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David J. Chalmers, filosofo analitico australiano, affronta la differenza fra coscienza in prima e in terza persona in una lezione tenuta presso l’Università Nazionale australiana “How We Construct a Science of Consciousnes?”.

L’obiettivo della discussione è quello di indagare i mezzi e gli strumenti atti a fornire una scienza della coscienza che possa indagarla in maniera esaustiva senza lasciar fuori nessuna delle sue caratteristiche.

La principale difficoltà al perseguimento di questo obiettivo è la profonda differenza che sussiste fra i dati coscienziali da analizzare: quelli in prima e quelli in terza persona. Al di là del riconoscimento di fatto di questa differenza, Chalmers richiede un sistema di indagine che preveda la loro integrazione, rifiutandone una vicendevole riduzione che comporterebbe l’esclusione dei primi o dei secondi dalla materia di studio. Con “data in terza persona”, si indicano i processi mentali e quei comportamenti che si riducono sempre e necessariamente alle dinamiche di certe strutture fisiche. Studiare questi dati significa voler spiegare il funzionamento oggettivo di un sistema attraverso i processi che avvengono nel cervello, e richiede l’utilizzo di strumenti scientifici quali misurazioni, rilievi ed esperimenti. I “data in prima persona” consistono al contrario nell’esperienza soggettiva, non sono misurabili né inscrivibili all’indagine condotta con gli strumenti della scienza. Si intuisce, già considerando questa prima demarcazione, il motivo per cui studiare i dati in prima persona consiste nell’ “hard

problem” della scienza, mentre lo studio di quelli in terza persona si profila come un “easy problem”.

Per quanto alcuni studiosi abbiano tentato di aggirare questa difficoltà avanzando la possibilità di una riduzione dei dati in prima persona a quelli in terza, mi sembra chiaro che questa strada protende per la soluzione più comoda, ma non per quella più avvalorabile. La caratteristica fondamentale dei dati in terza persona è quella di riflettere la struttura oggettiva e le dinamiche del sistema psicologico e, di conseguenza, la possibilità di motivare i soli fatti materiali che derivano da questa struttura, così da risultare del tutto insufficienti a rendere l’idea di una coscienza in prima persona che non può tradursi attraverso i numeri, le onde elettromagnetiche e il sistema di input e output neurale. A detta di Chalmers, uno studio della coscienza che possa effettivamente definirsi tale deve incorporare l’analisi di entrambi questi dati, e deve innanzitutto prendere seriamente in considerazione la caratteristica della coscienza di essere coscienza in prima persona, coscienza individuale, che ha un punto di vista e si muove dalla prospettiva personale dell’agente.

Rispetto all’indagine dei dati in terza persona, i metodi attualmente utilizzati per lo studio della coscienza soggettiva sono effettivamente primitivi, in quanto lo spazio riservatole nella ricerca è stato decisamente minore rispetto a quello dei dati in terza persona. La difficoltà che comporta l’esame di questo tipo di coscienza è dovuta al fatto che essa presenta uno spettro di qualità, mentre una sua traduzione in termini quantitativi manca del tutto. Ciò che più scoraggia lo studio dei dati in prima persona è l’evidente mancanza di un metodo oggettivo col quale analizzare questi elementi soggettivi, per non renderne l’indagine un discorso campato in aria. La privatezza dei dati in prima persona, direttamente accessibili solo al soggetto di data esperienza, rende impossibile la condivisione intersoggettiva di queste informazioni, e la condivisione dei dati è un elemento basilare per la formazione di una comunità scientifica.

Se bendassimo dieci persone ed offrissimo del gelato al pistacchio chiedendo loro di che gusto si tratta, riceveremmo con molta probabilità dieci risposte esatte. Ma possiamo affermare con certezza che l’esperienza vissuta, del tutto personale, di magiare gelato al pistacchio è la stessa in tutti e dieci i membri dell’esperimento, o anche solo in due di essi? E saremmo in grado, andando ancora più a ritroso, di precisare quali sono le possibili cause che determinano la mia personale esperienza del gusto pistacchio?

I risultati che vorremmo ottenere dall’esperimento vanno ben al di là della nostra indagine in quanto, come anche Husserl afferma, le esperienze dell’altro sono fenomeni

appresi, ma non dati vissuti, e una delle maggiori difficoltà dell’attuale dibattito intorno alla coscienza è esattamente questa, il fatto che «[…] non abbiamo un’idea chiara su come i processi del cervello, che sono fenomeni oggettivi e pubblicamente osservabili, possano causare qualcosa di così particolare come gli stati interiori, qualitativi, di consapevolezza o sensibilità, stati che sono in un certo senso privati, propri di colui che li possiede»31.

