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la morte cardiaca improvvisa nell'atleta

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Academic year: 2021

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Università degli Studi di Pisa

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport

Direttore: Prof. Gino Santoro

Tesi di Specializzazione

“Morte cardiaca improvvisa nell’ atleta”

Relatore:

Chiar.mo Prof. Gino Santoro

Candidata:

Dr.ssa Francesca Graci

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Indice generale

Sommario...3

1. Introduzione...4

1.1. Definizione...4

1.2. Effetti dello sport sul sistema cardiovascolare...5

1.3. Sport agonistico...9

2. Epidemiologia...10

2.1. Cause di morte cardiaca improvvisa...13

3. Cause...15

3.1. Cardiomiopatia Ipertrofica...16

3.2. Miocarditi...24

3.3. Sindrome di Marfan...27

3.4. Sindrome di Ehlers-Danlos...30

3.5. Prolasso della valvola mitrale...31

3.6. Displasia aritmogena del ventricolo destro...34

3.7. Aritmie...36

3.7.1. Canalopatie...40

3.7.2. Fibrillazione atriale familiare...48

3.8. Commotio cordis...50

4. Conclusioni...53

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Sommario

“L’esercizio fisico vigoroso protegge dalla morte improvvisa ma nello

stesso tempo è in grado di provocarla”. In atre parole questo aforisma di

Siskovick ci dice che la pratica regolare di un esercizio fisico è in grado di indurre effetti benefici sull’organismo e sull’apparato cardiovascolare, ma la morte cardiaca improvvisa benché rara può colpire

improvvisamente anche atleti di grandissimo valore, con grande clamore e apprensione nei mass-media, soggetti che dovrebbero rappresentare la massima espressione della salute, forza, resistenza e destrezza fisica. La morte improvvisa non traumatica dell’atleta è dovuta nella grande maggioranza dei casi ad una patologia cardiaca occulta sottostante, che viene smascherata dall’aumento di prestazione cardiovascolare.Vengono indagate, alla luce delle recenti ricerche, le indagini non invasive ed invasive idonee ad identificare I soggetti a rischio ed il ruolo dei protocolli di idoneità sportiva agonistica nel prevenire tali eventi.

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1. Introduzione

1.1. Definizione

La morte cardiaca improvvisa (MCI) viene definita come morte repentina ed inaspettata, non traumatica, dovuta a cause cardiache, preannunciata da una inspettata perdita di coscienza che si verifica entro un'ora dall'insorgenza dei sintomi acuti; possono preesistere malattie cardiache note ma il tempo e la modalità del decesso sono inattesi (Priori, 2002). La MCI comprende qualsiasi tipologia di morte da cause cardiache che si presenta in ambito preospedaliero e nei dipartimenti di emergenza (Zheng, 2001).

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1.2. Effetti dello sport sul sistema cardiovascolare

Le conseguenze che l'attività fisica apporta al sistema cardiovascolare sono difficilmente schematizzabili in quanto ciascuno sport comporta un impegno cardiaco diverso, che può essere costante nel tempo, come ad esempio nella maratona in cui la durata della gara è relativamente lunga, o intermittente come per le attività aerobico-anaerobiche. Altre attività invece, come alpinismo, sport subacquei, sport motoristici etc., hanno un rischio intrinseco riconducibile all'ambiente sfavorevole in cui vengono svolti.

Si è verificata dunque l'esigenza di classificare i diversi sport considerando gli effetti acuti e cronici che l'attività fisica determina sull'apparato cardiovascolare, per realizzare uno strumento di guida diretto agli specialisti di medicina dello sport; questo strumento è stato fornito dal COCIS (2009). Come criteri guida per la classificazione sono stati presi in considerazione il carico di lavoro sulla pompa cardiaca che l'esercizio determina, la pressione di esercizio, la frequenza cardiaca e le influenze emozionali, non solo nel momento della gara ma anche durante l'allenamento.

Risulta utile fornire alcune informazioni fisiologiche basilari per poter classificare le diverse attività fisiche e sportive, in relazione alle risposte dell’apparato cardiovascolare. Una classificazione largamente utilizzata dai medici dello sport e dai cardiologi, è quella stilata nel 1995 dagli esperti del COCIS (Comitato Cardiologico per l’Idoneità allo Sport Agonistico) ed aggiornata nel 2009 (COCIS 2009). L’impegno cardiocircolatorio può essere costante nel tempo, come nelle attività di tipo aerobico prolungate (dalla semplice camminata alla maratona, dalla

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passeggiata in bicicletta al ciclismo), oppure intermittente, come nei giochi con la palla individuali (tennis, squash) o di squadra (calcio, basket). L’impegno cardiocircolatorio dipende in primo luogo dall’intensità dello sforzo, a sua volta proporzionale alle richieste metaboliche dei muscoli impegnati. Una misura semplice dell’intensità metabolica è il MET o equivalente metabolico: 1 MET corrisponde all’ossigeno consumato (VO2) per le funzioni basali dei vari organi da un

uomo in condizioni di riposo: esso è stato stimato in 3,5 ml di O2 per kg

di peso corporeo per minuto (ml/kg/min). Così, può essere considerato d’intensità lieve, uno sforzo che comporti un dispendio attorno ai 3 MET (camminare o nuotare lentamente), moderato quando il dispendio metabolico è compreso tra 3 e 6 MET (camminare velocemente o in salita), e medio-elevato quando il dispendio è superiore a 6 MET (pari ad un VO2 di 21 ml/kg/minuto).

Un aspetto importante per il medico è oggi rappresentato dal proliferare, accanto alle forme più tradizionali, di altre tipologie di esercizio fisico-sportivo effettuate soprattutto nelle palestre o nei Centri Fitness, alcune delle quali ormai largamente diffuse nella popolazione (aerobica, spinning, rowing, ecc.) così come di altri sport veri e propri (es. danza sportiva). In questi casi, il medico può trovarsi in difficoltà nel “prescrivere” o “autorizzare” tali attività, mancando informazioni precise sul dispendio energetico e sull’impegno cardiocircolatorio che esse comportano. La risposta emodinamica allo sforzo è influenzata in misura significativa dal tipo di esercizio. Nelle attività dinamiche, il gesto tecnico è ciclico (camminare, correre, pedalare) e la forza muscolare impiegata generalmente non è elevata. Si tratta d’attività “aerobiche” che da un punto di vista cardiocircolatorio sono caratterizzate da un incremento della frequenza cardiaca (FC) proporzionale all’intensità dello

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sforzo e da una prevalente vasodilatazione periferica, con modesto o nessun aumento della pressione arteriosa (PA) media. Il miocardio aumenta il suo consumo d’ossigeno in misura proporzionale all’aumento della portata cardiaca. Le attività dinamiche sono ideali ai fini della prevenzione primaria e secondaria delle patologie cardiovascolari, anche in considerazione del fatto che la loro prescrizione risulta più facile di altre, potendo essere dosata su parametri semplici ed affidabili quali, ad esempio, la FC. L’esercizio fisico aerobico si differenzia nettamente da quello statico o di potenza, definito “anaerobico”, dove la risposta cardiocircolatoria è caratterizzata da un’importante elevazione della PA media, dovuta all’aumento delle resistenze vascolari periferiche, che pur se di breve durata e può essere dannosa nei pazienti ipertesi e/o con patologie dell’aorta. Sulla base di questi concetti basilari, ai fini della prescrizione dell’esercizio fisico, appare ragionevole classificare le attività sportive in tre grandi gruppi:

Attività di tipo dinamico ad impegno cardiocircolatorio costante:

caratterizzate da gesti semplici quali camminare, marciare, correre all’aperto o su un tappeto ruotante, pedalare su una bicicletta o su una cyclette, nuotare in piscina, etc. Esse si trasformano in vere e proprie attività sportive quando l’intensità dello sforzo è da media ad elevata ed il soggetto intenda effettuarle in forma agonistica.

Attività di tipo dinamico ad impegno cardiocircolatorio intermittente:

caratterizzate da gesti più complessi che presuppongono il possesso di una tecnica adeguata (tennis, calcio, calcio a cinque, etc..). Esercitano effetti benefici sull’organismo e sull’apparato cardiovascolare ma sono più difficili da “dosare”, per l’inevitabile componente “agonistica”

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presente anche se effettuate per puro divertimento ed in forme non organizzate.

