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Benessere in volo. La commercializzazione dello spazio tempo nei nonluoghi del viaggio

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Academic year: 2021

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Benessere in volo

La commercializzazione dello spazio-tempo nei non-luoghi del viaggio

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Introduzione

__________________________________________________________________ 1.

Vendite e consumi 1.1. Non luoghi e vendita; 1.2. Intrattenimento e vendita; 1.3. Iperconsumo;

1.4. La fabbrica dei bisogni; 1.5. Ethos infantilistico; 1.6. Branding.

________________________________________________________________ 2.

Spazi e tempi del consumo 2.1. Il totalismo consumistico;

2.2. Tempo e spazio e il continuum commerciale; 2.3. Tempo liberato;

2.4. Tempo risparmiato; 2.5. Le cattedrali del consumo; 2.6. Nuovi strumenti del consumo; 2.7. Implosione;

2.8. Tempo imploso; 2.9. La possibile alternativa.

_________________________________________________________________ 3.

Non luoghi del viaggio commercializzati 3.1. Stazioni ferroviarie;

3.2. Aeroporti; 3.3. Navi e crociere; 3.4. Treni.

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4.3. Infl ight shopping;

4.4. Analisi dei cataloghi di vendita; 4.5. Fattori di vendita;

4.6. Strumenti e modalità di Analisi; 4.7.Tipologie di prodotti;

4.8. Campioni e dati;

4.9. Caratteristiche dei prodotti;

4.10. Risultati dell’analisi e considerazioni; 4.11. Il bazar volante.

____________________________________________________________ 5.

Il mercato aereo 5.1. L’aereo;

5.2. Un glossario per iniziare; 5.2.1. Varie tipologie di traffi co; 5.3. Il mercato aereo internazionale; 5.4. Il mercato aereo europeo; 5.5. Il mercato aereo italiano; 5.6. La liberalizzazione; 5.7. La rivoluzione low cost; 5.8. Come funziona una low cost; 5.9. Il mercato low cost;

5.10. Il caso Ryanair; 5.11. Le innovazioni Easyjet; 5.12. I due modelli;

5.13. Differenze fra low cost e full cost carrier;

5.14. Il nuovo assetto competitivo: la risposta degli incumbents; 5.15. La guerra delle tariffe;

5.16. I voli intercontinentali; 5.17. Il futuro del mercato aereo; 5.18. Il designer a bordo; 5.19. Product design; 5.19.1. Rolex GMT-Master; 5.19.2. Samsonite; 5.20. Fashion designer. ________________________________________________________________ 6. I passeggeri

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6.6. Il viaggiatore aereo; 6.6.1. Il viaggiatore di piacere; 6.6.2. I business traveller; 6.6.3. Viaggi per scopi personali; 6.7. I nuovi target;

6.7.1. I viaggiatori della salute; 6.7.2. Il nuovi viaggiatori anziani; 6.7.3. I viaggiatori “animali”; 6.8. Il viaggiatore low cost; 6.9. I nuovi business traveller; 6.10. Le fasi del volo;

6.11. Le procedure di viaggio; 6.11.1. Check-in; 6.11.2. Bagagli; 6.11.3. Imbarco; 6.11.4. A bordo; 6.11.5. Volo; 6.11.6. Atterraggio e sbarco; 6.12. Comportamenti e esigenze; 6.13. Comfort e classi di viaggio; 6.14. Paura e disagio del volo; 6.15. Lo stress da viaggio; 6.16. La confusione della cabina; 6.17. Il microclima a bordo; 6.17.1. Disturbi auricolari; 6.17.2. Disturbi circolatori;

6.17.3. Sindrome della Classe Economica; 6.18. La cefalea da aereo; 6.19. Mal d’aria; 6.20. Il jet-lag; ________________________________________________________________ 7. Il Benessere 7.1. Il benessere;

7.2. Diversi tipi di benessere; 7.3. Wellness;

7.4. Walfare e benessere sociale; 7.5. Comfort;

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7.9.3. Musica; 7.9.4. Massaggio;

7.10. Benessere e marketing; 7.11. Beni e servizi esperienziali;

7.12. Compagnie aeree e benessere esperienziale; 7.13. Benessere a bordo.

________________________________________________________________ 8.

Concept di Progetto

8.1 Considerazioni sull’analisi

8.2 Sintesi analisi e obiettivi di progetto 8.3 La vendita del benessere

8.4 Il kit Flyness 8.5 Il colore

8.6 Caratteristiche formali generali 8.7 Occhiali relax 8.7.1 Il silicone Platinico 8.7.2 La tecnologia 8.7.3 Benchmarking 8.7.4. Contenuti multimediali 8.8 Cuscino 8.8.1 La struttura 8.8.2 Benchmarking 8.9 Massaggiatore 8.9.1 Benchmarking 8.10 Il kit

8.10.1 Kit Low cost 8.10.2 Megacarrier

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In questo caso si vuole sottolineare l’im-portanza per il progettista di addentrarsi in questo settore, nel quale il suo inter-vento è rimasto spesso marginale, e che invece necessita della sua presenza per un cambiamento. L’obiettivo è proprio quello di destare un senso di interesse verso questa tipologia di vendita per at-tuarne un cambiamento etico a partire dall’alto, dunque proprio da colui che, nel complesso scenario del sistema ae-reo, può avere, una visione d’insieme su tutti quei fattori che vi intervengono, e uno sguardo di lungimiranza al futuro. Il mercato aereo, come si è visto nei ca-pitoli precedenti, si compone infatti di una grande quantità di attori e variabili diffe-renti, e il designer, con il suo approccio multidisciplinare, può dimostrarsi come la fi gura ideale atta a cogliere le giuste sfu-mature dei fenomeni che compongono tale sistema. La strada delineata vuole dimostrare che è possibile attuare una progettazione a partire dai bisogni e dalle esigenze degli utenti di questo mercato, che sta attraversando un periodo di grandi e profondi cambiamenti, e che, in un futu-ro non tfutu-roppo pfutu-rossimo, ne uscirà trasfor-mato. Come è stato riportato, le compa-gnie aeree, sempre più strette nella morsa

delle fl uttuazioni economiche alle quali il mercato aereo è particolarmente sensibi-le, sono più preoccupate dei bilanci e dal-la necessità di accaparrare e mantenere la clientela, piuttosto che dalla volontà di comprenderne esigenze e necessità più o meno inespresse dei passeggeri. Il pas-so fondamentale dunque per attuare un diverso processo di progettazione, parte, forse banalmente, proprio dal passegge-ro, e dalla possibilità di migliorare le sue condizioni di viaggio. Le dinamiche e le te-orie del consumo ci hanno mostrato come la colonizzazione della logica commercia-le abbia invaso tutti gli spazi temporali del quotidiano, ed è stato mostrato come an-che l’aereo abbia seguito questa tenden-za evolvendosi in questa direzione. Un migliore impiego del tempo di volo, speso nella cura dell’utente per se stesso e per il proprio viaggio, come anche un miglio-ramento delle proprie condizioni di volo, diventa una nuova capacità per il progetti-sta di reinventare il tempo secondo un ra-gionamento più etico e human-centered. È evidente che non si può pensare di voler cambiare un sistema, distaccan-dosene completamente, per cui rima-ne la rima-necessità di inserirsi rima-nel mer-cato ma secondo un’ottica diversa.

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1.1 Non luoghi e vendita

Nella postmodernità la città si svuota di sen-so, si riduce a scenari spersonalizzati in cui prende corpo una condizione che potrem-mo defi nire atopica di stabilizzazione e di dislocazione. Come dice Simone Weil “l’uo-mo viene radicato nell’assenza di luogo”. Il luogo muta in “spazio desituato dunque atopico ma non illimitato” (Sorrentino & Puti-no, 1995) ha in se un limite, un limite interno. L’architettura diventa un gioco di simulazione e di assimilazione, che da origine a spazi “de-costruiti” e non luoghi, nei quali l’uomo per-de ogni certezza e subisce lo sradicamento dell’immagine, l’assenza di luogo. Come dice La Cecla “l’ambiente non va sentito ma va fruito, poiché viene eliminato ogni trasfert emotivo sull’ambiente”. (La Cecla, 2000) Le cattedrali del consumo, i luoghi prepo-sti alla vendita e consumo, non esistevano prima di quel processo di progressiva in-dustrializzazione del sociale che si è svi-luppato a partire dalla metà dell’Ottocento. Oggi rientrano generalmente in quel-li che l’antropologo francese Marc Augè ha denominato “non luoghi”. Lo scenario al quale Augè fa riferimento e da cui prende costruisce la sua base teorica è “Un mondo in cui si moltiplicano con modalità lussuose o inumane, i punto di transito e le occupazioni provvisorie, in cui si sviluppa una fi tta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati; in cui grandi magazzini, distribu-tori automatici e carte di credito riannodano i

gesti di un commercio “muto”, un mondo pro-messo alla individualità solitaria, al passag-gio, al provvisorio e all’effi mero”. (Augé, 1996) Secondo Augè, i non luoghi sono accomu-nati dalla loro contrapposizione alla tradi-zionale concezione che considera il luogo come “luogo antropologico”, ossia una “co-struzione concreta e simbolica dello spa-zio alla quale si riferiscono tutti coloro ai quali essa assegna un posto.” Questi luo-ghi è hanno almeno tre caratteri comuni. Essi sono identitari, relazionali e storici. “Nel luogo gli elementi sono distribuiti in rapporti di coesistenza “, dunque egli defi nisce il luo-go come una confi gurazione istantanea di posizioni; il che signifi ca che in uno stesso luogo possono coesistere elementi distinti e singoli ma di cui non si possono negare le relazioni reciproche né l’identità condivisa. “La storicità di un luogo è una caratteristica intrinseca in esso dal momento che, coniu-gando identità e relazione, esso si defi nisce a partire da una stabilità minima. Lo è nella misura in cui coloro che vi vivono possono riconoscervi dei riferimenti che non devono essere oggetti di conoscenza.” (Augé, 1996) Il luogo antropologico di Augè è uno spa-zio fi sico legato a una precisa cultura, cioè dotato di solide radici in un contesto socia-le e storico ben determinato, e pertanto in grado di consentire quelle relazioni con il prossimo grazie alle quali ciascuna forma di identità, sia essa personale o di gruppo, può costituirsi e mantenersi stabile nel tempo. “Se un luogo può defi nirsi come

