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La tutela dei diritti fondamentali tra modello euro-occidentale e sostrato tradizionale shariatico. Discrasie tra enunciazione formale e giustiziabilità sostanziale

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea Giurisprudenza

Titolo: "La tutela dei diritti fondamentali tra modello

euro-occidentale e sostrato tradizionale shariatico.

Discrasie tra enunciazione formale e giustiziabilità

sostanziale"

Il Candidato: Riccardo Tursi

Il Relatore: Elettra Stradella

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Indice:

Introduzione: ... 4

Capitolo primo: Due diverse tradizioni giuridiche ... 7

1. Universalismo, relativismo e particolarismo ... 7

2.Lo sviluppo dei diritti fondamentali in occidente ... 10

3.“Una” (sola?) prospettiva di “diritti fondamentali” ... 16

4. I 5 pilastri dell’Islam ... 24

5. Le fonti del diritto islamico ... 27

5.1 Il ruolo della dottrina e della giurisprudenza ... 32

5.2 Sunniti e Sciiti ... 33

5.3 Le scuole ufficiali Sunnite ... 35

5.4 Le scuole ufficiali sciite ... 39

5.5 I documenti a tutela dei diritti adottati dai paesi a maggioranza musulmana ... 43

Capitolo secondo: una prospettiva shariatica ... 46

1. I diritti fondamentali “degli altri” ... 46

2.Opinioni differenti sulla tutela dei diritti fondamentali ... 48

3.Una prospettiva Islamica sui diritti fondamentali ... 54

4.Dal periodo classico a quello moderno ... 58

5.Gli strumenti di tutela esterna dei diritti fondamentali nella tradizione giuridica shariatica ... 64

6. Nuove esigenze sociali ... 68

Capitolo terzo: Case Studies ... 78

1. Introduzione ... 78

2. I formanti ... 80

Prima parte: L’Arabia Saudita ... 84

1.Analisi generale dello Stato ... 84

2.Il sistema giudiziario ... 86

3.Il Wahhabismo ... 91

4.La Legge Fondamentale dell’Arabia Saudita ... 94

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6.La violazione dei diritti nel 2019 ... 105

6.1 La libertà di espressione ed associazione ... 105

6.2 Processi e pena di morte ... 107

6.3 I diritti delle donne ... 109

6.4 Diritti dei migranti e minoranza sciita ... 110

Seconda parte: L’IRAN ... 112

1.Analisi generale dello Stato ... 112

2.Dai Pahlavi a Khomeyni ... 113

3. La Costituzione iraniana ... 117

3.1 I principi generali ... 117

3.2 I diritti del popolo ... 120

3.3 Forma di Governo iraniana ... 122

3.3.1 Il Parlamento e il Consiglio dei Guardiani ... 122

3.3.2 La Guida Suprema ... 123

3.3.3 Il Presidente della Repubblica e il Consiglio dei Ministri ... 124

3.3.4 Il potere Giudiziario ... 125

4.Dittatura o democrazia? ... 126

5. L’indipendenza dei giudici in Iran ... 131

6.Violazione dei diritti nel 2019 ... 135

6.1 Diritto alla libertà di espressione, associazione e riunione. ... 136

6.2 I diritti delle donne ... 138

6.3 Diritti delle minoranze etniche, libertà di religione e di culto ... 140

6.4 Processi e pene ... 141

Conclusioni ... 143

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Introduzione:

Questo lavoro avrà ad oggetto una comparazione giuridica tra la tutela dei diritti fondamentali nel modello euro-occidentale e quella nel sostrato tradizionale shariatico. Per far ciò sarà necessario delineare il punto di vista attraverso il quale verrà sviluppata l’analisi. Dopo questa considerazione preliminare, si cercherà di ricostruire una definizione generale di “diritto fondamentale” così come intesa nella tradizione giuridica occidentale, per poi indicare, attraverso una sintetica disamina, in quali moderne fonti e trattati internazionali questi diritti siano sanciti e tutelati. Si cercherà poi di inquadrare una “prospettiva shariatica” dei diritti fondamentali passando dalla ricognizione delle fonti del diritto islamico. Oltre al Corano, la Sunna, l’igma il qiyās’ e la consuetudine, si farà accenno al ruolo della dottrina e della giurisprudenza. Nel far ciò, non potrà esser tralasciata la divisione tra sunniti e sciiti, anche al fine della successiva analisi. Quindi verranno brevemente descritte le scuole più importanti dell’Islam. In seguito, si cercherà di individuare un elenco di principi fondamentali della tradizione shariatica da cui possa derivare una nozione “analoga” a ciò che si intenda per diritti. In questa ricerca si faranno rimandi anche al diritto islamico classico e alla relazione fra la

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tradizione giuridica musulmana e gli strumenti di tutela eteronoma, per coglierne asimmetrie e similitudini. Infine, l’ultimo capitolo verterà sull’analisi della tutela dei diritti in due case studies: l’Arabia Saudita e l’Iran, caratterizzati dal fatto di essere il primo a prevalenza sunnita mentre il secondo a prevalenza sciita. In entrambi questi due Stati sembra esserci una discrasia tra l’enunciazione formale della garanzia dei diritti e la giustiziabilità sostanziale. Lo scopo della ricerca sarà dunque inquadrare quali possano essere alcune possibili cause di tale mancata corrispondenza. Nel caso dell’Arabia Saudita verrà analizzata la Legge

Fondamentale. Poi si farà riferimento alla corrente del wahhabismo, gemmata da una prospettiva facente capo

alla scuola sunnita hanbalita, caratterizzata, a sua volta, da una interpretazione strettamente letterale della Sharia. In seguito, verranno presi in considerazione il formante politico e quello giurisprudenziale di questi sistemi. Verrà dunque esposta una disamina sulla forma di governo, per poi analizzare l’indipendenza del potere giudiziario. L’analisi dell’Iran sarà invece introdotta da una breve ricostruzione dei momenti storici del ‘900 che hanno portato alla rivoluzione iraniana del 1978-1979, causando un completo mutamento del sistema governativo e la nascita di un “modello”, di un unicum nel panorama comparatistico. Successivamente, ci si soffermerà sull’analisi della Costituzione iraniana

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specificando i punti in cui sono enunciate le guarentigie poste a tutela dei diritti e della forma di governo più in generale. Infine, come per l’Arabia Saudita, una parte verrà dedicata alla questione dell’indipendenza della magistratura, considerata corollario dello studio proposto. Entrambi i due “case studies” saranno accompagnati da una esposizione sulla contemporanea situazione della tutela di alcuni diritti fondamentali.

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Capitolo primo: Due diverse tradizioni

giuridiche

1. Universalismo, relativismo e particolarismo

Ciò che è bene anteporre prima di iniziare ad analizzare le moderne fonti dei paesi occidentali e di quelli a maggioranza musulmana è una seconda premessa di metodo. La questione riguardante i diritti fondamentali è stata oggetto di un ampio dibattito in seno a due diverse prospettive di analisi. La prima è il cosiddetto universalismo, che difende la tesi secondo cui i diritti fondamentali siano ‘giusti’ o ‘giuridicamente validi’ su un piano etico-razionale per tutti ed in generale. Per questo, secondo i sostenitori di questa visione, è necessario provare a raggiungere un’applicabilità dei diritti fondamentali in tutto il mondo mettendo in questione il principio di sovranità interna e non ingerenza negli affari propri di uno Stato. Da questo punto di vista ne possono derivare due corollari. Innanzitutto, i pionieri di questa scuola di pensiero ritengono che la progressiva regionalizzazione dei diritti ne abbia legato la cogenza normativa ad aree culturali che possono essere ritenute omogenee; inoltre, in base ad

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un’idea che origina dal cosiddetto “universalismo debole”, sia necessario proporre un catalogo ‘minimo’ di diritti affinché possa formarsi maggiore consenso riguardo ad essi. Luigi Ferrajoli, sostenitore di questa corrente ideologica, afferma che una fondazione più raffinata e una decisa universalizzazione potrebbero portare al risultato di rendere più effettivi tali diritti. Quanto più universale sarà il linguaggio dei diritti, tanto più gli individui saranno tutelati dall’oppressione e dall’ingerenza di strutture pubbliche e private1. Tuttavia, un oltranzismo in tal senso potrebbe

peccare di eurocentrismo e, conseguentemente, far perdere l’oggettività necessaria per l’analisi dei diritti fondamentali nella tradizione giuridica musulmana. La giurista Tamar Pitch, ad esempio, afferma che i diritti umani siano culturalmente connotati e, proprio per questo, una universalizzazione di diritti implicherebbe, su un piano etico-politico, un’attribuzione di superiorità che verrebbe imposta dalla stessa cultura che afferma l’uguaglianza2.