Attività statiche o di potenza: caratterizzate da un impegno

cardiocircolatorio prevalentemente di tipo “pressorio” (sollevamento pesi, body-building). Non è ancora chiaro se, a determinate condizioni (per esempio se effettuate in forma “dinamica”, con molte ripetizioni e sovraccarichi modesti), possano avere effetti benefici sull’apparato cardiovascolare. Comunque, seppur molto diffuse nella popolazione, esse non possono essere considerate di prima scelta ai fini della prevenzione cardiovascolare.

Le complicanze cardiovascolari che possono verificarsi in attività sportive dinamiche, sia ad impegno costante sia intermittente non sono molto diverse. Come è ormai documentato ampiamente da studi epidemiologici sulla morte improvvisa da sport, il fattore chiave nel determinismo del rischio è l’intensità dell’esercizio, fino ad un’intensità non superiore al 70-75% del massimale, la pratica regolare di un esercizio fisico è in grado di indurre effetti benefici sull’organismo e sull’apparato cardiovascolare senza un significativo aumento del rischio. Naturalmente, tale “soglia” si modifica con l’età ed in presenza di una patologia cardiaca. In tali casi infatti, si rende necessario definire con maggiore accuratezza l’intensità dello sforzo in grado di produrre benefici senza aumentare il rischio di complicanze. Ciò è, ovviamente, meno facile con le attività fisico-sportive intermittenti (es. tennis, calcio etc.), nelle quali il dispendio metabolico e l’impegno cardiocircolatorio dipendono molto dall’avversario e dalla “competizione”, inevitabilmente presente. Peraltro, queste attività, caratterizzate da gesti atletici ad inizio e termine bruschi, hanno maggiore capacità di scatenare aritmie cardiache

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(“aritmogenicità”), rispetto a quelle di tipo costante, iniziate e terminate in modo graduale.

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1.3. Sport agonistico

Viene definito sport competitivo o agonistico un'attività sportiva individuale o organizzata in squadra in cui la componente essenziale è rappresentata dalla competizione, dove si riconosce un "premio" al vincitore ed è richiesta una forma di allenamento sistematico e generalmente intensivo. Gli sport competitivi organizzati sono visti come una attività distintiva e come uno stile di vita; una componente importante degli sports agonistici riguarda la capacità da parte dell'atleta di riconoscere i propri limiti fisici e di conseguenza di agire con prudenza nel compiere esercizi e/o sedute di allenamento eccessivi; per esempio, la pressione psicologica esistente nel settore agonistico, spesso non permette agli atleti di dimostrare uno stretto controllo sui livelli di esercizio nè di capire in maniera coscienziosa quando insorgono sintomi cardiovascolari attribuibili al sovrallenamento. L'atletica agonistica può comprendere molte discipline sportive suddivise in varie fasce di età e impegno atletico richiesto ( Maron BJ 2001). Tuttavia le raccomandazioni da seguire per gli atleti, potrebbero essere applicate ad una popolazione più estesa (sport non agonistici e/o attività occupazionali che richiedono un ingente sforzo fisico) ( Maron BJ 2004)

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2. Epidemiologia

In Italia si stima un'incidenza annuale di morte cardiaca durante esercizio fisico nella popolazione generale giovanile di 2,62/100 000 nei maschi e 1,07/100 000 nelle femmine (Corrado 2003). Nei maschi adulti l’incidenza annuale sale a 5,5-6,5/100 000, mentre non sono disponibili dati precisi negli individui più anziani. Negli Stati Uniti tale incidenza risulta pari a 0,75/100000 nei maschi e di 0,13/100000 nelle femmine (Van Camp 1995 ).La stima precisa della frequenza delle morti cardiache improvvise nei giovani atleti durante competizioni sportive è ostacolata dalla natura retrospettiva delle molte analisi epidemiologiche condotte nel tempo. Nel passato studi effettuati negli Stati Uniti (USA) hanno probabilmente sottostimato la prevalenza delle morti improvvise correlate allo sport, dal momento che i dati disponibili provenivano da casistiche scolastiche ed istituzionali o da stime comunque poco affidabili (Van Camp 1995, Maron 1996 ). Recentemente i risultati di uno studio retrospettivo osservazionale condotto in Veneto, presso il Centro di Medicina Sportiva di Padova, hanno evidenziato un'incidenza di morte cardiaca improvvisa di 1,9 per 100000 atleti per anno. Lo studio è stato condotto dal 1979 al 2004 su una popolazione di circa 43 mila atleti di età compresa tra 12 e 35 anni (Corrado 2006). Nel periodo di osservazione si sono verificati 55 casi di morte improvvisa (50 maschi e 5 femmine), 50 dei quali in relazione all’attività fisica o subito dopo la cessazione della stessa. Con questo studio osservazionale di lunga durata è stato inoltre possibile apprezzare una riduzione dell’incidenza annuale di morti improvvise dal 19821 al 2004 come illustrato nella Figura 2, legati

1 Anno di introduzione del protocollo di screening cardiovascolare pre-partecipazione ad attività sportive agonistiche (DM del 18 febbraio 1982: Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva

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all’introduzione dei protocolli di idoneità sportiva.

Fig.2. Incidenza annuale di morte cardiaca improvvisa (MCI) in atleti competitivi

sottoposti a screening cardiovascolare pre-partecipazione agonistica e nei soggetti sedentari, di età compresa tra i 12 e i 35 anni nel Veneto (1979-2004).

Le ragioni per cui i tassi di mortalità riscontrati nella popolazione italiana risultano più alti rispetto a quelli riportati negli USA, comprendono i differenti substrati patologici che riflettono parzialmente fattori etnici e genetici, l'intervallo di età maggiore degli atleti esaminati (<35 anni in Italia; studenti delle "high schools" e dei "college" negli USA) e la partecipazione a sport richiedenti un maggiore impegno fisico. La morte improvvisa negli atleti mostra una chiara predilezione nel sesso maschile, con un rapporto M:F di 10:1. Verosimilmente, la minor prevalenza della MCI durante esercizio fisico nelle donne rispetto agli uomini trova spiegazione nella scarsa partecipazione delle prime ad attività fisiche ad elevato impegno cardiovascolare e nella minore espressività fenotipica di alcune cardiopatie di origine genetica o aterosclerotica nel sesso

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femminile (Corrado 1994, Nava 2000, Miura 2002).

In molti studi è stato dimostrato che la morte improvvisa è più elevata nei Neri Americani rispetto ai Bianchi; la ragione di questi risultati non è del tutto chiara, tuttavia studi autoptici mostrano come le differenze di incidenze di morte improvvisa possano essere dovute ad un’aumentata prevalenza di ipertensione arteriosa, di IVS, di diabete mellito e abitudine al fumo (Asher 1999). Altri fattori da tenere in considerazione sono le limitazioni all’accesso a trattamenti di prevenzione e al possibile non riconoscimento e/o trattamento dei sintomi prodromici.

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2.1. Cause di morte cardiaca improvvisa

Negli atleti di età superiore ai 35 anni la causa di gran lunga più frequente di eventi fatali è rappresentata dalla malattia coronarica ischemica (Maron 2003, Corrado 2003). Negli atleti agonisti più giovani è stato riportato uno spettro più ampio di cause di morte improvvisa che includono disordini congeniti e acquisiti (Corrado 2003)

Fig.3. Cause di morte improvvisa nell’ atleta sotto i 35 anni (Corrado et al)

La cardiomiopatia ipertrofica (CMI) è stata indicata come causa principale di arresti cardiaci correlati allo sport, rappresentando più di un terzo delle morti improvvise negli Stati Uniti (Maron BJ 1998). Altre cause includono l'origine anomala dei vasi coronarici, la displasia aritmogena del ventricolo destro, le miocarditi, l'aterosclerosi coronarica prematura, le anomalie del sistema di conduzione, disordini aritmogeni congeniti, la sindrome di Marfan e la sindrome di Elher-Danlos.

La malattia ischemica rappresenta la causa principale delle morti improvvise nei soggetti sopra i 35 anni, come dimostrato dal fatto che al

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miglioramento delle strategie di prevenzione e trattamento della cardiopatia ischemica si è associato un concomitante declino del rischi di CMI (Fox 2004).

