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Neursocienze e fenomenologia a confronto nella disamina dell’alterità

A caratterizzare l’impostazione fenomenologica è, infatti, l’idea secondo cui il modo di apparire degli oggetti di esperienza non può essere ricondotto o ridotto a come è fatta la nostra mente […] Chi, dunque, cerca la soluzione dei problemi filosofici attraverso i risultati della ricerca neuroscientifica, finisce per confondere piani del discorso diversi, costruendo una sorta di nuovo psicologismo biologizzato e tornando, così, a una concezione non intenzionale della vita di coscienza35

Sono d’accordo con le posizioni che raccomandano cautela circa una analisi comparativa fra fenomenologia e neuroscienze, ma ritengo che i timori di Costa su un ritorno dello psicologismo in chiave biologica siano poco fondati.

Certamente la scoperta del sistema specchio deve essere interpretata tenendo conto delle riserve e delle precauzioni avanzate dalla stessa neurobiologia, nonché dalla difficoltà di uno studio empirico del cervello, sia per quanto riguarda gli strumenti di cui disponiamo (ma soprattutto quelli di cui non disponiamo), sia per quanto riguarda l’“osservabilità” di circuiti di così difficile risoluzione. Le probabilità di dare vita a interpretazioni rischiose, dovute anche al fascino di poter offrire un’effettiva dimostrazione a teorie finora prive di una base materiale, sono certamente alte, ma sono dell’idea che il discorso di Costa non individui un effettivo problema.

Anche su un piano puramente teorico, avanzare l’ipotesi di un sistema specchio come meccanismo di primaria interpretazione degli scopi altrui e, dunque, di un primo accesso all’altro, non comporterebbe il rischio di un ritorno allo psicologismo. Affermare l’esistenza del sistema specchio non significa affermare che l’altro esiste perché l’uomo dispone del sistema specchio e così che l’altro non esisterebbe, se nell’uomo questo meccanismo mancasse. Come la fenomenologia non intende ricercare né motivare i presupposti attraverso i quali porre l’esistenza dell’altro, così le scoperte della neurobiologia non intendono presentare una dimostrazione apodittica della sua esistenza che esuli dal riferimento alla coscienza. Le dinamiche fra neuroni specchio tradotti in termini di input e output potrebbero costituire esattamente quei meccanismi e quelle modalità attraverso i quali inizierebbe a farsi strada, nella mia coscienza, la coscienza dell’altro. In via teorica, pertanto, non credo che sarebbe tanto rischioso affermare che i

neuroni specchio costituiscono la base materiale attraverso la quale instaurare il processo entropatico e, successivamente, quello empatico.

Tenendo fermo l’iniziale richiamo alla cautela, ed evitando dunque affermazioni non dimostrabili, pensare il sistema specchio in questi termini non potrebbe comunque, in nessun caso, significare che gli altri esistono solo nella mia mente, e tantomeno che l’esistenza dell’altro è dovuta dalla presenza, nell’uomo, del sistema specchio. Se infatti seguissimo questa linea di ragionamento, alla scoperta di individui che mancano del sistema specchio dovrebbe seguire la paradossale conclusione che l’altro non esiste e non, come anche logica suggerisce, che essi sono privi delle possibilità atte a costituire l’esperienza dell’alterità (risultato che studi recenti hanno offerto).

Costa approfondisce la sua argomentazione affermando che l’approccio neuroscientifico è rischioso perché una prospettiva sul funzionamento del cervello sostituirebbe la domanda sulla validità delle forme di ragionamento con quella che indaga i motivi per i quali pensiamo in una certa maniera. In risposta a ciò, mi troverei costretto a dire che le forme di ragionamento sono valide perché il cervello è fatto in un determinato modo, ma che pertanto potrebbe essere stato fatto anche in un modo diverso.

Un’indagine che miri a capire come è fatto il cervello e le sue funzionalità, che intenda fare emergere le dinamiche mediante le quali l’uomo forma la coscienza dell’altro, di sé e del mondo circostante non è un’indagine che affermi che il reale esiste nei modi e nelle maniere che impone la nostra mente, così che se questa “mente” fosse diversa, anche il reale lo sarebbe. Tale rischio è a mio avviso non ipotizzabile, perché alla domanda sul funzionamento del cervello si può fornire un’altra risposta, assolutamente in linea con la direzione dell’indagine fenomenologica: il reale dispone delle sue leggi, indipendentemente dalle caratteristiche del nostro cervello, ma è proprio grazie a queste caratteristiche che il cervello è in grado di fare emergere le leggi del reale.