All’opposto dell’universalismo, la proposta del relativismo si basa su una visione opposta, ma altrettanto radicale, del problema. I relativisti affermano che le azioni sociali debbano essere comprese e valutate unicamente secondo principi noti o familiari alla particolare cultura di volta in volta individuata. Seguendo questo ragionamento, anche gli stessi diritti fondamentali, non potranno mai essere accolti

1 L. BACCELLI, Il particolarismo dei diritti, Roma, Carocci, 1999, pp.145-150. 2 Ibidem pp. 152.

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secondo un’unica formulazione. I relativisti sostengono dunque l’idea che non sia legittimo interferire con gli affari interni di uno Stato sovrano e che le violazioni dei diritti riguardano la domestic jurisdiction dei singoli stati.

Anche questa concezione di assoluta non ingerenza negli altri Stati può essere considerata fallace e non lasciar aperte le possibilità di critica all’interno di una analisi.

Il tertium genus che può essere utilizzato sarà il punto di vista del “particolarismo giuridico”. Con questa nozione si tende ad evidenziare come gli ordinamenti siano stati plasmati da diversi fattori sociali, storici, economici e culturali, quindi siano coniati da differenti caratteristiche. Ne consegue che il “linguaggio dei diritti individuali sia più connotato storicamente,

socialmente e culturalmente di quanto non appaia a prima vista”3.

A differenza dello sguardo passivo del relativismo, il particolarismo tende a mettere a confronto due differenti sistemi giuridici in modo da osservare come un certo problema si sia potuto risolvere con metodi differenti nei singoli sistemi, rectius modelli o tradizioni giuridiche.

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2.Lo sviluppo dei diritti fondamentali in occidente

Dopo aver esposto questa breve introduzione sul metodo, è possibile procedere con un approfondimento ricostruttivo in relazione ai diritti fondamentali.

Con l’espressione “diritti fondamentali” ci si riferisce, convenzionalmente, alle disposizioni normative contenute in una serie di documenti, carte e trattati internazionali. Tra questi la più rilevante, in età contemporanea, appare senz’altro la “Dichiarazione universale dei diritti umani”, adottata con risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Da essa sono poi gemmati ulteriori specificazioni in materia di tutela dei diritti, quali, ad esempio, il “Patto internazionale sui diritti civili e politici” e il “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali”, entrambi adottati il 16 dicembre 1966. Questi ultimi, grazie alla loro natura di trattati, vincolano solo le parti contraenti, mentre la cogenza della Dichiarazione universale non incontra parere unanime4.

Oggi la maggior parte degli Stati democratici5 garantisce i

diritti fondamentali a tutti gli uomini, attraverso Carte

4 Simili perplessità derivano in primo luogo dalla natura dell’organo da cui

è promanata, il quale non è detentore di poteri di produzione di norme imperative, valide erga omnes. Secondariamente; essa è sprovvista di norme secondarie e di organizzazione che prevedano, per esempio, efficaci e determinati meccanismi sanzionatori nei casi di inosservanza o di violazione delle disposizioni sancite.

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Costituzionali6. Tuttavia, se effettuiamo un breve excursus

storico, è possibile notare come questa “affermazione universale” dei diritti sia stata il risultato di un lento e travagliato sviluppo.

Il sociologo tedesco Max Weber aveva difatti affermato come in passato i diritti fossero definibili rispetto a gruppi formati da criteri genealogici, etnici, religiosi, politici e professionali. Egli riteneva che il fatto di essere membri di una comunità giuridica fosse associato all’aver acquisito, attraverso usurpazione o concessione, alcuni privilegi che erano una conseguenza dell’essere sottoposti a un determinato diritto speciale. In occidente nel medioevo, il diritto si applicava secondo l’appartenenza ad una determinata religione; quindi, i vari “diritti” speciali venivano applicati non in funzione di una specifica qualità economica o tecnica, ma in virtù del rango o dell’appartenenza ad una data comunità. Dopo l’età carolingia si iniziarono a positivizzare libertà, franchigie e privilegi. In questo periodo si diffondono i documenti chiamati “chartae”, di origine pattizia, concessi unilateralmente e includenti la previsione di alcuni diritti a favore di determinati gruppi di soggetti. Secondo Weber il processo che ha condotto a quella che noi oggi definiamo ‘uguaglianza formale’ è stato possibile grazie all’ampliamento del mercato e alla “burocratizzazione degli organi delle

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comunità di consenso”, ritenute dall’autore “grandi forze razionalizzatrici”. Così ci fu un passaggio graduale che portò ad uno slittamento dei diritti speciali; non furono più attribuiti a soggetti privilegiati, bensì goduti a seconda di determinate circostanze e situazioni7.

Per giungere a quella che è oggi la moderna elaborazione del concetto dei diritti soggettivi universali, la filosofia del diritto ha elaborato differenti teorie, a cui può essere utile rimandare sinteticamente, come le scuole del giuspositivismo e del giusnaturalismo.

Mentre per i giuspositivisti gli unici diritti validi sono quelli posti da chi detiene il potere sovrano8, i giusnaturalisti

ritengono che i diritti degli uomini siano anteriori rispetto al potere statale e siano goduti da tutti gli uomini per loro

natura. Da queste considerazioni di base ne deriva anche un

diverso approccio alla tutela dei diritti soggettivi.

Secondo Hobbes, uno dei principali precursori del giuspositivismo9, l’interpretazione dei giudici deve essere

formale e quindi strettamente attinente alla lettera della norma. Questa però è una scuola di pensiero che mal si

7 L. BACCELLI, opera citata, pp.23-25

8 Avendo questa funzione fondamentale di sancire i diritti, è necessario che

le leggi siano il più chiare e conoscibili possibile sia a livello di fonte che a livello di contenuto

9Hobbes può essere considerato uno dei maggiori precursori di questo

movimento. Nella sua opera “il Leviatano” afferma che la legge civile è l’insieme delle norme che, per iscritto, oralmente o con qualsiasi altro segno sufficiente a manifestare una espressione di volontà, lo Stato ordina al suddito ciò che è giusto e ciò che è torto, a seconda di ciò che è conforme alla norma che emanata e ciò che non lo è.

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concilia con quelle che sono le moderne fonti, all’interno delle quali possiamo rintracciare i diritti fondamentali. Le carte costituzionali e i trattati internazionali hanno come oggetto principi, che, per loro natura hanno un contenuto flessibile e malleabile, e possono essere utilizzati con il significato più opportuno a seconda della circostanza concreta.

Grozio, padre del giusnaturalismo moderno, invertendo la concezione giuspositivistica, afferma che la comunità politica non ha altri diritti se non quelli che gli sono trasferiti dagli individui, che l’idea di giustizia deriva direttamente dalla socievolezza innata degli uomini e che questa può essere direttamente ricollegata ad un generale finalismo naturale10. Di conseguenza, le norme del diritto di natura

derivano dal principio di socievolezza, e consistono in leggi il cui contenuto è essenzialmente la prescrizione di rispettare il “proprium degli altri” e la loro sfera individuale, in particolar modo il diritto di proprietà. Grazie al fatto che gli uomini sono dotati almeno in parte di una benevolenza reciproca, si possono individuare principi “evidenti” nel diritto di natura11. Da queste considerazioni si può dedurre

10 In questa ottica il filosofo propone una serie articolata di diritti

fondamentali goduti dagli uomini; affermando ad esempio che questi detengono una piena libertà di scambiare e contrattare e che di conseguenza la libertà personale è un aspetto della proprietà individuale.