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identita-rio, relazionale, storico, uno spazio che non può defi nirsi né identitario né relazionale né storico, defi nirà un non luogo”. “I non luo-ghi comprendono le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti ‘mezzi di trasporto’, gli aeroplani, le stazioni ferro-viarie e aerospaziali, le grandi catene alber-ghiere, le strutture per il tempo libero, i gran-di spazi commerciali e, infi ne la complessa matassa di reti cablate o senza fi li che mo-bilitano lo spazio extraterrestre ai fi ni di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’al-tra immagine di se stesso”. (Augé, 1996) La distinzione tra luogo e non luogo pas-sa attraverso l’opposizione del luogo con lo spazio. Egli considera lo spazio come un “Luogo praticato”, “un incrocio di mobi-lità”. Il termine “spazio” è in sé più astratto di quello di “luogo”, il cui impiego si riferi-sce ad un avvenimento, a un mito o a una storia. Esso si applica indifferentemente a una estensione, a una distanza fra due cose o due punti o una grandezza tempora-le. Esso è dunque eminentemente astratto. La partita si gioca sempre più tra luogo e spazio. È proprio la categoria del luogo infatti che muta statuto, nei processi attuali in cui il globale, con le sue reti, attraversa o inve-ste il locale e lo seziona. I luoghi, attraversati dalle reti lunghe del globale, si disfano e si ricostituiscono incessantemente, e diventa-no proiezioni fantasmatiche della ricerca di identità e di senso. Il globale è allora un’ir-ruzione del “non luogo” , che muta la natura del luogo stesso e dei soggetti e delle comu-nità che lo abitano. (Fiorani & Gaffuri, 2000) Michel de Certeau parla di “non luogo” so-stenendo che esso è” un’assenza del luogo a se stesso impostagli dal nome che gli viene dato”. Egli ci dice che i nomi propri impongo-no al luogo “una ingiunzione venuta dall’altro (una storia)”. “Questi nomi creano il non luo-go nei luoghi; li mutano in passaggi”. Con non luogo Augè indica in effetti due realtà

complementari ma distinte: “quegli spazi co-stituiti in rapporto a certi fi ni e il rapporto che gli individui intrattengono con questi spazi.” Se in larga parte i due rapporti si sovrappon-gono, essi però non si confondono poiché i non luoghi mediatizzano i rapporti: se i luo-ghi antropologici creano un sociale organico, i non luoghi creano una contrattualità solitaria. L’individuo nel non luogo vive in una condi-zione di solitudine e provvisorietà, e si trova con esso in una relazione contrattuale. Il con-tratto ha sempre rapporto con l’identità indi-viduale di colui che lo sottoscrive e fornisce la prova che il contratto è stato rispettato. Il biglietto,la carta d’imbarco, il documento d’identità, o anche, la carta di credito e il ta-gliando. Il passeggero conquista dunque il proprio anonimato solo dopo aver fornito la prova della sua identità. Al non luogo vi si accede dopo aver dimostrato la propria inno-cenza. Ma in questo modo egli si libera del-la sua identità personale: lo spazio del non luogo libera colui che vi penetra dalle sue determinazioni abituali. Diventa cioè una sorta di “anonimo viaggiatore che attraversa un territorio a lui estraneo”. Nel frattempo, egli obbedisce allo stesso codice degli altri, registra gli stessi messaggi, risponde alle stesse sollecitazioni. Lo spazio del non luo-go non crea né identità sinluo-gola, né relazio-ne, ma solitudine e similitudine. (Augé, 1996) I processi di omogeneizzazione degli spazi moltiplicano i luoghi anonimi del quotidiano in cui non è possibile riconoscersi, perché massifi cati e privi di rifermenti storici e co-munitari. Nel mondo mobile e disordinato dell’oggi, l’uomo moderno sperimenta la crisi della sua dimora e diviene straniero a se stesso e nel proprio luogo. Il suo stesso muoversi nello spazio divine un puro sfi o-rare in un rapido prodursi e dileguarsi degli eventi, in una moltiplicazione delle esperien-ze che lo svuota. (Fiorani & Gaffuri, 2000) In particolare le stazioni e gli aeroporti si trasformano in luoghi sempre meno

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identi-tari, specifi ci, si riducono a strutture standar-dizzate, simili in ogni luogo. L’utente vive il tempo in una dimensione atopica: orologi, pannelli, “curiosità”e oggetti esposti, cor-ridoi e sale d’attesa animate da una folla eterogenea. Essi sono anticipatori di un ul-teriore non luogo: quello del viaggio, che Augè defi nisce il non luogo per eccellenza. Il viaggio costruisce un rapporto fi ttizio fra lo sguardo e paesaggio. “E se si defi nisce ‘spazio’ la pratica dei luoghi che defi nisce il

viaggio, lo spazio è il luogo in cui individuo si mette alla prova come spettatore, come se la condizione di spettatore costituisse l’es-senziale dello spettacolo, come se lo spet-tatore in posizione di spetspet-tatore fosse lo spettacolo in se stesso. Lo spazio del viag-giatore sarà così l’archetipo del non luogo.”

I non luoghi si percorrono e dunque si mi-surano in unità di tempo. L’attualità e l’ur-genza del momento presente vi regnano. Accade come se lo spazio fosse raggiunto dal tempo, come se non ci fosse altra sto-ria che le notizie del giorno o della vigilia, come se ogni storia individuale attingesse ai suoi motivi, dalla riserva inesauribile di una inesauribile storia al presente. Assalito dal-le immagini diffuse in sovrabbondanza daldal-le istituzioni legate al commercio, ai

traspor-ti e alle vendite, il passeggero dei non luo-ghi sperimenta simultaneamente il presente perpetuo e l’incontro col sé. (Augé, 1996) In realtà, nei non luoghi l’individuo non per-de la propria iper-dentità, la quale viene invece trasformata e resa adeguata a una situazio-ne che si presenta all’insegna del consumo.

Imm.1.1 Areoporto di Hong kong

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Perché se possiamo trovare oggi una tratto comune ai tanti e diversi non luoghi conside-rati da Augè, questo è senz’altro l’esplicita ap-partenenza alla cultura del consumo contem-poranea. D’altronde, non è in caso se, come sostiene lo stesso Augè, “lo straniero smarrito in un Paese che non conosce (lo straniero ‘di passaggio’) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini e delle catene alberghiere. L’insegna di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento rassicurante ed è con sollievo che ritrova sugli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e i casalin-ghi consacrati dalle marche multinazionali.” Questo non è, come conclude Augè, un fe-nomeno paradossale, dal momento che i nuovi luoghi del consumo sono in grado di produrre identità allo stesso modo dei luoghi tradizionalmente studiati dagli antropologi. Nella realtà concreta del mondo di oggi, i luoghi e gli spazi, i luoghi e i non luoghi si incastrano, si compenetrano reciprocamen-te. Oggi questi luoghi sono altrettanto ricchi di signifi cato dei luoghi antropologicamente tradizionali. Soprattutto, ci sono l’identità e la relazione, gli altri due elementi che insieme alla storicità, caratterizzano il luogo antro-pologico tradizionale. Il consumatore, infat-ti, è in grado di costruirsi delle paradossali identità temporaneamente, e si affeziona ai nuovi luoghi del consumo, di cui impara a ri-conoscere gli spazi, i percorsi e gi ambienti di ritrovo. Il che può avvenire anche perché questi luoghi sono reti aperte di relazione so-ciale, in costante interazione con altri luoghi. Questi non luoghi assomigliano infatti a “grandi contenitori che sanno tollerare l’in-tera gamma delle possibilità di inl’in-terazione che solitamente appartiene alle piazze e alle strade urbane”. Pensiamo, ad esem-pio, alle stazioni ferroviarie, e “all’abitudi-ne a stabilire appuntamenti in questi gran-di ambienti gran-di passaggio”; la presenza gran-di comportamenti, i clochard che dimorano, i

giovani che schettinano. (Codeluppi, 2000)