Circa il 4% delle morti improvvise che si verifica nella fascia di età compresa tra 16 e 64 anni resta ancora inspiegato, anche a seguito di esami istopatologici autoptici e tossicologici post-mortem. Il termine di "sindrome da morte aritmica improvvisa" è stato attribuito a questi decessi, gran parte dei quali potrebbero essere causati da anomalie del ritmo geneticamente determinate. Il rischio aritmico nelle cardiomiopatie e nelle sindromi aritmiche ereditarie sembra essere significativo anche in assenza di una evidente disfunzione sistolica o di sintomi cardiologici. Tuttavia, la terapia antiaritmica ha conferito un miglioramento della sopravvivenza per alcune patologie note, come l'uso dei beta bloccanti nel sottotipo LQT1 della Sindrome del QT lungo (Glover 1998) oppure l'amiodarone a basso dosaggio nella cardiomiopatia ipertrofica (Pfister GC 2000).

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3. Cause

I meccanismi fisiopatologici, causa di MI cardiovascolare, sono sostanzialmente due: “meccanico”, quando si verifica un improvviso impedimento alla progressione ematica (es. tamponamento cardiaco embolia polmonare), ed “elettrico” per aritmia (fibrillazione ventricolare, tachicardia ventricolare o asistolia), dove il substrato può essere

rappresentato da patologie congenite o acquisite che formano un substrato aritmogeno e l’evento scatenante (“trigger”) da esercizio fisico.

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3.1. Cardiomiopatia Ipertrofica

La cardiomiopatia ipertrofica (CMI) rappresenta una causa piuttosto comune di cardiopatia congenita (0,2% della popolazione generale) (Maron BJ 1995) e la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa nella popolazione giovanile, inclusi gli atleti competitivi. La morte improvvisa dovuta a questa cardiopatia è più frequente intorno ai 30 anni o addirittura in età più giovanile, ma può verificarsi a qualsiasi età.

Numerose mutazioni di geni coinvolti nella codifica di varie componenti del sarcomero della cellula cardiaca sono state associate a presenza di CMI (circa 400 mutazioni specifiche). Studi sulla correlazione genotipo-fenotipo hanno mostrato che le mutazioni sono responsabili di un differente significato prognostico. L’analisi di tali mutazioni ne ha permesso l’utilizzo anche per facilitare la diagnosi clinica di CMI (Maron 2003).

Questa patologia è caratterizzata da una presentazione eterogenea e da una storia naturale nella quale la caratteristica diagnostica più rilevante si dimostra ecocardiograficamente con una ipertrofia asimmetrica non spie-gabile altrimenti, associata ad un ventricolo sinistro non dilatato (Maron 2003, Wigle 1995). La diagnosi clinica di CMI è data dal riconoscimento del fenotipo di una ipertrofia ventricolare sinistra: da un punto di vista ecocardiografico, uno spessore di parete ventricolare sinistra telediastoli-co di 15 mm o addirittura maggiore è il valore assoluto generalmente ac-cettato per definire una CMI in un atleta adulto; tuttavia, qualsiasi spesso-re di paspesso-rete è teoricamente compatibile con la pspesso-resenza di un gene mutato per la CMI (Maron 2002, Maron 2003), pertanto individui di qualsiasi

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età, ma più spesso di età inferiore a 14 anni, possono presentare mutazio-ne di geni implicati mutazio-nella CMI ma non manifestare ipertrofia ventricolare sinistra all'ecocardiografia. In una malattia come la CMI, l'estrapolazione del livello di rischio tra i soggetti "non atleti" e gli "atleti agonisti" è sotti-le sia con sotti-le metodiche di screening di primo livello sia con l’ecocardio-gramma in quanto l’adattamento della morfologia cardiaca di alcuni sport include un ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro.

I meccanismi che provocano modificazioni della morfologia del ventri-colo di sinistra negli atleti sono molteplici, ma il tipo di sport ha una par-ticolare importanza: gli sport di resistenza (ciclismo, sci di fondo, canot-taggio e canoa) hanno il maggiore impatto nell' ingrandire la cavità ed aumentare lo spessoredelle pareti mentre gli atleti praticanti sport di po-tenza (sollevamento pesi o lanci) presentano un ispessimento delle pareti ventricolari.

Gli atleti praticanti discipline di "endurance" presentano dimensioni delle pareti e/o delle cavità ventricolari al di sopra dei limiti normali, tanto da simulare una condizione patologica, quale la cardiomiopatia ipertrofica (quando lo spessore delle pareti è > 13 mm) o la cardiomiopatia dilatativa (quando la cavità ventricolare sinistra è > 60 mm).

Il meccanismo causale di un così importante rimodellamento cardiaco è rappresentato dall'aumento della portata cardiaca (che durante sforzo su-pera I 30 l/min) e della pressione arteriosa sistolica (che durante sforzo supera i 200mmHg).

Gli atleti praticanti sport di potenza (sollevamento pesi o lanci)

presentano un ispessimento delle pareti ventricolari, che è conseguenza del carico di pressione cui vanno incontro durante l'allenamento (la pres-sione sistolica supera abitualmente i 200 mmHg, talora anche i 300 mmHg), mentre la cavità ventricolare sinistra non si modifica

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sensibil-mente .

Fig4. Cardiomiopatia Ipertrofica

Generalmente l'ispessimento delle pareti ventricolari negli atleti ben al-lenati non supera i 15 mm (2% degli atleti), che rappresentano il limite dell'ipertrofia fisiologica indotta dall'allenamento (valori medi ottenuti da autori diversi sono compresi tra 12 mm e 13 mm). Nel cuore d'atleta la distribuzione dell'ipertrofia è simmetrica e regolare anche se i diversi seg-menti del miocardio ventricolare possono non essere ispessiti in modo uguale (il setto anteriore mostra generalmente il massimo ispessimento) ma le differenze sono modeste (< di 2 mm) e nell'insieme l'ipertrofia ri-sulta simmetrica ed omogenea (Pelliccia 2005). Al contrario, nei pazienti con cardiopatia ipertrofica, l'ipertrofia è tipicamente asimmetrica e, anche se il setto interventricolare è la regione più spesso coinvolta dall'ipertro-fia, esiste una eterogeneità morfologica e non sono rari i casi in cui il massimo ispessimento interessa solo altri segmenti del ventricolo

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improvvisa questa diagnosi differenziale ha delle implicazioni importanti dal momento che, se da un lato l’identificazione di patologie cardiovascolari associate a rischio di morte improvvisa rappresenta un criterio di non elegibilità alla pratica sportiva agonistica, dall’altro diagnosi inappropriate di cardiopatie potrebbero portare alla sospensione di attività fisica non giustificata di atleti sani. E’ necessario utilizzare pertanto un algoritmo per porre diagnosi differenziale tra l’espressione fenotipica lieve di CMI e l’ipertrofia fisiologica estrema presente nel “cuore d’atleta”, soprattutto negli atleti in cui gli spessori parietali e settali del ventricolo sinistro cadono nella cosiddetta “zona grigia” di sovrapposizione delle due condizioni cliniche (spessore settale di 13-15 mm presente nel 2% della popolazione di atleti agonisti di sesso maschile) (Figura 5). Questi criteri di diagnosi differenziale sono giustificati solo in presenza di CMI ostruttiva dove sia assente il movimento anteriore sistolico della valvola mitralica, dal momento che la presenza dello stesso è di per se’ diagnostica di CMI. Gli altri parametri clinici ed ecocardiografici utili per distinguere le due condizioni sono rappresentati in Figura 5 (Maron 2005).

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La soluzione definitiva a questo dilemma può essere ottenuta dall’analisi genetica con la quale si possono studiare mutazioni degli otto geni coinvolti nella patogenesi della CMI; tale indagine è comunque gravata dalla possibilità di risultati falsi negativi.

Fig. 5. Criteri utilizzati per distinguere la CMI dal “cuore d’atleta” quando lo spessore

di parete ventricolare sinstra cade nella “zona grigia” di intersezione delle due condizioni cliniche. LA: atrio sinistro; LVH: ipertrofia ventricolare sinistra (Maron 2005).

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sarebbe auspicabile selezionare soggetti con evidenze pre-cliniche di CMI (genotipo positivi-fenotipo negativi) ed effettuare follow-up selettivi, dal momento che questi soggetti potrebbero manifestare in futuro un fenotipo di CMI (penetranza tardiva) con quadri di instabilità elettrofisiologica, assenti ad una prima valutazione medica.