11 Questa è una visione contrapposta a quella di Hobbes, il quale nega l’idea

di un giusto per natura, il quale ritiene che noi uomini chiamiamo bene o male le cose a seconda che ad essi piacciano o meno, e quindi interpretandole in termini utilitaristici. Escludendo ogni considerazione di matrice

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come, secondo questa impostazione, i diritti sono e saranno sempre goduti universalmente da tutti gli uomini12.

Mentre le teorie interpretative che si ricollegano al giuspositivismo rischiano di peccare di eccessiva rigidezza nell’ interpretazione dei diritti fondamentali, quelle che si ricollegano al giusnaturalismo rischiano di concedere troppo arbitrio all’organo giudicante. Sebbene queste considerazioni si riferiscano a teorie filosofiche elaborate da esponenti della dottrina (classica) occidentale, sarà possibile in seguito notare come il quesito sulle interpretazioni più o meno letterali, vada a toccare anche l’ambito del diritto islamico. Infatti, una delle divergenze tra le varie scuole

moralistica, Hobbes identifica la giustizia come l’adempimento dei patti. Inoltre, contrapponendosi alla visione di Grozio, Hobbes predica la natura insocievole e conflittualistica dell’uomo. Gli uomini, secondo l’autore giuspositivista, sono uguali poiché desiderano le stesse cose e per procurarsele, essendo razionali, utilizzano il modo più economico ed efficace per procurarsele: la violenza. La condizione di natura, definita con il famoso brocardo “bellum omnium contra omnes”, è una situazione di costante esposizione alla minaccia della morte e una conseguente paura pandemica. L. BACCELLI, opera citata, pp.39-47.

12 È possibile anche un breve accenno alla filosofia del neocostituzionalismo.

Secondo questa teoria, dal momento che i diritti fondamentali sono sanciti nei testi costituzionali, le leggi hanno l’obbligo di essere conformi a quelli che sono le disposizioni inserite in suddetti testi. Se una legge sarà in contrasto con i principi costituzionali a tutela dei diritti fondamentali dovrà essere espunta dall’ordinamento. Nel caso in cui questi principi costituzionali si trovino in contrasto, sarà necessario effettuare un bilanciamento tra questi ultimi. Proprio a causa dell’indeterminatezza e della flessibilità del contenuto “principio” sarà necessaria una interpretazione di natura discrezionale da parte del giudice, all’interno della quale esso dovrà stabilire quale sia il principio che, in quel solo caso specifico, dovrà prevalere sull’altro; senza però mai portare alla creazione di un diritto tiranno sugli altri. I testi secondo il giusnaturalismo ed il neocostituzionalismo concederebbero dunque un mero riconoscimento di questi diritti, data la loro natura gerarchicamente sovraordinata alle altre fonti; trans-universale, trans-culturale e trans-storica.

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giuridiche sunnite e sciite, è proprio il grado di elasticità che verrà concesso agli interpreti per andare ad analizzare le fonti del diritto.

Focalizzando nuovamente l’attenzione sullo sviluppo della moderna concezione occidentale dei diritti fondamentali, si può constatare come un punto cruciale di tale crescita sia stato il passaggio da una visione aristotelico-tomistica a una visione individualistica della società. Nella prima viene data preminenza alla società-organismo, anziché agli individui-membri di essa; nella seconda, al contrario, lo Stato attribuisce in primis ai soggetti il diritto di libertà. Quindi, dal Medioevo alla modernità, il discorso dei diritti è nato come strategia di delimitazione del potere politico nei confronti degli individui, al fine di costruire sfere di autonomia entro il quale il potere pubblico non potesse instaurarsi. I diritti fondamentali erano goduti da una ben delimitata cerchia di persone con determinate caratteristiche: uomini bianchi, proprietari, maschi, adulti. Infine, da richiesta di parte della classe borghese, si sono poi successivamente affermati come diritti spettanti a tutti gli uomini, grazie alle moderne dichiarazioni e ai patti internazionali.

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3.“Una” (sola?) prospettiva di “diritti

fondamentali”

Dopo questa analisi ricostruttiva è bene provare a offrire una prospettiva su cosa comportino i diritti fondamentali in occidente e quale sia il loro ruolo. Questa categoria di diritti rientra nella più ampia categoria dei diritti soggettivi, ovvero quelli la cui titolarità appartiene ad un determinato soggetto. Potremmo affermare che i seguenti diritti siano degli strumenti per liberarsi dalla coercizione politica, culturale, religiosa, familiare, razziale.

Appare importante chiedersi, in aggiunta, se sia possibile effettuare una classificazione dei diritti fondamentali e quale sia il catalogo lì ricompreso13. La tripartizione classica di

Thomas H. Marshall è quella fra diritti civili, di cui i “sacri” diritti alla vita, alla libertà e alla proprietà; quelli politici, fra cui il diritto di elettorato attivo e passivo e quelli sociali14.

Questi diritti possono essere separati e goduti in modo indipendente l’uno dall’altro oppure sono inscindibili? La questione sulla interdipendenza e sulla indivisibilità dei diritti, ci fa ragionare se abbia senso, ad esempio, conferire il diritto di elettorato attivo e passivo senza che i cittadini siano messi in condizione, sul piano culturale ed economico, di partecipare alla vita politica. Questa è una riflessione che

13 F. TEDESCO, Diritti umani e relativismo, Bari, Laterza, 2009, pp. 5-7. 14 T. H. MARSHALL, Citizenship and Social Class, Cambridge University

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necessiterebbe di una più approfondita e trasversale analisi che si cercherà di affrontare a grandi linee per esigenze di “completezza” della comparazione, soprattutto per cogliere eventuali discrasie tra il riconoscimento formale dei diritti e il loro godimento sul piano sostanziale.

Un altro quesito, corollario delle premesse avanzate qualche rigo addietro, riguarda il legame, più o meno stringente, tra diritti fondamentali e stabilità “della pace e della democrazia”. Secondo Bobbio, pace e democrazia sono dei presupposti ineliminabili e condizione minima perché siano riconosciuti i diritti fondamentali: senza diritti non c’è democrazia e senza di essa non può esserci risoluzione pacifica dei conflitti. Secondo teorici minimalisti dei “diritti umani” come John Rawls, è possibile invece che esistano degli ordinamenti non democratici ma che tuttavia rispettano gli standard minimi dei diritti fondamentali. La sovranità di uno stato, uno dei cardini dell’ordine internazionale, può essere messa in discussione solo se le violazioni dei diritti umani rappresentano una minaccia alla pace internazionale. Rawls prende proprio come esempio uno stato islamico, il Kazakistan, che rispetta le religioni e le istanze associative diverse da quella islamica, incoraggiandole a sviluppare una vita culturale indipendente e a prendere parte alla cultura civica della società.

I diritti costituiscono certamente degli strumenti utili a combattere l’oppressione da parte di poteri illegittimi o

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illiberali; non possono essere del tutto privati della loro dimensione politica, dato che lo Stato continua a rivestire un fondamentale ruolo nella loro protezione15.

A questo punto è possibile tracciare una linea di congiunzione tra quanto fin qui trattato e ciò che verrà sviluppato nelle pagine successive. Lo sguardo si focalizzerà su quali siano le fonti e le principali garanzie dei diritti nelle esperienze giuridiche di due paesi scelti per l’analisi come

case studies. Per quanto riguarda i sistemi riguardanti la

tradizione euro-occidentale, è bene esordire affermando che il movimento internazionale per la protezione dei diritti dell’uomo si è sviluppato a partire dall’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite nel 1945. Tra la metà del XIX secolo e la fine della I guerra mondiale, gli stati europei avevano stipulato una serie di patti che avevano come scopo la protezione delle minoranze religiose. Un esempio potrebbe essere riscontrato nel Trattato di Parigi, stipulato nel 1856, che prescriveva la piena eguaglianza di trattamento per tutti i sudditi, qualunque fosse la loro fede religiosa: cristiana o musulmana. Nel 1919 il covenant della Società delle Nazioni non conteneva nessuna disposizione sui diritti dell’uomo, ma le protezioni delle minoranze erano oggetto solo di trattati di pace e di dichiarazioni unilaterali. In questo periodo la tutela dei diritti dell’uomo è ancora poco sviluppata, ma in rari casi fu oggetto di convenzioni

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quali quelle del 1926 contro la schiavitù e del 1930 sul lavoro. Questo accadde perché si riteneva che l’individuo fosse un (s)oggetto di un diritto reale di proprietà dello Stato, al pari del territorio. I principali strumenti di tutela dopo la fine della II guerra mondiale mutarono poi in accordi internazionali, dove furono disciplinati sia i diritti degli individui sotto la giurisdizione di un determinato Stato sia gli strumenti di garanzia sostanziale di questi diritti sanciti. Accanto a questi si possono rintracciare strumenti di softlaw e norme consuetudinarie16.