1.2 Intrattenimento e vendita

“L’esperienza che abbiamo delle cose è soprat-tutto quella di comprarle.” (Franchi, 2007, p. 16) Sorprende, in un periodo, come l’attuale, laddove si rileva una maggiore attenzione al prezzo ed una più attenta ponderazio-ne ponderazio-negli acquisti da parte del consumatore, constatare che la tipologia di shopping, che le ricerche indicano in continua espansione, prescinda da queste dimensioni. La modalità di acquisto più in crescita risulta infatti, quella che ingloba un forte contenuto ludico, evasi-vo, esperienziale. Nel senso che l’esperienza globale che l’andar in giro per negozi suscita, fi nisce, in molti casi, per mettere in ombra per-sino il piacere del consumo. (Fabbris, 2003) Prescinde, entro certi limiti, dal bene che ver-rà comperato. Sovente non è nemmeno fi na-lizzata all’acquisto di un bene. In questi casi è da annoverare in quella categoria che gli anglosassoni defi niscono windows shopping (da noi “svetrinare”). “Il divertimento dello shopping non deriva dal fatto di acquistare […] ; piuttosto, lo shopping è una maniera di essere insieme, divertirsi”. (Codeluppi, 2000) Che lo shopping avesse anche una valen-za ricreativa lo si è sempre saputo. I negozi al piccolo dettaglio hanno costituito un im-portante momento di socialità e svago per la casalinga tradizionale, che suppliva alla solitudine dei soggiorni in casa scambian-do quattro chiacchiere con il dettagliante. L’apertura dei primi supermercati in Ita-lia ebbe come resistenza, proprio il venir meno della relazione venditore/acquirente. Ma il pubblico in cui riscontriamo adesso una forte attesa di ludicità, gradevolezza, coinvol-gimento emotivo nello shopping è completa-mente mutato. Non è più la casalinga frustra-ta ma sono i segmenti socio-culturalmente moderni. Ha certamente infl uito l’ampliarsi dei

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punti vendita, l’estensione del libero servizio, commessi meno assillanti, che consentono di aggirarsi con maggiore libertà, renden-do cioè agevole il “posso dare un’occhiata”. La nuova modalità esperienziale dello shopping ci pone “nell’antitesi dell’acqui-sto come attività razionale, ponderata.” Nella tipologia emergente la gradevolez-za dell’attività di shopping di per se fi nisce per fare aggio sul piacere che comporte-rà poi l’atto di consumo. Sovente diviene un’attività fi ne a se stessa. Dove primario è l’obiettivo di relax disimpegnato, distrazio-ne e spettacolo che potrà concludersi con comportamenti diversi dall’acquisto. Come un caffè, una pizza, il cinema. Da svolgersi nelle aree che consentono di trarre mag-gior intrattenimento, di ricavare esperienze globali più piacevoli. Non necessariamen-te che offrano occasioni più convenienti. Le grandi superfi ci di vendita, ad esempio, dove la proporzione tra chi entra e chi ac-quista fa registrare un vistoso scarto, svol-gono sovente questa funzione. Che non è più nemmeno quella, un tempo abituale, di informarsi sui prezzi e le novità. Piace ag-girarsi fra le merci, essere immersi in un’at-mosfera policroma, rutilante e seduttiva, così pregna di stimolazioni sensoriali. Piace inoltre la dimensione corale della relazione con la folla. Le vetrine e i negozi delle gran-di griffe costituiscono un continuo punto gran-di attrazione. Il concetto di consumo edonisti-co, su cui insiste la letteratura più moderna sui consumi, è quindi estensibile anche ai comportamenti di acquisto. (Fabbris, 2003) Intrattenimento e vendita si fondono in un mon-do di sogno capace di stordire con il suo fasci-no e il “divertimento” che crea. (Ritzer, 2003) La dimensione ricreativa dello shopping ha come suo epicentro il centro commerciale. Ed è interessante come comprendere come, a giudizio di Gary Cross, sia stato effi cace il modello del Mall of America in Minnesota con i suoi club «a tema» e il suo approccio allo

«shoppertainment» (shopping + entertain-nment) e all’ «entertailing» (entertainment + retailing). «lI Mall or America ha creato una fusione tra shopping, intrattenimento e una piacevole e rassicurante sensazione di vicinanza con il prossimo», osserva, e cosi «lo shopping diventa divertimento e

si trasforma addirittura in una vacanza». Il moderno centro commerciale promette in realtà un divertimento infi nito. Chi lo proget-ta deve far si che i clienti mantengano per tutto l’anno uno stato d’animo da carnevale, come del resto tutti gli altri luoghi di consu-mo: la Carnival Crociere che ha messo il carnevale persino nel nome. (Barber, 2010)

Imm.1.2 Shopping follia

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1.3 Iperconsumo

“Consumare non è un’attività che av-viene nella solitudine, ma (come deno-ta lo stesso etimo cum-sumere) nell’in-terazione sociale e culturale con altri.” Gli studi sul fenomeno del consumo han-no una lunga storia. Sul tema si sohan-no mi-surati studiosi appartenenti ad aeree disciplinari diverse: economisti, sociolo-gi, antropolosociolo-gi, ma anche storici, fi loso-fi e semiologi hanno affrontato il tema. L’acquisto di beni rappresenta un impegno

importante nella nostra quotidianità, sia per il tempo che gli dedichiamo sia per il signi-fi cato che gli attribuiamo. Si tratta di un fe-nomeno sociale che ha radicalmente muta-to i nostri stili di vita e con questi anche le modalità e i tempi delle relazioni sociali. La società in cui stiamo vivendo, viene defi ni-ta società dei consumi. Il che sni-ta a signifi ca-re che l’atto di consumaca-re connota in modo sostanziale il funzionamento della struttura sociale. Si tratta di un fenomeno affrontato da molti studiosi, che in un’accezione più critica viene anche defi nito consumismo. Nel senso stretto del termine, consumare signifi ca “utilizzare un bene, ma anche logo-rare, esaurire, spendere, sperpelogo-rare, con-durre a termine, fi nire interamente. Il termine

è quindi parzialmente contrassegnato da un senso negativo: consumare signifi ca letteral-mente distruggere, compiere un atto attra-verso il quale gli oggetti cessano di esistere. L’immagine corrente del consumo conserva il sapore di uno spreco: i beni vengono sfruttati fi no al loro completo annientamento.” (Fran-chi, 2007, p. 1) La realtà odierna è assai diversa da quella evocata dalla defi nizione. La società dei servizi ha messo in evidenza l’ampliamento dei signifi cati legati al consu-mare e muta le accezioni del termine stesso, proponendo uno spostamento dal consumo come logoramento al consumo come

acces-so. Acquistare più che consumare, atto in cui la fruizione di un bene diventa di secondaria importanza rispetto all’entrarne in possesso. Il concetto di consumismo fu creato dal giornalista e fi losofo della politica Samuel Strauss nel 1925: un impegno a produr-re (e consumaprodur-re) un numero maggioprodur-re di prodotti un anno dopo l’altro, subordinando tutti gli altri valori all’esaltazione del proprio tenore di vita. Il concetto inglobava la sot-tolineatura della pressione degli agenti eco-nomici sulla gente affi nché consumasse. Se fi no ad allora il mondo della produzione aveva cercato di fornire ai consumatori ciò che questi chiedevano, a questo punto fare affari signifi cò sempre più spingere i consu-matori a desiderare e ad “avere bisogno” di

Imm.1.3 Il dio Consumismo

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ciò che il mondo dell’imprenditoria andava producendo e vendendo. (Ritzer, 2000) Il mondo degli affari era interessato esclusi-vamente “alla standardizzazione, alla pro-duzione e alla distribuzione di massa” e i consumatori erano concepiti come poco più di “elementi della massa” o “consumatori di massa”. “Nelle epoche precedenti erano i mezzi di produzione a predominare, ma al giorno d’oggi la supremazia è passata ai mezzi di consumo, così che il centro commer-ciale ha rimpiazzato la fabbrica come strut-tura caratteristica dell’epoca” (Ritzer, 2000). Il mercato ha trasformato le persone in consu-matori. Si è creata un’inversione di tendenza, il prodotto non si limita solo a rispondere ad un bisogno ma sulla base delle caratteristiche del consumatore vengono immessi sul mercato prodotti che stimoleranno nelle persone nuo-ve esigenze di consumo. Questo cambiamen-to è alla base del fenomeno del consumismo. L’induzione di un bisogno si è inoltre sempre più accompagnata al tentativo di rendere la sua soddisfazione ‘raggiungibile’. È una pratica a cui siamo ormai assuefatti, che consente di en-trare immediatamente in possesso di un bene e dilazionarne o procrastinarne il pagamento. Il consumo è alla portata di tut-ti, anche di chi non può permetterselo. Iperconsumo”, è dunque quella pratica di consumo portato all’estremo in cui gli indi-vidui sono spinti a consumare più di quel-lo che possono permettersi. (Fragapane, 2007) Lo spostamento dell’attenzione dai beni ai servizi indica come la cultura dal consumo si sposti dal possesso all’eccesso. È fuori di dubbio che il mondo dei no-stri giorni siano caratterizzati sempre più dall’iperconsumo e tutti siano sem-pre più ossessionati dal consumare. Negli Stati Uniti questa tendenza raggiunge i suoi estremi: Victoria De Grazia indica come il consumo rappresenti un elemento essen-ziale del progetto politico e culturale su cui gli Stati Uniti hanno costruito la propria