Con la disponibilità di una diagnosi genetica preclinica, in un numero relativamente piccolo di giovani è stato possibile porre diagnosi di CMI associata a mutazione genica solo sulla base dell'analisi del genoma, e in assenza di caratteristiche morfologiche (fenotipiche) peculiari di malattia (Maron 2002, Maron 2003). Sulla base di queste considerazioni, la Task

Force istituita dall’American Heart Association raccomanda per gli atleti

con quadri pre-clinici di CMI (genotipo-positivi, familarità positiva per CMI, storia di morti improvvise) un follow-up di 12-18 mesi nei quali oltre a ecocardiogrammi ripetuti, vengano associati ECG basale, test ergometrico, ECG dinamico secondo Holter, RMN cardiaca. Se tutte le indagini risultano normali non vi è motivo per una squalificazione o esenzione dall'attività agonistica. Queste raccomandazioni vengono fornite dal momento che ECG ed alterazioni morfofunzionali di disfunzione diastolica al Tissue Doppler possono precedere la comparsa di IVS e quindi prevenire il rimodellamento ventricolare (Rosenzweig 1991, Ho 2002).

Lo studio di atleti con ECG anomali e con assenza di segni di IVS all'ecocardiografia (soprattutto in soggetti con familiarità per CMI) dovrebbe suggerire il sospetto di CMI e quindi inserire questi pazienti nel programma di screening che preveda uno studio RMN per la ricerca di ipertrofia zonale (anterolaterale o apicale, spesso non ben visibili con l'ecocardiografia) (Rosenzweig 1991). Tuttavia la presenza di anomalie

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elettrocardiografiche in soggetti con assenza di familiarità per CMI non dovrebbe, da sola, rappresentare evidenza di CMI.

Sebbene l'ecocardiografia sia il principale strumento diagnostico per la diagnosi di MCI, questa rappresenta un'indagine ancora troppo costosa e tecnicamente impraticabile per lo screening di una popolazione estesa. L'esperienza italiana dimostra che l'utilizzo dell'ECG riesce ad identificare con successo la MCI nella popolazione generale di giovani atleti. Nei 34 mila atleti studiati da Corrado et al. (Corrado 2006), solo 22 (0,07%, di cui 20 maschi e 2 femmine) mostrarono un'evidenza sia clinica che ecocardiografica di CMI. Un valore assoluto della sensibilità dello

screening per la CMI tuttavia non può essere calcolato grazie a questo

studio, dal momento che non sono disponibili dati ecocardiografici sistematici. Comunque la prevalenza dello 0,07% di CMI nella popolazione studiata, valutata solo con anamnesi, esame obiettivo e ECG, è comparabile (0,1%) alla prevalenza riportata nei giovani atleti statunitensi valutati con ecocardiografia (Maron BJ 1995). Questo indica che lo screening italiano possa essere sensibile come lo studio statunitense che aveva previsto anche l’utilizzo dell'ecocardiografia per diagnosticare la CMI. Come nello studio di Corrado, anche Pelliccia et al., (Pelliccia A 2001) non hanno diagnosticato nessun caso aggiuntivo di CMI per mezzo di ecocardiografie effettuate dopo il riscontro di ECG basale in 4550 atlete agoniste. Tra i 22 atleti (20 maschi e 2 femmine, età 20 +/- 4 anni) ritenuti non idonei a causa dell'identificazione ecocardiografica di CMI, 18 (82%) avevano mostrato anomalie ECG, che includevano anomalie di ripolarizzazione ventricolare (87,5%), elevati voltaggi QRS nelle derivazioni precordiali (69%), anomalie della onda Q (31%). Erano stati riscontrati inoltre battiti prematuri ventricolari nel 22%

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dei casi. È da sottolineare il fatto che solo 5 di questi 22 atleti mostravano anamnesi positiva o anomalie all'esame obiettivo. Questi dati dimostrano che le modalità di screening adottate in Italia possiedono un potere di detezione della CMI maggiore del 77% rispetto al protocollo suggerito dalla American Heart Association (AHA). Questo potere si riflette nella possibilità di salvare un maggior numero di vite e, in ultima analisi, in un rapporto costo-beneficio tre volte maggiore rispetto a quello statunitense (Corrado 2004).

Secondo le ultime linee guida:

Atleti con probabile o certa diagnosi clinica di CMI dovrebbero essere esclusi dalla maggior parte degli sport competitivi, con la possibile eccezione di quelli a bassa intensità (classe IA). Questa raccomandazione è indipendente da fattori quali età, sesso, fenotipo e non differisce per gli atleti con o senza sintomi, ostruzioni all'efflusso ventricolare sinistro, o con storia di pregresse terapie farmacologiche o chirurgiche cardiovascolari, ablazioni settali, impianto di pacemaker o di defibrillatore.

Sebbene il significato clinico e la storia naturale dei soggetti genotipo positivi-fenotipo negativi rimanga irrisolta, non sono attualmente disponibili dati convincenti per mezzo dei quali precludere l'attività agonistica a tali soggetti, in particolare in caso di assenza di sintomatologia cardiaca o di anamensi familiare positiva per morti improvvise.Data l'efficacia dei defibrillatori-cardiovertitori impiantabili (ICD) nella prevenzione delle morti improvvise in caso di CMI (Maron 2000), ai medici si presenta costantemente il quesito se far partecipare o meno atleti con CMI e ICD a sport agonistici, visto comunque il rischio

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reale di un malfunzionamento o della rottura dell'ICD a seguito di traumi riportati "in campo". Così l'impianto di ICD negli atleti affetti da CMI non rappresenta un diversivo alle raccomandazioni esposte, pertanto a tali soggetti è raccomandato lo svolgimento di sport a ridotto carico lavorativo (classe IA) (Maron BJ 1998).

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3.2. Miocarditi

Le miocarditi sono malattie infiammatorie che coinvolgono il miocardio e possono rappresentare una causa di morte improvvisa nel giovane atleta (Maron 2003). Sono solitamente causate da agenti infettivi, prevalentemente di origine virale, quali enterovirus (Coxackie), adenovirus o parvovirus, ma possono essere anche secondarie a farmaci o sostanze d'abuso come la cocaina (Martin 1994).

La miocardite evolve solitamente da una forma acuta alla guarigione attraverso stadi patologici caratterizzati da instabilità elettrofisiologica e rischio di comparsa di fibrillazione ventricolare. In alcuni casi, le miocarditi virali possono culminare in una cardiomiopatia dilatativa a causa di un danno irreversibile immunomediato secondario all'infezione virale. La diagnosi può essere effettuata mediante criteri istopatologici, istochimici o molecolari, anche se spesso rappresenta un problema clinico (Fig. 6). Il sospetto può derivare dalla comparsa di dolore toracico, dispnea da sforzo, sincope, palpitazioni, tachiaritmie ventricoalri, anomalie della conduzione, o da una forma di scompenso congestizio acuto associato a dilatazione ventricolare sinistra e/o a disfunzione sistolica segmentale, shock cardiogeno, modificazioni ECG del segmento ST o dell'onda T (Towbin 2002). Quando il quadro clinico suggerisce la presenza di miocardite, per una diagnosi di certezza, il clinico si dovrebbe avvelere di una biopsia endomiocardica, anche se spesso tale metodica determina risultati falsi negativi, a causa della distribuzione segmentaria del quadro infiammatorio (Towbin 2002). Comunque il potere diagnostico della biopsia può essere incrementato dall'analisi molecolare tramite amplificazione PCR del genoma virale (Bowles 2003).

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A.

B.

Fig. 6. Rappresentazione anatomopatologica macroscopica (A) e microscopica (B) di

miocardite virale. Si noti la tipica disposizione segmentaria.

Gli atleti con sospetta o definita evidenza di miocardite dovrebbero astenersi dal compiere attività sportiva agonistica e sottostare ad un prudente periodo di convalescenza di circa 6 mesi dall'esordio dei sintomi.

Gli atleti con storia di miocardite possono tornare ad allenarsi e a

competere dopo tale periodo di convalescneza se la funzione VS, la cinesi parietale, le dimensioni cardiache sono rientrate nei valori normali

(diagnosi basate su criteri ecocardiografici e/o da test di stimolazione farmacologica)

(28)

Inoltre deve essere assente ogni forma di aritmia clinicamente rilevante come attività ectopiche sopraventricoalri o ventricolari frequenti e/o ripetitive, quando monitorate per mezzo di ECG Holter dinamico. Andrà valutato inoltre che i markers sierici di infiammazione e di scompenso cardiaco si siano normalizzati.

La persistenza all’ECG di alterazioni minori ECGgrafiche come

slivellamenti del tratto ST o anomalie dell'onda T non rappresentano, se isolate, le basi per una restrizione dell'attività agonistica.