Esponiamo ora i più importanti tra questi documenti. Iniziando dalla carta delle Nazioni Unite, essa nel Preambolo e nell’articolo 1, sancisce tra i fini delle Nazioni Unite il rispetto dei diritti dell’uomo e la salvaguardia delle libertà fondamentali. Gli articoli 55 e 56 stabiliscono poi che le Nazioni Unite promuovono il rispetto e l’osservanza dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali senza discriminazione, e che gli Stati hanno l’obbligo di agire per raggiungere i suddetti fini.

La dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, entrambe del 1948, sono altri due importanti documenti che devono essere menzionati. La prima, che rappresenta uno dei primi strumenti in cui gli individui vennero presi in considerazione come singoli, non è

16 N. RONZITTI, Introduzione al diritto internazionale, Torino, G.Giappichelli,

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giuridicamente vincolante per gli stati, ma ha comunque avuto un ruolo chiave nella promozione dei diritti fondamentali, ponendo le premesse per la stipulazione di trattati a livello tanto regionale quanto universale. La convenzione, invece, ha come scopo quello di salvaguardare il diritto all’esistenza fisica di membri di un gruppo, stabilendo che il genocidio è un crimine internazionale sia se è commesso in tempi di pace sia di guerra. La dichiarazione universale fu votata a favore da 48 paesi, mentre 10 paesi si astennero. Secondo alcuni autori questo documento è divenuto vincolante e sarebbe ricompreso come parte del diritto internazionale consuetudinario, venendo continuamente citato, da oltre 50 anni, in tutti i trattati fra paesi. La dichiarazione è il frutto della tradizione giuridica occidentale della tutela dei diritti umani: riporta infatti contenuti dei Bill of Rights, della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti e della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, redatta durante la Rivoluzione Francese del 1789. Inoltre, essa divenne anche fonte di ispirazione per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La dichiarazione può esser letta come una risposta ai drammi scaturiti dalla II guerra mondiale e fa parte dei documenti di base delle Nazioni Unite. Per quanto riguarda la sua struttura, essa è composta da un preambolo di 30 articoli e può esser suddivisa in 7 argomenti. Il preambolo enuncia le cause storiche e sociali che hanno portato alla necessaria stesura della

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dichiarazione; gli articoli 1 e 2 stabiliscono i concetti di libertà ed eguaglianza ; gli articoli da 12 a 17 stabiliscono i diritti che l’individuo vanta nei confronti della comunità; gli articoli da 18 a 21 sanciscono le libertà fondamentali quali diritto alla libertà di pensiero, di opinione, di fede religiosa, di coscienza, di parola ed di associazione pacifica; gli articoli da 22 a 27 sanciscono i diritti economici e culturali ed infine gli articoli da 28 a 30 stabiliscono che i diritti dell’uomo non possono essere usati contro i principi ispiratori della dichiarazione stessa. Molti tra i paesi firmatari e favorevoli presenti erano a maggioranza musulmana, come l’Iran, l’Iraq, il Libano, la Siria, il Pakistan e l’Afghanistan17.

Convenzione degna di essere menzionata è sicuramente anche quella del 1951 relativa allo status di rifugiato18.

Inoltre, uno dei grandi risultati della lotta per la tutela dei diritti umani, è stata la conclusione, nel 1966, dei Patti sui diritti civili e politici e dei Patti sui diritti economici, sociali e culturali. In gran parte di questi trattati vincolanti si rinvengono disposizioni presenti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Per quanto riguarda i diritti civili e politici, essi sono contenuti in norme generalmente

17 “Dichiarazione universale dei diritti umani”, in Wikipedia, l’enciclopedia

libera , consultato il 7 giugnio 2020,

https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_universale_dei_diritti_umani

18Questa nell’ art. 33 stabilisce l’obbligo per gli Stati contraenti di ‘non

refoulement’, cioè di non respingere il richiedente asilo verso le frontiere di uno Stato ove la sua vita o la sua libertà potrebbero essere minacciate. Inoltre, secondo l’art. 31 i paesi firmatari non possono assoggettare a sanzioni penali i rifugiati che entrino illegalmente nel territorio dello Stato in cui intendono chiedere asilo

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self-executing; mentre i diritti economici, sociali e culturali

sono contenuti in ‘norme programmatiche’, quindi i singoli Stati si obbligano ad attribuire i diritti in questione autonomamente, discrezionalmente e in maniera progressiva. L’articolo 4 del patto sui diritti civili e politici consente la deroga dei diritti protetti in caso di pubblico pericolo eccezionale, che minacci l’esistenza dello Stato; salvo alcuni diritti che sono per loro natura inderogabili, quali il divieto di tortura e di trattamenti crudeli o degradanti19. Nel 1984 si firmò anche la Convenzione contro la tortura ed altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti e

successivamente si costituì la Commissione dei diritti dell’uomo20, il cui compito era quello di controllare il

rispetto dei diritti dell’uomo all’interno degli stati ed esaminare i reclami degli individui per le massicce violazioni di tali diritti21.

19L’ art. 1 dei due patti garantisce l’autodeterminazione, un diritto che

appartiene ai popoli e non agli individui. È bene ricordare che questo è un diritto su cui gli stati fanno leva per giustificare la non intromissione di altri stati all’interno della loro gestione politica, qualunque possa esserne il fine. Così come i popoli trovano tutela all’interno dell’art.1, nell’art. 27 è presa in considerazione la tutela delle minoranze etniche, religiose e linguistiche, di cui gli appartenenti possono chiedere tutela come singoli o in comune agli altri membri del gruppo. In generale il meccanismo di garanzia è il seguente: periodicamente sono inviati al segretario delle nazioni unite rapporti circa l’attuazione dei Patti all’interno degli ordinamenti statali che poi vengono esaminati da un comitato ad hoc. Inoltre, grazie ad un protocollo opzionale, è possibile che siano gli individui stessi ad indirizzare reclamo al comitato.

20 Oggi “Consiglio dei diritti umani”.

21Oggi i membri di tale consiglio sono 47 e vengono eletti dall’assemblea Generale,

di cui la maggior parte dei seggi sono distribuiti nei paesi afroasiatici, dove l’osservanza dei diritti umani non è sempre esemplare.

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Infine, fra gli strumenti di tutela rinvenibili nella tradizione giuridica euro-occidentale, è bene richiamare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, entrata in vigore nel 195322 e l’OCSE, l’organizzazione per la sicurezza e la

cooperazione in Europa23.

22Essa per molta parte delle sue disposizioni si ispira alla Dichiarazione universale

dei diritti dell’uomo e si compone in due parti. La prima contiene un elenco dei diritti a livello sostanziale, mentre la seconda, di natura procedurale, stabilisce gli strumenti di garanzia. Una volta che gli stati abbiano dato esecuzione alla Convenzione, i diritti contenuti in essa sono automaticamente tutelati anche a livello dei singoli ordinamenti statali. La Convenzione stabilisce dei vincoli solidali o obblighi erga

omnes, con la conseguenza che ciascuno Stato può presentare ricorso contro un altro

Stato parte, che abbia violato la convenzione, anche se non sia materialmente leso dalla violazione. Essa si applica agli individui, cittadini o stranieri, presenti nel territorio di uno Stato parte e agli individui su navi o aeromobili battenti la bandiera di uno Stato parte. I diritti garantiti nella Convenzione possono essere suddivisi nelle seguenti categorie: le libertà delle persone fisiche; il diritto ad un processo equo; il diritto al rispetto della vita privata e familiare, della corrispondenza e del domicilio; la libertà di pensiero; protezione dell’attività sociale e politica e il diritto al rispetto dei beni. È molto importante richiamare l’articolo 15 che afferma che in casi eccezionali, di guerra o altro pubblico pericolo che minacci la vita della nazione, è possibile che uno Stato sospenda temporaneamente l’applicazione di alcuni diritti, salvo però alcuni che sono per loro fondamentale importanza inderogabili: il diritto alla vita, il divieto alla tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti, il divieto di schiavitù ed il principio di legalità. Per quanto riguarda il meccanismo di tutela procedurale è bene ricordare che da quando è entrato in vigore il protocollo n. 11 una Corte unica, la Corte europea dei diritti dell’uomo, in base al principio di sussidiarietà, supplisce alla carenza di tutela approntata dal giudice nazionale, operando in vigilanza di quel “margine di apprezzamento”, che viene riconosciuto alle autorità nazionali nell’applicazione delle norme a tutela dei diritti.

