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SHARING OR NOT SHARING? Analisi dei fattori che ne condizionano la scelta

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

MARKETING E RICERCHE DI MERCATO

Tesi di Laurea

SHARING OR NOT SHARING?

Analisi dei fattori che ne condizionano la scelta

Relatore

Prof.ssa Antonella Angelini

Candidata Manuela Rizzo

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Indice

Introduzione ... - 5 -

1 LA SHARING ECONOMY 1.1. Contesto: dall’incontrollato consumismo alla “sharing economy” ... - 7 -

1.2 Precisazione terminologica ...- 10 -

1.3 Criteri definitori ...- 12 -

1.4 Sharing VS Pseudo-Sharing ...- 13 -

1.5 Tipologie ...- 14 -

1.6 Struttura del mercato ...- 15 -

1.7 Funzionamento della sharing economy: i suoi tre pilastri ...- 17 -

1.7.1 L’economia dell’accesso ...- 17 -

1.7.2 L’economia della piattaforma ...- 20 -

1.7.3 L’economia basata sulla comunità ...- 21 -

1.8 Criticità della sharing economy: inquadramento giuridico e imposizione fiscale - 23 - 2 SETTORI DI SVILUPPO DELLA SHARING ECONOMY 2.1 Valore dell’economia della condivisione nel mondo ...- 33 -

2.2 Le dieci cose più condivise al mondo ...- 34 -

2.3 In Europa ...- 40 -

2.4 In Italia ...- 43 -

2.5 Il Turismo...- 46 -

2.5.1 Evoluzione del turismo...- 47 -

2.5.2 Perché la sharing economy ha trovato campo fertile nel turismo? ...- 49 -

2.5.3 Dal Marketing Tradizionale al Destination Marketing ...- 52 -

2.6 I principali settori della sharing economy che impattano sul Turismo ...- 56 -

2.6.1 Sharing accomodation: Couchsurfing e Airbnb ...- 56 -

2.6.2 Social eating e Home restaurant ...- 58 -

2.6.3 Trasporti ...- 59 -

2.7 I fattori che influenzano l'individuo nel ricorrere alla sharing economy...- 63 -

2.7.1 Peer-to-Peer VS Business-to-Consumer...- 63 -

2.7.2 Fornitori VS Consumatori ...- 64 -

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3 MODELLI DI GOVERNANCE ... - 71 -

3.1 Seoul ... - 73 -

3.1.1 La trasformazione del mercato turistico mediante l’utilizzo della sharing economy ... - 78 -

3.2 Milano ... - 81 -

3.3 Seoul e Milano a confronto ... - 86 -

4 Ricerca Empirica 4.1 Obiettivi della ricerca ... - 89 -

4.2 Metodologia ... - 90 - 4.3 Risultati ... - 93 - 4.3.1. Regressione logistica ... - 102 - Conclusioni ... - 107 - APPENDICE - QUESTIONARIO ... - 109 - Bibliografia ... - 117 - Sitografia... - 119 - Ringraziamenti ... - 127 -

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Introduzione

Nel gergo comune vengono sempre più introdotte espressioni inglesi e, in particolare negli ultimi anni, tante sono state quelle riguardanti l’economia, alcune delle quali: peer economy, access economy, gig economy, crowd economy che esprimono, seppur in maniera differenziata, quello che è un fenomeno di più ampia portata, la Sharing Economy.

Il termine Sharing Economy entra ufficialmente a far parte dell'Oxford English Dictionary nel recente 2015 definendo questa "un sistema economico in cui beni o servizi sono condivisi tra privati, a titolo gratuito o a pagamento, in genere tramite Internet". Suddetta definizione conferisce un minimo di stabilità a quello che è stato un lungo dibattito riguardante la terminologia, ma resta pur sempre una definizione limitativa in quanto

pone l’accento sulla condivisione tra privati, ma tralascia le piattaforme che permetto l’incontro tra domanda e offerta.

La presente tesi intende indagare il fenomeno della Sharing Economy nei suoi aspetti più salienti, trattandone inizialmente in termini generali, per proseguire con

l’approfondimento svolto mediante la ricerca empirica al fine di investigare i fattori che influenzano l’atteggiamento degli individui nei confronti di quella che si può

considerare una “Disruptive Innovation”.

Nel primo capitolo si analizzerà il fenomeno a partire dal contesto che ne favorì l’affermazione per poi trattare delle difficoltà riscontrate nel conferirgli un’univoca definizione, dei criteri definitori, dei diversi modelli di business utilizzati e del suo funzionamento in generale.

Nel secondo capitolo si approfondiranno i principali settori di sviluppo del nuovo modello economico facendo riferimento prima al contesto europeo e successivamente a quello italiano per poi porre particolare attenzione al settore turistico, che si ritiene abbia subìto significative influenze. Verranno inoltre trattate le motivazioni che in letteratura si ritengono più influenti sulle scelte di utilizzo o meno di tali servizi da parte del singolo individuo.

Nel terzo capitolo si tratterà dei diversi approcci che i Paesi potrebbero adottare nei confronti della sharing economy, in particolar modo si porrà il focus su due casi emblematici quali Seoul e Milano, affrontandoli prima in maniera disgiunta per poi farne un confronto.

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Infine, nell’ultimo capitolo, verrà spiegata e affrontata, nella sua totalità, la ricerca empirica svolta sulle motivazioni che incentivano le persone, durante le proprie esperienze di viaggio, ad assumere un atteggiamento partecipativo o meno nei confronti dei servizi di sharing offerti dalle moderne piattaforme online prendendo in considerazione quattro variabili ritenute determinanti quali: fiducia, prezzo, tecnologia e sostenibilità ambientale.

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1 LA SHARING ECONOMY

1.1. Contesto: dall’incontrollato consumismo alla “sharing economy”

Per comprendere bene come si sia arrivati al modello economico dell’economia condivisa bisogna cercare di capire le motivazioni che hanno portato al cambiamento delle pratiche di consumo.

Nella società preindustriale l’economia si basava sulla soddisfazione dei bisogni primari, all’epoca infatti i redditi a disposizione delle famiglie consentivano di porre rimedio solo a quel tipo di bisogni, fu solamente con l’avvento dell’industrializzazione, con la produzione di massa e il benessere generalizzato che si affermò il consumismo.

Ciò che fomenta ancora di più questo fenomeno e che conseguentemente contribuisce al raggiungimento della sua apoteosi è lo sviluppo della pubblicità.

La pubblicità nasce con l’intento di creare un consumatore efficiente e nelle sue prime forme non fa nulla per creare il desiderio di acquisto nel consumatore. Originariamente, infatti, era in forma scritta, poco formale e ragionata in quanto rivolta solo a un ristretto pubblico a causa dell’elevato tasso di analfabetismo di quegli anni. La svolta si ha quando questa viene veicolata attraverso nuovi mass media, quali radio e televisione e con l’irrompere sempre più di questi nuovi mezzi di comunicazione nelle case degli italiani. Col passare del tempo la pubblicità diventa sempre più presente e pervasiva nella vita quotidiana e il suo compito diventa quello di far capire al consumatore di essere carente in qualcosa e proporre il prodotto reclamizzato come rimedio, essa crea desideri che hanno a che fare con le relazioni sociali e presenta il prodotto come mezzo in grado di far avere al consumatore successo sociale.

