, girandogli intorno, fino ad averne un’immagine completa. Il processo che così si instaura è un processo che attribuisce all’altro uno spazio e un tempo oggettivi, che pertanto si rivolge all’ego come a una cosa. Questa affermazione è supportata da alcuni passi delle Meditazioni in cui l’esperienza corporea dell’altro viene posta in relazione con l’esperienza delle cose, dal momento che entrambe sono sintesi di percezione e appercezione.

L’esperienza dell’estraneo, tuttavia, presenta una sostanziale differenza, in quanto percepire l’altro significa innanzitutto percepire un (altro) uomo, e dunque avere a che fare con una realtà mista, composta da un lato fisico e uno psichico.

Per quanto riguardo il lato fisico, è corretto affermare che mi è dato effettuare una verifica, in termini di sintesi concordanti, di ciò che sto esperendo, allo stesso modo in cui posso farlo nell’esperienza delle cose:

A partire da ciò, come è facile capire, ogni oggetto di natura da me esperito o esperibile nello strato inferiore riceve uno strato appresentativo (sebbene questo non divenga in alcun modo esplicitamente intuibile), in un’unità sintetica di identità con quello a me dato in originalità

primordiale: lo stesso oggetto di natura nelle possibili modalità di datità dell’altro (Husserl, M.C, p.147).

Questo discorso tuttavia si complica in virtù dell’aspetto psichico che parimenti a quello fisico caratterizza l’uomo.

Attraverso l’empatia come modalità di presenza dell’altro, intuisco, senza esperirlo direttamente, che il corpo vivo dell’estraneo comporta una vita psichica parimenti al mio. A tal proposito, Venier parla del “paradosso della riduzione primordinale”, secondo il quale la possibilità che ha l’altro di relazionarsi con me è data dal fatto che io sono escluso dall’accesso diretto alla sfera primordinale dell’alter-ego, e lo stesso vale per lui in relazione a me.

La possibilità pertanto di appercepire l’aspetto psichico altrui, senza tuttavia poterci girare intorno e, di conseguenza, accedere alla sua sfera di primordinalità, è ciò che rende l’altro veramente altro: egli non è solo il soggetto che incontro camminando per strada, ma è allo stesso tempo un individuo che percorre sentieri interiori del tutto celati alla mia vista, ed è proprio qui, in questo suo ambiente privato, che sfugge alla mia presa.

La scoperta dell’altro a partire dalla sua intima negazione a me è ciò che in definitiva permette l’esperienza della relazione intersoggettiva:

Nella modalità dell’esperienza dell’estraneo, si cela invece l’indizio di un senso profondo di cui è partecipe ciascun io persona individuale: solamente nel riconoscimento dell’altro nella sua eccedenza per me e dell’esser io stesso incolmabile trascendenza per l’altro, posso riconoscere il senso dell’individuo concreto, della persona, e del potermi avvertire come parte della comunità23.

La fondazione dell’altro avviene nella irriducibile individualità di ciascuno di noi, ma l’estraneo presuppone un senso che eccede sempre il significato che per noi assume: per questo Husserl descrive l’alter-ego attraverso l’espressione “trascendenza immanente”. La sfera di primordinalità che caratterizza ciascun uomo è ciò che costituisce la sua soggettiva singolarità, il suo essere più proprio, l’aspetto mai accessibile agli altri uomini e pertanto solo empatizzabile: «Il carattere di “estraneo”, in quanto esistente, si fonda in questa tipologia di accessibilità riconfermabile di ciò che è originariamente

inaccessibile. Ciò che di volta in volta presentabile in modo originale sono io stesso, ovvero appartiene a me stesso in quanto proprio» (Husserl, M.C., p.154).

La sfera primordinale è un qui assoluto, il punto zero dal quale si irradiano le intenzionalità dell’io, e questo qui assoluto, per il soggetto che intenziona l’altro, è un là non raggiungibile.