(29)

3.3. Sindrome di Marfan

La Sindrome di Marfan, è determinata da oltre 400 singole mutazioni del gene che codifica per la fibrillina-1 (FBN1), localizzato sul cromosoma 15q21.1 e si caratterizza come malattia autosomica dominante del tessuto connettivo. La prevalenza stimata della sindrome è compresa tra 1/5000 e 1/10000 nella popolazione generale (De Paepe 1996). Tale sindrome si manifesta con un insieme di alterazioni variabili come severità che interessano prevalentemente l'apparato oculare, scheletrico e cardiovascolare (Januzzi 2004) (Fig.7). La diagnosi si basa sulla combinazione di alterazioni in almeno due apparati secondo dei criteri maggiori e/o minori (Ghent nosology), oppure quando esiste una storia familiare di Sindrome di Marfan (Pyeritz 2002). Le anomalie scheletriche includono un rapporto tra ampiezza braccia-altezza>1.05, elevata statura, aracnodattilia, dolicostenomelia (arti lunghi e sottili), iperestensibilità e lassità ligamenotsa, scoliosi e deformità della parete toracica (pectus

excavatum o carinatum) in aggiunta a ectopia lentis (dislocazione del

cristallino). Le manifestazioni cardiovascolari sono rappresentate da:

• Dilatazione progressiva dell'arco aortico o dell'aorta discendente con predisposizione alla dissezione e rottura della stessa (Januzzi 2003). Il rischio di rottura è generalmente correlato all'eccessiva dlatazione dell'aorta (diametro trasverso maggiore di 50 mm), sebbene comunque la dissezione possa verificarsi anche con normali dimensioni dell'arco aortico (Elefteriades 2003); sembra che il rischio di rottura si riduca in maniera significativa dopo ricostruzione profilattica chirurgica dell'arco aortico e successiva terapia con beta bloccanti;

(30)

• Prolasso della valvola mitralica associato a rigurgito mitralico o a disfunzione sistolica del ventricolo sinistro con predisposizione allo sviluppo di tachiaritmie ventricolari e morte improvvisa (Yetman 2003);

Fig.7. Caratteristiche cliniche tipiche della sindrome di Marfan.

Gli atleti con S.me di Marfan possono partecipare a sports competitivi di lieve-moderata intensità se non sono presenti:dilatazione dell'arco

aortico,rigurgito mitralico da moderato a severo,storia familiare di dissezione aortica o di morte improvvisa in soggetti affetti da S.me di Marfan.

Per questi atleti dovrebbe essere eseguita una ecocardiografia di controllo ogni sei mesi per tenere sotto controllo i diametri dell'arco aortico.

Atleti con dilatazione certa dell'arco aortico (diametro trasverso maggiore di 40 mm) (Cripe 2004), ricostruzione chirurgica dell'arco aortico, dissezione cronica dell'aorta o di altri vasi, rigurgito mitralico da moderato a severo o storia familiare di morte improvvisa possono partecipare a sports competitivi solamente di lieve intensità

(31)

Quando in questi atleti c’e’ familiarità positiva per aneurisma o dissezione aortica o con bicuspidia aortica con una dilatazione dell'aorta ascendente di qualsiasi grado non possono risultare idonei in sports in cui sono prevedibili i traumi da contatto

Queste sono raccomandazioni che devono essere considerate indipendentemente dall'assunzione di beta bloccanti che hanno la sola finalità di rallentare la progressione della dilatazione dell'arco aortico.

(32)

3.4. Sindrome di Ehlers-Danlos

La forma vascolare della sindrome di Ehlers-Danlos, si caratterizza per il sostanziale rischio di rottura dell'aorta e dei suoi rami maggiori (Pyeritz 2002). Si tratta di una malattia autosomica dominante, causata da un deficit del collagene tipo III, codificato dal gene COL3A1. I pazienti presentano un’ipermobilità articolare (anche se in questa variante vi è un coinvolgimento minimo articolare e comunque limitato alle piccole articolazioni) , lenta guarigione delle ferite con formazione di cicatrici anomale, fragilità tissutale e spesso un invecchiamento precoce.

Gli Atleti affetti da S.me di Ehlers-Danlos (variante vascolare) non possono praticare in maniera competitiva nessun tipo di sport.

(33)

3.5. Prolasso della valvola mitrale

Il prolasso della valvola mitralica (PVM), definito anche come degenerazione mixomatosa, riveste un ruolo di primaria importanza nella valutazione dei giovani atleti, data la sua elevata prevalenza nella popolazione generale (circa 2-3%) (Freed 1999). Questa condizione è definita a livello ecocardiografico, in sezione parasternale asse lungo, come un dislocamento sistolico di uno o entrambi i lembi valvolari mitralici in atrio sinistro, oltre il piano dell'anulus valvolare (Fig. 8).

(34)

I soggetti che presentano il PVM possono essere inquadrati con l'esame auscultatorio cardiaco (per la ricerca di click mesosistolico e/o soffio da rigurgito mitralico) e con eventuale conferma ecocardiografica.

In generale la prognosi di tali pazienti è buona con un basso tasso di eventi (Avierinos 2002). Le sequele cliniche più sfavorevoli includono rigurgito mitralico talora anche grave da richiedere la sostituzione valvolare chirurgica, endocardite infettiva, eventi embolici, tachiaritmie sopraventricoalri e ventricolari, morte improvvisa associata ad anomalie strutturali mitraliche (il cosiddetto PVM classico), caratterizzate da ispessimento diffuso dei lembi valvolari, allungamento, ridondanza e talvolta rottura delle corde tendinee (Avierinos 2002).

La morte improvvisa dovuta al solo PVM è rara nei soggetti giovani, in particolare tra coloro che svolgono attività fisica regolarmente (Corrado 1997). L'incidenza di tali eventi è paragonabile a quella della popolazione generale, verificandosi soprattutto dopo i 50 anni di età in pazienti con insufficienza valvolare grave associata o meno a disfunzione sistolica (Avierinos 2002).

Alcuni casi di PVM sembrano appartenere ad un ampio spettro fenotipico di disordini che colpiscono il tessuto connettivo, essendo spesso presenti in soggetti alti, longilinei, con deformità toraciche ed ipermobilità articolare: si tratta del cosiddetto fenotipo “MASS” (Mitral valve, Aorta,

Skeleton, Skin) per cui esiste un rischio, seppur minimo, di progressione

verso una dilatazione aortica o morte improvvisa (Glesby 1989)

Gli atleti con PVM possono praticare sport competitivi,con alcune restrizione in caso siano state riscontrate:

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all’anamnesi:pregresse sincopi giudicate di orgine aritmogena, pregressi eventi embolici; all’anamnesi familiare di morti improvvise correlate a PVM

all’EGC dinamico tipo Holter delle 24 ore: tachicardia sopraventricolare ripetitiva e non sostenuta o tachiaritmia ventricoalre frequente e/o complessa

all’ecocardiogramma un rigurgito mitralico grave

Gli atleti con PVM e con una delle sopraelencate patologie possono parteciapre a sport di tipo agonistico di classe IA.

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3.6. Displasia aritmogena del ventricolo destro

Più volte citata come causa principale di morte improvvisa nella popolazione giovanile e tra gli atleti (Tabib 2003), in particolare nel nord Italia (Corrado 1997) ma apperentemente meno frequente negli Stati Uniti (Maron 2003), la Displasia/Cardiomiopatia Aritmogena del Ventricolo Destro (ARVD) è una malattia del muscolo cardiaco caratterizzata dalla presenza di infiltrazione fibrosa e/o adiposa di regioni più o meno estese del ventricolo destro (Fig.9). La presentazione clinica della ARVD, avviene prevalentemente tra la prima e la quarta decade di vita, ed è rappresentata per lo più dalla comparsa di episodi di tachiaritmia ventricolare (dall'extrasistolia ventricolare ripetitiva fino alla tachicardia ventricolare e/o fibrillazione ventricolare con la possibilità di determinare morte cardiaca improvvisa), oppure dall'evidenza di dilatazione del ventricolo destro e/o di anomalie segmentarie dei movimenti di parete ventricolare destro, dalla formazione di aneurismi, o ancora dalla dimostrazione ecocardiografica, TC e/o RMN di sostituzione fibrosa della parete del ventricolo destro.

Raccomandazioni

• Atleti con presunta o certa diagnosi di ARVD dovrebbero essere esclusi dalla maggior parte degli sports competitivi, con la possibile eccezione per gli sport di lieve intensità.

(37)

A. B.

Fig. 9. A.Reperti ecocardiografici di displasia aritmogena del ventricolo destro. Si

noti la presenza di tessuto adiposo ecoriflettente a livello di apice e parte libera del ventricolo destro. B. Reperti anatomopatologici del “triangolo” di displasia.