Questo è quanto sosteneva anche il sociologo francese Jean Baudrillard nell’affermare che non è vero che la pubblicità reagisce ai desideri espressi dal consumatore, ma piuttosto avviene il contrario: i produttori cercano deliberatamente di determinare il comportamento del consumatore e ciò avviene proprio attraverso la pubblicità.

Altra componente che affianca la pubblicità nel raggiungimento dell’iperconsumismo è stata l’affermarsi della moda che fa credere al consumatore che essa sia il mezzo attraverso il quale poter creare un individuo unico e irripetibile, ma lo fa proponendo lo stesso modello in modo seriale e al quale tutti si rifanno, comportando, dietro quella che è una diversificazione fittizia, una vera e propria uguaglianza.

Un’ultima caratteristica dell’iperconsumismo è la ricerca della novità, della bellezza. Il sociologo statunitense Thorstein Veblen sostiene, infatti, vi sia una tensione tra legge

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dell’esibizione di spreco ed il concetto di bellezza, come se nell’abbigliamento si fosse alla continua ricerca della vera bellezza senza mai raggiungerla. È così che si giunge alla caratteristica essenziale del consumatore moderno, quella secondo cui “desideriamo desiderare e desideriamo cose nuove e diverse in una girandola continua di insoddisfazione”, come scritto dal sociologo inglese Colin Campbell, nostro contemporaneo.

L’apparenza diventa di importanza essenziale ed è così che il consumatore diventò un consumatore perenne entrando nella spirale del consumismo. Il consumismo diventa una sorta di linguaggio della società attraverso il quale gli individui comunicano e fa sì che i prodotti vengano caricati di significati a essi estranei, che conferiscono loro grande fascino e che fanno diventare i prodotti simboli esistenziali.

L’imposizione di modelli comportamentali e degli stili di vita attuati dalla pubblicità e dalla moda permettono di controllare gli individui facendo creder loro di essere liberi di decidere, quando in realtà sono controllati e guidati dalle strategie di consumo. Esempi emblematici sono: l’obsolescenza programmata1 degli oggetti e il rendere incompatibili

sistemi e oggetti, strategie ampiamente utilizzate ormai dalle aziende per far sì che i consumatori siano incentivati ad effettuare ulteriori acquisti.

Negli anni diverse sono state le critiche rivolte a questo incessante atteggiamento verso il soddisfacimento di bisogni non essenziali, talvolta ritenuto manipolatore delle masse, come sostenuto da Karl Marx, o omologatore della totalità del mondo in grado di cancellare ogni differenza individuale, sociale e di negare la libertà, come sostenuto da Pasolini.

Le disapprovazioni nei confronti del consumismo riguardano quindi sia la pubblicità che fa in modo che i bisogni dipendano dalla produzione, sia giudizi di ordine morale, quali:

• ridistribuzione ineguale della ricchezza;

• alienazione del soggetto che diventa succube delle cose; • dispersione delle risorse;

• difficoltà dello smaltimento dei rifiuti;

• perdita di significato del tempo libero, impiegato quasi esclusivamente al consumo.

1 Obsolescenza programmata: principio per cui gli oggetti di cui disponiamo, in particolare quelli elettronici, non durano nel tempo, ma sono destinati a rompersi, a guastarsi e ad essere sostituiti.

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A riguardo è importante il contributo della studiosa Lisa Gansky che, nella sua opera

“The Mesh: Why the Future of Business Is Sharing”, individua quelli che per lei sono i

motivi che portano alla trasformazione delle pratiche di consumo, i quali si possiamo identificare:

- nella recessione globale, che ha portato i consumatori ad una maggiore riflessione nel relazionarsi con gli oggetti quotidiani, non è un caso che durante la piena crisi economica (tra il 2008 e il 2010) siano nate le prime moderne piattaforme di condivisione come Airbnb e Taskrabbit;

- nella crescita della popolazione e della densità urbana, che fa sì che diventi preferibile possedere un minor numero di oggetti;

- nel cambiamento climatico, che induce il consumatore a una maggiore consapevolezza riguardo la salvaguardia della sostenibilità ambientale del pianeta.

A partire da questi si inizia a sviluppare l’esigenza di “sobrietà dei consumi” che porti a un utilizzo delle risorse più razionale e a un consumo equo e solidale e, se a tutto ciò si aggiunge lo sviluppo delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) si capisce bene come il passo verso la sharing economy sia breve.

Con l’avvento di sempre nuove tecnologie è stato più facile per le persone connettersi le une con le altre, ma la vera novità apportata sta nella creazione di gruppi più ampi di persone, anche disperse territorialmente. Le nuove tecnologie sembrano consentire un ritorno a comportamenti antichi permettendoci di vivere in modo più autentico, in condizioni di reciprocità prima alterate dall’iperconsumismo.

Nei prossimi paragrafi si analizzerà in maniera più approfondita il fenomeno della sharing economy.

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1.2 Precisazione terminologica

L’espressione Sharing Economy significa letteralmente “Economia della Condivisione”, è un modello economico relativamente nuovo, diffusosi negli Stati Uniti a partire dal 1995 come realtà di nicchia con la fondazione di eBay e Craigslist2 e che tende a diventare

sempre più un fenomeno di portata globale.

Ancora oggi risulta difficile poter attribuire alla sharing economy una definizione univoca, dato il coinvolgimento di molteplici modelli di business, mercati e prodotti in continua evoluzione.

L’economia della condivisione, infatti, viene spesso descritta con termini quali economia collaborativa, servizi on demand, rental economy, economia peer-to-peer, facendo così confluire in essa realtà molto diverse tra loro per natura, attività e modalità di operare. È bene, per fare chiarezza, iniziare distinguendo le singole espressioni in modo da restringere i confini del campo di nostro interesse e, a tal fine, assume grande rilevanza il contributo fornitoci da Rachel Botsman nella sua opera “What’s Mine is Yours: The Rise

of Collaborative Consumption”, nella quale espone con precisione la distinzione che

intercorre tra le diverse locuzioni, talvolta erroneamente utilizzate indistintamente l’una dall’altra.

L’Economia Collaborativa (Collaborative Economy) viene descritta dall’autrice come “Un’economia costruita su reti distribuite formate da individui interconnessi e comunità,

in opposizione alle istituzioni centralizzate, trasformando le modalità con cui noi produciamo, consumiamo, finanziamo ed impariamo.”

La Botsman pone l’accento su quelle che sono per lei quattro espressioni erroneamente inglobate in quella della Sharing Economy:

- Collaborative Production: si tratta di gruppi o network di persone che collaborano nella progettazione, nella produzione e nella distribuzione di un prodotto o servizio attraverso reti di collaborazione;

- Collaborative Consumption: modello di business che reinventa, attraverso le tecnologie della rete, i tradizionali concetti quali la condivisione, il baratto, il prestito, il noleggio, lo scambio e la donazione consentendo loro di svilupparsi in

2 eBay e Craigslist sono entrambi portali che consentono rispettivamente il primo la vendita e aste online,

il secondo ospita annunci dedicati al lavoro, acquisti, incontri e vari servizi.