pro-posta egemonica. I consumi possono essere letti come veicolo dei processi di inclusione sociale e di cittadinanza. (De Grazia, 2006) A parere di Juliet B. Schor, gli americani pas-sano tre o quattro volte più tempo a fare shop-ping degli europei: circa un miliardo e 200 milioni di metri quadri di territorio sono occu-pati da centri commerciali, ossia poco meno di cinque metri quadri per abitante, e, ancor più importante, “l’americano medio consuma, complessivamente, più del doppio di quanto non facesse quarant’anni fa” Il critico Juliet B. Schor, sostiene che «Quella americana, è la società più orientata al consumo al mondo”. Gli americani sono in grado di consumare qualsiasi prodotto, pro capite, più di ogni al-tro paese del Mondo. Non è semplicemente il fatto che consumino una maggiore quantità di qualsiasi cosa: una maggiore quantità di un maggior numero di cose è disponibile per loro, ed è da loro utilizzata, rispetto alla mag-gior parte del mondo. Magmag-giore è l’offerta dunque, maggiore è il consumo. (Ritzer, 2000) Anche l’ultima frontiera, è stata ormai ol-trepassata: quella del corpo umano. “La vendita del corpo si è trasformata oggi in una testimonianza della subordinazio-ne dell’identità al commercio”: le parti del corpo umano diventano merce; sangue, occhi, reni, capelli, e addirittura gli ele-menti del genoma umano. (Barber, 2010) Nei grandi magazzini, le merci sono vendu-te in grandi quantità o in confezioni multiple, sicché la gente fi nisce per acquistare molto di più di quanto si proponeva. Dice un cliente di Price Club: “guarda, le cose prima le vedi e poi fi nisce che le usi. Non ho bisogno di 24 pile ma vedi , sono qui e costano poco, e fi nirò per usarle”. I clienti, poi, vengono fatti passare davanti a lunghe fi le di prodot-ti vari a prezzi che sembrano d’occasione ancor prima di arrivare nella zona degli ali-mentari, cosicché molti di quei prodotti fi ni-scono per passare nei carrelli. (Ritzer, 2000) La società dello spettacolo costruisce un

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mondo desiderabile, che risplende e scintilla attorno allo spettatore. Le merci spettacola-ri, non solo rendono gli spettatori alienati gli uni dagli altri, ma anche, allo stesso tempo, li alienano dalla stessa merce, isolando i sog-getti e conquistando la vita sociale. Questo regno della merce si realizza in diversi modi, tra i quali “l’incessante fabbricazione di pseu-do-bisogni”; il marketing di periodi di tempo completamente pre-costituiti; la manifattura di pseudo-feste di massa e la costruzione di “centri di distribuzione”. Ciascuna di que-ste modalità trova una precisa rispondenza nelle cattedrali del consumo. (Ritzer, 2003)

1.4 La fabbrica dei bisogni

“Il consumo non può essere conside-rato semplicemente una risposta a uno specifi co bisogno”. (Baudrillard, 1976) Nel signifi cato economico, il termine consu-mo si riferisce alla fruizione di un bene o di un servizio al fi ne di soddisfare un bisogno. È tuttavia evidente che il consumo non può essere ricondotto a una funzione di utilità, a una domanda, né a un bisogno in quanto si lega a complesse dinamiche di espressione e costruzione dei desideri. (Franchi, 2007) Consumare, nell’accezione di spesa per beni non di prima necessità, non rispon-de a un bisogno fondamentale, piutto-sto a un bisogno estetico, se ci rifaccia-mo alla tipologia dei bisogni di Maslow . un valore simbolico, in grado di dare un valore sociale ad azioni individuali. Uno studio che si trova in ogni manuale di sociologia dei consumi è “La memoria col-lettiva” di Halbwachs, in cui si legge: “nei momenti di sviluppo emergono bisogni fi no a quel momento inespressi, nei momenti di recessione i nuovi bisogni non scompaiono ma vengono stabilite diverse gerarchie di proprietà, compatibili con il reddito a disposi-zione, che tuttavia inglobano i beni

preceden-temente acquisiti”. (Halbwachs, 2001) Ov-vero: non si rinuncia all’acquisto di un bene anche se non essenziale sebbene le proprie capacità economiche non lo consentano. Qualsiasi scelta teorica, può partire da un’os-servazione condivisa: il consumo ci porta a relazionarci, ci fa uscire di casa, ci dà un

motivo per passeggiare nelle nostre città. E la risposta del sistema a questo nuovo modo di comunicare sono i centri commerciali. In un mercato maturo, che si avvia alla sa-turazione in gran parte dei suoi comparti, i bisogni lasciano gradatamente il passo ai desideri. Ampelio Bucci si chiede a tal proposito “Che cosa manca oggi? È dif-fi cile dirlo. Forse non ci sono più i bisogni. Forse oggi più che di bisogni potrebbe es-ser utile parlare di desideri. (Bucci, 1992) Il consumatore non ha la capacità di chie-dersi se un determinato prodotto o un certo

Imm.1.4 I’i perconsumo

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spettacolo è necessario; accetta in genere le giustifi cazioni che il sistema fornisce.”I grandi successi di cassetta di Hollywood, i gigan-teschi parchi tematici ed i festeggiamenti di Natale ci chiedono tutti di credere che i nostri sogni si siano avverati. Il sistema delle merci funziona come il proclama di una ideologia della ricchezza e della onestà del sistema ol-tre che come uno strumento di dominio, me-dia, controlla e seduce.” (George Ritzer, 2003) Il mercato oggi guadagna solo quando ri-esce a rivolgersi a coloro i cui bisogni es-senziali sono già stati soddisfatti, ma che dispongono dei mezzi per appagare «nuo-vi» bisogni inventati, quelli che Marx chia-mava bisogni immaginari». Produrre bi-sogni anziché merci è l’obiettivo principale del capitalismo del consumo. Inducendoli a rimanere bambini e impetuosi nei gusti, si ot-tiene lo scopo di far comprare. (Barber, 2010) Già negli anni Sessanta Guy Debord, osservò come «il soddisfacimento dei primi bisogni umani sommariamen-te riconosciuti [avviene] con una fabbri-cazione ininterrotta di pseudobisogni». “Una gran quantità di denaro investita in pub-blicità é destinata a creare quei bisogni e ad in-durre le persone a consumare” (Ritzer, 2000). In assenza di desideri reali e veri bisogni, spes-so i consumatori sembrano invitare il produt-tore di beni e servizi a dire loro ciò di cui han-no bisoghan-no. Lo slogan cinico dietro al quale si nascondono gli esperti di marketing recita: «Diamo alla gente ciò che vuole! » «Ma le per-sone hanno bisogno che mostriamo loro ciò di cui hanno bisogno! » (Barber, 2010, p. 423) Il mercato non ci dice cosa fare, ci dà ciò che vogliamo, dopo averci «detto» che cosa vogliamo averci aiutato a volerlo (que-sto è il marketing). (Barber, 2010, p. 186) I compratori che si recano ai centri commer-ciali ammettono di essere guidati da qualcosa che va oltre il bisogno. «Non mi serve niente. Sono venuto solo per fare shopping; quello che mi piace, lo compro». Citando le parole di

uno spot Porsche del 2006, «improvvisamen-te il confi ne tra desiderio e bisogno sembra cosi arbitrario», i consumatori compreranno solo se qualcuno riuscirà a persuaderli che ne hanno «bisogno» (Barber, 2010, p. 72) Ma la corsa parossistica ad acquistare beni che con crescente rapidità devono essere sostituiti produce un effetto perverso che, nella comprensione del tempo intercorso tra desiderio e godimento, rischia di distrug-gere la mancanza, cioè l’unica condizione di espressione del desiderio stesso. (Fran-chi, 2007) Il contesto di iperofferta di mer-ci tende infatti a ricondurre i consumatori ad un effetto di saturazione del desiderio.

1.5 Ethos infantilistico

Ma secondo quali meccanismi siamo spinti sempre più all’acquisto di prodotti? Benja-min Barber addita la nostra trasformazione da cittadini a consumatori al capitalismo, che nella sua esasperazione attuale, ha fi ni-to per sovvertire le regole per le quali i cit-tadini sono irretiti in un meccanismo che li ha pervasi nella personalità fi no a condizio-narne i comportamenti e le abitudini. La sua teoria dell’infantilizzazione spiega come la nostra società è cambiata e per quali cause siamo continuamente portati agli acquisti, in ogni luogo e in ogni momento della no-stra giornata e non solo, della nono-stra vita. “Il nuovo ethos culturale è sempre più as-sociato al consumismo globale: i responsa-bili della produzione e commercializzazione delle merci, puntano a un target di pubblico più giovane, ma al tempo stesso cercano di inculcare nei consumatori più anziani i gusti dei ragazzini.” “Le corporation inseguono una fascia di consumatori con il portafoglio pieno, ma al tempo stesso immaturi nei gusti per po-terli manipolare attraverso la pubblicità il mar-keting e il branding. Allo stesso tempo cerca-no di incoraggiare la regressione negli adulti,