Un discorso affine a quello appena svolto riguarda i “tempi” dell’io, che distingue un tempo dell’ego personale e un tempo sociale.

Il mio tempo, inteso come tempo presente fluente di una individualità temporale assoluta, o tempo coscienziale, è il tempo in cui si formano le sintesi intenzionali, proprie e private, di ogni soggetto che sia in grado di compiere atti motivazionali.

La forma della motivazione è infatti quella forma universalissima che connette, nel loro fluire stesso, tutte le singolarità del flusso, così che l’ego possa costituirsi per se stesso nell’unità di una storia. Gli ego come temporalità assolute sono separati, perché nessuno nella sua individualità temporale può essere identico a un altro: «Infatti, qualunque cosa avvenga nel mio ego ed eticamente in un ego in generale –si tratti di vissuti, di unità costituite, di abitualità egoiche – ha la sua temporalità e in questo senso prende parte al sistema formale della temporalità universale, con il quale ogni ego possibile si costituisce per se stesso» (Husserl, M.C., p.111).

Il senso di un mondo comune si costituisce pertanto in virtù di una duplice compresenza: quella che gli ego, come luoghi privati, instaurano in uno spazio condiviso, e quella che le singole individualità temporali formano nel tempo formale.

Riassumendo, l’esperienza dell’estraneo è da ricondurre al processo empatico attraverso il quale l’altro viene intenzionato come se fossi io stesso, processo che si delinea come una sorta di ponte fra la mia sfera primordinale e quella altrui.

Insieme al tempo comune e allo spazio condiviso, il legame primordinale tra me e l’altro crea un vincolo intersoggettivo, e genera un noi oltre la singolarità degli io individuali.

Sebbene questo processo costituisca la modalità attraverso la quale è possibile esperire l’estraneo, e dunque avviare ogni processo relazionale possibile, è solo l’inaccessibilità della sfera primordinale che definisce l’alterità.

Attraverso l’epochè trascendentale e l’astrazione da ogni estraneità, il soggetto è stato circoscritto a una sfera assolutamente soggettiva e propria, a un ambiente e a un tempo suoi che non possono essere dati originariamente a nessun altro24.

Nonostante i soggetti esperiscano, all’interno di un mondo (e dunque di uno spazio e di un tempo) condiviso, le stesse oggettità, e sebbene sia possibile parlare e confrontarsi, correggersi, in relazione a medesime esperienze, «[…] per ciascuno le sue manifestazioni sono esclusivamente sue, ciascuno ha i propri vissuti»25

La contingenza conoscitiva relativa al mondo, investe anche l’alter-ego, sulla cui pretesa di esistenza non è mai possibile effettuare un giudizio apodittico:

Risulterà, infatti, che l’altro si manifesta in modo tale da non permettere che si possa decidere se egli esista o meno in quanto soggetto di coscienza, e non sia, per esempio, uno zombie o un fantoccio telecomandato. E tuttavia, dall’impossibilità di dimostrare l’esistenza dell’altro non trarremo alcun motivo di turbamento, non saremo indotti a concludere che l’altro non esista, ma ci chiederemo, semplicemente, che cosa questa inaccessibilità della coscienza altrui significhi e in che modo determini la socialità, l’interazione e lo sviluppo stesso della cultura26

Ad ulteriore chiarimento delle descrizioni appena effettuate, ritengo sia efficace introdurre e analizzare la metafora dell’ego come monade che presenta finestre.