Un altro errore ben grave è quello di interpretare le dinamiche dei neuroni specchio nei termini di un sistema che riconosce l’altro come dotato di una mente, quando gli esperimenti non suggeriscono nulla più che una comprensione della finalità che motiva le azioni, che sono per di più azioni molto semplici ed elementari. Numerose critiche mosse contro possibili associazioni fra la teoria dell’alterità husserliana e la teoria neuroscientifica derivano proprio da questa errata interpretazione delle dichiarazioni del mondo scientifico sulla scoperta del sistema specchio. Si noti, ancora, Costa:

Una recente ricerca ha sottoposto a esperimento il modo in cui i neuroni specchio reagiscono quando un soggetto osserva le azioni di un robot meccanico, allorchè questo robot compie azioni dotate di senso. Né è risultato che i neuroni specchio sparano, e tuttavia è evidente che, in questo caso, non ha luogo alcuna esperienza dell’alterità, poiché al Robot non attribuiamo alcuna psiche, né intenzioni, emozioni o pensieri36

In coda a questa critica, è tuttavia lo stesso Costa a mostrare che il ruolo assegnato al sistema specchio non copre tutti i livelli di cui si compone la teoria dell’empatia (e, più esattamente, quella entropatica) in quanto l’esperienza dell’alterità è un’esperienza tutt’altro che semplice. Essa pertanto richiederebbe l’intreccio di almeno tre strati diversi: l’esperienza di essere un’unità psicofisica; la capacità di formare una sintesi dell’identificazione basata sulla somiglianza dei corpi vivi; la facoltà di leggere come sensati certi comportamenti. È quindi evidente che questo iter formativo è difficilmente esauribile nel solo sistema specchio, ma certo non ho incontrato proposte che esprimessero questa idea. Pertanto, resta ragionevole ipotizzare che queste stratificazioni abbiano luogo nel sistema neurale e che uno o più anomalie ad esso associate comportino differenti tipi di disturbi ascritti allo spettro dell’autismo (come già emerso nei precedenti paragrafi). Il cervello pertanto, come luogo di moudulazione dell’alterità, agisce anche attraverso il meccanismo specchio, ma certo non si estingue in questo la sua capacità, progressiva, di avvicinarsi all’altro.

Anche alla luce di quest’ultime descrizioni, resto dell’idea che il sistema specchio presenti elementi compatibili con le dinamiche legate alla teoria Husserliana dell’alterità, e che talvolta alcune reticenze possono essere eliminate attraverso più precise contestualizzazioni.

C’è stato modo di rimarcare più volte che l’indagine fenomenologica intende porre le condizioni attraverso le quali mostrare come una coscienza possa intenzionare l’alterità. Di conseguenza a ciò, si è visto che la primissima forma di avvicinamento all’altro uomo è quella dell’accoppiamento, come sintesi passiva di associazione fra il mio corpo fisico e il corpo fisico altrui. I due dati pertanto, vengono offerti in associazione accoppiante, ovvero nell’unità di una coscienza che si instaura quando l’altro entra nel mio campo percettivo. La prima caratteristica di queste dinamiche su cui mi preme tornare è il fatto che l’accoppiamento avviene come sintesi passiva, per cui il collegamento fra il

corpo fisico (là) dell’estraneo col mio corpo fisico (qui) si instaura sulla base di una certa appercezione analogizzante che non deve essere intesa come un’inferenza analogica. L’appercezione infatti, non è un atto di pensiero, non implica alcun ragionamento né procedimento discorsivo. Come forma originaria dell’associazione, pertanto, l’accoppiamento comporta una fondazione fenomenologica che si instaura già a livello di pura passività, indipendentemente dalla nostra attenzione.

