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Ho mostrato che i concetti di alterità emersi dalle Meditazioni cartesiane e da L’essere e il nulla presentano caratteristiche innegabilmente differenti, e anche dove sembra che i pensatori condividano delle idee, si scopre che le trame delle loro analisi intessono conclusioni inconciliabili.

Guardando ai testi, si vede con chiarezza che il vocabolario usato dai due autori è epifania di ciò che emergerà dalle rispettive analisi: disparità, sopraffazione e separazione nel caso di Sartre; analogia, apertura e armonia nel quadro di Husserl.

Per entrambi i filosofi l’altro è trascendenza e, nel caso di Sartre, si parla di trascendenza trascesa, mentre in quello di Husserl di trascendenza nell’immanenza.

Trascendere la trascendenza dell’altro significa reificare, nel rapporto conoscitivo, la trascendenza che è l’altro come soggettività.

L’ errore di fondo sta nel credere che il rapporto con l’individuo empirico sia il rapporto con la soggettività trascendentale, e pertanto disconoscere la portata di una soggettività che non incontro mai nell’esperienza mondana. Di conseguenza, nella relazione empirica, fra personaggi concreti, si intrattiene una relazione fra un soggetto e un oggetto nel mondo che rimanda a un soggetto trascendentale trans-mondano. L’espressione trascendenza trascesa, composta con un verbo in forma passiva, sta a indicare questo mancato riconoscimento della soggettività e dell’attività altrui, perché di fatto l’altro uomo subisce su di sé la mia attività (che lo esperisco, lo indizio, lo conosco): «Ma in quanto trascendo la trascendenza d’altri, la fisso, non è più una difesa contro la fatticità; al contrario, partecipa a sua volta della fatticità; ne è prodotta» (Sartre, Ibid., p.402). Si tratta pertanto di un rapporto di disparità e sopraffazione, di registrazione dei movimenti altrui e delle altrui espressioni; così, nel rapporto che si instaura nel mondo col corpo d’altri, non c’è possibilità che l’altro mi si dia come soggetto, e che la sua trascendenza resti tale dopo essersi imbattuto in me: «Altri, nel fenomeno fondamentale dell’oggettivazione di altri, mi appare come trascendenza trascesa. Cioè, per il solo fatto che io mi proietto verso le mie possibilità; supero e trascendo la sua trascendenza, che è fuori gioco; è una trascendenza-oggetto (Sartre, Ibid., p.399). Che nel mondo non sia data relazione se non in senso oggettuale lo si vede nell’assunto che la vita è trascendenza trascesa e significazione, perché il corpo non può apparire senza sostenere delle relazioni che significano, con il riferimento costante ad azioni concrete, all’utilizzo di complessi- utensili: «La vita è il corpo-sfondo d’altri, in opposizione al corpo-forma, in quanto il corpo-sfondo può essere percepito, non più dal per-sé d’altri come implicito e non- posizionale, ma proprio esplicitamente e oggettivamente da me» (Sartre, Ibid. p.404).

Contrariamente, l’espressione trascendenza nell’immanenza esprime l’idea di un’alterità che, sebbene non appartenga al mondo, viene a darsi nelle mie sintesi coscienziali e, pur non esaurendosi in queste, non subisce alcuna violenza, alcun depotenziamento o reificazione. Il verbo usato per queste spiegazioni è in forma riflessiva, e infatti “darsi” esprime l’attività di una coscienza trascendentale che si dà da sé, invece di subire passivamente un’attività altrui. Sebbene l’altro non mi si dia completamente e si situi comunque in una dimensione che trascende il mondo, non è questa una nota negativa, bensì il significato stesso dell’alterità, nonché il presupposto della relazione:

D’altra parte, questa presenza in carne e ossa non impedisce che noi si ammetta senz’altro che, in tali casi, in realtà non giunge a datità originaria l’altro Io in quanto tale, non i suoi vissuti, le sue stesse manifestazioni, nulla di ciò che appartiene alla sua stessa essenza propria. Qualora questo fosse il caso, se ciò che è essenzialmente proprio all’altro fosse accessibile in modalità diretta, esso sarebbe allora meramente un momento della mia essenza propria e, infine, egli e io stesso saremmo uno (Husserl, M.C., p.147).