(38)

3.7. Aritmie

Le aritmie cardiache nello sportivo possono essere un fenomeno fisiologico (bradicardia sinusale) o essere legate ad una patologia cardiaca. In questo secondo caso, possono dipendere da una varietà di cause: anomalie genetiche dei canali ionici delle fibrocellule cardiache (sindrome di Brugada), anomalie congenite del sistema eccito-conduttivo (fascio di Kent), cardiopatie organiche congenite (difetto interatriale) o acquisite (cardiomiopatie).

Le aritmie possono non avere alcuna conseguenza emodinamica o al contrario determinare deficit di pompa di entità diversa fino all’insufficienza cardiaca o all’arresto di circolo. Dal punto di vista clinico, inoltre, possono presentarsi in modo del tutto asintomatico o, al contrario, provocare sintomi più o meno rilevanti, essere un fenomeno ripetitivo, sostenuto nel tempo, facilmente documentabile con registrazioni elettrocardiografiche estemporanee o con monitoraggio protratto, oppure presentarsi in modo parossistico ed estinguersi spontaneamente. In quest’ultimo caso, la loro documentazione può essere difficile o mancare del tutto. Dato l’ampio spettro che le caratterizza, le aritmie possono essere un fenomeno più o meno benigno o al contrario avere gradi diversi di “malignità”. Il medico dello sport che si trovi a valutare un atleta con aritmie documentate o sospette deve innanzitutto eseguire un corretto inquadramento clinico, rivolto in particolare alla ricerca di una patologia cardiaca, congenita o acquisita, che è l’elemento prognostico di maggior peso (Maron 1980).

La valutazione di ogni singolo atleta deve comprendere:

(39)

alla ricerca di morte improvvisa in parenti (specie in età giovanile/adulta) e/o di cardiopatie aritmogene documentate geneticamente trasmissibili; • un’attenta anamnesi fisiologica, che indaghi l’eventuale abuso di fumo, alcool, farmaci e/o sostanze dopanti. Negli atleti anziani va anche ricercata la presenza di fattori di rischio coronarico (dislipidemia, ecc.); • un’anamnesi patologica remota con particolare attenzione alle patologie cardiovascolari;

• un’accurata anamnesi patologica prossima, finalizzata soprattutto alla ricerca di sintomi quali cardiopalmo, presincope, sincope, astenia improvvisa, angor, dispnea, calo ingiustificato delle prestazioni. Si sottolinea la necessità di un’inchiesta scrupolosa perché non di rado lo sportivo tende a minimizzare sintomi potenzialmente significativi.

Lo studio dell’atleta con aritmie è articolato in tre livelli:

il primo livello comprende gli accertamenti di legge previsti nel

corso della visita medico-sportiva di idoneità: anamnesi, esame obiettivo, elettrocardiogramma (ECG) a 12 derivazioni a riposo e dopo step test;

il secondo livello comprende accertamenti aggiuntivi, di regola non

invasivi, quali lo studio ecocardiografico mono e bidimensionale (ECO), il test ergometrico massimale e il monitoraggio Holter delle 24 ore. Quest’ultimo deve includere un periodo di congrua attività fisica o, meglio, una seduta di allenamento specifico, a meno che non ci si trovi già in presenza di condizioni o aritmie di per sé ad alto rischio. Se il sospetto clinico lo richiede, possono essere indicati esami bioumorali come l’esame emocromocitometrico, il dosaggio degli ormoni tiroidei, degli elettroliti ematici, i test di attività reumatica e le ricerche immunologiche di agenti infettivi;

(40)

il terzo livello comprende indagini non invasive ed invasive

specifiche che debbono essere pianificate individualmente in base al tipo di aritmia documentata o sospetta. Esami di terzo livello sono: il tilt test, i test di stimolazione farmacologica (atropina, isoproterenolo, flecainide, ecc.), la ricerca dei potenziali tardivi ventricolari con la metodica del “signal averaging”, lo studio della variabilità della frequenza cardiaca, lo studio dell’alternanza dell’onda T, lo studio elettrofisiologico transesofageo (SETE) a riposo e da sforzo, lo studio elettrofisiologico endocavitario (SEE). Alcuni di questi esami sono in fase sperimentale e/o il loro valore diagnostico è ancora dibattuto (El-Sherif 2002) e pertanto i loro risultati vanno valutati in modo critico. A queste indagini possono essere aggiunti tutti gli accertamenti, invasivi e non, necessari per escludere la presenza di una cardiopatia organica. Al momento attuale, il medico dello sport, oltre a dover affrontare problemi aritmologici di tipo diagnostico e di valutazione prognostica, si trova anche a dover entrare nel percorso decisionale di scelte terapeutiche quali l’ablazione transcatetere, ed è chiamato ad esprimere un parere sull’idoneità allo sport di soggetti già sottoposti ad ablazione o ad impianto di pacemaker o defibrillatore. Il rilascio del certificato di idoneità a sua volta condizionato dal fatto che:

• un’aritmia possa comportare modificazioni emodinamiche

sfavorevoli, dovute a frequenze cardiache troppo elevate o troppo lente, sia a riposo che, in particolare, durante e dopo attività sportiva;

• un’aritmia possa determinare presincope, sincope e/o arresto cardiaco fino alla morte improvvisa come conseguenza dell’attività sportiva;

(41)

• l’attività sportiva possa agire sfavorevolmente sul substrato anatomico ed elettrofisiologico dell’aritmia, aggravando e/o accelerando il decorso di un’eventuale patologia e/o modificando in senso peggiorativo le caratteristiche dell’aritmia stessa.

I criteri d’idoneità possono variare:

• a seconda che il giudizio riguardi l’inizio dell’attività sportiva o il suo proseguimento;

• in rapporto all’età del soggetto: il giudizio può interessare, infatti, soggetti molto giovani o di età più avanzata;

• in rapporto allo sport praticato, al diverso impegno

cardiocircolatorio e all’entità del “rischio intrinseco”, proprio di ciascuna attività sportiva (sport di pilotaggio, attività subacquea, alpinismo ecc.). È bene ricordare che nella formulazione del giudizio si deve anche considerare il carico lavorativo dell’allenamento, che può superare quello della gara stessa.

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3.7.1. Canalopatie

Ad oggi si conoscono molte varianti di geni codificanti per i canali ionici transmembranari implicati nella genesi e propagazione del potenziale d’azione a livello cardiaco. Queste mutazioni possono predisporre ad aritmie cardiache ereditarie ed essere responsabili di morti cardiache aritmiche improvvise. La conoscenza delle principali anomalie genetiche fornisce le basi per nuove strategie di diagnosi e terapia farmacologica.

ANOMALIE DEI CANALI DEL SODIO

Una alterata funzione dei canali del sodio, dovuta a mutazioni che generano anomalie strutturali del canale, si traduce da un punto di vista clinico in tre sindromi distinte:

• sindrome del QT lungo

• sindrome di Brugada

• sindrome di Lev-Lenègre

SINDROME DEL QT LUNGO

Esistono diverse varianti di questa sindrome; la variante denominata QT3 è determinata dalla presenza di mutazioni del gene che codifica per il canale del sodio (SCN5A). Queste mutazioni producono una disfunzione del canale stesso che può essere spiegata come un "guadagno" di funzione, risultante in un anomalo e persistente ingresso tardivo di sodio all'interno delle cellule, quando il canale dovrebbe essere già chiuso. Questo persistente ingresso di ioni si traduce in un prolungamento della durata del potenziale d'azione (Fig.10).

La sindrome del QT lungo si caratterizza infatti per un aumento della durata dell'intervallo QT all'ECG e questo aumenta la suscettibilità allo

(43)

sviluppo di tachiaritmie ventricolari. Anche l'onda T può subire modificazioni (alternanza dell'onda T, incisura nell'onda T) (Brugada 2007). I sintomi (sincope o addirittura morte improvvisa) sono la conseguenza dell'insorgenza di tachicardia ventricolare tipo "torsione di punta". La presentazione clinica di questa sindrome tuttavia può essere variabile, da quadri silenti con normale intervallo QT all'ECG a quardi drammatici di morte cardiaca improvvisa. I disturbi del ritmo in questi pazienti si verificano prevalentemente a riposo o nel sonno. I farmaci bloccanti i canali del sodio come la flecainide sono in grado di normalizzare l'intervallo QT sebbene ad oggi non ci siano dati circa gli effetti a lungo termine di questi farmaci sia sui sintomi sia sulla sopravvivenza.