Nella stessa passività si instaura il processo di comprensione degli scopi e dei fini altrui che motivano le azioni elementari, ai quali si perviene mediante le dinamiche fra neuroni specchio. La prima edificazione di un ponte con l’alterità avviene in maniera assolutamente non attiva, non volontaria e non razionale, dal momento che si parla di relazioni neurali su base di stimoli elettrici, e perché la comprensione dell’azione altrui è dovuta all’automatica riattivazione della rappresentazione motoria dell’azione stessa; non c’è bisogno di alcun ragionamento o procedimento deduttivo. Entrambe la teoria neuroscientifica e quella husserliana offrono la possibilità di un accesso all’altro che esula dalle caratteristiche individuali, dallo studio del singolo e delle sue possibilità, dal momento che il processo primario attraverso il quale si può accedere all’altro non richiede capacità particolari.

Neppure nel caso dell’autismo potremmo affermare che una caratteristica specifica, di un ben specifico soggetto patologico, comporta l’impossibilità dell’accesso all’altro, in quanto il meccanismo di interrelazione che qui viene a mancare non è una particolarità, una specificità contingente, bensì un fatto trascendentale da cui il soggetto chiamato in causa è escluso. Di conseguenza, la a-normalità del caso offerto dall’autismo è già inscritta nella normalità:

Ora, noi ben sappiamo che ci sono casi come anormalità, ciechi, sordi, ecc., che dunque in nessun modo i sistemi di manifestazione sono assolutamente identici, e che interi strati (sebbene non tutti gli strati) posso differire. Tuttavia, l’anormalità deve in quanto tale dapprima costituirsi come tale e lo può fare solamente sulla base di una precedente normalità (Husserl, M.C., p.164).

Il caso dell’autismo è inoltre particolarmente utile a porre in evidenza la necessità di poter formare la coscienza dell’altro al fine di formare una coscienza di sé ben strutturata e completa, ascrivibile alla sfera della sanità e della normalità. Non ci sono esperimenti a supporto dell’idea che gli individui affetti da autismo non abbiano coscienza di sé, ma è indubbio rilevare che la loro percezione in relazione al proprio

corpo, ai propri spazi e alle proprie azioni non coincide con quella degli individui sani. Essi presentano comportamenti che evidenziano una consapevolezza assai precaria della propria forza, delle proprie dimensioni, delle proprie attività in relazione agli altri.

Malgrado nel mondo scientifico ci siano ancora forti disaccordi circa l’esistenza del sistema specchio e le sue effettive funzioni (alle tesi di Gallese e Rizzolatti si oppongono soprattutto quegli studiosi che ridimensionano ulteriormente il ruolo del sistema specchio nella relazione, o che avanzano la possibilità di una diversa funzione…), coloro che accordano validità a questa teoria rilevano l’importanza fondamentale del ruolo svolto dal corpo. Con il nome di “embodiment”, si vuole esprimere il concetto per cui parti corporee, azioni e rappresentazioni corporee hanno un ruolo determinante nei processi cognitivi, tale che gli stati mentali sarebbero embodied nella misura in cui vengono rappresentati in formato corporeo. Mente e corpo sarebbero pertanto due livelli descrittivi della stessa realtà, la quale assume un vocabolario e delle proprietà riconducibili al livello che la sta analizzando. Affermare questo non significa credere che un pensiero possa essere riducibile a un muscolo o delle dinamiche neurali, ma l’idea di fondo è che i contenuti della mente siano inavvicinabili, senza il contributo della corporeità.

Anche la teoria entropatica husserliana attribuisce un ruolo decisivo al corpo, perché al subentrare dell’alter-ego nel mio campo percettivo c’è una presentazione originale del suo corpo fisico che viene appreso come corpo vissuto sulla base di una trasposizione di senso, per somiglianza, che va dal mio corpo-vivo-fisico a quello altrui. Il focus dell’attenzione non è diretto solamente al corpo fisico altrui, ma anche al mio corpo fisico che è costantemente riferito a se stesso, e attraverso il quale sono costantemente collegato con l’esterno. È il corpo fisico che viene percepito in maniera diretta e originale, pertanto in assenza della percezione del corpo e poi dei gesti da questo compiuti non potrebbe instaurarsi alcun processo di comprensione dell’apparato psichico altrui.