Una teoria che sembra non tener conto di questo problema e che riflette con convinzione la possibilità di ridurre la coscienza ai soli processi neurali è quella elaborata da Crick: «[…] proprio “tu”, con le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e il tuo libero arbitrio, non sei altro che la risultante del comportamento di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute»32. L’idea di Crick coinvolge due affermazioni forti: che la sede materiale della nostra vita mentale sia il cervello, e che i meccanismi responsabile della nascita della sfera mentale siano i neuroni e le molecole ad essi associate. Questo significa che tutti i nostri stati e le nostre esperienze coscienti sono proprietà emergenti del sistema neurale, anche se in effetti non viene resa una spiegazione del sorgere di tutte le espressioni della nostra vita psichica (e, in primis, della coscienza) dalle scariche neurali. La riduzione della sfera mentale operata da Crick denota una presa di posizione molto forte e, malgrado la parte esplicativa delle sue affermazioni costituisca l’ortodossia dell’odierna neurobiologia, ritengo più utile evidenziarne le debolezze, la più forte delle quali ricade sotto il nome di “problema dei qualia”. Per capire questo punto, è utile ripensare all’esperimento del gelato al pistacchio poc’anzi descritto, e definire con il termine qualia tutte quelle esperienze soggettive, individuali e private che caratterizzano la vita di tutti i giorni.

A detta di Searle, un primo grande errore di Crick è quello di credere che il problema sorga solamente laddove si riscontri l’impossibilità di comunicare la propria esperienza di “rossezza” a un altro individuo in maniera chiara fedele. Questa difficoltà è tuttavia l’aspetto più marginale della questione, dal momento che, prima di pensare a un confronto fra più sistemi di riferimento, si può osservare che la difficoltà di spiegare la “rossezza” sorge anche in un sistema del quale conosco benissimo i qualia, ovvero il mio: «[…] com’è possibile che stimolazioni neurali fisiche, oggettive e quantitativamente descrivibili possano causare esperienze soggettive, private e qualitative? Ovvero, più semplicemente, come può il cervello permetterci di passare dalla elettrochimica alla

31SEARLE, Il mistero della coscienza, p.64.

sensazione?33. A detta di Searle il problema dei qualia è il problema stesso della coscienza, e la teoria sviluppata da Crick è riduzionista al punto tale da essere eliminativista: essa si libera del fenomeno dicendo che si tratta di qualcos’altro.

Questo problema è preso in considerazione anche da Michele di Francesco in La coscienza34. Egli traccia la demarcazione fra dati in prima e in terza persona, parlando di “mente fenomenica” e di “mente cognitiva”, intendendo la prima come il luogo dell’esperienza soggettiva e in prima persona, e con la seconda una nozione tecnica di mente, ovvero la mente in terza persona. Anche a detta di Di Francesco, la mente fenomenica resterebbe fuori dalle competenze dell’analisi scientifica come “residuo intrattabile” destinato a sfuggire anche ai progressi e agli strumenti della modernità.

La difficoltà maggiore allo studio dei dati soggettivi della coscienza è quindi una difficoltà costitutiva, e il discorso che esclude la coscienza in prima persona dal mondo della fisica è sì di tipo metodologico, ma prima ancora ontologico ed epistemologico. Gli aspetti quantitativi e dell’esperienza in prima persona non sono riducibili all’ontologia della fisica e quindi alla quantificabilità; allo stesso tempo, a livello epistemologico, le divergenze fra il punto di vista del soggetto, immediatamente diretti ai propri vissuti, e il punto di vista sul mondo, indiretto e mediato, danno adito a due sfere di conoscenza fra le quali non può esserci dialogo.

Allo stesso modo, T. Nagel ritiene che non sia giustificato fornire una spiegazione della coscienza fenomenica in termini puramente fisici. Sostenitore del “dualismo di proprietà”, secondo il quale a uno stesso individuo appartengono sia la proprietà mentale che quella fisica, Nagel mette in dubbio la capacità dell’apparato concettuale delle scienze fisiche di rendere conto del fenomeno della soggettività vissuta, perché intraprendere una spiegazione scientifica dei mie vissuti significa allontanarmi inevitabilmente dal mio punto di vista.

Dato ciò, ritengo di avere sufficienti elementi per poter avviare un confronto fra la teoria scientifica del sistema specchio alla fenomenologia husserliana, con lo scopo di evidenziare i punti di contatto.

33SEARLE, Il mistero della coscienza, p.21.