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Dalle indagini effettuate, è emerso che l’altro appartiene a una sfera che trascende il mondo e la mia esperienza, ma che è indubbio si manifesti proprio in questa esperienza, e in nessun caso debba essere indagato come un’entità metafisica, noumenica o religiosa. Pertanto, la relazione fra il mio essere e l’essere dell’altro, malgrado si instauri in una sfera che trascende il mondo, presuppone come suo evento la relazione interpersonale e dunque la fatticità, ovvero la mia esistenza come corpo nel mondo. Una ricerca che intenda indagare l’alterità non può dunque escludere questa analisi del mondo che si snoda fra le strade, i parchi pubblici, le biblioteche:

Ma ciascuna delle condotte umane, essendo condotta dell’uomo nel mondo, può offrirci contemporaneamente l’uomo, il mondo, e il rapporto che li unisce, a condizione che esaminiamo queste condotte come delle realtà obiettivamente percepibili e non come affezioni soggettive che si scoprono soltanto allo sguardo della riflessione (Sartre, Ibid., p.308).

Sarebbe sbagliato tradurre in termini di verità la mia relazione all’altro come soggetto e in termini di falsità quella all’altro come oggetto, perché la verità dell’oggetto probabile non è una coscienza che esiste in uno stato separato. Si parla invece di relazione

fondamentale, a fronte di un modo di presenza, e infatti l’essenza del rapporto oggettuale con l’altro è la relazione prima della mia coscienza con la coscienza altrui, dove l’altro si dà come soggetto: «Il rinvio di fatto a un parto gemellare nel quale l’altro è presenza per me è dato al di fuori della conoscenza propriamente detta» (Sartre, Ibid., p.306). A ragione di ciò, se si intende la relazione oggettuale come la relazione fondamentale tra me e altri, non si comprende che il soggetto empirico è solo un rimando alla soggettività trascendentale, la quale si manifesta in maniera diversa che non attraverso la conoscenza che ne ho. A pagina 305 si legge:

Quella donna che vedo venire verso di me, quell’uomo che passa nella strada, quel mendicante che sento cantare dalla finestra, sono per me degli oggetti, non c’è dubbio. Così è assodato che uno dei modi di presenza d’altri a me è l’oggettità. Ma, come abbiamo visto, se questa relazione di oggettità è la relazione fondamentale fra me e altri, l’esistenza d’altri rimane puramente congetturale.

Pur parlando di una relazione oggettuale, Sartre chiarisce che il rapporto oggettuale con l’altro-uomo non può essere identificato col rapporto che instauro con le cose spazio- temporali del mondo. Se così fosse, avrei con gli uomini le stesse dinamiche che ho con le cose, e mi limiterei a una mera registrazione delle sue caratteristiche e dei suoi movimenti, raggruppandolo con l’oggetto panchina, statua di marmo, vaso di fiori, a una distanza di venti metri da me o dal prato che fa da sfondo alla mia osservazione. Il ruolo assunto dall’altro uomo non sarebbe diverso da quello di un fantoccio o di una macchina antropomorfa, e ne disporrei a mio piacere. Così, un suo improvviso cambio di locazione, o persino la sua scomparsa non causerebbe alcun cambiamento della relazione fra gli altri oggetti. Al contrario, percepire un uomo come un altro-uomo significa cogliere una relazione non additiva fra lui e il resto delle cose, constatare un rapporto senza distanza fra questo e le cose del mio universo; guardarlo come un oggetto privilegiato.

La distinzione fra gli altri-uomini e le cose risulta immediatamente chiara se si pensa cosa comporterebbe percepire l’altro-uomo come mera cosa: entrando in una stanza gremita di persone, potrei modificare la posizione dei presenti scegliendo la disposizione che più mi piace, come un bambino che riformula le dinamiche fra i coinquilini della sua casa di bambole. È naturale che l’uomo che osservo si trovi a cinque metri dalla fontana al centro del parco, ma il termine uomo e il termine fontana che compongono la relazione non sono intercambiabili né stanno in un rapporto di reciprocità. Fra la fontana e l’uomo