23Gli stati membri di questa organizzazione hanno creato il concetto di “dimensione

umana”, allo scopo di allargare l’ambito di applicazione del terzo settore, dedicato alla cooperazione in campo umanitario ed alla problematica dei diritti dell’uomo. Questa categoria cosiddetta di “dimensione umana” attualmente contiene una nozione più ampia di quella dei “diritti dell’uomo”, poiché si applica sia ai rapporti tra individuo e Stato, che ai rapporti tra le istituzioni; alla nozione di democrazia, di istituzioni democratiche e di Stato di diritto. È bene precisare che gli impegni dell’OCSE, a differenza dei trattati in materia di diritti umani, non comportano un processo formale di esecuzione negli ordinamenti interni e sono vincolanti non appena il relativo documento è stato adottato, senza bisogno di uno strumento di ratifica. Inoltre, gli individui nel quadro dell’OCSE non possono mettere in moto autonomamente meccanismi di tutela dei loro diritti, ma è necessario il previo esaurimento di ricorsi interni. Il meccanismo della “dimensione umana” si articola in varie fasi: la iniziale denuncia dell’inosservanza di uno Stato nei confronti di un altro

(24)

4. I 5 pilastri dell’Islam

Dopo questa analisi della tutela dei diritti fondamentali all’interno della tradizione occidentale, si passerà al modello giuridico a sostrato tradizionale shariatico, descrivendo dapprima i pilastri dell’Islam, le “radici” del diritto e le principali scuole giuridiche.

“L’islam non è solo una religione, è anche una cultura, un assetto di potere, una ideologia complessa e articolata, tanto da poter essere raffigurato come “una concezione della vita, del mondo, della società, della natura, dell’uomo e di Dio olistica e onnicomprensiva”24 . Ma

l’Islam è anche una religione, una religione che detta regole sia di tipo spirituale che di tipo temporale e nel corso dei secoli e nel corso dei secoli ha organizzato queste regole dando vita ad un complesso ed originale ordinamento giuridico.”25

Prima di parlare delle fonti del diritto islamico, è necessario soffermarci sui “pilastri dell’Islam”. Gli obblighi contenuti nella sharia possono riguardare le relazioni tra esseri umani (mu’amalat) o il rapporto tra uomo e Dio (ibadat). Questi ultimi sono cinque atti di culto irrinunciabili e fondamentali stato partecipante; la risposta del presunto Stato che ha messo in atto la violazione; un eventuale incontro tra i due stati a livello bilaterale; in caso di mancato accordo, la trasmissione della questione a tutti gli stati partecipanti e la finale discussione nelle riunioni della Conferenza sulla dimensione umana dell’OCSE, N. RONZITTI, opera citata, pp.319-331.

24 M.CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2005, p.10

25 N. FIORITA, L’Islam spiegato ai miei studenti, undici lezioni di diritto islamico, Firenze,

(25)

della religione musulmana e vengono chiamati i cinque pilastri dell’Islam. È il Corano a istituirli e a prevedere le modalità di esecuzione e il loro compimento è sempre subordinato alla purezza interiore ed esteriore del fedele. Quest’ultimo dovrà essere rispettoso delle regole e delle prescrizioni dell’Islam e dovrà trovarsi in luoghi adeguati privi di elementi che potrebbero trasmettere impurità.

“Il primo pilastro è costituito dalla professione di fede islamica (“Shahâda”), con la quale un soggetto rende testimonianza dell’unicità del Creatore e della verità del Profeta Maometto”26.

Con questa dichiarazione, che può essere accompagnata dalla circoncisione e dal cambio di nome, si diventa membri a tutti gli effetti della Ummah. Sarà poi una condizione necessaria per il fedele conformare la propria vita alle regole del Corano e della Sunna. Essendo la testimonianza un atto personale e volontario, l’unico modo per metterne in discussione la sincerità è una dichiarazione solenne di abiura. È da ricordare che la dichiarazione non è necessaria per coloro che nascono da padre musulmano, ma solamente per coloro che si convertono (più precisamente “ritornano”) alla religione musulmana.

Il secondo pilastro, “salât”, è l’adorazione quotidiana. Questo atto di culto deve essere eseguito dal fedele cinque volte al giorno, in momenti determinati. L’unico di questi momenti in cui è possibile svolgere la preghiera comunitaria

(26)

è mezzogiorno. Inoltre, si richiede al fedele per la purezza del rituale il vestiario appropriato, l’orientamento del viso in direzione della Mecca e l’idoneità del luogo in cui si effettua la preghiera.

La sharia impone poi ad ogni musulmano dotato di un’autonoma capacità contributiva di pagare la cosiddetta “zakât”, un’imposta a titolo di assistenza pubblica che rappresenta il valore della condivisione dei beni e della diffidenza verso l’eccessiva ricchezza. Questo terzo pilastro, orientato verso la solidarietà e la giustizia è indice, in paesi come l’Arabia Saudita, la Libia ed il Sudan, di una strategia economico-redistributiva da parte dello Stato. Oggi viene usato anche come strumento a disposizione delle innumerevoli organizzazioni musulmane sparse per il mondo.

Il quarto pilastro è il digiuno nel mese di Ramadân. Questo obbligo vale per tutti i musulmani puberi, sani di mente e in condizioni fisiche tali da poter osservare il precetto senza subire danni alla propria integrità fisica. Il fedele non dovrà assumere cibo, bevande, né alcuna sostanza o medicinale; non dovrà fumare né avere rapporti sessuali. Il digiuno inizia un quarto d’ora prima del tempo dell’adorazione rituale dell’alba e si conclude al tramonto. Questo quarto pilastro simboleggia un momento di purificazione e di avvicinamento a Dio e dovrebbe essere accompagnato da una scrupolosa osservanza rispetto ai precetti religiosi e da una intensa attività di preghiera.

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Ultimo pilastro è il Pellegrinaggio, “Hajj”, che si richiede ad ogni musulmano, almeno una volta nella vita. Il fedele, in un determinato periodo dell’anno ed osservando una serie di riti previsti dalle norme divine, si dovrà recare nei luoghi sacri dell’Islam27.

5. Le fonti del diritto islamico

Appare opportuno, proseguendo con l’analisi, effettuare uno studio delle fonti all’interno del diritto islamico.

La legge nel diritto islamico viene chiamata ‘Sharia’. Questa persegue due obbiettivi: il primo è quello di regolare la vita sociale tra gli uomini, mentre il secondo è quello di condurre verso la salvezza tutti i fedeli. Le azioni umane vengono suddivise in 5 tipologie: ci sono atti che sono obbligatori, atti consigliati, atti liberi, atti sconsigliati ed infine, atti proibiti. Da questa classificazione si può dedurre che il diritto islamico prevede la possibilità che alcuni atti riprovevoli dal punto di vista morale, siano comunque legittimi dal punto di vista giuridico. Un esempio di questi può essere il ripudio. Inoltre, l’Islam considera lecito il male quando esso ha lo scopo di impedire un male peggiore, infatti rende legittimo l’istituto della dissimulazione. Questo istituto prevede la possibilità di mentire e di assumere un comportamento vietato o di essere inadempienti rispetto a

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un obbligo religioso quando questo sia necessario per prevenire un danno grave alla persona, all’onore o ai beni. Come avviene in tutti gli ordinamenti confessionali, l’applicazione della legge religiosa non è subordinata al principio di territorialità, quindi essa non conosce confini ed è valida per tutti coloro che appartengono all’ Islam28.