L’idea di un ego monadico è supportata dall’essere, in sé e per sé, un’unità, che presenta le proprie correnti di vissuti, i propri poli reali che permettono la formazione delle proprie immagini ideali. Ogni io presenta tempi e luoghi propri, e passività e attività attraverso le quali abbracciare il mondo. L’ego monadico è un ego concreto, perché è una corrente fluente di intenzionalità che pone oggetti come presunti ed eventualmente esistenti. Queste acquisizioni stabili vanno a costituire un ambiente noto, insieme a un orizzonte di oggetti ignoti perché ancora da acquisire:

Questa mia attività di posizione ed esposizione ontologica [Aktivität der Seinssetzung und Seinsauslegung] produce un’abitualità nel mio Io in virtù della quale questo oggetto, in quanto oggetto delle sue determinazioni, è ora durevolmente mio proprio […] Poiché l’ego monadicamente concreto comprende l’intera vita potenziale e reale della coscienza, è allora chiaro che il problema dell’esposizione di questo ego monadico (il problema della sua

24 Cfr. HUSSERL, Idee II, p.202. 25HUSSERL, Idee II, p.202.

costituzione per se stesso) deve comprendere in sé tutti i problemi costitutivi in generale (Husserl, M.C., p.105).

Dato ciò, che cosa significa affermare che le monadi hanno finestre, per quanto in realtà non abbiano alcuna finestra o porta attraverso cui un altro soggetto possa realmente entrare?

Inizierei col riprendere il concetto di solipsismo fissato da Altobrando nella prefazione alle Meditazioni cartesiane, quale semplice constatazione, sia empirica che trascendentale, del fatto che nessuno può esperire la sfera di esistenza altrui. Il riconoscimento di questa sfera assolutamente propria, di questa sfera solipsistica, non presuppone di dover ascrivere il rapporto con gli altri a una dimensione illusoria o di impossibile realizzazione; la relazione fra soggetti presenta un profilo assolutamente concreto e reale.

Comprendere l’alterità in chiave fenomenologica vuol dire indagare e fare emergere le dinamiche attraverso le quali si forma, nella mia sfera primordinale, il senso dell’altro; ma riconoscere l’alterità significa porre l’impossibilità di raggiungere l’altro fino in fondo, fin dentro le stanze celate dai vetri oscurati delle sue finestre.

Le monadi possiedono finestre come grandi occhi sul mondo, con i quali abbracciare tutta la complessità del reale e istaurare le dinamiche relazionali con le altre monadi, e formare un mondo in comune. Attraverso queste aperture non è possibile entrare e, aggiungerei, nemmeno vedere chiaramente l’interno. Si possono appercepire le dinamiche che avvengono al di là dei vetri oscurati come è possibile immaginare un amico nell’intimità della sua casa, seduto sul divano. Si può appercepire, ancora prima, che qualcuno abiti quella casa, perché ci sono numerosi elementi che ne indiziano la presenza. Utilizzare la metafora di centri abitativi con porte e finestre dalle quali non si può entrare traduce con efficacia il ruolo che svolge l’appresentazione nella relazione intersoggettiva: essa è la finestra della monade che indizia, senza mostrarla, la presenza di qualcuno in casa.

Sebbene dallo studio dell’intersoggettività husserliano derivi la constatazione dell’inaccessibilità della sfera primordinale individuale, tale punto di arrivo si converte in punto di partenza, in positivo, per affermare che il senso dell’altro viene a costituirsi esattamente all’interno di questa sfera e in virtù di questa stessa, e che su queste basi è possibile giustificare l’idea di comunità intermonadica.

Passo ora all’analisi dell’intersoggettività affrontata dalle neuroscienze, al fine di presentare i punti di contatto con la teoria dell’empatia husserliana.

II Cap.

Neuroscienze e alterità 2.1 La scoperta del sistema specchio

Se insomma se avesse cercato in sé stesso, in tutta coscienza, qualcosa che lo predisponesse a un burrascoso avvenire, sicuramente non avrebbe pensato a quella certa emozione furtiva, quasi vergognosa, che lo turbava vedendo passare un treno, un treno nella notte soprattutto, dalle tendine calate sul mistero dei viaggiatori27.

Prima di indagare il contributo delle neuroscienze allo studio della mente, credo sia utile presentare una breve panoramica del significato che essa ha assunto nel tempo, specialmente in relazione al suo rapporto con il corpo, per comprendere gli sviluppi che hanno portato ai più odierni paradigmi.

