• Non ci sono risultati.

La filosofia della mente e la neuroscienza che si affacciano allo studio dell’intersoggettività non possono prescindere dall’analisi del soggetto, attorno al quale ruota una nuova domanda di fondo: non più “cosa” sia, bensì “chi sia”.

30AMMANNATI, Massimo, GALLESE, Vittorio, La nascita dell’intersoggettività: Lo sviluppo

del sé tra psicodinamica e neurobiologia, traduzione di Cristina Trentini, Milano: Raffaello Cortina, 2014, p.27.

Domandarsi “cosa” sia il soggetto che intraprende la dinamica relazionale significa indagarlo a partire da un presupposto universale valido per tutti, e quindi da una base astratta e assolutamente solitaria.

Al contrario, iniziare un’indagine chiedendosi “chi” sia il soggetto introduce una prospettiva che terrà anche conto del contesto sociale, storico e culturale che fa da sfondo (e per alcuni anche da presupposto) alla relazione. Pertanto, le teorie che andrò a considerare sono pressoché concordi sull’idea che sia la relazione a costruire la soggettività, e non viceversa.

Il termine “mente incarnata” non deve far supporre che la psiche esista come entità di per sé separata dal corpo e che verrebbe ad abitarlo in qualche tempo e in qualche modo: mente e corpo fanno parte di un meccanismo che funziona sulla base di reciproche influenze e, ancor più precisamente, i processi mentali sono incarnati nella misura in cui è possibile rappresentarli in formato corporeo.

Questa visione delle dinamiche che danno luogo alla psiche ha portato ad alcune teorie audaci, come quelle avanzate dai riduzionisti della mente, i quali ritengono che le facoltà mentali dell’uomo siano interamente riconducibili alle dinamiche del sistema neurale, fra neuroni e neuroni, e fra neuroni e stimoli esterni. Secondo questa linea di pensiero, la coscienza esiste solo in quanto traducibile all’interno di un vocabolario fisico e, laddove non si riesca a motivarla scientificamente, si propende per una soluzione che ne nega l’esistenza. Il presupposto che anima questa posizione traduce in negazione o in sospensione di giudizio tutto ciò che non può essere monitorato, misurato o rilevato; tutto ciò che non è indagabile mediante la prassi scientifica e i suoi strumenti.

Senza propendere per teorie così estremiste, è evidente che parlare di neuroni specchio ha offerto la possibilità di introdurre concetti come quello di “embodiment”, di mondo inteso come spazio condiviso, di somiglianza e simulazione, tutti termini che si trovano anche nel vocabolario della teoria dell’intersoggettività husserliana.

Tuttavia, il confronto fra neuroscienze e fenomenologia ha rischiato su più fronti di snaturare le due discipline, perché spesso se ne è parlato in termini di identità, o di utilizzarle vicendevolmente al fine di dimostrare la validità ora dell’una, ora dell’altra.

Nel precedente paragrafo è emersa la modalità funzionale dei neuroni specchio, che si attivano sia quando il soggetto compie un’azione (finalizzata a uno scopo), sia quando vede compiere la medesima azione da un altro agente.

Sul meccanismo specchio ricadono le attese di quella scienza che individua la base del riconoscimento comportamentale nelle relazioni (in termini di stimoli elettrici) che

intercorrono fra neuroni, e quindi a un processo spontaneo, non riflessivo e precoscienziale.

L’osservazione dell’azione indurrebbe l’attivazione dello stesso circuito nervoso adibito a controllarne l’esecuzione, e darebbe adito all’automatica simulazione nel cervello. Semplificando, si può affermare che un soggetto, nel momento in cui osserva un’azione, riproduce internamente la stessa nel modo del “come se” (come se la stesse effettuando), comprendendone le premesse e i fini. La simulazione interna, che riflette le azioni osservate ma anche le emozioni rese dalle espressioni del volto, permette al soggetto di calarsi nei panni dell’altro al punto tale da fare di questo “altro oggettuale” un “altro se stesso”. Le azioni altrui sono direttamente comprensibili grazie all’equivalenza motoria tra ciò che fanno gli altri e ciò che farebbe, se fosse al loro posto, l’osservatore delle azioni: l’intercorporeità, pertanto, è la principale facoltà di conoscenza che abbiamo degli altri.