Entrambe le piattaforme mettono in contatto chi ha una determinata esigenza con chi è in grado di soddisfarla.

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modi e tempi prima impensabili. Per una definizione più dettagliata si rimanda alla lettura successiva.

- Collaborative Finance: riguarda i servizi di finanziamento, prestito, investimento offerti al di fuori delle istituzioni finanziarie tradizionali. Esempio può esserne il crowdfunding grazie al quale gruppi di persone contribuiscono al finanziamento di un determinato progetto; il prestito peer-to-peer in cui persone che hanno denaro da investire si connettono con persone che invece hanno bisogno di un prestito; le economie assicurative, nonché gruppi di persone che si uniscono per creare il proprio team assicurativo. Si tratta di nuovi modelli di investimento guidati dalle persone capaci di decentralizzare la finanza;

- Collaborative Learning: fa riferimento ai nuovi tipi di open education e apprendimento peer-to-peer che consentono a tutti l’accesso e la condivisione di conoscenza. Si possono rilevare open courses e materiali didattici gratuiti; condivisione di competenze offerte da chi le detiene e crowd-source, in cui le persone aggregano le proprie conoscenze.

All’interno del “contenitore” dell’economia collaborativa dunque rientrano il già accennato Consumo Collaborativo che, dandone una più specifica definizione rispetto a quanto detto precedentemente, la Botsman descrive come “un modello economico basato

sulla condivisione, lo scambio, la negoziazione o il noleggio di prodotti e servizi che consentono l'accesso alla proprietà. Esso sta reinventando non solo ciò che consumiamo, ma il modo in cui consumiamo”, ma a questo si affiancano anche i concetti di:

ü Peer-to-Peer Economy (Economia tra pari), definita come “Mercato da persona

a persona basato sulla fiducia reciproca, che facilita la condivisione e lo scambio diretto dei beni”;

ü Sharing Economy che, invece, riguarda beni sotto utilizzati e, in quanto tali, vengono condivisi da alcuni utenti per ottimizzarne e migliorarne l’efficienza in cambio di un corrispettivo monetario o non monetario.

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Fig.1, Fonte: “The Sharing Economy lacks a shared definition: giving meaning to the terms” in CollaborativeLab

Ci sono dunque diversi termini che si riferiscono al grande insieme della Collaborative Economy, ma nonostante le definizioni fornite dalla Botsman, mantengono comunque una certa sovrapposizione.

1.3 Criteri definitori

Nonostante le differenze esistenti tra le diverse accezioni di economia condivisa e la precisazione fatta dalla Botsman circoscrivendo l’ambito in cui opera la sharing economy, in Italia Sharitaly3, che effettua annualmente una mappatura delle piattaforme

sharing, dal 2015 ha stabilito i criteri definitori che permettono di far rientrare o meno certi business in quella che viene chiamata sharing economy. Questi sono:

ü un modello di servizio peer-to-peer;

ü la presenza di piattaforme digitali attraverso le quali gli utenti possono intraprendere relazioni digitali;

ü user professionisti e non;

ü rilevanza dei sistemi reputazionali online;

ü prezzo stabilito dagli user senza la mediazione di un soggetto terzo; ü proprietà degli user sugli asset4 condivisi.

3Sharitaly è il più grande evento italiano organizzato da Collaboriamo e TRAILab dell’Università Cattolica

di Milano riguardante l’economia collaborativa. Il primo evento risale al 29 Novembre 2013. http://sharitaly.com

4 Con il termine asset si fa riferimento a beni (es. abitazioni con Airbnb, tool library come Leila e toys

library come Rent that toy!), competenze/servizi (es. Gnammo, TaskRabbit) o alle conoscenze e strumenti di produzione (open manifacturing).

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1.4 Sharing VS Pseudo-Sharing

Un contributo teorico riguardante il tema della condivisione è stato quello di Belk, che, nel suo articolo “Sharing Versus Pseudo-Sharing in Web 2.0”pone accento su quella che

per lui è la distinzione tra il puro sharing e il pseudo-sharing, individuando rispettivamente nel primo caso l’atto altruistico la cui intenzione è quella di aiutare e creare relazioni personali e un senso di comunità in cui non sussistono scambi di mercato e non sono presenti transazioni monetarie; nel secondo caso, la pseudo-condivisione fa riferimento a una relazione commerciale basata sullo scambio o sulla reputazione, relazione che si basa sul “dare e prendere” attraverso la quale si ottiene un bene/servizio in cambio di denaro, quest’ultimo ha quindi scopi utilitari come il profitto.

Lo studioso, infatti, specifica che “il denaro, i motivi egoistici, le aspettative di reciprocità

e la mancanza di un senso di comunità sono i criteri principali in base ai quali la condivisione e la pseudo-condivisione possono essere distinte”. Da questa affermazione

emerge che per la distinzione tra le due espressioni sono decisive le intenzioni delle persone coinvolte piuttosto che le caratteristiche di ciò che deve essere condiviso.

La pseudo-condivisione, per Belk, risulta quindi essere “una relazione d’affari

mascherata da condivisione comune” e, in quanto tale, non può essere imputata allo

sharing nella sua totalità.

Esempi salienti riportati dallo studioso e inquadrati in quest’ultima categoria riguardano: • il car-sharing, per motivi rintracciabili nella presenza di caratteristiche quali la

condivisione della proprietà associata al fine lucrativo, requisiti che, secondo l’autore, devono essere assenti in forme di sharing puro;

• la piattaforma AirBnb, che l’autore assimila a strutture quali gli hotel in quanto ritiene questo sia un servizio di ospitalità commerciale, una forma di commercio che occupa lo spazio tra condivisione vera e scambio di mercato. Al riguardo, però, tralascia il fatto che AirBnb sia un’organizzazione che attraverso una piattaforma mette in contatto chiunque abbia bisogno di una stanza o posto letto con chi ha risorse non utilizzate e disponibili, requisito quest’ultimo fondamentale per l’economia condivisa.

Inoltre Belk presenta come indicativo della differenziazione da lui posta il caso di Couchsurfing, evidenziando le disapprovazioni ottenute da parte degli utenti quando dal 2010 introdusse nel suo modello di business il fine lucrativo, prima totalmente assente; ma il vero motivo che stava alla base delle contestazioni è rilevabile nel cambiamento di

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orientamento.

Tuttavia la teoria di Belk non è pienamente in linea con quanto sostenuto in questa tesi nella quale, invece, si ritiene che la sharing economy non implichi solo condivisione e senso di community, ma piuttosto si presenti come un nuovo modello economico in grado di consentire l’accesso a beni e servizi non possibile altrimenti. Ciò si rifà a uno dei principi base dell’economia condivisa, nonché lo sfruttamento di risorse sottoutilizzate per aumentarne l’efficienza e la produttività ed è inoltre possibile affermare che ritenendo la sharing economy come un nuovo modello economico non è possibile escludere da questa il fine lucrativo.