Il concetto generale di mente non presenta una staticità protrattasi nel tempo e nello spazio, ma ha assunto caratteristiche diverse nel corso dell’evoluzione storica e culturale.

La mente omerica si distingueva per una visione della soggettività priva di unità psichica, di una autonomia volitiva e di introspezione, mentre quella platonica metteva in luce la razionalità unificatrice delle istanze e delle passioni della psiche. Aristotele presenta un’anima che è unità funzionale dell’organismo vivente, e Agostino introduce la metafora dell’interiorità della vita soggettiva.

È a partire dalla riflessione della scienza post-galileiana che si scopre un nuovo concetto di mente, dove un ruolo preponderante viene assunto dalla coscienza. L’apporto di Cartesio allo studio della mente fa della coscienza il fulcro e l’essenza dell’Io, a sua volta concepito come entità la cui proprietà essenziale è il pensiero. Nel quadro venutosi a formare, la coscienza assume un’identità distinta da qualsiasi altra realtà, e la cesura fra lo psichico e l’ordine materiale del mondo risulta inevitabile (da qui, il “problema mente- corpo”). Cartesio pone fine alla lunga tradizione inaugurata da Platone, edificando un muro divisorio fra la coscienza (interiorità) e il mondo (esteriorità).

L’idea di fondo è molto semplice, e riconduce il mondo a un grande meccanismo formato da elementi materiali e dunque rilevabili mediante gli strumenti della fisica. I

27 SIMENON, Georges, L’uomo che guardava passare i treni (1938), traduzione di Paola Zallio Messori, Milano: Adelphi Edizioni, 2002, p.5.

fenomeni psichici, al contrario, non sono misurabili, e costituiscono pertanto una regione ontologica diversa rispetto alla materia.

Fra questi due universi lontani e ben distinti, l’uomo si situa come un essere ibrido, il cui solo apparato corporeo può sottostare alla scienza naturale.

La scienza cognitiva classica fissava una cesura tra psiche e corpo, e si faceva portavoce della teoria solipsistica della mente secondo la quale la definizione della mente e di come funziona deve essere ottenuta mediante un focus sul singolo individuo. Di conseguenza, il pensiero classico paragona la mente a un sistema funzionale operante in termini di manipolazione di simboli informazionali in accordo con delle regole sintattiche.

A detta della psicologia evoluzionistica, invece, ciò che compone la mente umana è un insieme di moduli cognitivi che sono stati selezionati nel corso della storia evolutiva in virtù del loro valore adattivo. Sulla base di questa prospettiva, alcune posizioni delle neuroscienze degli ultimi vent’anni hanno elaborato una sorta di riduzionismo ontologico, che avrebbe portato a guardare il cervello in termini di moduli cognitivi, e a considerare il soggetto un ammasso di neuroni variamente distribuiti.

Più nel dettaglio, ricercare il concetto di mente nella letteratura scientifica evidenzia tre sostanziali linee di pensiero: la prima legge la mente e il pensiero mentalistico della psicologia di senso comune come un modo più o meno efficace di parlare di processi che hanno luogo nel cervello; la seconda porta invece a identificare il mentale con meccanismi di elaborazione dell’informazione (mente computazionale); la terza può considerarsi una sintesi dei primi due pensieri (mente neurocomputazionale), e riduce la mente-cervello a uno strumento biologico di elaborazione dell’informazione.

Queste tre prospettive determinano risvolti talvolta molto diversi fra loro: se la seconda difende l’autonomia della psicologia dalla biologia, la prima e la terza negano questa possibilità, e concentrano la loro attenzione e la loro ricerca sull’apparato neurobiologico come condizione necessaria di possibilità della coscienza.

Quel che è certo, è che il cambiamento maggiore dal pensiero classico lo si è avuto proprio nel modo di guardare il rapporto fra mente e corpo, perché sono state superate quelle prospettive che dichiaravano impossibile la comunicazione fra un corpo-prigione e l’anima.