Il Corano è la prima di quelle che i musulmani, anziché fonti, chiamano ‘radici’ del diritto. Questo testo sacro contiene l’insieme delle rivelazioni che il Profeta, Maometto, afferma di aver ricevuto da Dio. Esso, a differenza del Vangelo, non contiene un’opera umana, ma la Parola stessa di Dio, che è stata trasmessa dall’arcangelo Gabriele a Maometto. Il problema del Corano risulta essere la contraddittorietà delle norme contenute al suo interno, questo a causa del carattere progressivo della Rivelazione che si è perfezionata in un arco di tempo ventennale e raffinata in seguito. La dottrina Islamica distingue all’interno del Corano due fasi: una meccana ed una medinese. Secondo la lettura proposta da alcune correnti riformiste, la prima presenterebbe la parte più escatologica, immodificabile ed eterna della parola di Dio, basata sui principi di umanità e giustizia e prevalente rispetto alla parte medinese. Quest’ultima, conterrebbe la parte politica, contingente e storicizzabile della Rivelazione. Si ritiene in ogni caso che i versetti traducibili oscillino tra il 3% ed il 10% del totale. Inoltre, le norme non coprono tutte

(29)

le relazioni umane, ma sono dedicate a settori specifici (come il diritto di famiglia) o sono accompagnate da prescrizioni di carattere religioso29.

Per integrare il Corano il maggior punto di riferimento è rappresentato dalla tradizione, termine con il quale si intendono gli episodi riguardanti la vita del profeta e dei suoi compagni. “I comportamenti di Maometto, i suoi assensi

espliciti o taciti, le sue azioni, i suoi silenzi, le sue parole compongono la Sunna e diventano norma, giacché la sua vita, pur essendo la vita di un uomo è considerata ispirata alla divinità”30.

Questi racconti dei comportamenti di Maometto vennero trasmessi prima oralmente e successivamente per iscritto. Essi soddisfano l’esigenza di offrire un maggior numero di regole, ma non sempre è stata agevole la determinazione delle previsioni da applicare e la condivisione del loro significato. La Sunna sembra coprire un territorio vasto e disparato, ma la sua reale portata applicativa non dipende dalla sua estensione letterale, bensì dal valore che a questa viene attribuito, ovvero dal significato giuridico che si trae dai racconti su Maometto e sugli altri soggetti. Nella Sunna possiamo rinvenire la presenza di racconti non sempre condivisi e a volte in contraddizione con il Corano: essi probabilmente furono strumentali agli interessi di determinate epoche. Infatti, la tradizione fu utilizzata come mezzo per far prevalere il significato di determinati versetti

29 Ibidem pp.12-24. 30 Ibidem p.25.

(30)

del Corano su altri, accentuando specifici indirizzi e raggiungendo specifici risultati in ambiti dove il testo sacro lasciava decisamente dubbi.

Accanto alle due fonti scritte il diritto islamico riconosce due fonti orali di produzione del diritto. La prima viene delineata con il termine ‘igma’ e consiste nel consenso della comunità in merito alle questioni religiose. A Maometto venne infatti attribuito il detto “la mia comunità non si troverà

mai d’accordo sopra un errore” e da esso ne discende la

possibilità di produrre nuovo diritto con il concorso e l’accordo della totalità dei fedeli. Successivamente venne ristretto il senso del detto in oggetto, ritenendosi che la produzione giuridica fosse rimessa al consenso unanime dei dottori della legge in quanto rappresentanti qualificati della comunità. Questo fu necessario per vari motivi: si mirava a incrementare il ruolo degli esperti del diritto e si cercava di prevenire la proliferazione indiscriminata di regole tra le varie comunità islamiche e l’inevitabile frammentazione che ne sarebbe seguita. Recentemente, al fine di assecondare l’emergere delle esigenze più attuali delle comunità islamiche ed aprire alle popolazioni l’accesso al potere legislativo, vi è stato un nuovo tentativo di estensione del significato dell’igma per poter attribuire la funzione della creazione del diritto all’opera pubblica. Questa prospettiva democratica cercava di fornire legittimazione religiosa all’esercizio di produzione normativa da parte degli organi eletti dal popolo, ma l’opposizione della dottrina più

(31)

conservatrice ed il timore di una funesta rottura con la tradizione hanno avuto la meglio.

Il ‘qiyās’, la fonte del diritto più contestata, consiste nel procedimento analogico. Si fa ricorso ad esso quando, da un caso espressamente disciplinato, si traggono i principi per regolamentare un caso simile ma non previsto. Non tutte le scuole musulmane ammettono tale procedimento. Questo riflette l’esistenza di opposte visioni del diritto islamico: tra chi lo ritiene aperto, flessibile e disposto ad accompagnare le nuove esigenze dalla società, e chi, invece, lo ritiene chiuso, rigido ed indisponibile verso il contributo della ragione umana. Quindi alcune scuole fanno ampio utilizzo di tale fonte, mentre altre la denigrano, poiché sancirne la legittimità significherebbe ammettere l’incompletezza della rivelazione divina.

Infine, è bene accennare che, accanto alle quattro radici del diritto, ulteriore elemento di produzione giuridica è la consuetudine. Essa ha giocato un ruolo chiave nel diritto islamico, adattandolo alle tradizioni e a esigenze di comunità islamiche diverse tra loro e ha permesso ad un sistema giuridico rigido di contemperarsi rispetto alle esigenze sociali. Inoltre, esso ha permesso la progressiva introduzione all’interno di singoli paesi islamici di istituti tipici del diritto di Paesi stranieri31.

(32)

5.1 Il ruolo della dottrina e della giurisprudenza

L’evoluzione del diritto islamico non può prescindere dalla ‘fatwa’. Con questo termine si intende il parere che viene rilasciato dall’esperto al fedele che sottopone alla sua attenzione un caso concreto. Per sancire il comportamento che dovrà essere adottato o evitato l’esperto fa ricorso alla sua sapienza, ovvero a tutti quei principi di diritto islamico che possono fornire indicazioni utili per la risoluzione della vicenda. La ‘fatwa’, anche se viene rilasciata a seguito di una domanda e dovrebbe valere per il caso concreto, viene a raffigurarsi come una massima a disposizione dell’intera comunità, indicando a tutti i fedeli il comportamento da assumere. Infatti, alcune grandi organizzazioni islamiche raccogliendo collezioni di fatawa, rinnovano e innovano la tradizione. Il principale problema della fatwa risiede nell’assenza di un vertice ed una gerarchia ecclesiastica. Così, a causa dei molteplici soggetti che si ritengano essere legittimati ad emettere interpretazioni, viene prodotta una proliferazione di provvedimenti aventi pari autorità con, a volte, contenuto contraddittorio od opposto.

Oltre agli esperti vanno annoverati anche i ‘qadi’ e il ‘mufti’. Il primo delinea una sorta di giudice civile, ma con dei poteri più simili ad un arbitro con funzione stabile. Questo conferisce al diritto islamico vocazione casistica, riconoscendo larga discrezionalità in capo al giudice. Questo

(33)

ha infatti il compito di creare32 le regole giuridiche quando

non sono immediatamente ricavabili dalla legge religiosa, attraverso un dialogo continuo con il ‘mufti’, termine che indica le autorità religiose.

5.2 Sunniti e Sciiti

Il diritto islamico è sottoposto a differenti interpretazioni, tutte ugualmente legittime. Questo ha portato ad una continua ed intensa attività di elaborazione giuridica accompagnata dall’emersione di diversi indirizzi giuridici. La prima grande divisone è presente tra gli sciiti e i sunniti33.