1.5 Tipologie

Come riportato dalla studiosa Juliet Schor nell’articolo “Debating the Sharing Economy”, le attività di sharing economy sono riconducibili a quattro ampie categorie:

• redistribuzione: con questa espressione si fa riferimento al rimpiego o al trasferimento di proprietà di beni tra privati che può avvenire sotto forma di baratto, vendita o dono mediante piattaforma digitale;

• maggior utilizzo di beni durevoli: consiste in un utilizzo più intensivo dei beni durevoli e di altre risorse le cui potenzialità non sono pienamente utilizzate. Si tratta di sistemi che consentono l’accesso a una risorsa fisica attraverso lo scambio tra privati che non prevede il trasferimento di proprietà, quanto piuttosto il noleggio, il prestito o la condivisione.

• Scambio di servizi: questa tipologia non prende più in considerazione un bene materiale come le due categorie appena descritte, ma un servizio. In questo caso chi necessita di un determinato servizio entra in contatto, attraverso applicazioni mobile, con chi è in grado di offrirglielo e può prevedere sia scambi monetari, come nel caso di ride-sharing, che non monetari come nel caso delle banche del tempo5 basate sulla comunità e senza scopo di lucro.

• Condivisione di risorse o degli spazi produttivi: questa avviene al fine di consentire la produzione piuttosto che il consumo. Esempi tipici sono gli spazi di

5 Banche del tempo: si possono definire come: “libere associazioni tra persone che si auto-organizzano e si

scambiano tempo per aiutarsi soprattutto nelle piccole necessità quotidiane”, purché ciò avvenga sulla base di un principio di equivalenza.

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co-working o i fablab6.

1.6 Struttura del mercato

I diversi modelli di business della sharig economy, anche se simili per molti aspetti, possono differenziarsi gli uni dagli altri per motivi quali ad esempio le ragioni che sottostanno allo svolgimento dell’attività che può essere:

• no-profit, in questo caso la condivisione è l’essenza del modello organizzativo; • for-profit l’idea di condivisione si limita al determinato oggetto.

Oggigiorno è incontestabile la presenza di altri sistemi oltre a quello “peer-to-peer”, ciò è quanto sostenuto da Nesta e Collaborative Lab7 che identificano un totale di quattro

sistemi di attuazione dell’economia condivisa. Essi si possono così suddividere:

• Peer-to-Peer (P2P): sistema che prevede relazioni alla pari tra persone nello scambio o vendita di prodotti e servizi. Si può considerare il principale modello di condivisione, una sua prima versione di mercato P-2-P risale agli anni ’90 con Ebay e Craiglist, che consentivano la vendita, lo scambio o la cessione dei propri beni tra persone senza alcun intermediario. Esempi attuali sono Airbnb e Blablacar. • Business-to-Consumer (B2C): approccio che prevede l’interazione tra le aziende e il consumatore finale attraverso piattaforme online. In questo caso l’azienda mette a disposizione degli utenti i propri prodotti. Esempi emblematici sono il car-sharing e il bike-car-sharing;

• Business-to-Business (B2B): metodo attraverso il quale avviene il commercio interaziendale, nonché il processo di fornitura di un bene/servizio che un’azienda attua a favore di un’altra. Esempio ne è l’United Rentals nel Nord America, che promuove iniziative di condivisione di attrezzature industriali;

• Consumer-to-Business (C2B): consente alle imprese di ricavare valore dai consumatori e viceversa. Sono gli stessi utenti ad offrire alle imprese un

6 Fablab: un FabLab è un laboratorio aperto al pubblico fornito di macchine per la fabbricazione digitale.

È un luogo dove individui e imprese hanno accesso ad attrezzature, processi e persone in grado di trasformare idee in prodotti.

7 Nesta (charity) è la principale fondazione globale che si occupa di Social Innovation con sede nel Regno

Unito. Collaborative Lab è una rete globale di esperti di economia collaborativa che svolgono analisi e ricerche sul tema offrendo servizi di consulenza strategica ad aziende e governi di tutto il mondo.

https://en.wikipedia.org/wiki/Nesta_(charity) http://wiki.p2pfoundation.net/Collaborative_Lab

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bene/servizio da loro prodotto attraverso siti intermediari. Possibile esempio è Fotolia8.

Esistono dunque diversi modi di condivisione/collaborazione che corrispondo a modelli di business altrettanto differenziati: si spazia da casi di tipo volontaristico (banche del tempo) o in cui non esiste scambio monetario (Shareyourmeal) a modelli tradizionali for-profit (AirBnb) e talvolta anche a casi ibridi.

Alcune imprese intraprendono la loro attività rendendo gratuito l'accesso e lo scambio di servizi tra gli utenti, ma, una volta formata una massa critica9, si riservano il diritto di

introdurre una commissione su ciascuna transazione o abbonamento.

Le principali fonti di guadagno alle quali le piattaforme possono ricorrere sono di quattro tipologie10:

Le commissioni sulle transazioni: queste prevedono una trattenuta sul prezzo

concordato fra le parti per il servizio e varia a seconda della risorsa condivisa/scambiata/venduta. Questa tipologia è quella più frequentemente utilizzata, esempio ne è Airbnb11.

La sottoscrizione di un abbonamento mensile o annuale, questa solitamente

prende riferimenti temporali mensili/annuali o talvolta può anche basarsi su un pacchetto che assicura il servizio per un determinato numero di utilizzi. Questa metodologia non genera entrate importanti, queste ultime infatti non sono direttamente collegate all’effettivo utilizzo del servizio da parte degli utenti.

8 Fotolia é una piattaforma internazionale delle immagini libere da diritti (royalty free) che permette ai

privati e ai professionisti di vendere, acquistare e di condividere foto e illustrazioni Royalty Free in tutta legalità. Gli utenti possono acquistare e vendere immagini per illustrare brochure professionali e commerciali, pubblicità di ogni tipo, articoli e realizzazioni editoriali.

9 Massa critica: in riferimento alla sharing economy è una soglia minima di utenti superata la quale il

sistema è in grado di auto sostenersi.


10 Le tipologie di fonti di guadagno alle quali una piattaforma può ricorrere sono esposte nel rapporto

elaborato dalla Fondazione Unipolis nel 2015, pp. 21, 22

11Airbnb prevede:

Costi del servizio per l'host: agli host viene addebbitato un costo del servizio ogni volta che una prenotazione viene completata. L'ammontare del costo del servizio per l'host di solito è pari al 3%. Costi del servizio per l'ospite: Quando una prenotazione viene confermata, agli ospiti viene addebitato un costo del servizio che può variare tra il 5% e il 15% del subtotale della prenotazione.

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Le inserzioni pubblicitarie sul sito o nelle applicazioni mobile: metodologia

utilizzata soprattutto dalle piattaforme italiane che non genera un grande volume di entrare.

Accordi con grandi marchi/sponsorship: questi garantiscono un servizio gratuito

coprendo parzialmente le spese di gestione del servizio attraverso le donazioni ricevute dalle iniziative collaborative no-profit.

1.7 Funzionamento della sharing economy: i suoi tre pilastri

L’economia della condivisione si può considerare come una struttura ad ombrello che poggia su tre pilastri12:

• Economia dell’accesso • Economia della piattaforma • Economia basata sulla comunità

La combinazione di queste tre componenti può aiutare nel condividere le iniziative economiche e per superare alcune tensioni e paradossi, ma può anche generarne degli altri.