Nella non totale esperibilità dell’estraneo risiede il nucleo essenziale della sua soggettività e della sua concreta esistenza individuale; per Husserl non si tratta di un fenomeno che rimanda a un essere, bensì un fenomeno d’essere, e dunque l’essere che si dà per come esso propriamente è. Allo stesso modo in cui io sono un io perché possiedo una sfera primordiale, così l’estraneo è un altro io perché possiede anch’esso questa mia stessa sfera primordiale; io, nel modo del qui, lui nel modo del là. In me si riflette un io che è costitutivamente e trascendentalmente un altro io che ha la propria singolare vita intenzionale. Il rispecchiamento, la presenza, e anche l’assenza là dove interpretata come essenziale alla relazione, aprono un contesto di reciprocità e riconoscimento, di collaborazione e di armonizzazione progressiva, a partire dall’osservazione che: «Io devo innazitutto esporre il proprio in quanto tale, al fine di capire che nel proprio anche il non proprio riceve senso ontologico, e precisamente come appresentato in modo analogico» (Husserl, Ibid., p.190).

Circa il mondo oggettivo, a cui ho accennato nel paragrafo sull’altro come oggetto e su cui qualche parola ho già speso, Sartre parla di una fuga del mondo verso un altro termine che non sono io. Come uomo che guarda quel che io guardo, l’altro mi espropria (mi deruba39) del mondo annullando le mie distanze e ponendo le proprie. È come se si aprisse un canale di scolo nell’universo, e anzi un decentramento di tutto l’universo, che sfugge per convogliare verso un nuovo centro. Pur parlando di mondo oggettivo, le formazioni dell’altro uomo non vengono messe a mia disposizione, così come le mie non vengono rimesse a lui; io mi limito a registrare la sua attività senza poterne vedere i risultati e anzi ponendoli come delle assenze. Intorno all’altro si forma uno spazio che è fatto col mio spazio, ma che non è per me, e che è in costante fuga. Di nuovo mancano le basi per un’effettiva relazione, per una possibile collaborazione, perché ognuno ha il

39 Cfr. Sartre, Ibid., p.308.

proprio accentramento di mondo e il proprio prato, la propria erba e il sapore del pistacchio che nel mentre in cui cammina, sfiora e assapora porta via da me. Il mondo oggettivo non è un mondo condiviso ma una regione di utensili per la realtà umana che io faccio in modo che siano per me in un’attività declinata al singolare, e che l’altro, come me, fa in modo che siano per lui; le cose utensili non sorgono da una formazione in collaborazione con l’altro uomo, ma è già emerso che esse hanno una contingenza originaria e sono avvenimenti. Peraltro, come le cose sono cose-utensili, strumenti, anche l’altro uomo che è nel mondo si è visto essere indicato dalle cose come uno strumento, perché io lo colgo quale centro di riferimento che esse mi indicano, e così appreso e trasceso, posso utilizzarlo.

A partire da questa visione, è inevitabile che la posizione di Sartre non concili con quella di Husserl, e col quadro più generale che questa apre: le monadi si guardano indirettamente, perché direttamente guardano il mondo oggettivo che sta loro in mezzo e fa da mezzo per la loro comunicazione. Il mondo oggettivo, pertanto, è condizione della loro relazione ma, allo stesso tempo, formazione sorta dalla costante collaborazione fra le monadi. L’essere monade è l’essere interamente per sé dell’individuo, caratteristica essenziale, essenza stessa della sua esistenza individuale. Questa sfera assolutamente personale è la caratteristica, prima e trascendentale, che accomuna ogni monade e, allo stesso tempo, la condizione della loro separazione: non è possibile esperire direttamente la sfera primordiale altrui: «Essi sono bensì realmente [reell] separati dalla mia, frattanto che non c’è nessuna connessione reale [reell] che conduce dai loro vissuti ai miei vissuti e così, in generale, da ciò che è essenzialmente loro a ciò che è essenzialmente mio» (Husserl, M.C., pp.168-169). Così, la divisione reale e mondana, la separazione dei corpi- vivi oggettivi, è tale in virtù di questa separazione costitutiva.