Per quale motivo, quando vediamo venirci incontro un uomo, non ci chiediamo se questo sia un animale o un robot particolarmente raffinato? Per quale motivo entriamo in contatto con agenti intenzionali senza domandarci preventivamente se possiamo trattarli come nostri pari e comprendere i loro comportamenti senza sottoporli a un esame?

Le neuroscienze rispondono a questi interrogativi affermando che il nostro corpo è condizione necessaria e sufficiente a risparmiarci lo sforzo di razionalizzare tematicamente il comportamento altrui, perché all’attivazione dei neuroni specchio conseguirebbe una chiarificazione diretta alle azioni, allo scopo e all’intenzione che le anima.

Sta di fatto che teorizzando la simulazione incarnata, Vittorio Gallese ha potuto fornire un’alternativa forte alla teoria mentalista, con la quale si era tentato di spiegare la modalità di comprensione del comportamento altrui. La Teoria della Mente studiava il mind reading nei termini di una funzione cognitiva di alto profilo attraverso la quale era possibile decodificare le azioni degli altri agenti in virtù di un meccanismo inferenziale, cui venivano forniti i dati delle evidenze relative alle suddette azioni e delle conoscenze pertinenti alle motivazioni. Attenersi a questa teoria rendeva possibile, innanzitutto, replicare all’evidenza che anche gli animali, che non sono provvisti di ragionamento inferenziale, condividono con l’uomo una capacità base di riconoscere azioni e comportamenti.

Diversamente della teoria mentalista, la simulazione incarnata non ha bisogno di un procedimento ermeneutico o analitico-inferenziale, ma di un vissuto accessibile in prima persona.

Gallese si concentra sulla materia fornita dal pensiero nelle sue qualità di basilare competenza incarnata che viene a maturare nell’esperienza della interrelazione situata nel mondo e che si sedimenta via via a livello di vicendevole scambio fra mente e cose.

Il sistema dei neuroni specchio viene letto come la base scientifica, neurocognitiva, per comprendere come questo meccanismo di risonanza interindividuale possa avere luogo dal punto di vista della fisiologia della mente. Malgrado alcune teorie della mente espandano la simulazione incarnata anche alla comprensione di azioni intenzionali complesse, concordo con quelle teorie che la limitano alla comprensione di azioni intenzionali “base”, e ritengo che una distinzione efficace per spiegare questa posizione sia quella fra “simulazione standard” e “simulazione incarnata”. Se la prima consiste nella decisione volontaria di assumere la prospettiva dell’altro, la simulazione incarnata si instaura come processo automatico, non consapevole e assolutamente pre-riflessivo, decisivo a comprendere il perché del comportamento in atto, anche se le intenzioni possono essere molteplici.

Ritengo utile precisare che la simulazione incarnata non permette di raggiungere l’intenzione dell’azione, ma offre delle intenzioni potenziali, che solo il riscontro empirico è in grado di avvalorare o di smentire. Ciò che viene raggiunto è un livello base di comprensione del comportamento altrui, e la risposta del secondo agente al primo sarà sufficientemente precisa da risultare in sintonia con gli stati mentali dell’altro.

La condivisione di uno stesso meccanismo neurale determina la possibilità di comprensione fra gli agenti, ma anche, più radicalmente, l’impossibilità che questi non si vengano a comprendersi, quantomeno nelle azioni più elementari. Questa idea è avvalorata dal fatto che riscontriamo in un soggetto che non risponde a determinate attese dei sintomi più o meno gravi di anormalità.

A questo proposito, è utile analizzare il fenomeno dell’autismo, che a seguito dei recenti progressi nelle neuroscienze è stato analizzato in termini di “malfunzionamento del sistema specchio”.