La distinzione si venne a creare alla morte di Maometto, nel 632, quando emerse un disaccordo per la sua successione. Infatti, il Profeta non aveva dato delle indicazioni riguardanti chi avrebbe dovuto essere il Califfo, ovvero il suo successore, conseguentemente i compagni che avevano fatto l’Egira, i medinesi e i gruppi della Mecca, furono protagonisti di una serie di scontri. I primi quattro Califfi furono di Medina e vennero chiamati “ben guidati”. Tutti avevano un rapporto di parentela e un contatto diretto con Maometto. Essi furono in ordine di successione: Abu Bakr,

Umar, Utham e Ali ibn Abi Talib, cugino e genero del Profeta.

Tutti i primi quattro Califfi vennero assassinati. In particolare, alcuni ‘quaraischiti’, ovvero membri dei gruppi

32 Ibidem pp.8-10

(34)

della Mecca con l’appoggio di A’isha, moglie prediletta del Profeta, contestarono il Califfato di Ali, dando luogo alla prima guerra intestina del mondo islamico. Anche se venne sconfitta questa fazione le proteste riaffiorarono da parte del governatore della Siria e cugino di Uthman, Muhawia. Così, dopo che fu assassinato Ali, Muhawia prevalse dando origine alla dinastia Ommayyade34. Con Ali ci fu la divisione

nel mondo islamico tra sunniti e sciiti. Gli Sciiti, che presero il nome da Schī’a, il partito di Ali, sostenevano che il capo della comunità islamica, dovesse essere un diretto discendente di Maometto. Dunque, il ruolo guida doveva spettare ad Ali e alla sua discendenza. Gli Sciiti ebbero undici ‘Imām’, termine che indica il ruolo di suprema guida spirituale. Al-Mahdī, il dodicesimo Imām, decise di nascondersi per comunicare con la comunità attraverso lettere, per poi scomparire definitivamente. Tra gli stessi Sciiti sono presenti varie sette, di cui la dodicesima attende ancora il ritorno dell’Imām per guidare i musulmani. Gli Sciiti rappresentano il 10-15 % dei credenti musulmani. In alcuni paesi come Iran, Iraq e Libano lo sciismo è maggioritario, mentre in altri, come Afganisthan, Pakistan, e Arabia Saudita rappresenta una minoranza. Di contro, i Sunniti, il cui nome deriva da Sunna, ovvero tradizione, ritenevano che fosse necessario individuare il Califfo nella

34F. TAMBURINI, Il Magreb delle indipendenze alle rivolte arabe: storie e

(35)

comunità religiosa eletto dal popolo, e non necessariamente discendente del profeta.

5.3 Le scuole ufficiali Sunnite

In ambito Sunnita va ricordato che nel corso del tempo si sono sviluppate scuole giuridiche, i cui fondatori, di riconosciuto valore giuridico ed indiscusso prestigio, dovettero il loro definitivo successo prevalentemente a situazioni politiche. È bene premettere che la maggioranza dei musulmani appartiene ad una delle quattro scuole sunnite, ma ci sono anche musulmani che aderiscono contemporaneamente a due scuole giuridiche diverse: una per gli aspetti giuridici, decisa dal regime al potere, e l’altra per gli aspetti culturali, lasciati alla scelta personale35.

Queste scuole giuridiche non solo si differenziarono in base all’interpretazione dei singoli istituti, ma anche nell’individuazione delle stesse fonti del diritto. Le scuole sono quattro.

La scuola hanafita porta il nome di Abu- Hanifah, uno studioso di origine persiana nativo di Kufa, in Iraq. Egli apparteneva ad una ricca famiglia da cui aveva ereditato un commercio di seta, ma, gestendo gli affari attraverso un intermediario, preferì dedicare la maggior parte del suo tempo agli studi e al confronto con i dotti della sua epoca.

35Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Il diritto islamico, Fondamenti,fonti,istituzioni.

(36)

Così nell’arco di qualche anno creò una cerchia di allievi a cui trasmise il proprio sapere. Abu-Hanifah aveva uno spirito generoso e aperto, tanto che in una delle sue sentenze disse “ciò che diciamo non è che un’opinione, ed è il meglio al

quale siamo giunti. Se qualcuno giunge ad un’opinione migliore, essa sarà considerata più esatta della nostra36.” Nei suoi

ragionamenti si basava sul Corano e la Sunna e se non fossero stati presenti opinioni vincolanti su queste due fonti, preferiva scegliere quelle dei compagni di Maometto. Inoltre, ammetteva il ricorso al ragionamento ed alle consuetudini, se non contraddicevano il Corano e la Sunna. Egli, invece, vedeva con sospetto le tradizioni di Maometto e accettava solo quelle ben note. È da ricordare che Abu-Hanifah diede poi un importante contributo in materia di contratti ed obbligazioni37. Dai suoi insegnamenti ne discese

così la scuola più “aperta” che riscosse un successo maggiore, grazie al fatto che i califfi abbassidi e i sultani ottomani la adottarono come propria scuola ufficiale. Essa si basa su un ampio e continuo ricorso al procedimento analogico ed è intervenuta in maniera significativa insieme alla scuola malikita all’interno dell’applicazione del diritto di famiglia38. La scuola malikita porta il nome di Malik Ibn-Anas,

arabo yemenita. Egli si dedicò a raccogliere le tradizioni di Maometto e le opinioni dei suoi compagni e successori.

36 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Il diritto islamico, Fondamenti,fonti,istituzioni.

Roma, Carocci, 2009, p.52.

37 Ibidem pp.51-53.

(37)

Preferiva che il potere fosse conferito dal popolo, ma essendo comunque reticente di fronte alle insurrezioni contro i regimi esistenti e ritenendo che il disordine fosse un male peggiore di un ingiusto regime, si adattava al principio ereditario. La sua funzione era quella di consigliare i governanti ed istruire il popolo. Malik non rispondeva a questioni ipotetiche, ma solo a quelle concrete, prendendosi tutto il tempo necessario per analizzare il caso. Le sue opinioni si basavano sulla Sunna, sul Corano, sulle pratiche sociali dei medinesi, sulle opinioni dei compagni di Maometto, sulla deduzione analogica e sull’interesse pubblico 39 . All’interno della sua opera “Muwatta”,

continuamente rivista e corretta per quarant’anni, sono indicati i suoi studi classificati secondo una logica giuridica

40. La scuola Malikita oggi è presente nel Maghreb, e si basa

prevalentemente sulla sunna e sul rilievo delle intenzioni che motivano ciascuna azione. Essa appare come la scuola che ha appoggiato i più riusciti tentativi di modernizzazione del diritto islamico41.

La scuola hanbalita è considerata come la più conservatrice fra le scuole sunnite e porta il nome di Ahmad Ibn-Hanbal. Egli nacque a Bagdad da una famiglia araba e raccolse le tradizioni di Maometto. Si interessava alle controversie e rifiutava di occupare le funzioni pubbliche ritenendo che

39 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera citata, p. 54 40 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera citata, pp. 54-55. 41 N. FIORITA, opera citata, p. 29.

(38)

occuparle sotto un regime ingiusto avrebbe voluto dire diventarne complice. Ahamad preferiva che il potere fosse nelle mani della tribù di Maometto e riteneva che non bisognava rivoltarsi a chi, anche avendo conseguito il potere con la forza, governava con giustizia. Questa logica arrivò al punto di proibire le rivolte anche contro il potere ingiusto, con la scusa che queste avrebbero indebolito la comunità musulmana. Amhad preferiva che i suoi discepoli non riportassero i suoi studi, che secondo lo studioso erano validi solo per la sua epoca, a differenza del Corano e della Sunna, che invece avevano validità eterna. Teneva conto poi anche del consenso fra i compagni di Maometto, mentre quello formatosi in epoca posteriore era da ritenersi falso42.

Oggi questa scuola è la più rigida rispetto al tema della morale pubblica, tanto da sostenere un’interpretazione letterale delle norme divine e bandire l’uso del procedimento analogico. I suoi adepti non esitano a reprimere e prendere provvedimenti contro gli altri consociati in virtù del principio coranico di “ordinare il bene

e proibire il male”. Sebbene sia in fase di decadenza, trova

ancora applicazione nei paesi più rigorosi e conservatori, come l’Arabia Saudita, dove costituisce scuola ufficiale della dinastia wahhabita regnante43.