1.7.1 L’economia dell’accesso

Nel primo capitalismo i rapporti economici si basavano sulla proprietà privata e su un mercato geograficamente limitato, le transazioni economiche creavano un rapporto venditore-compratore che si esauriva col passaggio della proprietà; a prevalere erano concetti quali beni e proprietà.

L’economia attuale non è più di questo tipo, ha subìto una trasformazione: i mercati non sono più geograficamente limitati e le transazioni economiche avvengono tra fornitori e consumatori, facendo così primeggiare quelli che sono valori quali la cultura, l’informazione e le relazioni.

Piuttosto che la proprietà, come sostiene l’economista Rifkin, oggi si è entrati in una nuova fase dell’economia che rende possibile l’accesso ai beni senza che l’utente ne

12 Fonte: articolo “Promises and paradoxes of the sharing economy: An organizing framework” di Aurélien

Acquier, Thibault Daudigeos, Jonatan Pinkse in “Technological Forecasting and Social Change”, Volume 125, Dicembre 2017, pp.1-10.

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diventi effettivamente proprietario. Questo nuovo modello economico risulta essere ibrido rispetto ai due sistemi economici del Novecento: capitalismo con le proprie logiche di mercato da un lato e il socialismo, che invece predilige una rete collaborativa basata sulla condivisione di beni e servizi, dall’altro.

Le transazioni basate sull’accesso in realtà non sono nuove, basti pensare a modelli di business for profit come il noleggio o il leasing e a modelli no profit come le biblioteche pubbliche dalle quali poter prendere in prestito libri, questo è anche quanto sostenuto dalla già citata Rachel Botsman che definisce il Consumo Collaborativo come “La

re-invenzione di comportamenti tradizionali di mercato – affittare, prestare, scambiare, condividere, barattare, donare – attraverso la tecnologia, che si verificano in modi e su scale non possibili prima dell’era di Internet.”

In tempi recenti l’economia dell’accesso da parte delle aziende si è sempre più concretizzata nell’offerta di servizi piuttosto che di prodotti.

L’economia dell’accesso è realizzabile mediante diverse forme organizzative e di governance: in alcuni casi si realizza tramite un’elevata centralizzazione delle risorse che un’organizzazione possiede e gestisce (esempi ne possono essere le diverse piattaforme di car sharing: Car2Go), in altri casi, invece, l’accesso si basa su una proprietà decentralizzata di beni all’interno di un network di colleghi (es. vendita/noleggio di beni peer to peer).

L’economia dell’accesso non impone un modello di governance ben preciso, può avere fine lucrativo o non lucrativo, ma presenta comunque dei vantaggi riguardanti diversi aspetti:

• dal punto di vista economico consente un risparmio notevole rispetto ai servizi tradizionali, basti pensare che le tariffe dei servizi di car sharing comprendono benzina, parcheggi a pagamento, ingressi in zone a traffico limitato e, nonostante ciò, i prezzi restano comunque inferiori rispetto a quelli di un taxi. Ciò potrebbe risultare incomprensibile per gli utenti, ma la possibilità di fissare prezzi altamente competitivi risiede nei costi marginali decisamente bassi delle imprese operanti all’interno della sharing economy perché tutti i costi sono a carico dell’utente che mette a disposizione il bene, a ciò si aggiunge la rilevante riduzione dei costi organizzativi per la presenza, all’interno delle aziende, di un organico numericamente ristretto.

Caratteristica non trascurabile, necessaria per le attività online e per fidelizzare il cliente, è quella della trasparenza: i prezzi di acquisto stabiliti dalle imprese

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dell’economia condivisa sono sempre molto chiari, oltre al prezzo finale è possibile prendere visione delle relative commissioni, delle tasse e delle tariffe. Ulteriore vantaggio economico inerente l’economia dell’accesso consiste nell’evitare ai clienti di ricorrere necessariamente all’acquisto della proprietà e agli offerenti fornisce la possibilità di guadagnare denaro in modi prima non disponibili o ritenuti non sicuri.

• Dal punto di vista sociale consente un accesso più ampio ai servizi, di soddisfare il desiderio di aumentare le connessioni sociali e talvolta anche quello di impegnarsi per la trasformazione sociale.

• Dal punto di vista ambientale, invece, l’economia dell’accesso è ritenuta come soluzione sostenibile, consentendo attraverso la condivisione o lo scambio un uso più intensivo dei prodotti.

Inoltre, poiché i produttori rimangono proprietari dei beni, questi restano responsabili delle esternalità ambientali causate dai beni stessi, risultano dunque incentivati a produrre beni durevoli e sostenibili.

Ma l’economia dell’accesso non è esente da tensioni e paradossi, primo fra questi quello riguardante gli incentivi e il moral hazard: gli individui, pagando per un servizio temporaneo, non sono abbastanza incentivati a trattare adeguatamente i prodotti. Al riguardo Bardhi e Eckhardt13, affrontando il tema del car-sharing, ritengono che gli utenti

spesso non abbiano un atteggiamento premuroso nei confronti dei beni condivisi e che ciò sia imputabile alla mancanza di identificazione delle persone col bene condiviso, al debole controllo sociale sulla comunità e alla bassa probabilità di un riscontro negativo in caso di comportamenti scorretti.

Anche Tukker14 (2004) sostiene vi sia una tensione tra gli obiettivi economici e

ambientali, e evidenzia anche come i proprietari delle risorse condivise, al fine di monitorare i clienti e prevenire comportamenti scorretti degli utenti, debbano sostenere costosi investimenti per imporre efficienti meccanismi di controllo.

13 Fonte articolo “Access-Based Consumption: The Case of Car Sharing”(2012) di Fleura Bardhi, Giana

M. Eckhardt nel “Journal of Consumer Research” , Volume 39, 1 December 2012, pp. 881–898.

14 Fonte articolo “Eight types of Product Service System: eight ways to sustainability? Experiences from

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Altro tipo di paradosso ambientale riscontrabile nell’economia dell’accesso è il cosiddetto “Paradosso di Jevons”15, enunciato dall’economista britannico William

Stanley Jevons, il quale sostenne che i miglioramenti tecnologici che aumentavano l’efficienza di una risorsa in realtà ne facevano aumentare il consumo piuttosto che ridurlo. Ciò accadeva perché aumentando l’efficienza di una risorsa diminuivano i costi e conseguentemente aumentavano i consumi.

L’economia condivisa genera quindi "effetti a catena" che possono essere dannosi per la tutela dell’ambientale o stimolare comportamenti insostenibili da parte dei consumatori.

1.7.2 L’economia della piattaforma

L’economia della piattaforma è il secondo pilastro dell’economia della condivisione. La sharing economy è spesso associata a piattaforme di transazione peer-to-peer, tipologia che consente agli individui di scambiarsi beni e servizi.