L’autismo rientra nei disturbi pervasivi dello sviluppo, che contano un insieme di disturbi caratterizzati dalla compromissione grave o generalizzata di diverse aree dello sviluppo e più precisamente della compromissione della capacità di interazione sociale

reciproca e della comunicazione. L’autismo presenta inoltre comportamenti, interessi e attività stereotipate.

Le principali caratteristiche che si riscontrano nei soggetti affetti da autismo sono la difficoltà a istaurare relazioni normali, la presenza di anomalie e ritardi nello sviluppo linguistico e un pattern di comportamenti caratterizzato da rituali e azioni ripetitive.

A partire dalla fine degli anni ’90, nel laboratorio dell’università degli studi della California, a San Diego, iniziarono le indagini sul legame fra il sistema specchio e questo disturbo. Lo studio su bambini più o meno gravemente affetti da autismo venne affrontato con l’uso dell’elettroencefalogramma (EEG), attraverso il quale è possibile misurare l’onda mµ che si è già visto essere bloccata ogni qualvolta una persona compie un movimento muscolare volontario, ma anche quando vede compiere la medesima azione da un altro agente. I primi studi furono effettuati su un bambino che presentava un leggero caso di autismo, ed emerse che l’onda mµ rimaneva bloccata durante il tempo in cui questo compiva un’azione. Invitato ad osservare la stessa azione effettuata da un altro soggetto, la soppressione dell’onda non si verificava.

Fu concluso che il sistema motorio del bambino non presentava alcuna anomalia, ma che era insufficiente il suo sistema dei neuroni specchio.

Il ripetersi dell’esperimento su altri dieci pazienti (soggetti al disturbo con diversa gravità) condotto con diverse tecniche di monitoraggio dell’attività neurale, permise di concludere complessivamente che il sistema dei neuroni specchio dei soggetti autistici è alterato, e di ricondurre a questa disfunzione la loro sostanziale incapacità di rapportarsi al prossimo secondo gli schemi iscritti alla normalità.

In parole povere, quello manca nei soggetti affetti da autismo è la facoltà di mettersi nei panni dell’altro, la capacità di trasporsi empaticamente nei suoi vissuti, la condivisione di uno stesso vocabolario di atti di cui al contrario dispongono gli individui sani. Essere privi di questa base relazionale significa muoversi all’interno di un mondo condiviso senza la possibilità di una effettiva condivisione, perché manca la rete di riferimenti comuni.

Entrando in relazione con soggetti affetti da autismo salta subito all’occhio che essi nutrono aspettative destinate ad essere disattese e, attivamente, non sono in grado di rispondere alle attese loro indirizzate.

Uno degli esempi più evidenti di questa sorta di ribaltamento della normalità, (che va ad avvalorare la tesi secondo cui l’autismo è una patologia che ha cause in primis biologiche) possiamo individuarlo fin dalle tappe primarie dello sviluppo dell’individuo:

verso i sei mesi, i bambini hanno a che fare con quello che viene chiamato “oggetto transizionale”, ovvero un oggetto che sostituisce la figura materna durante le sue assenze fisiche. I bambini sani scelgono oggetti che presentano caratteristiche ben precise, come la morbidezza, la rotondità, l’assenza di spigoli e ruvidità e li utilizzano, appunto, quando la madre non è presente, come a sostituirla momentaneamente nella consapevolezza, via via più forte, del suo prossimo ritorno. I bambini affetti da autismo scelgono invece oggetti duri, freddi, che presentano spigoli e contorni geometrici utilizzandoli, al contrario, proprio quando la madre è presente, come a formare una barriera fra la loro persona e il genitore; barriera già cercata nell’evaderne volutamente il contato visivo.

Il caso dell’autismo mi sarà utile anche più avanti per affrontare ulteriori punti della mia analisi, ma passo ora ad introdurre due diverse nozioni di coscienza, in prima e in terza persona, con lo scopo di mostrare come l’altro sia avvicinabile ma, allo stesso tempo, del tutto inaccessibile.