Date queste premesse, sembra complesso giustificare il fatto che le monadi, dalla loro distanza costitutiva, possano comunicare, perché se anche poste su un piano identitario, non possono guardarsi in maniera diretta, non possono vedersi “dentro”, e, come direbbe Sartre, possono sempre mentirsi. Husserl spiega che nelle monadi, le quali hanno le proprie correnti di vissuti, le proprie formazioni intenzionali e immagini ideali assolutamente proprie, l’entrata intenzionale dell’altro nella sfera di primordialità è un’entrata irreale, ma certo non nel caso del sogno o dell’illusione, bensì come: «[…] connessione peculiare, una comunità effettiva, quella che, appunto, rende trascendentalmente possibile l’essere di un mondo, di un mondo di uomini e cose». Così, in virtù di questa comunità originaria, io ho percezione del mondo oggettivo perché

percepisco, nella mia sfera di specificamente proprio, l’altro come colui che osserva lo stesso che vedo io.

Pertanto, la possibilità della relazione è già inscritta nella soggettività trascendentale, e si concretizza nel mondo condiviso in virtù di un lavoro costante di correzione reciproca dei rispettivi vissuti che sono comprensibili in virtù di questa originaria possibilità di comprendersi:

Nel legame primordinale tra me e l’altro messo in luce dall’empatia, assieme al tempo comune, si costituisce anche quel mondo universale spazio-temporale, in cui io e l’altro siamo vincolati intersoggettivamente nel noi. Questo noi, dal punto di vista trascendentale, si riferisce ai soggetti di tutte le appercezioni costitutive di sé e degli altri, come soggetti trascendentali incarnati, anime in quanto persone viventi40.

Il mondo condiviso fa da mezzo alla comunicazione intermonadica perché è qui che concretamente le monadi si relazionano nell’ idea teleologica di armonizzazione e perfezionamento continui. Il senso della mia individualità come monade non è solo un’astrazione atta a individuare un comun denominatore, bensì: «[…] l’esito concreto dell’esercizio metodico della mia effettiva riflessione fenomenologico-mondana e del tutto inseparabile da essa poiché il vero senso metodico della riduzione fenomenologica è, per Husserl, la consapevolezza della mia concreta, reale soggettività, cosa che mi riguarda pienamente e interamente e non semplicemente quello di un’astratta categoria di pensiero»41.

Pertanto, non ha alcun valore a questo proposito se gli individui sono sempre in condizione di potersi mentire, e questa pretesa di conoscere l’altro per come lui si conosce, così da potervisi relazionare, perde di senso. La premessa della relazione è un germe condiviso da ogni monade, e il fatto che la comprensione non sempre sia completa o a volte addirittura assente non inficia questa condizione di possibilità trascendentale.

Se per Husserl il mondo oggettivo è tale solo in virtù di un riconoscimento originario fra le soggettività, nell’analisi sartriana relativa a questo tema si è ben lontani dal parlare di un rapporto con una soggettività. Riconoscendo la validità di una natura ontologica del mio mondo che richiede di essere anche mondo per altri (fin qui, Husserl), Sartre spiega il ruolo dell’altro come garante di un’oggettività particolare degli oggetti

40VENIER L’esistenza in ostaggio, p.98. 41VENIER, L’esistenza in ostaggio, p.54.