Fig.10. Rappresentazione schematica delle correnti coinvolte nella genesi del

potenziale d’azione in presenza di mutazione del gene SCN5A che genera un corrente tardiva di sodio all’interno delle cellule. Questo controbilancia l’uscita degli ioni potassio e prolunga il tempo rischiesto per tornare al potenziale di riposo. Il risultato finale è un’allungamento dell’intervallo QT.

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SINDROME DI BRUGADA

La sindrome di Brugada rappresenta una malattia ereditaria autosomica dominante con penetranza variabile. Tra i pazienti affetti da questa malattia, una percentuale variabile dal 20 al 50% mostra un’anamnesi positiva per morte cardiaca improvvisa. A partire dal 1998, sono state identificate molte mutazioni del gene SCN5A in circa il 20% dei pazienti affetti, a conferma dell'eterogeneità genetica di questa sindrome. Tutte questa mutazioni, seppur con meccanismi diversi, determinano una "ridotta" funzione del canale del sodio che si traduce in una chiusura anticipata del canale durante la fase 1 del potenziale d'azione. Di conseguenza si crea un gradiente transmurale durante la fase di plateau tra l'epicardio e l'endocardio che giustifica il sopraslivellamento del tratto ST all'ECG (Fig.11). La sindrome di Brugada infatti si caratterizza per la presenza di sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali destre (V1-V3) in presenza o meno di blocco di branca destro completo o incompleto con un aumentato rischio di morte improvvisa. La diagnosi in media viene posta intorno ai 40 anni e circa il 75% dei pazienti sono maschi. La sintomatologia è determinata da aritmie ventricolari quali tachicardia ventricolare polimorfa o fibrillazione ventricolare che possono condurre a sincope o morte cardiaca improvvisa. I pazienti sopravvissuti a episodi sopra descritti sono candidati all'impianto di defibrillatore automatico. Ci sono ancora controversie invece circa il trattamento di pazienti asintomatici con un pattern elettrocardiografico suggestivo di sindrome di Brugada: alcuni sostengono che una stimolazione elettrica programmata possa aiutare ad individuare i pazienti a rischio, altri invece non sono d'accordo; è pertanto necessario un lungo periodo do follow-up di studi clinici controllati volto a migliorare la conoscenza del trattamento di questa categoria di pazienti.

(45)

Fig.11. Alcune mutazioni del gene SCN5A producono un’anticipata chiusura dei

canali del sodio. Nella fase 1 del potenziale d’azione il bilancio tra l’ingresso di sodio e la fuoriuscita di potassio viene perduta. La corrente predominante di ripolarizzazione Ito nonè più contrastata e si verifica una precoce depolarizzazione.

Per la diversa espressione di corrente Ito a livello endo-epicardico si genera un

gradiente elettrico che determina le caratteristiche ECG tipiche della sindrome di Brugada.

(46)

SINDROME DI LEV-LENÈGRE

La sindrome di Lev-Lenègre rappresenta un difetto di conduzione correlato alla presenza di mutazioni del gene che codifica per il canale del sodio che si traduce in un difetto di apertura del canale con conseguente riduzione della fase zero del potenziale d'azione. La quantità e la rapidità di ingresso all'interno della cellula degli ioni sodio sono direttamente proporzionali alla velocità di conduzione dell'impulso elettrico attraverso le cellule sodio-dipendenti (miocardiociti atriali, ventricolari e cellule del fascio di His e del sistema del Purkinje). Se una mutazione produce una riduzione della quantità di sodio che penetra nelle cellule, di conseguenza si riduce la velocità di conduzione dell'impulso. Questo si traduce all'ECG di superficie in un blocco di branca destro o in un blocco atrioventricolare dovuto ad anomalie di conduzione intra ed infrahissiane (Fig.12).

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in un decremento del dv/dt della fase 0 del potenziale d’azione che è direttamente correlato alla velocità di conduzione dell’impulso elettrico.Ne risulta un difetto di conduzione a livello delle cellule sodio-dipendenti .

Per il sopraggiungere di un difetto di conduzione anche importante può essere necessario in questi pazienti ricorrere all'impianto di un pacemaker. Indubbiamente uno studio elettrofisiologico si rende necessario per individuare i pazienti che presentano blocchi di conduzione

ANOMALIE DEI CANALI DEL POTASSIO

Modificazioni strutturali a carico del canale del potassio indotte da mutazioni geniche possono determinare tre diverse patologie:

• sindrome del QT lungo

• sindrome del QT corto

• fibrillazione atriale familiare

SINDROME DEL QT LUNGO

La sindrome può essere la conseguenza anche di mutazioni a carico del gene che codifica per il canale del potassio. Tutte le mutazioni che producono la sindrome del QT lungo hanno un comune denominatore: un minor funzionamento del canale, con un ridotto rilascio di potassio dalle cellule e un prolungamento della durata della fase di ripolarizzazione. Attualmente si conoscono oltre 200 mutazioni dei sei geni implicati nella genesi della sindrome del QT lungo che giustificano circa il 50-60% delle sindromi clinicamente manifeste. Le mutazioni del gene KCNQ1 che determinano una ridotta corrente di potassio, rappresentano da sole il 40-50% di tutte le mutazioni riconosciute come agenti causali della sindrome (prevalentemente il tipo QT1). Mutazioni a carico del gene KCNH2

(48)

chedeterminano una perdita di funzione del canale per le correnti IKr ,

rappresentano invece il 35-45% dei casi e sono responsabili della sindrome QT2 (Fig. 13) (Brugada 2007).

Da un punto di vista clinico, non ci sono differenze sostanziali tra la sindrome del QT lungo dovuta a modificazioni del canale del sodio e quella dovuta a anomalie dei canali del potassio, fatta eccezione per il fatto che le aritmie secondarie a questa seconda variante possono manifestarsi prevalentemente in relazione a stress emotivi o a esercizio fisico e non specificatamente a riposo come nell’altra forma. La diagnosi è quindi posta sulla base di un prolungamento dell'intervallo QT all'ECG.

Fig.13. Alcune mutazioni di geni che codificano per il canale del potassio possono

generare una ridotta funzione del canale stesso o un decremento della quantità o della velocità con cui il potassio fuoriesce dalla cellula. Il risultato finale è un prolungamento del tempo richiesto per tornare al potenziale di riposo, con conseguente allungamento del tratto QT all’ECG.

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SINDROME DEL QT CORTO

La sindrome del QT corto è stata riconosciuta solo di recente come un'entità clinica separata; si tratta di una malattia ereditaria autosomica dominante e solo recentemente sono state identificate mutazioni a carico di due geni: in particolare sono state descritte mutazioni missenso del gene KCNH2 responsabile del guadagno di funzione del canale della corrente IKr (Fig.14). Le caratteristiche elettrocardiografiche della

sindrome del QT corto consistono in un intervallo QT all'ECG persistentemente ridotto (QTc < 300 msec), con un'onda T appuntita e asimmetrica. La clinica di questa sindrome si caratterizza per morte improvvisa, sincope, palpitazioni ed episodi di fibrillazione atriale parossistica. La maggior parte dei pazienti riporta casi di morte improvvisa all'anamnesi familiare. L'età in cui si verifica la morte improvvisa è estremamente variabile, manifestandosi tra i tre mesi e i 70 anni di vita (Brugada 2007).

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Fig.14. Mutazioni che determinano un guadagno di funzione dei canali al potassio

accelerano le correnti in uscita, con raggiungimento precoce del potenziale a riposo, e riduzione del potenziale d’azione. Queste modificazioni generano un accorciamento dell’intervallo QT all’ECG.

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3.7.2. Fibrillazione atriale familiare

Sebbene la fibrillazione atriale isolata non sia associata con la morte cardiaca improvvisa, si può comunque includere nella categoria delle canalopatie in quanto sono state documentate mutazioni a carico di geni codificanti per il canale del potassio in famiglie affette da questa aritmia (Brugada 2007).