Le odierne teorie della mente, pertanto, smentiscono l’idea di un corpo quale mera appendice atta solo a decodificare gli algoritmi mentali, e lo eleggono a vera e propria rappresentazione, in formato biologico, di stati e processi della psiche.

Se la domanda che il pensiero classico poneva era “Cosa significa pensare?”, “Cosa significa coscienza?”, le moderne scienze della mente ne hanno convertito i termini in “Qual è la materia del pensiero?”.

Lo studio della coscienza affrontato dai moderni neuroscienziati e filosofi della mente assume come quesito base la possibilità di indagare la mente attraverso l’apparato corporeo e, più esattamente, neurale.

È possibile identificare la coscienza con una serie di reazioni neurali a stimoli esterni o a stimoli di altri neuroni? Sono sostenibili le tesi che riducono la coscienza a una serie di meccanismi di input e output? Se tutto questo fosse più o meno dimostrabile, anche un discorso sulle emozioni potrebbe essere ascritto al vocabolario della scienza naturale?

Su questi interrogativi le varie correnti di pensiero che ricadono sotto le scienze cognitive non assumono una posizione univoca, ma si dividono in maniera talvolta netta. Quello che di recente si è cercato di fare nel campo delle scienze della mente è stato prestare la fenomenologia allo studio delle neuroscienze cognitive. Se questo approccio interdisciplinare traccia interessanti percorsi di indagine anche grazie ai nuovi mezzi che lo sviluppo scientifico ha raggiunto, il rischio di una battaglia fra empirico e trascendentale sembra inevitabile.

Negli anni ’80 e ’90, presso l’università di Parma, un gruppo di studio composto da Giacomo Rizzolatti, Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese studiava l’area F5 della corteccia cerebrale del macaco, parte della corteccia premotoria (o corteccia frontale inferiore) adibita alla programmazione del movimento, che si attiva qualche millisecondo prima dell’area motoria.

L’esperimento prevedeva l’utilizzo di macachi a cui erano stati inseriti, in singoli neuroni della corteccia premotoria, elettroni collegati a un amplificatore acustico. All’attivazione dei neuroni, si generava un suono che riferiva il loro lavoro di “scarica”, e gli scienziati rilevavano l’attività neuronale della scimmia quando riceveva il segnale di mangiare, quindi in procinto di afferrare il cibo.

Durante una pausa dall’esperimento, mentre uno scienziato allungava la mano verso una banana e la scimmia sedeva immobile, venne rilevata, per puro caso e in maniera del tutto inaspettata, un’attività di scarica nell’animale.

Inizialmente si pensò a uno dei tanti rumori di fondo che possono sporcare un esperimento, ma ben presto fu osservato che questo fenomeno inspiegabile si ripeteva

con costanza: i neuroni motori della scimmia scaricavano anche quando l’animale, in stato di immobilità, vedeva compiere dallo scienziato il gesto di afferrare il cibo.

Si dedusse che i neuroni collegati alla regione frontale inferiore e nel lobo parietale inferiore non svolgevano solo un’attività motoria, ma si attivavano sia quando la scimmia compiva direttamente un’azione (azione finalizzata a uno scopo), sia quando recepiva l’informazione che qualcun altro stava compiendo un’azione simile. Studi successivi mostrarono che la maggior parte delle cellule è attiva durante l’osservazione di una singola azione, ma che alcune si attivano durante l’osservazione di due azioni differenti, mentre altre rispondono fino a un massimo di tre azioni.

Prima di affermare che i neuroni osservati fossero adibiti a mediatori della comprensione comportamentale altrui, furono avanzate ipotesi più caute, ad esempio quella che leggeva l’attività di queste cellule come la preparazione dei movimenti appena osservati.

Tale ipotesi tuttavia venne esclusa, perché la scimmia non ripeteva il movimento e perché il picco dell’attività neurale, che avrebbe dovuto presentarsi nell’istante in cui il