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per abituarli ai gusti dei bambini e riuscire a vendere loro giochi, gadget e beni di consu-mo di cui non hanno realmente bisogno, ma che acquistano per obbedire all’imperativo del capitalismo: vendere!” (Barber, 2010, p. 11) Questo ethos infantilistico riesce a plasma-re l’ideologia e i comportamenti della socie-tà consumistica in cui viviamo. Associata a un’ideologia che ruota attorno a concetti di privatizzazione, brand marketing e omoge-neizzazione dei gusti, questa logica dell’in-fantilizzazione è servita a sostenere il

capi-talismo del consumo. (Barber, 2010, p. 6) Ma l’Infantilizzazione di cui parla Bar-ber non signifi ca una seconda infan-zia, bensì una puerilità senza fi ne. Il sociologo Neil Postman giocando sul-le differenze bambino-adulto, suggerisce uno scenario in cui l’infanzia, è antitesi con l’età adulta, in una serie di dualismi dei quali tre esprimono bene il concetto di in-fantilizzazione: facile-diffi cile, semplice-complesso e veloce-lento. (Ariès, 1999) I giovani sono attratti per natura da ciò che è semplice piuttosto che da ciò che è com-plesso. Espressioni di uso corrente

qua-li «ascolto faciqua-litato» o «shopping facile», promuovono prodotti commerciali specifi -catamente studiati per un target giovane. La nostra cultura promette profi tti a chi sceglie la via più breve. Il critico Slavoj Zi-zek ha osservato come il mercato dei beni di consumo offre prodotti che facilitano la scelta: “prodotti privati della loro caratteri-stica dannosa: caffè senza caffeina, crema senza grassi, birra senza alcool.” La dieta senza esercizio fi sico, la pittura a schema numerato, le «lauree» su Internet senza

frequenza ai corsi. (Barber, 2010, p. 127) Allo stesso modo è più facile cedere alla continua offerta di prodotti che ci vengono proposti e venduti anche in virtù dei condi-zionamenti a cui il mondo mediatico e quel-lo pubblicitario ogni giorno ci sottopongono. L’ethos infantilistico predilige il semplice al complesso. In genere, le civiltà adulte si distin-guono per la capacità di integrare nel pensiero e nel comportamento sfumature e complessità. La predilezione per il semplice sul complesso è evidente in ambiti dominati da gusti semplici, per esempio fast food e fi lm demenziali, sport spettacolari e videogiochi in versione facilitata.

Imm.1.5 Il potere della pubblicita’

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Anche in ambienti non commerciali come gli sport, le corporation manipolano l’am-biente per massimizzare le vendite. Gli incontri di pallacanestro durano quaran-totto minuti, e oltre tempo per il commer-cio affi liato (bibite, sciarpe, noccommer-cioline), i time-out, che «uffi cialmente» durano un minuto, vengono prolungati per minuti, la-sciando spazio per le pubblicità in Tv. Oggi un incontro può durare ore. (Barber, 2010) L’ethos infantilistico predilige conse-guentemente anche il veloce sul lento. Kundera sostiene che «la velocità [sia] la forma di estasi che la rivoluzione tecnologi-ca ha regalato all’uomo» (Kundera, 1995). La velocità è qualcosa che l’ethos in-fantilistico chiede sia alla tecnologia sia al capitalismo. Il fast food, l’editing velo-ce, i computer, la digitalizzazione, tagli in asse, e i pop-up pubblicitari che compa-iono improvvisamente, mostrano tutti la stessa delirante ossessione per la velocità. I ragazzi comunicano con i messaggi istan-tanei per ore come se avessero a dispo-sizione solo pochi attimi: si accontento di frammenti di frasi. Perché la persona dall’al-tro capo sta aspettando e il tempo vola. In nessun altro ambito l’accele-razione del tempo è più eviden-te che nel dominio dell’informazione. Il ciclo di notizie oggi si muove in modo più rapido delle notizie stesse. Quando la notizia corre più veloce della progressione naturale delle nostre vite deve essere inventata o re-plicata, riproponendo, immagini voltastoma-co di processi, incidenti, elezioni e calamità. Questo secondo il «New York Times Ma-gazine» ha contribuito a creare «una sorta di disturbo da defi cit di attenzione piuttosto diffuso», che ci dissuade dalla concentrazio-ne e dalla continuità. (Barber, 2010, p. 149) I gusti durevoli non si prestano al consumi-smo. Stare al passo con il ritmo forsennato del cambiamento è diffi cile e l’ethos infantili-stico aiuta: i bambini, infatti, sono svelti.

L’em-blema della predilezione consumistica per il veloce, è il fast food. L’essenza del fast food non è cosa mangiamo, bensì come lo man-giamo: la velocità, alla quale è collegata la mancanza di qualità e la mancanza di varietà. Nei grandi centri commerciali gli spa-zi riservati alla ristoraspa-zione sono proget-tati come zone di sosta veloce dove chi fa compere può «rifornirsi» al volo sen-za sottrarre troppo tempo allo shopping.

1.6 Branding

La globalizzazione stimola la vendita ai gio-vani anche per un’ altra importante ragione. Il mercato globale trova la sua defi nizione nei gusti relativamente comuni dei ragazzi. Le culture adulte sono plurali e differenziate, ma ,quella giovanile è piuttosto universale. È dunque un’economia globale basata sui con-sumi in un mondo di culture differenziate di-pende dalla capacità di vendere beni uniformi. La nuova etica infantilizzante pervasiva non è, tuttavia, l’unico fattore che concorre al rafforzamento dell’iperconsumismo mo-derno. Ha generato ideologie affi liate che la fortifi cano: il branding, la privatizzazio-ne e il total marketing, che, consolidando il consumismo, contribuiscono attivamente al progetto infantilizzante. (Barber, 2010) Se è l’atto del consumare a creare spazi di identità, è inevitabile che non si possa fare a meno di acquistare. Una continua cor-sa all’acquisto, un susseguirsi di spese che producono occasioni di relazioni sociali e di acquisizione di un determinato status sociale. “La new economy si basa sul consuma-tore ed è orientata al consumo, pertan-to non si occupa di fabbricare prodotti ma di «creare marchi”. (Barber, 2010, p. 248) L’identità del marchio subentra all’identità scelta o assegnata dalla tradizione. Questo avviene anche se, scegliamo ciò che com-priamo; di fatto, tuttavia, scegliamo

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l’iden-tità che ciò che acquistiamo ci impone. Il consumismo riduce l’identità al compor-tamento commerciale, determinando una sorta di psicologia identitaria per la quale «siamo ciò che compriamo»: siamo i mar-chi che consumiamo. (Barber, 2010, p. 245) Il consumatore prova ad appropriarsi del mer-cato, mentre è quest’ultimo a fare di lui il suo prigioniero. La linea di demarcazione che lo separa da ciò che acquista è sempre più

labi-le: cessa di acquistare beni come strumenti di altri fi ni e egli stesso diventa i beni che compra: un ribelle Benetton politicamente consapevo-le o un sensuaconsapevo-le adoconsapevo-lescente Calvin Kconsapevo-lein. Il gioco del branding cancella le barriere fra il consumatore e ciò che viene consumato. Pen-sando di aver consumato il mondo delle cose il consumatore, di fatto, ne viene consumato. Le diversità come nazionalità etniche e

gruppi religiosi e razziali sono ritenute fi t-tizie dal consumo, che invece considera autentiche le identità commerciali comuni che gli esperti di marketing cercano di af-fermare: viene perciò a crearsi quello che Naomi Klein defi nisce un «terzo concetto di nazionalità: non americana, non locale, bensì una nazionalità che le unisce entram-be attraverso lo shopping». (Klein, 2001) Nel lessico dei consumi, qualcuno lo indica

con il termine fusion (Franchi, 2007): esso testimonia la tendenza alla mescolanza alla coesistenza alla compenetrazione di prodot-ti, stilemi, linguaggi che hanno contenuti e provenienze molto diversi, spesso antitetici. Giampaolo Fabbris usa questo termine per esprimere in realtà qualcosa di più di una coe-sistenza: è un dissolversi di elementi espres-sivi di culture, zone geografi che, periodi

stori-Fonte: www.esacademic.com

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ci diversi in un nuovo contesto, così da creare una sorta di nuova lingua. (Fabris, 2003) Gli specialisti del marketing nel cercare di suscitare emozioni nei consumatori agiscono razionalmente: l’emozione viene sfruttata in nome del profi tto. I produttori liberano i consu-matori dalla razionalità in modo da poter con-tinuare a vendere. Il loro compito, secondo Kevin Roberts, è provocare nel consumatore una reazione: «Hai tre secondi per farmi in-namorare del tuo prodotto». (Roberts, 2005) Per comprendere cosa si intende per privatiz-zazione di come essa diventi uno strumento di rafforzamento dell’iperconsumismo basti un solo esempio: la vendita dei nomi delle strut-ture pubbliche della città. Quando uno stadio come il Brenda Byrne Arena in New Jersey viene rinominato ContinentalAirlines Arena con il logo Continental ben visibile dall’alto dai voli Continental Airlines in fase di atterraggio sulla pista del Newark Liberty International Ai-rport, di fatto è un’associazione pubblica che viene trasformata in un cartellone pubblicita-rio per una società privata. Questo fa agli sta-di quello che la trasformazione delle piazze pubbliche delle città in centri commerciali pri-vati fa allo spazio civico. Trasformano l’ago-rà in un’area commerciale. (Barber, 2010)

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2.1 Il totalismo consumistico