Il motivo per cui il corpo fisico esperito viene esperito come estraneo, è dovuto al fatto che, nonostante sia dato in una associazione accoppiante con il mio corpo fisico, il primo è dato nel modo del “là”, mentre il secondo è nel modo del “qui”. Il corpo fisico estraneo pertanto, si costituisce a nucleo di un’appresentazione dell’esperienza di un ego che mi è coesistente nel modo del là, ovvero come se io fossi là. È proprio sulla base di questa “distanza” originaria, che questo ego può essere appresentato come altro e non essere soltanto un pezzo di me. Infatti, la modalità di manifestazione del corpo fisico estraneo non si accoppia in una associazione diretta con la modalità di manifestazione del

mio corpo fisico (che vivo nel modo del qua), ma ricorda la mia apparenza fisica se io fossi là.

La distanza necessaria alla trasposizione di senso, è la distanza della mia sfera originale e di quella dell’altro, sulla base della quale è stato possibile costruire, nel primo capitolo, il discorso sui luoghi dell’ego e dell’alter-ego. Per poter determinare un tempo e uno spazio oggettivi, è dunque necessario che i soggetti appartengano a tempi e spazi assolutamente propri, per potersi riconoscere come estranei in virtù di una somiglianza che ha bisogno della distanza:

Inoltre, l’altro è appercepito appresentativamente in quanto “Io” di un mondo primordiale, ovvero di una monade, nella quale il suo corpo vissuto è originariamente costituito ed esperito nel modo del qui assoluto, appunto come centro funzionale per il suo governare. Dunque in questa appresentazione il corpo fisico che compare nella mia sfera monadica nel modus del là, il corpo fisico che è appercepito in quanto corpo vissuto fisico, in quanto corpo vissuto dell’alter ego, segnala lo “stesso” corpo fisico nel modo del qui, come quello che l’altro esperisce nella sua sfera monadica (Husserl, M.C., p.157).

La comprensione della corporeità vissuta dell’altro e del suo comportamento specificamente corporeo avviene sulla base di una corrispondenza di un mio agire corporeo:

L’Io è inizialmente determinato come colui che agisce in questo modo corporeo e si conferma costantemente nel modo noto, nella misura in cui l’intera forma dello stile dei semplici decorsi per me primordialmente sensibili devono costantemente corrispondere a quelli noti tipologicamente a partire dal mio proprio agire corporeo (Husserl, M.C., p.159).

Dunque, non solo l’alter-ego è tale a seguito del riconoscimento della sua strutturale analogia con l’essere che io sono, ma dalla similitudine sensibile che si instaura tra la conformazione esteriore del mio corpo alla conformazione esteriore del corpo altrui si giunge, procedendo verso sintesi associative, a definire le analogie tra i gesti eseguibili dal mio corpo e quelli eseguibili dal corpo dell’altro.

Così, l’osservazione di un’azione da parte di un soggetto indurrebbe in esso l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a controllarne l’esecuzione, quindi l’automatica simulazione della stessa azione nel suo cervello. La comprensione dei fini che motivano l’azione dell’altro avviene pertanto sulla base di una mia trasposizione nei

panni dell’altro: l’altro si comporta analogamente a come io mi comporterei se fossi al suo posto, ed acquista pertanto un senso che viene da me.

Mano a mano che si prosegue nell’osservazione dell’altro, costantemente nel processo dell’associazione operante, si ha a che fare con nuovi contenuti appresentativi, e si hanno delle pretese associative, in termini di aspettazioni, che potranno essere confermate o smentite.

Il discorso costruito sull’empatia, che sia in termini neuroscientifici o biologici, ha posto le condizioni perché si possa esperire l’altro come altro, e comprendere le motivazioni che stanno dietro ai suoi comportamenti più elementari, per proseguire poi in dinamiche sempre più complesse (e a questo punto certo non a-razionali) che ne decifrino il comportamento:

Rispetto all’esperienza d’estraneo, è chiaro che la sua progressione, che dà conferme tramite riempimenti, può avere successo solo attraverso nuove appresentazioni, che decorrono sinteticamente in modo concordante, e attraverso il modo in cui esse sono debitrici della loro valenza ontologica a un plesso di motivazioni, con le presentazioni specificamente proprie, costantemente appartenenti a esse, ma mutevoli (Husserl, M.C., p.153).

La possibilità di comprendere le motivazioni che stanno dietro alle azioni elementari altrui è pertanto data in maniera non mediata e indipendente dalle nostre capacità o abilità, ma questo non vuol dire che si esclude la possibilità dell’errore.