c’è una distanza che si stende a partire dall’uomo che io vedo: «Si tratta di una relazione senza parti, data in una volta sola, all’interno della quale si estende una spazialità che non è la mia spazialità, perché non si tratta di un raggruppamento di oggetti verso di me, bensì di un’orientazione che mi sfugge» (Sartre, Ibid., p.307). Pur continuando a registrare i movimenti di Pietro nel parco, dunque vederlo spostare da un punto A a un punto B, raccogliere una cartaccia e rivolgersi al cane con un fischio, la relazione dell’oggetto- uomo con l’oggetto-prato è una relazione che mi si presenta in blocco perché posso conoscerla, ma che allo stesso tempo mi sfugge in blocco perché è Pietro il termine fondamentale di questa relazione: è verso di lui che questa relazione muove, e io non posso più mettermene al centro. La distanza che si getta fra l’altro-uomo e le cose del mondo è una distanza che nega le distanze stabilite da me, e che appare come una «[…] pura disintegrazione delle relazioni che io percepisco tra gli oggetti del mio universo». La comparsa di un uomo nel mio campo esperenziale va a inserire una nuova soggettività esperenziale, nuove esperienze, e così, nuove relazioni fra gli oggetti del mio universo, che negano e disintegrano le relazioni che io ho costruito. L’altro-uomo muove da un punto di vista diverso dal mio e non è dato che due soggetti occupino, contemporaneamente, la medesima posizione. Attraverso la disintegrazione delle mie relazioni, l’altro uomo non taglia via la mia attività sintetica, e io non vengo a perdere l’insieme di riferimenti che mi permettono di muovermi nel mondo. La comparsa dell’altro uomo nella mia esperienza porta ad evidenza che il mio punto di vista e la mia presa sulle cose, la distanza che getto dalla barca alla battigia non è l’unica distanza, l’unico punto di vista, l’unica attività sintetica; io, soprattutto, non sono l’unico termine che viene investito dalla fuga continua delle cose. Si verifica un totale decentramento dell’universo che non ruota più solo intorno a me ma che gira, ugualmente, attorno agli altri, che gettano le loro distanze così come io getto le mie: «Fatto si è che io non conosco utensili che non si riferiscano secondariamente al corpo d’altri» (Sartre, Ibid., p.399). Come con la comparsa di un buco nero, questo spazio che è il mio spazio si raggruppa attorno ad altri e mi sfugge con tutti gli oggetti del mio universo convogliando in una sorta di doppiofondo per me inaccessibile e imperscrutabile: la centralizzazione dell’universo che io effettuo è fortemente ridimensionata dallo scivolamento dell’universo che quasi mi sfugge da sotto i piedi.

È certo che le osservazioni avanzate analizzano la situazione in cui subentra, nella mia percezione, un altro uomo, che pone un punto di vista diverso dal mio e fissa delle distanze che vanno da lui alle cose del mondo. Questo non significa, tuttavia, che

l’indagine si sia spostata dall’altro-oggetto all’altro-soggetto, perché la fuga delle cose verso un termine che non sono io posso comunque osservarla e registrarla, farla oggetto del mio studio; il discorso intende precisare che, anche se esperito in un rapporto oggettuale, percepire un uomo e percepire una cosa non sono mai la stessa attività: l’altro è, come me, il centro di attività esperienziali e del raggruppamento delle cose dell’universo. Parlare di rapporto oggettuale con l’altro potrebbe togliere all’attenzione il fatto che in realtà non ci comportiamo mai nei confronti dell’altro-uomo come ci comportiamo con gli oggetti, e che già a livello non razionale, non riflessivo e pre- discorsivo, indiziamo l’uomo in maniera diversa da come indiziamo le cose (già i paragrafi sulle Meditazioni lo hanno mostrato). Come pensare di potersi permettere, nei confronti degli uomini, le stesse cose che ci permettiamo nei confronti degli oggetti? Ho riflettuto su alcuni casi limite in cui questo sembra divenire possibile, ma rapportarsi a un uomo come a un’oggettità è sempre un’esperienza al limite, determinata da fattori e legata a situazioni assolutamente specifici e circoscritti. Sto pensando a due casi, nello specifico: situazioni in cui l’età dell’altro uomo (molto giovane/molto anziano) portano a pensare di poter subentrare alle sue possibilità e libertà; situazioni e contesti storici in cui l’altro uomo è stato fatto apparire un’entità subumana attraverso un processo, assiduo e costante, di disumanizzazione. Nel primo caso, si tratta di individui che non sono più in possesso di quelle caratteristiche, proprietà e facoltà che li rendono, appunto uomini, e pertanto ci si sente nella posizione di poterli gestire e organizzare come fossero degli oggetti nella nostra vita. Il secondo caso è ancora più esemplare, perché è ciò che nell’immaginario comune ha forse sconvolto più coscienze: L’Olocausto fra tutte, ma anche situazioni analoghe e meno in rilievo solo per un discorso numerico, ma non per intensità e disumanizzazione, come quelle che toccano ancora oggi la donna e alcune minoranze religiose ed etniche in determinati contesti politici. Prima di tutto, i soggetti dei quali stiamo parlando non vengono mai declinati al singolare, ma sono sempre considerati delle componenti addizionali di un gruppo. Essi non hanno un volto, delle caratteristiche fisiche proprie, ma possiedono quegli stereotipi che presenta il loro gruppo di appartenenza. Questi attributi sono strumentali al passaggio di questi individui dalla sfera umana a quella animale (gli Ebrei non si lavano, sono maleodoranti, si muovono nei sobborghi della società in maniera confusionaria e spasmodica che ricorda il disperdersi dei topi), così che poco a poco la violenza nei loro confronti non sembra più grave di quella che userei su delle bestie parassitarie e, andando ancora oltre, su della materia scomoda e di ostacolo al perseguimento del mio fine.