L’ethos del totalismo consumistico si è svi-luppato perché ci immerge in un ambiente di marketing totale, dove i beni vengono com-mercializzati ovunque e sono disponibili a tut-te le ore. La conseguenza è che i consuma-tori acquistino beni e servizi di cui non hanno necessariamente bisogno. (Barber, 2010) Il mercato punta a esercitare una punta salda e tentacolare sul tempo e sullo spazio, con-trollando ogni nostro momento di veglia e in-fi ltrandosi nella nostra psiche: un popolo fatto di soggetti «onni-consumatori». Il consumi-smo è totalizzante anziché pluralistico perché il pluralismo offre spazio anche a qualcosa di diverso dallo shopping, e la diversità implica periodi di tempo in cui le persone non sono impegnate a fare acquisti. (Barber, 2010) Esistono cinque forme di dominazione del mercato che costituiscono l’essenza della cultura consumistica totalizzante. Il mer-cato è ubiquitario (è ovunque); è onnipre-sente (c’è «tutto il tempo» e aspira a riem-pire tutto il tempo); crea dipendenza (attua, cioè, forme proprie di rinforzo); è autore-plicante (si diffonde in maniera virale) e onnilegittimo (mette in atto meccanismi di autogiustifi cazione che erodono le basi mo-rali per opporvi resistenza). (Barber, 2010)

2.2 Tempo e spazio e il continuum com-merciale

La rivoluzione in atto nelle tecnologie dell’in-formazione infrange vistosamente le perce-zioni che avevamo ereditato dello spazio e del tempo. La simultaneità, il sincronico, l’atemporale divengono i nuovi paradigmi del tempo superando la logica del just in time nell’era della modernità. La compres-sione del tempo e dello spazio subisce una forte accelerazione. (Fabbris, 2003) L’ethos commerciale colonizza ognuna delle sfere in cui viviamo la nostra realtà quotidiana: sui marciapiedi, sui muri, su-gli autobus e sui treni, nelle aule scolasti-che, nei bagni, sui maxischermi, sui display degli iPod, in televisione e sui cellulari. L’unica cosa che ti segue ovunque è il commercio stesso, poiché i cunicoli spa-zio-temporali attraverso cui bisogna viag-giare per realizzare la propria fuga, van-no sempre acquistati. (Barber, 2010) Ubiquità signifi ca «in ogni luogo». Qual-siasi ambito non ancora occupato dal mer-cato può diventare l’obiettivo di un’acqui-sizione commerciale da parte di specialisti per i quali uno spazio privo di marchio non è altro che un potenziale irrealizzato. Il mercato dei beni di consumo aspira a esse-re ovunque, ma vuole anche esseesse-re pesse-resente sempre, occupando il tempo con lo stesso accanimento con cui conquista lo spazio. Nelle moderne società dei consumi il nego-zio non è mai chiuso, l’imbonitore non tace

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mai e l’opportunità di fare acquisti non vie-ne mai meno. Il mercato decreta “vie-negozi sempre aperti!”. I negozi e i centri commer-ciali che una volta rimanevano aperti cin-que o sei giorni la settimana oggi stanno aperti sette giorni su sette, addirittura con un orario prolungato certe sere della set-timana e durante i festivi. (Barber, 2010) Lo scopo di questa frenesia che

indu-ce la gente a «svaligiare» i negozi an-che di notte è l’onnipresenza commer-ciale, insomma il «total shopping». Oggi il consumo è virtualmente permanente: gli acquisti on-line consentono un consumo senza più limiti spazio-temporali. Se fi no a un recente passato la durata, la stabilità, erano le dimensioni più apprezzate nei beni i con-sumo, oggi accade il contrario: accade cioè che i valori siano generati dalla velocità di cir-colazione, di smaltimento, di obsolescenza e di sostituzione delle cose. (Franchi, 2007) È possibile connettersi in tempo reale con ogni parte del mondo a costi praticamente inesi-stenti, e fare i acquisti on line a qualsiasi ora del

giorno e della notte. Lo stesso ordine di acqui-sto scavalca ogni frontiera territoriale , la fab-brica suddivide la sua fi liera produttiva in tanti diversi luoghi sparsi per il mondo, ma stretta-mente connessi attraverso collegamenti tele-matici da ricondurre ad un processo unitario. “Lo sviluppo della comunicazione elettro-nica e dei sistemi d’informazione, permet-te la crescenpermet-te dissociazione tra prossi-mità spaziale e svolgimento delle funzioni quotidiane: lavoro, shopping, divertimenti, salute, istruzione, servizi pubblici, gover-no dell’azienda e simili” (Castells, 2002) Si potrebbe rifl ettere a tal proposito su come oggi sia possibile svolgere dalla propria abitazione tutte queste attività, ipotesi que-sta che solo pochi anni fa era impensabile. L ‘ethos commerciale della nostra socie-tà sta controllando il tempo. (Barber, 2010) Il fl usso di notizie a ciclo continuo, venti-quattro ore al giorno, annuncia che c’è il te-legiornale a qualsiasi ora. “A qualsiasi ora “ è un modo per togliere valore al tempo. Il continuum commercia-le spazio-tempo non «chiude» mai. Secondo l’esperta di media Jodi Kantor, «la Tv su piccolo schermo riempie i buchi che già esistono nella routine quotidiana: trenta-sette minuti di treno per andare al lavoro, la coda di sei minuti per mangiare da Starbucks o quelli trascorsi in bagno» (Kantor, 2010). Questi momenti, visti come buchi da riempi-re, erano stati, fi nora, gli unici in cui eravamo riusciti a eludere l’onnipresenza dei media commerciali. Riempierli signifi ca garantire a questi il monopolio del tempo. Non c’è più un posto dove potersi nascondere: iPod e tele-foni cellulari, e rete wireless sono ovunque insieme a noi; il tempo appartiene al mercato. Un altro indicatore del carattere totalizzante e omogeneizzante della cultura del consumo è il fatto di dare assuefazione. Contribuendo a creare desideri e abitudini, il capitalismo con-sumistico riesce a far si che i consumatori vo-gliano proprio le cose che il sistema ha bisogno

Imm.2.1 Always open

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di vendere e fi niscano poi per assuefarvisi. La storica Lizabeth Cohen descrive quel-la che defi nisce quel-la «Repubblica dei con-sumatori» evidenziando come nella no-stra realtà non abbiamo altra scelta se non accettare questa tendenza, poiché «è irrealistico pensare di poterla invertire”.

2.3 Tempo liberato

Risparmiare tempo e occupare il tem-po sono due dinamiche intrecciate che disegnano incessantemente il rap-porto con il consumo. (Franchi, 2007) Nella postmodernità della Grande Rete an-che concetti a cui si attribuisce erroneamente una semplicità intuitiva, quasi fossero iscritti nell’ordine naturale delle cose, come spazio e tempo, cambiano contenuto. Le trasforma-zioni della struttura temporale delle società occidentali hanno, rafforzato la paura del vuoto del tempo per sé. Così, si è parados-salmente accentuato il rischio di una soffe-renza provocata da un tempo libero “che trascorre nella passività, si perde nell’inesi-stenza, di un tempo gravoso carico di noia, di un tempo da ammazzare”. (Corbin, 1996) Prima dell’Ottocento, il tempo era vissuto come un’entità casuale, relativamente lenta e discontinua, perché soggetta a imprevisti e pause. La Seconda Rivoluzione Industria-le ha introdotto invece un’organizzazione del lavoro e della vita che ha reso neces-sario sincronizzare le azioni degli individui, modifi cando radicalmente la percezione del tempo stesso, divenuto un’entità lineare e calcolata, che richiede puntualità e precisio-ne. Si è diffuso perciò socialmente un nuovo principio di effi cienza, il quale ha comportato l’istituzione di un momento dedicato al ripo-so per consentire agli operai di recuperare le energie spese durante il lavoro. È nato così il concetto di tempo libero dal lavoro. Ma, nell’Ottocento, a benefi ciare di questo

nuovo concetto è stata soprattutto la ricca borghesia cittadina. Non è un caso, infatti, che inizialmente questa concezione “ristora-trice” del tempo libero sia stata soprattutto in-tesa come strumento per migliorare la salute dell’individuo. Tra la fi ne dell’Ottocento e l’ini-zio del Novecento, si sono sviluppati perciò un’inedita attenzione per il corpo e per atti-vità come le nuove pratiche sportive, le gite all’aria aperta, i soggiorni al mare e in mon-tagna. Ma progressivamente il tempo libero è andato anche a identifi carsi con attività di divertimento di vario tipo. Ecco diffonder-si, pertanto, manifestazioni come i caffè, le sale da ballo, le grandi esposizioni universali e, soprattutto molteplici forme di spettacolo: vaudeville, music hall, varietà, cinema, teatro. È stata comunque, nel Novecento, soltanto “la grande crisi di sovrapproduzione del ’29 a fornire una legittimazione etica e sociale del tempo libero. La produzione a cui non corrisponde un mercato di massa di grandi proporzioni è inevitabilmente destinata ad andare in tilt” e pertanto la crisi ha insegna-to che è necessario fornire al consumainsegna-tore risorse economiche e tempo libero per po-terle spendere. Di conseguenza, nei paesi industriali avanzati, si è manifestato nel cor-so dei successivi decenni un progressivo in-cremento del reddito individuale, nonché del tempo libero a disposizione degli individui e dei consumi a esso correlati (soprattutto quelli di tipo ricreativo). (Codeluppi, 2000) “Il desiderio di questo tempo vuoto, in-sidiosamente minacciato dalla noia, ha paradossalmente prodotto un altro tem-po di tregua e di distrazione, a sua vol-ta previsto, organizzato, riempito, agivol-tato fondato su nuovi valori”. (Corbin, 1996) Ma il tempo libero è stato progressivamente sottoposto anche a un processo d’industria-lizzazione che tende a razionalizzarlo e a organizzarlo nei minimi dettagli. Nel suo set-tore più avanzato, il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo

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“completamente attrezzati” ognuno dei quali costituisce una sola merce unifi cata che ha integrato un certo numero di merci diverse. Lo dimostra il crescente successo del mo-dello proposto da Gilbert Trigano già ne-gli anni Cinquanta con il Club Med e l’in-novativa formula del villaggio vacanze. Si vede così apparire, nell’economia in espansione dei servizi e del tempo libero, la formula del pagamento calcolato “tutto compreso”, per l’habitat spettacolare, per gli pseudospostamenti collettivi delle va-canze, l’abbonamento al consumo cultu-rale e per la vendita della stessa socialità.

