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È emerso che uno dei modi di datità dell’altro è la relazione che instauro con l’altro come oggetto, che conduce ad un’indagine di quelle situazioni, empiriche e quotidiane, in cui l’altro viene esperito come personaggio empirico, e dunque registrato, fissato, agito e conosciuto. Sebbene Sartre evidenzi l’importanza di questo studio, non è nella conoscenza che può emergere l’altro come soggetto, perché la percezione che investe gli altri si riferisce per sua stessa natura a qualcosa di diverso da se stessa e, precisamente: «[…] la sua essenza deve essere di riferirsi a una prima relazione della mia coscienza con quella d’altri, nella quale altri deve presentarmisi direttamente come soggetto quantunque in legame con me, e che è il rapporto fondamentale, il carattere stesso del mio essere-per- altri (Sartre, Ibid., p.306). Pertanto, il soggetto empirico è solo un rimando alla

soggettività trascendentale con la quale la mia coscienza instaura la prima relazione, e in virtù della quale mi relaziono con l’altro nell’esperienza quotidiana di rapporti che non sono il rapporto fondamentale.

Se l’altro come oggetto è un oggetto in relazione col mondo, che vede ciò che io vedo, il carattere fondamentale dell’altro come soggetto deve ricondursi alla mia possibilità di essere visto da lui:

Nel momento in cui riesco a concepire anche una sola delle mie proprietà in modo oggettivo, l’altro è già dato. Ed è dato non come essere del mio universo, ma come soggetto puro. Così questo soggetto puro, che non posso, per definizione, conoscere, cioè porre come oggetto, è sempre là, fuori portata, e senza distanza, quando tento di cogliermi come oggetto. E nella prova dello sguardo, sentendomi oggettità non-rivelata, esperimento direttamente con il mio essere l’impercettibile soggettività dell’altro (Sartre, Ibid., p.324).

Esclusa la sfera della conoscenza, escluso che l’altro si dia nel mio universo, si situa a partire dallo sguardo che incombe su di me la relazione con l’altro come soggetto:

Meglio ancora, lo sguardo, come abbiamo detto, appare sullo sfondo della distruzione dell’oggetto che lo manifesta. Se quel passante grosso e brutto, che avanza verso di me saltellando, mi guarda improvvisamente, non interessa più la sua bruttezza, la sua obesità, i suoi saltelli; per tuto il tempo in cui io mi sento guardato, egli è pura libertà mediatrice tra me e me stesso. L’essere guardato non può dunque dipendere dall’oggetto che manifesta lo sguardo (Sartre, Ibid., p.98).

Perché l’altro possa darsi come soggetto, è necessario uno scambio dei ruoli, e che sia io, viceversa, a divenire oggetto. Nel momento in cui sono oggettivato e ne prendo atto, l’altro è già nella posizione di soggetto che, al contrario di me, non può tornare ad essere oggetto per tutta la durata dello sguardo: «Insomma, ciò a cui si riferisce la mia percezione d’altri nel mondo, come ciò che probabilmente è un uomo, è la mia possibilità permanente di essere-visto-da-lui, cioè la possibilità permanente per un soggetto che mi vede di sostituirsi all’oggetto visto da me. L’<essere-visto-da-altri è la verità del <vedere- altri>» (Sartre, Ibid., p.310). La duplice funzione dello sguardo è pertanto l’oggettivazione di me in caratteristiche esperibili, fissabili e conoscibili, e la distruzione delle caratteristiche oggettive dell’altro, come la bruttezza, l’antipatia, il naso eccessivamente grande. Nel momento in cui divengo oggetto, cessa la mia attività; non

solo non posso agire nei confronti dell’altro, ma neppure in relazione all’attività che l’altro sta compiendo su di me: io sento l’oggettività che assumo, ma non la conosco, perché quell’essere che l’altro mi fa essere io lo sono, in me, ma lo sono in me per-lui, e dunque lo sono senza possibilità di vederlo. Ma su questo tornerò.