Ciò che ho introdotto attraverso la coscienza in terza e in prima persona è un’idea dell’altro ego quale ego immediatamente avvicinabile ma irrimediabilmente inaccessibile, perché nonostante sia sempre possibile accedere alle motivazioni che stanno dietro gli atteggiamenti dell’altro, non ci è mai dato esperire i suoi vissuti. Anche la ricerca in campo biologico fissa l’impossibilità ultima di esperire interamente l’altro, ed è proprio in questo, come si è visto per Husserl, che risiede il nucleo originario dell’alterità, e la stessa possibilità della relazione intersoggettiva.

III cap.

L’analisi dell’alterità nel pensiero di Sartre 3.1 Introduzione alla teoria dell’altro sartriana

Le Meditazioni cartesiane effettuano un’analisi dell’alterità che passa attraverso le sintesi intenzionali della coscienza trascendentale. Sebbene l’altro sia portatore di una realtà che vale di per sé, e presenti caratteristiche ed attributi specificamente propri, esso viene indagato nell’idea portante dell’intero impianto fenomenologico: è insensato parlare di qualcosa che non vale per la coscienza.

Sartre intraprende lo studio dell’alterità attraverso continui richiami alla fenomenologia, inserendo in L’essere e il nulla delle critiche puntuali alle dottrine di Husserl. Egli è convinto della necessità di istituire una relazione intersoggettiva che si dia al di fuori della concettualizzazione e della sistematicità del discorso filosofico, in cui non si pone altra relazione se non quella soggetto-oggetto. Una delle critiche avanzate da Sartre ricade sul fatto che Husserl si sia concentrato sull’indagine delle maniere d’essere dell’altro, e che abbia per questo escluso la possibilità di indagare l’essere dell’altro: «[…] avendo ridotto, giustamente, l’oggetto alla serie collegata delle apparizioni, hanno creduto di averne ridotto l’essere alla successione delle sue maniere d’essere, e perciò lo hanno spiegato con concetti applicabili solo alle maniere d’essere, concetti che esprimono delle relazioni tra una pluralità di esseri già esistenti»37. L’essersi concentrato sulle modalità del soggetto egologico di intenzionare il mondo, e sulla validità di queste strutture, avrebbe impedito a Husserl di comprendere che il vero scopo di un’indagine dell’alterità è quello atto a fare emergere l’essere dell’altro.

A mio avviso, il valore di questa critica deve essere confrontato con gli obiettivi prefissati dall’indagine husserliana, le cui conclusioni ritengo essere del tutto coerenti con le premesse poste e con la chiave di volta utilizzata per comprendere l’alterità: il concetto di intenzionalità.

Le obiezioni mosse a Husserl rientrano fra le osservazioni che Sartre rivolge più in generale alla filosofia del IXX e XX secolo, che sembra aver compreso la necessità di instaurare un legame trascendentale con gli altri in seno alla coscienza, ma non aver capito che questo legame fondamentale non può realizzarsi nella conoscenza. Pertanto, il cuore

37 SARTRE, Jean-Paul, L’essere e il nulla (1943), traduzione di Giuseppe Del Bo, Milano: il Saggiatore, 2014, p284.

della critica sartriana alla teoria dell’intersoggettività husserliana è proprio questo: un monito a ricercare l’altro nel luogo in cui l’altro effettivamente vive, che non è il discorso filosofico, ma «[…] accanto alla coscienza, come una coscienza in cui e per cui la coscienza si fa essere ciò che è» (Sartre, Ibid., p.327).

Sartre riprende le istanze principali della dottrina di Husserl, attraverso i concetti di mondo intermonadico, di io psicofisico e di soggetto trascendentale, e ripropone la questione del solipsismo, osservando che in relazione a questa, Husserl osserva che il mondo, quale si rivela alla coscienza, è intermonadico. Questo significa che l’altro è necessario ad attribuire l’istanza di oggettività a tutto ciò che incontriamo nel mondo, nonché al mondo stesso, perché «[…] altri è sempre là, come un sostrato di significazioni costitutive che appartengono all’oggetto che io considero» (Sartre, Ibid., p.284). Dal momento che il mio Io psicofisico sorge e si trova nel mondo, e come il mondo è investito dalla riduzione fenomenologica, altri sarà necessario anche alla costituzione stessa di questo io. Così, in virtù del fatto che altri costituisce sia il mio che l’altrui Ego empirici,