Questa specie di merce spettacolare, fi gu-ra altrettanto evidentemente fgu-ra gli articoli della modernizzazione delle vendite. (Guy, 2002) E’ la società dello spettacolo che controlla il tempo libero attraverso il mar-keting dei periodi di tempo completamente precostituiti. (Ritzer, 2003) Un tempo-merce quello dei primi club di vacanze, che si

dif-ferenzia dal tempo iniziale della modernità solo per l’assenza di lavoro. (Corbin, 1996) In realtà il tempo libero diven-ta “lavoro”, il lavoro di consumare. Il tempo è esso stesso una merce consuma-bile, che riunisce tutto ciò che si era prece-dentemente distinto, durante la fase di disso-luzione della vecchia società unitaria, in vita privata, vita economica e vita politica. Tutto il tempo consumabile della società moderna viene ad esserne trattato come materia pri-ma di nuovi prodotti diversifi cati, che s’impon-gono sul mercato come impieghi del tempo socialmente organizzati. Un prodotto che esiste già sotto una forma che lo rende adat-to alla consumazione può tuttavia divenire a sua volta materia prima di un altro prodotto. Il tempo-merce, è un’accumulazione infi ni-ta di intervalli equivalenti. ”Questo tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che è nel carattere scambiale”. È in questo domi-nio sociale del tempo-merce che “il tempo è tutto, e l’uomo è niente; egli è tutt’al più la carcassa del tempo”. È il tempo svalo-rizzato, l’inversione completa come cam-po di svilupcam-po umano. (Guy, 2002, p. 126) L’affl uenza negli spazi del consumo mette in luce soprattutto il rapporto ambivalente con la dimensione del tempo. Il tempo perenne-mente compresso, risparmiato, tagliato in funzione dei tanti vincoli quotidiani, riemer-ge come spazio che deve essere riempito nei momenti della vita in cui sporge il vuo-to di senso, in assenza di una progettuali-tà abbastanza forte da fungere da traino di investimenti di tempo verso direzioni defi ni-te. Il tempo allora resta vuoto e i luoghi del consumo contribuiscono a riempirlo almeno in parte. “L’esigenza di tempo per consu-mare divine allora l’esigenza di consuconsu-mare tempo, di consentire che non resti un tem-po pieno di niente”. (Franchi, 2007, p. 42) È noto da tempo che la progressiva crescita del tasso d’industrializzazione ha comportato che il tempo libero sia sempre più

diventa-Imm.2.2 Villaggio vacanze

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to tempo disponibile per il consumo. Ciò che però sta avvenendo nell’attuale società iper-moderna è che il consumo tende a invade-re ainvade-ree del tempo libero dove prima non era presente. Oggi, infatti, non esistono pratica-mente aree del tempo libero dove non sia-no penetrate logiche di tipo commerciale: la pubblicità e le promozioni nell’offerta televisi-va, le sponsorizzazioni di spettacoli e manife-stazioni sportive, il merchandising nei musei e nelle nostre d’arte, ecc. Si produce così un territorio sociale indifferenziato dove temati-che di natura differente (shopping, sport, in-trattenimento, cultura) tendono sempre più a fondersi tra loro e sono unifi cate dalla comu-ne cultura del consumo. (Codeluppi, 2000) Il consumo e la commercializzazione si sono estese in ogni spazio del nostro tempo; un tempo così inteso, sembra più adattarsi al termine di tempo liberato anziché di tempo libero: un tempo guadagnato, risparmia-to sul lavoro, ma più in generale in tutte le attività che quotidianamente ci impegnano in un compito e per le quali, grazie anche all’ausilio delle nuove tecnologie, i tempi di esecuzione si sono enormemente ridotti. “Consumo e tempo vivono di un legame inten-so e di un’irriducibile reciprocità: le pratiche di fruizione, si dispiegano all’interno di un dato orizzonte temporale, vengono incorniciate, oc-cupano slot di tempo e da essi traggono signi-fi cato e rilevanza; ma il processo è circolare e le stesse azioni di consumo concorrono, ricor-sivamente, a conferire consistenza al tempo che le accoglie, a tracciarne i confi ni e a indi-carne i signifi cati. (Silverstone, 2002, p. 136)

2.4 Tempo risparmiato

La digitalizzazione stimola e facilita sia la velo-cità sia la non linearità, una sorta di rottura ar-tifi ciale della temporalità nella quale la nostra «normale» esperienza lineare del tempo vie-ne destrutturata in frammenti non sequenziali.

Nel tempo dell’innovazione perpetua, l’etica del consumo corrisponde all’etica del mu-tamento: il nuovo è un valore in sé. Nelle rappresentazioni sociali non vi è traccia del tempo lungo (kronos) che si sviluppa lungo una direzione, ma solo del tempo opportuno (kairos): ciò che serve in un dato momento per dimostrare la propria capacità di cogliere l’opportunità che si presenta. Così si spie-ga la spinta d’acquisto per l’ultimo prodotto tecnologico, l’ultimo integratore alimentare, il colore dell’ultima stagione, ma anche il libro in testa alle classifi che: ogni cosa testimonia l’essere nel tempo giusto, nel luogo giusto. “niente stuzzica maggiormente il desiderio quanto ciò che è muovo, migliore e soprattut-to nuovo e migliore”. (Bauman, 2005, p. 153) Nello studio della velocità Gleick parte da un assunto: «L’economia moderna vive e muore in virtù della precisione nella misura del tempo e dell’effi cacia della sua appli-cazione». Il commercio cerca di «arraffa-re un po’ di secondi extra del vostro tempo […] con forni più veloci, tasti di riavvolgi-mento più rapido, congelatori più effi cienti e crediti istantanei». (Barber, 2010, p. 143) La crescente dipendenza dai preparati rapidi e dal pasto veloce consumato facendo altro, ha portato in tempi brevi all’abitudine di man-giare davanti alla Tv, mentre si fanno i compi-ti, mentre si è al telefono, mentre si risponde alle e-mail, mentre si fa shopping su Internet. Persino luoghi di ritrovo classici apparente-mente improntati al comfort e al relax come le caffetterie o i pub collegarsi a Internet in wi-fi in modo che i clienti possano tener-si continuamente lavorando in multitasking con i loro portatili blackberry, senza tra-scurare il video shopping. I clienti possono così essere attivamente impegnati in diver-si luoghi diver-simultaneamente, anche quan-do sembrano rilassarsi in un luogo solo. Lo shopping ha qualcosa dell’illusione che il tempo possa fermarsi o scomparire del tutto: niente orologi nei centri

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commercia-li, luoghi in cui i venditori di augurano che i clienti possano avere la sensazione che il tempo si sia fermato mentre fanno acqui-sti. “Shop till you drop”, spendi fi no a quan-do non cadrai esausto, diventa un motivo di vanto e al tempo stesso un promemoria di cosa può accadere se mai dovessimo smettere di fare shopping. (Barber, 2010) Nel nuovo vangelo del consumo la spesa è sa-cra, cosi come il risparmio era sacro nel van-gelo tradizionale. Gli americani, hanno orari di lavoro ben più lunghi di quelli dei loro simili in tutto il resto del mondo industrializzato, non per la gloria del lavoro ma per presunte gra-tifi cazioni : sono il popolo più dedito al

lavo-ro, ma sono anche i più ardenti consumatori. Cosi che, se è vero che in America si lavo-ra di più, si gioca anche di più, si complavo-ra di più e si spende di più. Nessun altro popolo si impegna tanto nel gioco o spende tanta energia nel tempo libero quanto i consuma-tori americani. Ma il «tempo libero» è tutto fuorché libero e signifi ca tutto fuorché ozio. Gran parte della cultura pop chiede tem-po libero per il consumismo, ma trasforma lo svago in una sorta di lavoro, poiché il un nuovo obbligo è comprare e consumare. Il centro commerciale non fa altro che disci-plinare il divertimento trasformando il tem-po libero in utilizzo fi nalizzato del temtem-po. Una società dello shopping «full-service» ha bisogno di consumatori che possano dispor-re di tanto tempo libero; di fatto, però, lascia loro decisamente ben poco tempo se non per i consumi e per il lavoro necessario a pagarli.