Si capisce tuttavia quanto sia innaturale relazionarsi con un uomo come con una cosa, se osserviamo quanto lavoro comporti il processo di disumanizzazione per eliminare ogni possibilità di ricordarsi quale sia la sua vera natura: campagne, manifesti, opuscoli atti a sensibilizzare la popolazione, educazione nelle scuole, contributo dei mas media, una fitta rete di false informazioni, notizie, azioni finalizzate a fomentare l’odio, la ripugnanza e la violenza per eliminare ogni possibilità di senso di colpa. E che si tratta di un caso limite guardare un uomo come guarderemmo una cosa lo si capisce anche dal fatto che in ogni momento è possibile svegliarsi da questa sorta di sonno indotto per prendere coscienza della assurdità dei comportamenti messi in atto, così che il lungo lavoro di disumanizzazione viene spazzato via in pochi attimi: «Gli oggetti sono cose non dovrebbero commuovere, perché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive38». Torna così un carattere fondamentale del corpo vivo, e a pagina 405 di L’essere e il nulla Sartre scrive: «[…] io non posso mai cogliere il corpo d’altri se non a partire da una situazione totale che lo indica; […] non posso concepire isolatamente un organo qualsiasi del corpo d’altri e che mi faccio sempre indicare ogni organo singolo, partendo dalla totalità della carne o della vita. Così la mia percezione del corpo d’altri è radicalmente differente dalla mia percezione delle cose». Se io esperissi il corpo dell’altro uomo come prima una gamba che calcia il pallone, metterei il cadavere all’origine del corpo vivente, perché inserirei della carne in una situazione già definita, mentre tale situazione si definisce proprio a partire dalla carne: «Ma altri mi è originariamente dato come corpo in situazione» (Sartre, Ibid., p.404). Per questo, il corpo d’altri non può essere esperito se non come centro di riferimento di situazioni che si organizzano intorno a lui.

Proseguendo, emerge che l’altro come oggetto è anche colui che vede ciò che io vedo, il che rimanda immediatamente al ruolo che svolge l’altro come garante dell’oggettività del mondo e di me stesso. Questo argomento ha già interessato il capitolo dedicato ad Husserl, ma le caratteristiche della riflessione Sartriana sono ben lontane da quelle delle Meditazioni. Nel riconoscere l’alter-ego come garante dell’oggettività del mondo, Husserl riconosce il valore dell’altro come soggetto che insieme a me (co)- costituisce una trama di riferimenti condivisi e quindi un mondo in comune, sulla base di reciproche correzioni: «Intrecciati coi corpi vissuti in questo modo particolare, in quanto