L'UTILIZZO DELLA DIAGNOSI GENETICA NELLA PRATICA CLINICA

Le variazioni genetiche nel nostro genoma rappresentano un reperto piuttosto comune e se presenti in oltre l'1% della popolazione generale vengono tipicamente definite polimorfismi; altre vengono definite mutazioni se sono presenti in meno dello 0.5%. E' sosprendente pensare come un cambiamento di un singolo nucleotide, tra i tre miliardi di nucleotidi presenti nel genoma umano, possa determinare una malattia talora letale. Comunque, ancora più interessante è osservare come la presenza in individui diversi di una stessa mutazione possa conferire diversi fenotipi, diversi sintomi, diverse malattie e in ultimo diverse prognosi. Questi elementi li possiamo ritrovare nelle mutazioni dei geni del canale del sodio, dove una stessa mutazione può giustificare malattie diverse (sindrome di Brugada, sindrome del QT lungo e malattie progressive del sistema di conduzione) (Bezzina 1999, Kyndt 2001). E' possibile dunque che membri diversi di una stessa famiglia affetta, possano presentare fenotipi diversi (da ECG normale, elevazione del tratto ST, aritmie). E’ probabile che nei pazienti che manifestano le forme più gravi di queste malattie entrino in gioco altri fattori concomitanti, quali per esempio una seconda mutazione, un polimorfismo funzionale,

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un diverso background genetico o ormonale o ancora un diverso pattern di espressione dei geni coinvolti nel controllo dell'equilibrio ionico.

L'utilizzo in prevenzione primaria dei beta bloccanti nella sindrome del QT lungo si è dimostrato un'ottima scelta nel prevenire eventi come la morte cardiaca improvvisa. Al contrario, in altre malattie come per esempio nella sindrome di Brugada, la scelta di misure preventive da adottare è complessa, specialmente in considerazione del fatto che i membri di famiglie che vengono screenati da un punto di vista genetico sono spesso soggetti giovani, addirittura bambini. Le decisioni circa l'eventuale impianto di un defibrillatore in questi soggetti sono pertanto secondarie ad una attenta valutazione clinica e alla gravità della patologia per il fatto che questi dispositivi alterano in qualche modo la qualità e lo stile di vita, specie negli individui più giovani.

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3.8. Commotio cordis

Come sopra esposto, la morte improvvisa e inaspettata nei giovani atleti si verifica generalmente come conseguenza di una patologia cardiovascolare (Maron 2003). Tuttavia, coloro che praticano sport, sono a rischio di morte improvvisa anche a seguito di un altro fattore indipendente da patologie cardiache preesistenti, vale a dire la commotio

cordis (CC), conseguenza di traumi non penetranti o di colpi violenti

diretti sulla parete toracica che possono innescare una fibrillazione ventricolare, in assenza di lesioni costali, sternali o cardiache (Maron 2002).

Sebbene sia ignota l'incidenza reale di questi eventi sia in attività ricreazionali sia in sports competitivi, la CC rappresenta una causa di morte improvvisa più frequente di quanto non si pensi. Sebbene si possa verificare in un ampio range d'età, la CC predilige i bambini e gli adolescenti (13 anni età media) probabilmente perchè essi hanno una parete toracica sottile che facilita la trasmissione di energia dalla parete toracica al miocardio. La CC si verifica in un'ampia varietà di sports, ma più spesso in quelli “di contatto”, come baseball, hockey su ghiaccio, football. Nonostante sia presente un cuore “sano” da un punto di vista strutturale, la sopravvivenza da CC è rara (15% circa dei casi), tuttavia questa aumenta se si interviene molto precocemente con la rianimazione cardiopolmoare e la defibrillazione (Maron 2002). Coloro che sopravvivono dovrebbero essere sottoposti ad un'attenta e completa valutazione cardiologica che includa ECG, Holter dinamico ECG nelle 24 ore, ecocardiogramma e dove possibile uno studio elettrofisiologico per escludere alterazioni strutturali cardiache sottostanti. Sono stati effettuati

(54)

studi sperimentali su maiali per capire quali fossero i meccanismi responsabili delle conseguenze elettrofisiologiche devastanti di colpi violenti toracici (Link 1998). I determinanti la fibrillazione ventricolare includono sia l'impatto applicato ad alta velocità al cuore attraverso la parete toracica, sia il momento in cui questo si verifica, cioè da 15 a 30 msec prima del picco dell'onda T (fase vulnerabile di ripolarizzazione) che rappresenta solo l'1% del ciclo cardiaco (Fig.13) (Link 2003). La bassa probabilità con la quale questi eventi si verifichino contemporaneamente spiega la bassa incidenza di CC. Inoltre, nell'animale da esperimento si è visto che l'interruzione spontanea della

CC si può verificare occasionalmente se viene erogato un colpo durante

il complesso QRS (fase di depolarizzazione); questo può determinare un blocco cardiaco completo transitorio o una tachicardia ventricolare polimorfica non sostenuta. I meccanismi cellulari responsabili della CC non sono ancora del tutto noti, anche se sembra giocare un ruolo centrale l'attivazione selettiva dei canali del K+ ATP dipendenti.

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Raccomandazioni

• norme di sicurezza per gli sports di contatto a rischio quali palle da baseball appropriate per età inferiori ai 13 aa

• sebbene i corpetti di protezione toracica possano prevenire traumi

nei giocatori di baseball, non ci sono evidenze che raccomandino l'utilizzo universale di questi dispositivi in tutti i partecipanti di sports a rischio

• il defibrillatore automatico esterno (DAE) dovrebbe essere

disponibile entro cinque minuti dall'evento traumatico in tutte le gare sportive

• tests elettrofisiologici e defibrillatori implantabili non sono

comunque raccomandati

a causa della mancanza di evidenze scientifiche circa la suscettibilità di recidive, la possibilità di continuare a praticare sport agonistico dopo una CC viene rimandata al medico esaminatore

(56)

4. Conclusioni

Il fenomeno morte improvvisa, ovvero l’arresto cardiaco, può essere combattuto attraverso molteplici meccanismi diagnostici, terapeutici e preventivi (Figura 14).

Fig. 14 Strategie di prevenzione della morte improvvisa

Si può intervenire nella fase finale dell’arresto cardiaco mediante un defibrillatore esterno o impiantabile, che, mediante una scarica elettrica, sia in grado di convertire la fibrillazione ventricolare in ritmo sinusale. La presenza di un defibrillatore esterno portatile ai bordi di un campo

sportivo può rappresentare un salvavita, se utilizzato prontamente (entro 3-4 minuti dall’arresto cardiaco) con una scarica elettrica sul torace. Nel caso di blocco atrioventricolare, la cura è rappresentata dal pace-maker impiantabile. Per coloro che soffrono di aritmie, sono disponibili farmaci o tecniche di ablazione dei foci aritmogeni.

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possibile debellando le malattie a rischio (terapia farmacologica, terapia genetica, prevenzione della trasmissione della malattia.

Ma tornando ai giovani che svolgono attività sportiva, teoricamente sani, ma talora portatori di affezioni occulte potenzialmente letali sotto sforzo, l’obiettivo è quello di identificare coloro che sono a rischio ed esonerarli dalla pratica sportiva competitiva.

Nel 1982 è stata introdotta in Italia una legge di tutela per il rischio nello sport che impone una visita obbligatoria annuale di idoneità. Per quanto concerne l’apparato cardiovascolare, questo controllo consiste in una anamnesi,

un esame obiettivo con il rilievo della pressione arteriosa, l’esecuzione di un ECG di base e dopo sforzo sotto-massimale (“step test”). Qualora insorgano dei dubbi diagnostici, si impone l’impiego di esami di secondo livello.

Questo esame di idoneità, in essere in Italia, è unico al mondo. Si pensi che negli Stati Uniti il test consiste solo nella raccolta dell’anamnesi e nell’esame obiettivo, effettuato non necessariamente da un medico, ma di norma da infermieri.

L’incidenza di morte improvvisa in giovani atleti competitivi è notevolmente diminuita in Italia(studio Veneto) dall’epoca

dell’introduzione dello screening obbligatorio, esame che si è rivelato un vero e proprio salvavita. La riduzione della mortalità è da attribuirsi prevalentemente a un calo del numero delle morti improvvise per cardiomiopatie, che si è verificato parallelamente all’aumentata identificazione alla visita per idoneità.

Figura

Fig 1. rischio di morte improvvisa nei soggetti di età inferiore ai 35 anni
Fig. 5. Criteri utilizzati per distinguere la CMI dal “cuore d’atleta” quando lo spessore  di  parete  ventricolare  sinstra  cade  nella  “zona  grigia”  di  intersezione  delle  due  condizioni  cliniche
Fig. 6.   Rappresentazione anatomopatologica macroscopica (A) e microscopica (B) di  miocardite virale
Fig. 8. Rappresentazione di prolasso valvolare mitralico in sezione cardiaca frontale.
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