L’utilizzo di piattaforme sta ancora oggi rivoluzionando la competizione nei mercati, si parla di rivoluzione perché molte aziende si stanno trasformando in piattaforme di interazione per la co-creazione di valore. Al riguardo esempi noti sono: Amazon, eBay, Uber, Airbnb, ciascuna di queste piattaforme si può considerare un “nuovo modello di

business che usa la tecnologia per connettere persone, organizzazioni e risorse in un ecosistema interattivo in cui possono essere create e scambiate incredibili quantità di valore”, questa è la definizione fornitaci da Sangeet Choudary, autore di “Platform Revolution”, durante il Social Business Forum 201616.

Per poter sfruttare al meglio il nuovo modello economico, la sharing economy si trova a dover porre rimedio a un problema di vitale importanza: l’alfabetizzazione digitale dell’utente finale, necessaria affinché il consumatore sia in grado di accedere ai servizi offerti.

Le piattaforme, utilizzando le tecnologie digitali, permettono di:

• ridurre i costi di transazione che normalmente gravano sugli scambi di mercato tradizionali;

• diminuire i costi di ricerca delle informazioni;

15 Paradosso di Jevons: spiegato nel libro “The Coal Question” del 1895. Jevons fece le sue considerazioni

basandosi sul consumo inglese di carbone perché, presa consapevolezza del fatto che il motore a vapore di James Watt avesse una maggiore efficienza del motore tradizionale, si pensava che il consumo di carbone diminuisse, invece inaspettatamente aumentò.

16 Social Business Forum: evento internazionale dedicato ai temi dell’organizzazione collaborativa, del

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• facilitare la conclusione e il monitoraggio dei contratti;

• attenuare i comportamenti opportunistici (moral hazard) e l’incertezza consentendo lo svolgimento in remoto di attività di coordinamento e gestione, quali ad esempio valutazione del servizio e determinazione del prezzo e controllo dei contratti assicurativi.

Le piattaforme offrono nuovi sviluppi di mercato basati su un accesso ampio, sicuro, ma soprattutto decentralizzato, proprio quest’ultimo aspetto mette in dubbio la loro legittimità e conferisce non poche difficoltà nella definizione di un’appropriata disciplina giuridica della quale si tratterà nel paragrafo 1.8.

1.7.3 L’economia basata sulla comunità

L’economia basata sulla comunità costituisce il terzo nucleo dell’economia della condivisione e si può ritenere anche il più importante perché è proprio la community a determinare il successo o meno di una iniziativa economica riconducibile alla sharing economy. Essa ha come scopo principale quello di creare e coordinare legami sociali o realizzare una missione sociale attraverso un progetto collettivo al fine di contribuire a un progetto comunitario.

Il network rappresenta difatti il valore economico fondamentale per la sharing economy. La comunità viene ad identificarsi sempre più come una tipologia di organizzazione con alla base cospicue relazioni instaurate mediante esperienze o interessi condivisi.

La cultura digitale ha creato nuove forme di condivisione come il fenomeno dell’open source e progetti quali Wikipedia, entrambi riconducibili a quello che Belk definì “condivisione vera” perché né i contributori né gli utenti si aspettano reciprocità per le loro azioni.

Queste nuove forme di beni comuni sono prodotte da benevolenti collaboratori della comunità e rese liberamente accessibili a tutti.

Avere una community ricca di utenti assume grande importanza anche dal punto di vista delle aziende per le quali vuol dire non solo avere molti clienti, ma anche avere a disposizione i dati riguardanti gli stessi. Lo studio e l’analisi dei big data17 può portare

17 Big data: I big data sono dati che, per quantità e varietà, non possono essere gestiti con gli strumenti

di database tradizionali, ma richiedono l’impiego di tecnologie adeguate per la memorizzazione e l’analisi dei dati.

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loro ad un enorme vantaggio competitivo e ad elevati ritorni economici grazie alla previsione dei bisogni futuri.

È bene notare che iniziative che poggiano su un solo pilastro tra quelli precedentemente descritti sono oggetto di contestazione poiché si dubita riguardo la loro appartenenza all’economia della condivisione.

I tradizionali modelli business-to-consumer basati sulla centralizzazione delle attività da parte di un fornitore di servizi for profit sono esempi di economia dell’accesso e non vengono inclusi nella sharing economy da coloro i quali attribuiscono maggiore importanza alle transazioni peer-to-peer; allo stesso modo le piattaforme peer-to-peer rientrano in quella che è l’economia della piattaforma, ma per il mancato sfruttamento delle attività sottoutilizzate o per la mancata ricerca di modelli di governance alternativi non sono considerate parte della sharing economy.

Infine, le iniziative economiche basate sull’economia della community, come le associazioni non lucrative spesso non sono riconducibili alla sharing economy a causa dell’assenza di una piattaforma che permetta l’interazione o l’accesso al servizio.

Si deduce che la situazione ottimale che permette di collocare le iniziative economiche nel modello dell’economia della condivisione sia quella ottenibile attraverso l’integrazione di economia dell’accesso, economia della piattaforma e economia della

community, ma anche simili situazioni non sono prive di tensioni.

Considerando che nessuno dei tre nuclei è privo di contrasti, l’ideale dell’economia basata su tre core potrebbe risultare contraddittoria e portare a un’escalation di tensioni e promesse non mantenute, si ritiene quindi che al fine di ottenere soluzioni efficienti sia preferibile costruire iniziative economiche dual-core. Al riguardo si pone l’attenzione sui seguenti esempi:

§ AirBnb e Blablacar sfruttano entrambe l’economia dell’accesso e quella della piattaforma trascurando invece quella della comunità;

§ Etsy, Fairmondo e Stocksy utilizzano l’economia dell’accesso e quella della comunità condividendo la piattaforma per produrre valore nuovo;

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Fig 2, Fonte: articolo “Promises and paradoxes of the sharing economy: An organizing framework” di Aurélien Acquier, Thibault Daudigeos, Jonatan Pinkse in “Technological Forecasting and Social Change”

(2017) p.7

I tre pilastri di cui sopra si è trattato fanno sì che nella sharing economy avvenga un importante trasformazione, dalla figura del consumer a quella del prosumer.

Ciò che veramente caratterizza la sharing economy secondo lo studioso Guido Smorto è la totale assenza di intermediari professionali, ciò consente ai soggetti non professionisti di agire come attori economici. L’individuo può essere contemporaneamente consumatore e fornitore non professionale di un bene/servizio, può infatti aver bisogno di qualcosa, ma offrirne nel frattempo un’altra, da qui deriva l’espressione prosumer.

1.8 Criticità della sharing economy: inquadramento giuridico e imposizione fiscale

La sharing economy, come già affermato, è un modello economico in continua crescita utilizzato da sempre più persone sia per risparmiare danaro nell’utilizzo di determinati servizi che come fonte di guadagno e, talvolta, anche per provare nuove esperienze. È necessario precisare però che, nonostante si ponga come rimedio alla crisi economica, come conseguenza dell’affermarsi delle nuove tecnologie e come mezzo attraverso cui poter ridurre l’impatto ambientale delle scelte di consumo, l’economia condivisa non è esente da criticità.