Non esistono particolari condizioni perché si instaurino le dinamiche che prevede il fenomeno dello sguardo, e non è circoscritta a tempi e luoghi ben determinati la possibilità di sentirsi guardati; infatti, le descrizioni sartriane dello sguardo presentano situazioni in cui chiunque può immedesimarsi, ed eventi che fanno certo parte dell’esperienza personale di ognuno: «Eccomi curvo sul buco della serratura; improvvisamente sento dei passi. Sono preso da un brivido di vergogna: qualcuno mi ha visto. Mi raddrizzo, e scorro con gli occhi il corridoio deserto: era un falso allarme»

(Sartre, Ibid., p.98). Nella descrizione della scena in atto, non viene utilizzato alcun termine ascritto alla sfera della riflessione e infatti l’esperienza della vergogna, nella quale io colgo il mio essere-guardato, è descritta attraverso un brivido: «[…] la vergogna è un brivido immediato che mi percorre dalla testa ai piedi senza nessuna preparazione discorsiva» (Sartre, Ibid., p.272). Infatti, nonostante la vergogna possa svilupparsi in forme derivate e complesse che appaiono sul piano riflessivo, essa non è originariamente un fenomeno di riflessione.

La fondamentalità dello sguardo nella teoria dell’altro è espressa in tutta chiarezza a pagina 310: «[…] in ogni momento altri mi guarda; ci è dunque facile tentare, su degli esempi concreti, la descrizione di questo legame fondamentale che deve fornire la base di ogni teoria sugli altri». Si osservi quindi cosa accade al soggetto (oggetto) che vene investito dello sguardo, cosa significa, propriamente, essere visto: «Immaginiamo che, per gelosia, per interesse, per vizio, mi sia messo a origliare a una porta, a guardare dal buco di una serratura. Sono solo e sul piano della coscienza non-tetica (di) me, il che significa che non c’è un me stesso che abiti la mia coscienza. Niente, dunque, a cui possa riportare i miei atti, per qualificarli» (Sartre, Ibid., p.312). Inserito in questa situazione, non sono nella sfera della conoscenza né della riflessione sulle mie azioni o su di me, il che vuol dire che non conosco i miei atti, ma sono i miei atti e, di conseguenza, non c’è modo che una qualche visione trascendente li possa trasferire in dati su cui avanzare un giudizio: «[…] la mia coscienza aderisce ai miei atti, è i miei atti» (Sartre, Ibid., p.312). Questa gelosia che mi spinge a guardare dal buco della serratura io la sono, e non la conosco, perché per conoscerla dovrei osservare, invece di fare, il complesso mondano di utensilità associato a questa gelosia. E se infatti venisse innescato un processo di

riflessione su questa gelosia, con molta probabilità smetterei di guardare dal buco della serratura; ma in questo stato di cose, non essendo coscienza posizionale di me stesso, io non posso definirmi e, inevitabilmente, il mio essere mi sfugge.

Nel momento in cui io vengo visto, sono ferito nel mio essere, e subentrano nella mia struttura delle modificazioni essenziali, per cui io vengo a esistere sul piano della coscienza irriflessa. Questo passaggio richiede chiarimenti, perché il me, a titolo di oggetto, si dà soltanto alla coscienza riflessiva.

Il caso della coscienza irriflessa è diverso perché non mi coglie direttamente come oggetto, ma come oggetto per-altri. Pertanto, la coscienza di me che subentra all’essere visto da altri è una coscienza che mi coglie proprio in quanto mi sfuggo, in quanto, come puro rinvio ad altri, non ho il mio fondamento in me bensì fuori di me. Di conseguenza a ciò, nella struttura dello sguardo così descritta, io non posso guardare il mio ego come un oggetto per me, né avervi un accesso diretto; il me che ho presente attraverso la coscienza irriflessa io non lo guardo:

Così, io non guardo altri come oggetto, né il mio ego come oggetto per me stesso, e non posso neanche dirigere un’intenzione vuota verso questo ego come verso un oggetto che per ora è fuori dalla mia portata; in realtà, esso è separato da me per un nulla che non posso colmare, perché lo colgo in quanto non è per me e, per essenza, esiste per l’altro; non lo considero dunque affatto in quanto potrebbe essermi dato un giorno, ma, al contrario, in quanto mi sfugge per principio e non mi apparterrà mai (Sartre, Ibid., p.102).