Come ammette Steven Johnson, «su eBay si possono comprare una spada magica o un appezzamento di terra, interamente co-stituiti da un codice digitale, si badi bene , per centinaia di dollari» eludendo in un col-po solo sia il temcol-po, sia la fatica. Questa è la nuova tecnologia: uno strumento che ti permette di guadagnare tempo per eludere il tempo e con le ore «risparmiate» precipi-tarsi a fare altro shopping. (Johnson, 2006) Quindi, di rado il consumatore si sente ve-ramente libero o rilassato. Le mete di vil-leggiatura e i viaggi per raggiungerle sono tutto fuorché un periodo di vacanza dallo shopping. Si fa shopping nei grandi centri commerciali degli aeroporti e delle stazioni ferroviarie, nei parchi a tema e nelle case da gioco, negli autogrill delle autostrade che percorriamo per raggiungere le destinazioni turistiche e ancora shopping quando arri-viamo sul posto, nelle hall dei grandi alber-ghi e anche in camera, alla Tv e in Internet. La frequentazione delle cattedrali del consu-mo è l’esito, e non la causa, di una questione che viene prima, e non può essere attribuita alla capacità di attrazione da parte di sempre più invasive e raffi nate strategie di vendita: la questione attiene alla capacità di trovare un senso e una direzione a strategie di vita che inglobino i consumi come strumenti e veicoli e che non affi dino invece il bisogno di riempi-re il tempo a un periempi-renne slalom tra le merci.

2.5 Le cattedrali del consumo

Col termine cattedrali del consumo si indica la natura semireligiosa dei luoghi “incantati” in cui facciamo “pellegrinaggi” per pratica-re la nostra pratica-religione del consumo. (Ritzer, 2000, p. 8) Per Maura Franchi esse sono state costruite allo scopo di incrementare le vendite e le defi nisce come “luoghi grandio-si e spettacolari che trasformano le occa-sioni d’acquisto in occaocca-sioni in cui spendere

Imm.2.3 Una vita di corsa

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tempo e non solo denaro”. (Franchi, 2007, p. 27) Vanni Cedeluppi invece preferisce chiamarle“supermerci”, defi nendole “parti-colari architetture collettive principalmen-te adibiprincipalmen-te ad attività legaprincipalmen-te all’acquisto, che contengono al loro interno migliaia di merci e hanno assorbito da queste la loro stessa na-tura auto promozionale”. (Codeluppi, 2000) Le cattedrali del consumo e i nuovi strumenti del consumo, si riferiscono entrambi a quei nuovi scenari nei quali, e attraverso i qua-li, riceviamo beni e servizi. L’idea dei nuovi strumenti del consumo mette in risalto sia il fatto che tali ambienti sono nuovi sia il fat-to che, oltre a consentirci di consumare, si sollecitano a farlo. I nuovi strumenti del consumo possono essere concepiti come “cattedrali del consumo”, dal momento che essi hanno un carattere religioso di tipo magico, a volte sacro, per tante persone. Due teorie sono alla base delle concettualizza-zioni dei nuovi strumenti del consumo: la prima è l’opera di Karl Marx e l’estensione delle sue idee sui mezzi di produzione al concetto degli “strumenti di consumo”; la seconda è la teo-rizzazione di Max Weber, che ha fornito i con-cetti (razionalizzazione, incanto e disincanto) fondamentali ai fi ni della concettualizzazione delle cattedrali del consumo. (Ritzer, 2000) Questi nuovi strumenti hanno contribuito a in-durci a consumare molto di più di quanto si fa-cesse nel passato, fi no all’iperconsumo, e in forme nuove rispetto a ieri; per esempio, oggi siamo maggiormente inclini a farlo da soli, ad acquistare tanti diversi tipi di prodotti e servi-zi in un unico posto, a comprare più o meno lo stesso genere di cose e a mangiare e bere per lo più nello stesso tipo di locali in cui va la gran parte della gente. Dagli Stati Uniti le cattedrali del consumo sono state esporta-te nel resto del mondo, così che gli abitanti dei posti più disparati del globo sono diven-tati anch’essi consumatori strenui e usufrui-scono dello stesso genere di beni e servizi. Al fi ne di attirare messe sempre più ampie di

consumatori, queste cattedrali del consumo avvertono l’esigenza di offrire, o almeno dan-no l’impressione di offrire, un numero sempre maggiore di scenari magici, fantastici e incan-tati in cui fare acquisti, a volte provocando in modo del tutto intenzionale questa magia, mentre in altri casi essa è il risultato di una

serie di sviluppi in gran parte imprevedibili. Indubbiamente la gran parte dei consumatori accetta con entusiasmo di rientrare nella so-cietà consumistica, contento di visitare le cat-tedrali del consumo e di avere quanto vi si offre: frequentiamo i luoghi che offrono lo spettacolo più grandioso, ma ce ne annoiamo facilmente. Per questa ragione i templi del consumo competono tra loro per realizzare gli show più imponenti; il risultato è un crescendo di esibizioni spettacolari e una continua escalation di sforzi per allettare i clienti. Le cattedrali del consumo non sono solo un luogo di grande fascino, ma sono anche altamente razionalizzate. Poiché attraggo-no un numero sempre maggiore di visita-tori, anche l’incanto deve essere riprodotto in funzione dell’aumento della domanda. A questo fi ne, la magia dev’essere sistema-tizzata, per essere facilmente ricreata da un luogo e da un momento all’altro: que-ste strutture sono destinate ad attirare un numero crescente di consumatori, e far si che possano spendere per beni e servizi. Per ironia della sorte, allorché questi tentativi

di ammaliamento riescono, attraendo un gran numero di consumatori, subito richiedono una razionalizzazione e una burocratizzazione. Per quanto tali strutture si mostrino pre-valentemente incantate (il cibo compare quasi all’istante, i beni si trovano in una

in-Imm.2.3 Non solo Centro Commerciale

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credibile profuzione) molto spesso fi nisco-no per nisco-non essere affatto magiche a cau-sa della loro natura razionale: le persone tendono a prendere a noia e a farsi sco-raggiare da un’effi cienza troppo mecca-nica negli ambienti in cui fanno acquisti. Sicché le cattedrali del consumo diventa-no sempre più monumenti del disincan-to per quei clienti ormai saturi che era-no originariamente destinate ad attrarre. La sfi da per le cattedrali del consumo dei no-stri giorni è come mantenere l’incanto di fron-te all’aumento della razionalizzazione introdu-cendo elementi sempre più spettacolari , che le riconduce sempre più ad un ruolo ricreativo nei confronti dei consumatori. (Ritzer, 2000) È così che coloro che controllano le catte-drali del consumo si sono impegnati a fare del consumo un divertimento, portandolo ad avere sempre meno a che fare con l’acquisi-zione di beni e servizi, e sempre di più con l’intrattenimento. In effetti, gli strumenti di consumo sempre più si avvicinano allo show business. Le cattedrali del consumo posso-no essere viste come grandi palcoscenici progettati per attrarre i consumatori e spil-lare loro denaro, mentre i dipendenti sono sempre più spesso attori, tanto che a volte indossano anche costumi e recitano una par-te scritta. I consumatori vengono così fatti sentire parte dello spettacolo, almeno duran-te il duran-tempo che trascorrono nelle catduran-tedrali. “ lo shopping è senz’altro basato sull’in-trattenimento”. (Ritzer, 2000, p. 222) Le modalità attraverso le quali le cattedra-li del consumo tendono ad attrarre e tratte-nere i consumatori, mettono in luce come il complesso sistema che si è creato riesce a condizionare gli utenti nei comportamenti fi nalizzati all’acquisto. Per riuscire a sche-matizzare il sistema commerciale nel quale siamo coinvolti è in questa sede si fa riferi-mento a tre teorie riprese da George Ritzer. La teoria weberiana porta alla conclusio-ne che le cattedrali del consumo, conclusio-nel loro

complesso, creino una gabbia d’acciaio ra-zionalizzata dalla quale è diffi cile, se non impossibile, fuggire. Questo mondo è total-mente mercifi cato e sarebbe futile, o qua-si, sperare di trovare uno spazio di libertà dalle pressioni commerciali: a conferma di questo punto di vista si può citarla prolife-razione dei nuovi strumenti di consumo, e soprattutto la loro diffusione nella casa, così anche in essa diviene impossibile sottrar-si alla possottrar-sibilità e alla spinta al consumo. La teoria che prende le mosse da Michel Foucault, sostiene che ciò che ci sta di fron-te sono numerose mini-gabbie costituifron-te da ogni cattedrale del consumo, dove i consu-matori si trovano sottoposti a costrizioni. Rifacendoci all’idea di Foucault “ dell’arci-pelago carcerario” possiamo pensare a cia-scuno dei nuovi strumenti di consumo come a un’isola fortifi cata che fa parte di un più vasto arcipelago. Usando questa metafora, il consumatore viene lasciato libero di saltare di isola in isola ( da un centro commerciale all’altro, ad esempio), ma in ognuna del-le isodel-le egli rimane soggetto a costrizioni. Un terzo punto di vista associato alla teoria della scelta razionale sostiene che i consu-matori sono liberi di entrare e uscire dalle cattedrali del consumo come meglio credo-no, e quando si trovano all’interno di una delle cattedrali possono decidere liberamen-te se consumare o meno, più in generale, possono decidere di evitarne una qualun-que, o tutte; sono liberi di sottrarsi comple-tamente al consumo. (Ritzer, 2000, p. 218) Quale di questi punti di vista sia il più adatto a descrivere la realtà non è possibile affer-marlo con certezza. Elementi di verità sono certamente rintracciabili in ciascuno di essi. In realtà il consumo è una pratica sociale che ha esiti ambivalenti: non è né un’azio-ne in cui si esprime una libertà assoluta. Né un’azione totalmente determinata dalle mer-ci, dalla pubblicità, dall’industria culturale dai centri commerciali. (Franchi, 2007, p. 12)

Figura

Tabella 8.1 Misure statico-strutturali testa

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