del mio mondo. Infatti, è già emerso che l’altro è colui che guarda ciò che guardo io, ma rivolto a un profilo che io non vedo e che tuttavia appartiene al mio mondo, la cui fuga da me posso quindi registrare. Sebbene altri mi espropri di questa porzione di mondo, quando rilevo e registro questa fuga dell’universo, io registro anche questo centro di riferimento secondario che non sono io; e così anche altri è oggetto per me, e lo utilizzo come forma vuota di accrescimento del mondo oggettivo. È evidente lo iato fra questa prospettiva e la condizione di collaborazione, di fine comune e di riconoscimento di reciproca soggettività sia insuperabile. Malgrado il concetto d’altri mi permetta di fare delle previsioni all’interno del mio sistema di riferimento, e dunque possa agli effetti rinsaldare i miei fenomeni dietro possibilità di prevedere un gesto o un dato atteggiamento, l’alterità in sé e per sé non si riconduce a questa definizione: «Il concetto d’altri non è puramente strumentale: non esiste affatto per servire all’unificazione dei fenomeni, bisogna dire, invece, che certe categorie di fenomeni sembrano esistere solo per lui» (Sartre, Ibid., p.278). Pertanto, altri è un fenomeno che non rimanda ai miei fenomeni, ma che al contrario, e proprio per principio, si riferisce esattamente a dei fenomeni che restano al di fuori di qualsiasi esperienza possibile per me. Infatti, è la presenza a me dell’altro-sguardo, e dunque dell’altro come soggetto, che determina un allontanamento assoluto del mondo (e di me da me), che è dissoluzione della mia conoscenza e proprio un disintegrarsi del mondo che si ricompone in un laggiù che neppure posso pensare: «La presenza per me dell’altro-sguardo non è né una conoscenza né una proiezione del mio essere né una forma di unificazione o categoria. È, e non posso derivarla da me» (Sartre, Ibid., p.326). Da ciò deriva la separazione netta fra la sfera del conoscere e quella dell’essere, perché se l’altro conosciuto è l’altro di cui si discoprono le maniere d’essere, la strada per il discoprimento dell’essere esula dal rapporto conoscitivo. Pertanto, non è certo nel mondo che si incontra l’alterità, ma nello stato di vergogna e paura in cui assumo di essere un essere che sempre mi sfugge. Non solo altri non può essere un concetto regolatore del mondo oggettivo, ma non può esserlo neanche di me, che a seguito dello sguardo non mi colgo oggetto per me, ma oggetto per l’altro. Il distacco da me e la libertà dell’altro sorgono insieme, non posso concepirli separatamente, e l’altro è proprio questo, il fatto della presenza di una libertà estranea. Così, l’unica attività che posso rivolgere all’altro è quella della contemplazione, in cui l’altro mi si dà in un tempo universale perché l’unica coscienza che può apparirmi nella sua temporalizzazione è la mia:

(altri) è ciò che mi si dà nel tempo universale, cioè nella dispersione originaria dei momenti, invece di apparirmi nell’unità della propria temporalizzazione. Perché la sola coscienza che possa apparirmi nella sua temporalizzazione è la mia, e può farlo solo rinunciando a ogni oggettività. Insomma, il per-sé è inconcepibile da parte d’altri come per-sé. L’oggetto che io percepisco sotto il nome d’altri mi appare sotto una forma radicalmente altra; altri non è per sé come m’appare, io non appaio a me stesso come sono per altri; io sono tanto incapace di cogliermi per me come sono per altri, quanto di cogliere ciò che è altri per sé, partendo dall’oggetto-altri che mi appare (Sartre, Ibid., pp.293-294).

Dai contenuti di queste righe emerge cos’è che in definitiva sfugge a Sartre delle analisi di Husserl, perché qui è quanto mai evidente che gli machi un’idea di coscienza come coscienza temporalmente costituita, la cui forma intenzionale è una sintesi che si snoda nel tempo, in un flusso costante di passato, presente e futuro. C’è già stato modo di mostrare che la caratteristica principale della coscienza è l’essere coscienza intenzionale, ovvero coscienza motivata, diretta agli oggetti:

Una volta che noi ci siamo impadroniti del compito fenomelogico della concreta descrizione della coscienza, ci si dischiudono vere infinità di fatti che – prima della fenomenologia – non sono mai stati studiati, i quali possono essere designati anche come fatti della struttura sintetica, che danno unità noetico-noematica alle cogitationes sia a livello singolo (in quanto interi sintetici concreti) che in relazione ad altre. Solo la chiarificazione della proprietà della sintesi rende fruttuosa la rivelazione del cogito, del vissuto intenzionale in quanto coscienza- di…(Husserl, M.C., p,75).

La motivazione connette ogni singolarità facente parte del flusso coscienziale, e si definisce quale legalità formale della genesi universale. La coscienza intenzionale comprende la molteplicità dei vissuti che sono compossibili solo nella forma universale di unità del flusso, e che altrimenti si perderebbero in un caos generale che non si ascrive certo a una struttura razionale capace di ricordi, attualità e aspettazioni. Pertanto, la coscienza husserliana non è formata da blocchi esperienziali isolati, staticamente rigidi e sconnessi gli uni dagli altri, come se sorgessero e tramontassero in virtù della presenza e dell’assenza delle cause che li determinano, ma l’unità della temporalità coscienziale è altresì un blocco duraturo che comprende presente, passato e futuro e si spiega attraverso il meccanismo tripartito della prima impressione-ritenzione-protenzione. La prima impressione non compare mai isolatamente, ed è una componente astratta che non può