Lo sguardo di cui gli altri mi investe, a seguito del quale sono preso dal sentimento della vergogna, mi disvela un ego che io sono pur senza conoscerlo in quanto ego per- altri. E infatti prima che l’altro apparisse, questo ego non era in potenza in me, perché non sarebbe potuto stare nel per-sé. Tuttavia, il nuovo essere che appare per-altri certo non risiede in-altri, e io ne sono totalmente responsabile: mi vergogno di me di fronte ad altri.

Questo ego compare nella situazione in cui sono sorpreso in una attività, in un comportamento che sarei disposto a tenere soltanto in situazioni di solitudine oppure, prendendo Aristotele, di fronte a individui che non potrebbero giudicare le mie azioni, come i bambini piccoli e gli animali. Ciò che mi fa arrossire in una situazione come quella descritta da Sartre è l’aver assunto un essere che non mi è estraneo, ma del quale sono responsabile: «È vergogna di sé, è riconoscimento del fatto che sono, per l’appunto,

l’oggetto che altri guarda e giudica» (Sartre, Ibid., p.314). Sebbene questo ego io non lo conosca, non posso respingerlo come un’immagine che non mi appartiene; non è possibile vergognarsi, autenticamente, di un me che non associo alla mia persona, che non riconosco essere un mio essere. Pertanto, la vergogna sorge come una preoccupazione per me. Le parole usate per descrivere questo concetto esprimono una gamma di emozioni che denota disagio, disparità, impossibilità di prendere in mano la situazione. L’ego che la vergogna mi fa essereè un fardello verso il quale non posso mai voltarmi e il cui peso non posso sentire perché non è un peso esterno che grava su di me come un peso che mi monta sulle spalle; è precisamente il mio essere: «Si tratta del mio essere quale si determina in e per mezzo della libertà d’altri» (Ibid., p.315). Pertanto, la vergogna mi rivela che io sono quell’essere, e che lo sono nella modalità dell’in-sé, anche se non lo sono per me: è infatti sufficiente che altri mi guardi affinché io lo sia. E di fronte allo sguardo d’altri, la mia trascendenza è costretta a cadere, a divenire una trascendenza puramente constatata e quindi data, irrimediabilmente oggettificata e di conseguenza trascesa, depotenziata, sminuita.

La mia possibilità di autodeterminazione viene meno di fronte allo sguardo altrui, che si caratterizza come alienazione e solidificazione delle mie possibilità. Su questa situazione, io non ho possibilità di sorta, e la mia libertà mi sfugge per divenire oggetto dato; è di questo, che provo vergogna. Nella relazione frontale con l’altro, non c’è spazio né presupposto per la reciprocità, né per il reciproco riconoscimento dell’essere soggetti: «Così, per l’altro, io ho deposto la mia trascendenza. Perché, infatti, per chiunque se ne fa testimone, cioè si determina come qualcosa che non è questa trascendenza, essa diventa trascendenza puramente constatata…» (Sartre, Ibid., p.316).

Lo sguardo altrui apre una sorta di dimensione parallela dove il mondo e me non sono più per-me, ma per-altro: «[…] lo sguardo altrui mi fa essere al di là del mio essere in questo mondo, in mezzo a un mondo che è insieme questo qui e al di là di questo mondo» (Ibid., pp.314). Torna l’idea di doppiofondo dove finiscono le cose intenzionate dagli altri e si riversa la fuga del mondo, al di là delle mie possibilità e al di fuori del mio punto di vista, e vedo che anche io, in un certo senso, vi scivolo, quando gli occhi dell’altro si posano su di me, perché sia io che il mondo, sotto lo sguardo altrui, subiamo una modificazione. Sotto lo sguardo, mi temporalizzo e spazializzo; acquisto un di fuori e una natura preclusi alla mia conoscenza. I concetti di “natura” e di “di fuori” esprimono con efficienza il fenomeno dell’oggettivazione che succede allo sguardo, perché rendono bene l’idea di cosa voglia dire venire “fissato” in mezzo al mondo: solo occupando un