Sebbene uno dei principali vantaggi riguardanti la sharing economy sia il rapporto diretto tra persone e quindi la totale assenza di intermediazioni o controlli esterni, questo però

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può risultare un’arma a doppio taglio e trasformarsi in una delle principali criticità poiché permette l’aumento del rischio di truffe o l’offerta di servizi inadatti e non corrispondenti a quanto descritto nei rispettivi annunci.18

La fiducia è un elemento essenziale per il corretto funzionamento del mercato della sharing economy: consente la riduzione dei costi di transazione legati all’incertezza e aumenta la propensione al rischio delle parti.

Gli svantaggi riguardano primi fra tutti la fiducia, la correttezza tra gli utenti e la veridicità di quanto descritto nell’annuncio.

Il problema legato alla mancanza di fiducia deriva dall’asimmetria informativa tra le parti, per cui risulta necessario affidarsi a dei segnali che permettano di distinguere le persone affidabili da quelle che non lo sono, ciò è reso possibile tramite altri soggetti che forniscono informazioni attraverso le cosiddette recensioni colmando così quella che è la carenza informativa.

Nei contratti del commercio elettronico (e-commerce), infatti, i rischi di comportamenti opportunistici e/o illeciti aumentano esponenzialmente per motivi quali: la bassa possibilità di interazioni ripetute, la distanza geografica o l’appartenenza ad ordinamenti spesso differenti. Proprio per evitare situazioni sgradevoli la maggior parte delle aziende della sharing economy ricorre a meccanismi reputazionali che permettono l’instaurarsi di maggiore fiducia tra il consumatore e colui che fornisce il bene o servizio. Per tale motivo la sharing economy prima di una svolta economica può essere considerata una vera svolta culturale che ha favorito una maggiore fiducia tra sconosciuti.

«La fiducia è la nuova valuta dell’economia mondiale», afferma Rachel Botsman, e, nel saggio intitolato “Di chi possiamo fidarci?”, aggiunge anche che è nata la “fiducia distribuita”, quella orizzontale tra le persone spiegando che «È come un ritorno ai

rapporti di fiducia che si costruivano di persona in un villaggio, con la differenza che oggi il villaggio è globale e il nostro “vicino” può stare dall’altra parte del mondo».

Oltre al problema basato sulla fiducia, un’altra grande criticità riguardante l’economia condivisa è la concorrenza sleale: molti sostengono infatti essa si regga sull’utilizzo di servizi basati su poca trasparenza e sulla mancanza di regole lavorative.

Le piattaforme sottostanti alla sharing economy, se riescono a coinvolgere gran parte di partecipanti che vendono e comprano, possono talvolta portare a una riduzione della concorrenza fino ad ottenere posizioni monopolistiche, raggiungibili anche attraverso

18 La situazione descritta è evitabile attraverso società di intermediazione che gestiscono gli annunci dei

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l’offerta di servizi diversi da quelli tradizionali o addirittura prima inesistenti, incentivando così la costituzione di microimprese e attività di volontariato che spesso alimentano il lavoro occasionale o non professionale.

Fioriscono così problematiche inerenti il mondo del lavoro, come afferma Paolo Terranova presidente nazionale Agenquadri della Cgil: “Questi nuovi modelli portano

molti vantaggi, ma anche molte criticità per i lavoratori da quelle dirette, come basse retribuzioni, elevati rischi per la salute, ricattabilità ed elevata precarietà. A quelle indirette, legate anche al fatto che mancano un mercato del lavoro e un sistema di welfare adeguato”19.

L’inquadramento giuridico dei contratti della sharing economy risulta piuttosto complesso, è difficile infatti stabilire se discipline riguardanti il diritto del lavoro, quelle commerciali, di sicurezza e tutela si applichino o meno a determinate attività “collaborative”.

Inoltre è necessario precisare che nei modelli peer-to-peer le aziende online facilitano l’interazione tra gli individui, il contratto quindi, sebbene sembrerebbe interessare solo due individui (utente e fornitore), in realtà ne coinvolge tre: coloro che offrono beni/servizi, coloro che costituiscono la domanda e le piattaforme stesse che mettono in contatto le due parti del rapporto.

La sharing economy porta a sviluppare le relazioni su un doppio livello: la piattaforma, regolamentata dalle Direttive europee sull’e-commerce, in Italia inclusa nel Codice del Consumo (d.lg.206/2005 e successive modifiche) e le relazioni tra gli stessi gli utenti privati (p2p) per la quale si applica la normativa civilistica.

Si viene a creare così un rapporto giuridico complesso in cui lo schema contrattuale si basa su due contratti più o meno collegati tra loro.

Sulla base di quanto appena detto, è possibile affermare che la classificazione giuridica del contratto stipulato sia dal fornitore che dall’utente con la piattaforma risulta essere meno complessa rispetto al contratto stipulato tra peers: il primo è infatti un contratto Business-to-Consumer che rientra nella disciplina relativa ai contratti telematici (e-commerce) e la sua finalità è quella di disciplinare l’utilizzo della piattaforma stessa; il secondo, invece, riguarda la prestazione e, in questo caso, il rapporto tra le parti è regolamentato dalla disciplina di diritto privato internazionale che stabilisce le norme giuridiche da applicarsi.

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In Italia il rapporto tra le parti è disciplinato dalle norme di diritto comune previste dal codice civile. Si riconosce quindi piena applicazione dell’articolo 1322 c.c. che demanda alle parti la facoltà di determinare condizioni e termini del contratto ottemperando gli eventuali vincoli imposti dalle norme di diritto pubblico.

Tuttavia, quanto detto sopra vale nel caso in cui chi svolge l’attività non sia un soggetto professionista, ma qualora il confine tra consumatore e professionista diventasse meno chiaro20, il fornitore inizialmente ritenuto un semplice peer viene considerato

professionista, trasformando così il rapporto da peer-to-peer a business-to-consumer, implicando, sotto il profilo normativo, che il contratto sia sottoposto alla disciplina consumeristica.

Nel mondo del lavoro le criticità riguardano:

Ø La Qualificazione sia del prestatore/fornitore che della prestazione: la difficoltà di questa operazione fa sì che risulti difficile effettuare un corretto inquadramento giuridico in materia di sharing economy.

Le piattaforme sostengono che gli utenti che offrono beni/servizi attraverso esse siano lavoratori indipendenti che ricorrono all’utilizzo dell’applicazione o del sito e che ciò che sta dietro alla piattaforma sia solo un’azienda tecnologica che non abbia alcun legame con gli utenti.

Ma il rischio di una classificazione errata delle prestazioni è piuttosto elevato e purtroppo nessuna delle categorie note è pienamente conforme alla realtà economica della sharing economy. Al fine di una corretta qualificazione del rapporto si devono prendere in considerazione diversi aspetti:

• in primo luogo occorre constatare se l’attività svolta dal lavoratore autonomo attraverso la piattaforma sia la sua attività principale oppure se si tratti di un’attività secondaria;

• in secondo luogo, è necessario verificare il tipo di attività prestata attraverso la piattaforma, in particolare se essa è da svolgersi di presenza o meno, ma soprattutto le competenze necessarie per svolgerla (lavoro manuale, intellettuale, etc…).

L’attenzione posta alle suddette caratteristiche permettono di indentificare il mercato in cui si collocano le prestazioni.