provvedere in nessun caso a una percezione dell’oggetto temporale; la ritenzione offre la fetta, il profilo appena trascorso dell’oggetto in questione; con la protenzione ci si appresta ad assumere il profilo dell’oggetto che è in procinto di accadere. In questo modo, la struttura temporale della coscienza comprende presente, passato e futuro, ed emerge che ogni, seppur diversa, struttura intenzionale possiede la stessa base strutturale di coscienza interna. Di conseguenza tutti i vissuti dell’ego, la costituzione di tutti gli oggetti esistenti, che siano reali o ideali, trascendenti o immanenti sono tali in virtù dei sistemi dell’ego che agiscono temporalmente, e questi sistemi sono anch’essi inseriti in una genesi secondo leggi. Così, questa modalità di congiunzione che unisce singola coscienza a singola coscienza realizza la sintesi universale che è l’intera coscienza unificata: «La sintesi non si trova dunque solo in tutti i singoli vissuti e non connette solo occasionalmente singoli vissuti con altri singoli vissuti; piuttosto l’intera vita della coscienza, come abbiamo già detto precedentemente, è unificata sinteticamente» (Husserl, M.C., p.77). Tale descrizione dispiega ulteriormente l’idea del cogito husserliano come apertura di una sfera di attività trascendentale, perché questo cogito è un flusso costante di attività e potenzialità, fondato a diversi strati da cogitata particolari, che comprende sinteticamente tutti i vissuti di coscienza. La distinzione fra la coscienza del tempo e il tempo in quanto tale si riassume nella distinzione fra i vissuti intratemporali e le modalità temporali di manifestazione come molteplicità corrispondenti, ma anche queste modalità di manifestazione sono esse stesse vissuti intenzionali, che si danno nuovamente come temporalità nella riflessione; pertanto la caratteristica dell’ego è di essere per se stesso e di riferirsi intenzionalmente indietro a se stesso. L’ego è in una continua autoesplicazione, tale per cui il razionale pone il reale.

Quindi, è chiaro che pensare una coscienza fuori dal tempo non è possibile, in quanto la caratteristica fondamentale della coscienza è quella di esperire sinteticamente e di essere essa stessa sinteticamente unificata. Da ciò, torno a leggere le considerazioni sartriane sul fatto che, per relazionarmi con la coscienza d’altri, dovrei contemplarla in un tempo universale quale dispersione originaria dei momenti. Di fatti, solo così potrei rapportarmi, senza oggettificarla, a una coscienza che nella propria effettiva temporalizzazione può apparire solo a sé, perché solo in se stessa la coscienza non subisce modificazione o reificazione di sorta. A questo punto, vorrei capire dove si trova una coscienza che deve contemplare la coscienza d’altri senza circoscriverla ad alcun tempo, e dunque essendo essa stessa, necessariamente, nella a-temporalità. Tentare di astrarre questa coscienza da ogni costruzione le stia intorno e non le appartenga strettamente non

sarebbe la soluzione giusta per portarla fuori dal tempo, perché ciò che le appartiene più strettamente, la sua caratteristica essenziale, è proprio quella di essere coscienza temporale. Così, per portare la coscienza fuori dal tempo, anziché di un’astrazione, dovrei più esattamente tentarne un congelamento che solidificherebbe e interromperebbe il flusso della sua attività sintetica. L’interruzione dell’attività sintetica della coscienza non sarebbe solo l’interruzione del suo esperire, del suo osservare e conoscere; ma sarebbe interruzione del suo volere, del suo sentire e del suo vivere. Se quindi voglio escludere che la relazione col soggetto puro sia un rapporto metafisico, mistico o religioso, quale Sartre richiede: «Tuttavia non si tratta qui di riferirci a qualche esperienza mistica o ineffabile. È nella realtà quotidiana che altri ci appare e la sua probabilità si riferisce alla realtà quotidiana» (Sartre, Ibid., p.306), con cosa devo identificare questo rapporto, se io non trovo nulla, con queste caratteristiche, nelle attualità e potenzialità della vita della