tempo e uno spazio condivisi posso esistere per gli altri all’interno di un ambiente relazionale insieme al parco, alla panchina, ai foglietti di carta. E dunque, se l’altro è colui presso il quale depongo la mia trascendenza, è così che guadagno possibilità della relazione, anche se al costo dell’“irrimediabile pericolo” che comporta il trovarsi in mezzo al mondo. Lo sguardo altrui non apre solo un quadro di vergogna, ma anche di paura, di pericolo e di precarietà, dovuti a una situazione di disparità e prevaricazione: «E io colgo l’altro non nella chiara visione di ciò che può fare del mio atto, ma in una paura che vive tutte le mie possibilità come ambivalenti» (Ibid., p.318). Essere oggetto dello sguardo significa trovarmi nelle mani degli altri, in una situazione di passività dovuta alla perdita dei miei poteri e della mia libertà, in un mondo in cui sono fissato per come gli altri mi intenzionano e non per mia autodeterminazione.

Questa perdita di libertà è dovuta al fatto che non sono più padrone, per intero, della situazione, e questo accade perché l’apparizione dell’altro comporta l’avvento di una serie infinita di aspetti che sono assolutamente preclusi alla mia possibilità di previsione. Ma non è che io perda totalmente la mia libertà, come se l’irrompere dello sguardo mi trasformasse a tutti gli effetti in una cosa; semplicemente questa libertà mi si allontana, non posso più interamente disporne.

Un’osservazione pertinente mostrerebbe che anche in un contesto di assoluta solitudine le mie azioni potrebbero dare adito a conseguenze inaspettate, e volgere in esiti ben diversi da quelli sperati o temuti, e questo è vero, perché difficilmente ammetterei di aver previsto l’urto del vaso di fiori sul davanzale. Ciò nonostante, posso ben vedere che non c’è pressoché nulla, in realtà, che non avrei potuto prevedere se solo fossi stato più accorto, se avessi prestato maggiore attenzione all’ambiente circostante e ai miei movimenti; in qualche modo avrei potuto aspettarmele, quelle conseguenze, se avessi meglio ponderato le mie azioni.

Col sopraggiungere dell’altro, invece, svanisce qualsiasi possibilità di prevedere gli elementi che introduce nella situazione, in quanto questi mi sfuggono per principio essendo esclusivamente elementi per altro. Quante volte ho potato dire che mai e poi mai mi sarei aspettato un certo comportamento, o che a seguito del subentrare di un altro, fosse anche con la semplice presenza, le cose avrebbero preso una data piega? La bilancia delle previsioni disattese è decisamente in positivo, rispetto a quello delle previsioni avverate. In parità di condizioni di possibilità, una situazione di cui ho correttamente previsto lo svolgimento avrebbe potuto produrre anche un esito contrario, perché non posso mai essere tano lungimirante da considerare tutta la gamma di comportamenti

inaspettati che l’altro potrebbe attuare, nonché gli atteggiamenti irragionevoli, atipici, che io al posto suo non assumerei. A questo proposito, commentando Il processo di Kafka, Sartre scrive: «[…] quell’ignoranza che, tuttavia, si vive come ignoranza, quell’opacità completa che può essere solo presentita attraverso una totale traslucidità, non è niente altro che la descrizione del nostro essere in-mezzo-al-mondo-per-altri» (Sartre, Ibid., p.319). In mezzo al mondo, in balia degli eventi e degli altri uomini, posso sentire tutto il peso dell’incertezza e dell’imprevedibilità che non subirei, se fossi l’unico attore sulla scena. Lo sguardo altrui mi getta nel mondo e mi inserisce in una trama di oggetti, luoghi e tempi che non sono i miei, in un clima di paura e precarietà dove essere, senza avere modo di conoscere, quell’ego che l’altro fa apparire e che non posso rigettare. L’impossibilità di accedere a questo mio essere, con cui sono in rapporto d’essere, è dovuta al fatto che «[…] è come se si trattasse di una dimensione d’essere dalla quale fossi separato da un nulla radicale» (Sartre, Ibid., p.3159); fra noi si interpone la libertà dell’altro. L’altro come soggetto è un altro libero, attivo, che riversa la sua attività su di me, relegandomi alla passività e alla non libertà; egli mi espropria della facoltà di determinare il mio essere da me, che mi assumo continuamente come quell’essere sorto a seguito dello sguardo: «E mi assumo alla cieca, perché non conosco ciò che assumo: lo sono semplicemente» (Sartre, Ibid., p.106). Espropriandomi della mia liberta, la soggettività estranea si appropria, per trascenderle, di quelle potenzialità che della mia trascendenza sono la condizione stessa.