Infine, è presente la scuola shafita, che prende il nome da Al Shafi, colui che venne ritenuto il vero sistematizzatore del

42 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera ciatata, p.56. 43 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera ciatata, pp.57-58.

(39)

diritto islamico, che effettuò la catalogazione delle fonti del diritto così come è stato riportato nei paragrafi riferiti alle fonti del diritto islamico. Egli respinse l’istihsan, che consiste nello stabilire la norma più adeguata nel caso in cui le altre fonti non offrano soluzioni. Questo perché un tale procedimento avrebbe fatto sospettare di una presunta incompletezza del diritto musulmano e avrebbe conferito a colui che agiva la qualifica di legislatore44. Questa scuola è la

seconda oggi per l’adesione del numero di fedeli ed è principalmente diffusa nelle periferie del territorio musulmano (come in Indonesia). Essa si distingue per una avversione nei confronti delle interpretazioni personali45.

5.4 Le scuole ufficiali sciite

Come i sunniti, anche gli sciiti sono suddivisi in vari gruppi di cui è bene ricordare i quattro principali. La prima è la scuola imamita o gia’farita, il cui nome deriva dal sesto imam

Gia’ far Al- Sadiq. Secondo questa scuola il potere supremo

spetta solo ad ‘Ali e ai suoi discendenti nati da Fatimah, su designazione di Maometto. Il termine Imam, viene utilizzato al posto di califfo, e gli imamiti ritengono che quest’ultimo goda di infallibilità e sia privo di peccato. Questa concezione non è condivisa dai sunniti, che invece ritengono tali caratteristiche solo attribuibili ai profeti. A differenza dei

44 Ibidem, p. 56.

(40)

sunniti gli sciiti autorizzano il matrimonio temporaneo e proibiscono il matrimonio tra musulmano e non musulmana, contestando l’utilizzo della dissimulazione. Diversamente dai sunniti, poi, il “consenso”, quale fonte del diritto, riguarda l’accordo sui detti degli imam, ovvero un ricorso alla Sunna degli imam. Per quanto riguarda poi la “ragione”, essa si riferisce al legame tra una data norma fissata dalla legge religiosa ed una norma religiosa a essa sottintesa46.

Gli sciiti gia’fariti sono principalmente presenti in Iran, dove il sovrano è stato da sempre “sorvegliato” dai dotti religiosi. Questi ultimi infatti si ritengono interlocutori privilegiati dell’Imam nascosto e suoi sostituti fino al suo ritorno. Tuttavia, questa scuola è anche presente in altri paesi come l’Iraq, l’Arabia Saudita, la Siria ed il Libano. La scuola Zaydita prende il nome dal quinto imam, Zayd Ibn-‘Ali. I suoi adepti riconoscono solo quest’ultimo come legittimo erede di ‘Ali. Secondo Zayd non era necessario che il potere politico fosse necessariamente ereditario, ma, preferibilmente, avrebbe dovuto essere affidato alla tribù di ‘Ali. Maometto, avrebbe indicato ‘Ali come suo successore, non in maniera esplicita facendone il nome, ma riferendosi alle sue qualità, essendo questo il migliore fra i suoi

46 Se ad esempio Sunna e Corano prescrivono il pellegrinaggio, l’obbligo di

viaggiare viene dedotto dall’obbligo di fare pellegrinaggio. La ragione quindi riconosce il legame tra pellegrinaggio e viaggio e questa concezione si basa su ciò che affermò ‘Ali: “la religione di Dio non può essere legislatore”.

(41)

compagni. Questo voleva dire che il successore di Maometto non dovesse essere per forza della tribù di ‘Ali, ma ne dovesse incarnare le qualità. Infatti, per gli zayditi, gli imam non erano ritenuti infallibili47. Questa scuola è stata ritenuta

simile al sunnismo, sul piano giuridico, e allo sciismo sul piano del dogma (caratteristica che cerca di riconciliare sciiti e sunniti)48. Questa è la scuola ufficiale dello Yemen.

La terza scuola oggetto di analisi è chiamata Isma’ilita. Gli isma’iliti si dicono discendenti di Ismaele figlio di Abramo. Essi affermano che dopo la morte del sesto imam sciita l’imamato fosse passato al figlio di Isma’il, che aveva finto di essere morto per sfuggire ai suoi persecutori.

Essi hanno la reputazione di interpretare il Corano in modo esoterico, ideologicamente vicino al neoplatonismo. Essi accanto al Corano e alla Sunna danno grande importanza all’opera “Le epistole dei fratelli sinceri e degli amici leali”, probabilmente della fine del X secolo, che presenta la dottrina isma’ilita come fu scritta originariamente49. La

massima autorità in materia di giurisprudenza è considerata ‘Al-Qadi Al -Nu’man di cui l’opera Da’a’im al-Islam, redatta intorno al 960, è ancora il testo giuridico di riferimento nei tribunali di India e Pakistan. Secondo questo giurista, il Corano e la Sunna sono le due fonti principali. Dopo la fede in Dio il primo pilastro dell’islam è l’obbedienza all’Imam, a

47 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera citata, pp.59-62. 48 Al- Fadli, Al-madhhab al-imami, p. 67.

(42)

cui bisogna rivolgersi se non si trovano le soluzioni ricercate. Infatti, pregare e fare opere buone è inutile senza imam, a cui gli isma’iliti danno un quinto dei loro redditi. Come fonti del diritto vengono rigettate l’approccio razionale, la deduzione analogica o il consenso50. È bene ricordare che è stata

promulgata nel 1990 una costituzione isma’ilita che, nel primo articolo, riconosce all’imam ogni diritto assoluto su ogni questione religiosa o comunitaria51.

La scuola Drusa, infine, porta il nome di Muhammad

Ibn-Isma’il Al-Darazi. Quest’ultimo ritenne che Dio si fosse

incarnato nel sesto califfo Fatimida d’Egitto. Le fonti Druse sono il Corano, la Sunna di Maometto e l’Antico e il Nuovo Testamento. Inoltre, vengono considerate fonti anche le “epistole della saggezza” e le loro esegesi. I drusi hanno credenze in netto contrasto con quelle degli altri musulmani. Ad esempio, ritengono che Dio sia apparso 72 volte in forma umana per guidare l’umanità. La legge drusa abolisce i cinque pilastri dell’Islam e la guerra santa, non predica il proselitismo e condanna l’apostasia. In Libano, Siria ed Israele, i drusi hanno proprie leggi che, ad esempio, proibiscono il matrimonio misto e la poligamia52.

50 Ibidem, pp. 63-64

51 Ismaili constitution, http://www.ismaili.net/Source/extra1.html 52 Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, opera citata, pp.65-66.

(43)

5.5 I documenti a tutela dei diritti adottati dai paesi a

maggioranza musulmana

Anche i paesi a maggioranza musulmana hanno più volte redatto documenti in cui inserire una proclamazione “particolaristica” dei diritti dell’uomo conforme alla sharia. Il primo di questi fu la Dichiarazione islamica universale dei

diritti dell’uomo, proclamata il 19 settembre 1981 sotto l’egida

dell’UNESCO a Parigi. Essa scaturì da varie critiche che i paesi a maggioranza musulmana più conservatori, come Sudan, Iran e Arabia Saudita, fecero alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In quest’ultima infatti non erano state tenute in considerazione le “esigenze religiose e culturali” dei paesi a maggioranza musulmana. La dichiarazione islamica universale è composta da un preambolo e da 23 Articoli. Nel preambolo si afferma che l’Islam ha definito i Diritti dell’Uomo nel loro insieme e nelle loro applicazioni, da oltre quattordici secoli, attraverso la legge divina. Questi diritti non sono solo garantiti dall’Islam ai cittadini, ma sono anche serviti come base per plasmare la società. I diritti, provenienti dal Corano e dalla Sunna sono immodificabili ed eterni e la loro affermazione è preliminare per la costruzione di qualsiasi autentica società islamica53.

53 Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo. Wikipedia, l’enciclopledia libera,

ultima modifica il 15 gennaio 2020, consultato in data 20 maggio 2020, https://it.wikipedia.org/wiki/Dichiarazione_islamica_dei_diritti_dell%27uo mo

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