oggetti “psicofisici”, essi sono “nel mondo”. D’altro lato, io li esperisco allo stesso tempo in quanto soggetti per questo mondo, in quanto esperienti questo stesso mondo, questo stesso mondo che io stesso esperisco, pertanto esperienti anche me, al modo in cui io esperisco tale mondo e al suo interno gli altri» (Husserl, M.C., p.129). Così, il valore dell’empatia come teoria trascendentale dell’esperienza dell’estraneo va oltre l’indagine degli altri soggetti, perché co-fonda anche una teoria trascendentale del mondo oggettivo. Per poter avere un’azione sul mondo, e per poter rinsaldare la mia trama di significati, nonché correggere le mie formazioni, è necessario che l’altro sia stato riconosciuto soggettività quale sono io, che tuttavia non sono io. Il rapporto che si instaura fra questi due termini, la costituzione dell’intersoggettività da una parte e del mondo condiviso dall’altra è trattato da Husserl molto attentamente perché presenta non poche difficoltà (approfondirò questo discorso più avanti). La riflessione ha infatti dato adito a numerose critiche, ma l’idea che avanza Sartre in relazione a questo uomo che vede ciò che io vedo si oppone a quella husserliana ancora prima di potersi esprimere sulla relazione intersoggettività-mondo condiviso perché identifica il rapporto che vi instauro come una relazione oggettuale:

Tutto ciò, dunque, non ci fa minimamente abbandonare il terreno su cui altri è oggetto. Tutt’alpiù, abbiamo a che fare con un tipo di oggettività particolare, abbastanza vicina a quella che Husserl indica con il termine assenza, senza tuttavia notare che altri si definisce non come l’assenza di una coscienza in rapporto a un corpo che io vedo, ma con l’assenza del mondo che percepisco in seno alla mia percezione di questo mondo. Altri è, su questo piano, un oggetto del mondo che si lascia definire dal mondo. Ma questa relazione di fuga e di assenza del mondo in rapporto a me è solo probabile (Sartre, Ibid., p.309).

A torto, Husserl parlerebbe di assenza riferendosi alla coscienza in rapporto al corpo, perché a detta di Sartre quest’assenza non è altro che la fuga del mondo da me, verso un altro che mi espropria di questo mio mondo, del mio spazio e dei miei riferimenti. Pertanto, ciò che non mi è dato non sarebbe, come dice Husserl, una presa diretta sulla psiche altrui in rapporto al suo corpo che al contrario esperisco in maniera diretta, bensì quest’erba nel momento in cui vi entra in relazione un altro uomo: «Io colgo la relazione del verde con altri come un rapporto oggettivo, ma non posso cogliere il verde come appare ad altri. Così, improvvisamente è apparso un oggetto che mi ha derubato del mondo» (Sartre, Ibid., p.308).

Di conseguenza, il rapporto che si instaura fra gli uomini nel mondo oggettivo è un rapporto in cui si guarda, sì, lo stesso mondo; ma ciascuno in una sorta di muta solitudine e invisibilità reciproca di ciò che l’altro vede, nonché di espropriazione e mera registrazione degli altrui riferimenti. Si pensi anche che già considerare l’altro uomo in un’attività di formazione delle cose-utensili farebbe luce su un individuo che meno facilmente potrebbe essere esperito in termini oggettuali; ma le cose-utensili hanno una contingenza originaria e carattere di avvenimento, non sono formazioni. Pertanto, nella situazione descritta da Sartre, l’altro uomo viene colto in relazione alle cose-utensili come centro della loro aggregazione, e non come centro della loro costituzione, e lui stesso viene a sua volta esperito come utensile che si lascia definire in questo mondo. Segue che l’assenza che percepisco in relazione a quello che è un oggetto del mio mondo non può essere la sua coscienza, ma appunto quella porzione di mondo che non posso più vedere dal momento in cui si riferisce a lui. L’altro uomo non può fuggire da questa oggettivazione neppure laddove egli mi guardi, perché io non posso essere oggetto per un altro oggetto, ed è altresì necessario che l’altro sia investito da una conversione radicale perché io possa prendere coscienza della sua soggettività e alterità:

La vergogna è rivelazione d’altri non nel modo in cui una coscienza rivela un oggetto, ma come propria motivazione. Se anche potessimo raggiungere la coscienza pura, per mezzo del cogito, e questa coscienza pura non fosse che coscienza (d’essere) vergogna, la coscienza dell’altro la abiterebbe ancora, come presenza impercettibile, e sfuggirebbe con ciò a qualsiasi riduzione (Sartre, Ibid., p.327).