Analizzato lo sguardo dalla prospettiva dell’oggetto guardato, passo a parlare del soggetto che guarda, per riconfermare, attraverso un confronto fra l’occhio e lo sguardo, che il mio sentirmi guardato non dipende dalla presenza fisica altrui.

Prima di tutto, l’altro è:

[…] l’essere verso il quale io non volgo la mia attenzione. È quello che mi guarda e che io non guardo ancora, quello che mi dà a me stesso come non-rivelato, ma senza rivelarsi lui stesso, quello che mi è presente in quanto mi osserva e non in quanto è osservato; è il polo concreto e fuori portata della mia fuga, dell’alienazione dei miei possibili, e del deflusso del movimento verso un altro mondo che è il medesimo e purtuttavia incomunicabile con questo (Sartre, Ibid., p.323).

Il passo conferma e incrementa le osservazioni già avanzate circa il rapporto di non reciprocità e disparità che lo sguardo instaura, descrivendo azioni che si svolgono nel

medesimo tempo all’attivo e al passivo, senza che la coppia soggetto-oggetto convogli mai in un rapporto soggetto-soggetto. Non solo l’altro-soggetto è il centro verso il quale corre la fuga del mondo che mi si dipana da sotto i piedi, ma è il polo fuori dalla mia portata della mia stessa fuga di me da me, là dove sono un essere che sono, ma che non conosco. Nell’impossibilità di agire, e nel doppiofondo del mondo, che è un altro mondo nel mio mondo, ma a me precluso, muore ogni possibilità di comunicazione.

È interessante notare che la descrizione con la quale Sartre chiarisce la differenza fra gli occhi e lo sguardo si avvicina molto alla riflessione circa “i luoghi e i tempi dell’io e dell’altro” sorta con l’analisi delle Meditazioni:

[…] gli occhi, come oggetti della mia percezione, rimangono a una distanza precisa che si estende da me a essi − cioè, io sono presente agli occhi senza distanza, ma essi sono distanti dal luogo in cui «mi trovo» − mentre invece lo sguardo è su di me senza distanza e insieme mi tiene a distanza, cioè la sua presenza immediata a me stabilisce una distanza che mi separa da lui (Sartre, Ibid., p.311).

È chiaro che lo sguardo non è l’occhio e, più esattamente, non è l’occhio che rimanda all’organo di carne, bensì allo strumento di sostegno dello sguardo. Quale strumento corporeo della visione, instauro con l’occhio un rapporto oggettivo perché lo assumo a partire dalle sue caratteristiche fisiche, come il colore, il taglio, le dimensioni. Posso studiarlo con le altre cose della biologia, posso ferirlo in un combattimento corpo a corpo, estrarlo e metterlo in un barattolo sullo scaffale più alto del mio laboratorio. Se vedo l’occhio, non subisco lo sguardo, e se non subisco lo sguardo, significa che è l’altro- uomo a subire il mio. Agli occhi sono presente senza distanza da un punto di vista percettivo, ma la mia alterità non è nel mondo, e in quanto trascendenza abito un altrove che l’occhio non può raggiungere. L’occhio di conseguenza non può venire a scovarmi e a prelevarmi, non può espropriarmi dei miei poteri e della mia libertà; non innesca alcun sentimento di vergogna, né fa sorgere in me alcun essere per-lui. Quando l’occhio scompare, è allora che subentra lo sguardo: «[…] altri mi guarda non in quanto sta <in mezzo> al mio mondo, ma in quanto viene verso il mondo e verso di me con tutta la sua trascendenza, in quanto non è separato da me da nessuna distanza, da nessun oggetto del