20 Molti prosumer col tempo hanno specializzato sempre più la propria attività trasformandola sempre più

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Altra distinzione fondamentale al fine di individuare la disciplina giuridica applicabile consiste nel capire se l’attività dei peers è di tipo for-profit o no-profit, sia per quanto concerne il rapporto tra i peers sia in riferimento al ruolo della piattaforma.

Qualora si verifichi un contributo alle spese come generosità o prestazione simbolica di esiguo valore tale remunerazione viene fatta rientrare nel caso

no-profit, al contrario quando questa costituisce una vera e propria forma di profitto

essa si fa rientrare nel caso for-profit. La distinzione diventa più complicata nel caso di imprese ibride che nascono con forme organizzative di imprese for-profit, ma che hanno finalità sociali e che non ripartiscono utili.

Il fenomeno dell’economia collaborativa crea nuove opportunità lavorative, nuove possibilità di profitto e maggiore flessibilità lavorativa, ma accanto a questi vantaggi sussistono aspetti negativi non trascurabili quali per esempio la mancanza di diritti e livelli di protezione sociale garantiti invece dalle forme lavorative tradizionali.

Ciò che infatti differenzia i lavoratori autonomi da quelli subordinati è il fatto che i primi risentano dell’instabilità delle proprie entrare, debbano gestire e pagare le proprie tasse, non abbiano diritto al rimborso delle spese sostenute durante lo svolgimento della loro attività e ad altri trattamenti economici e retributivi caratterizzanti per converso un rapporto di lavoro dipendente, ma, soprattutto, nella maggior parte dei casi non beneficino di alcuna sicurezza sociale.

Nell’ordinamento italiano il prestatore/fornitore può essere considerato un lavoratore autonomo prestatore di un contratto d’opera ex art. 2222 c.c., il carattere occasionale del lavoro fa sì che esso non sia assoggettato alla disciplina applicata invece a coloro che svolgono un’attività professionale.

Ø La Responsabilità: vi è infatti il rischio che con la sharing economy ogni responsabilità ricada sui lavoratori, intesi come coloro che condividono i loro beni, e che le piattaforme si limitino a sostenere solo i costi inerenti la gestione della piattaforma ottenendo così ingenti guadagni.

Come già detto precedentemente, le imprese della sharing economy, per quanto possibile, hanno sempre sostenuto che la piattaforma sia nata semplicemente come luogo di incontro virtuale tra domanda e offerta nel quale si svolgono transazioni, escludendo in tal modo qualsiasi tipo di loro coinvolgimento nello scambio e potendosi di conseguenza ritenere esente da qualsiasi tipo di responsabilità. Ma

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risulta ancora poco chiaro il grado di coinvolgimento della piattaforma nei contratti che essa permette di stipulare ai contraenti.

Per porre soluzione a tale problema bisogna verificare il grado di influenza delle attività svolte dalla piattaforma sulla gestione, stabilizzazione e organizzazione di mezzi e modi della prestazione21, infatti maggiore è l’influenza esterna da parte

dell’intermediario, minore è la possibilità che questo sia un soggetto estraneo al rapporto.

Un secondo parametro che è possibile utilizzare prevede il controllo del legame che sussiste tra il contratto concluso con la piattaforma e quello concluso tra i pari: più questo è forte dal punto di vista formale e sostanziale, maggiore saranno le responsabilità e gli obblighi gravanti sull’azienda intermediaria.

La valutazione di entrambi i parametri è rimessa al giudice, poiché la situazione varia da caso a caso.

Nel caso in cui il legame tra i due contratti risultasse molto forte o comunque l’influenza della piattaforma risultasse molto invasiva potrebbe venir meno l’esistenza del contratto peer-to-peer, restando così la piattaforma unico contraente con entrambe le parti.

Tutti gli ordinamenti nazionali, nei rapporti tradizionali, prevedono regole relative alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ed eventuali oneri a carico del prestatore/fornitore per una maggiore protezione nei confronti dell’utente, protezione che nel caso dell’economia della condivisione è molto minore da parte degli operatori economici.

Le compagnie della sharing economy generalmente trasferiscono i rischi della condivisione delle risorse e dell’attività economica su coloro che forniscono i beni o che svolgono le prestazioni, sostenendo di non prendere parte nel rapporto, ma solamente di “facilitarlo”. I rischi maggiori sorgono dalla natura intima dei servizi offerti e talvolta anche dall’aspettativa di reciprocità dello scambio.

Occorre una legislazione che colmi il divario esistente tra quanto vige al riguardo dei rapporti tradizionali e quanto sull’economia condivisa.

Molti Stati stanno provvedendo obbligando le compagnie a fornire un’assicurazione adeguata ai privati per i fatti di responsabilità civile

21 La Commissione Europea ha individuato alcuni elementi attraverso i quali si può dedurre quale sia il

livello di influenza e controllo della piattaforma sul rapporto tra le parti, tra questi vi è la verifica se il prezzo e le condizioni contrattuali siano stabiliti dal fornitore o dalla piattaforma stessa.

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potenzialmente verificabili durante l’esecuzione del contratto al fine di fornir loro maggiore tutela, ma tali assicurazioni dipendono da condizioni restrittive e interessano periodi limitati.

Spesso dunque sono sempre i lavoratori a subire le possibili conseguenze di eventuali illegalità che avvengono nel corso di una transazione o a dover pagare i danni causati da eventi non prevedibili.

Non sempre però la compagnia può de-responsabilizzarsi trasferendo ogni responsabilità al fornitore del bene o servizio, infatti la responsabilità può ricadere in capo alla piattaforma nel caso in cui questa è ritenuta responsabile della prestazione.

Tale responsabilità potrebbe derivare dal fatto che la piattaforma sia considerata suo datore di lavoro quindi come responsabilità per fatto altrui o qualora la piattaforma funga da garanzia per il prestatore del bene/servizio essa diviene insieme a quest’ultimo co-obbligata rispondendo degli eventuali danni cagionati al consumatore.

Per quanto concerne invece la responsabilità della piattaforma per il contenuto in essa pubblicato sotto la normativa comunitaria22 è previsto dalla direttiva sul

commercio elettronico23, a determinate condizioni previste nell’art.14, una

esenzione di responsabilità della stessa: quella della piattaforma deve essere un’attività di diffusione di informazioni gestita in maniera passiva, automatica senza assumere alcun ruolo attivo nella transazione che gli permetta di prendere conoscenza di eventuale informazione illegale e, nel caso ciò avvenisse, deve prontamente agire per la rimozione dell’informazione o disabilitarne l’accesso. Inoltre, all’art 15, agli Stati membri è vietata l’imposizione alle piattaforme di obblighi generali di monitorare e ricercare attivamente fatti o circostanze che denotino possibili attività illecite, ciò è esplicitamente previsto per piattaforme che offrono servizi di hosting.

22 Linee guida Commissione europea, A European agenda for the collaborative economy, 2 Giugno 2016 23 Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 Giugno 2000 relativa a taluni aspetti

giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (“direttiva sul commercio elettronico”)

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Ø L’Imposizione Fiscale: attualmente la disciplina inerente l’imposizione fiscale appare indefinita, vaga e inadatta a regolamentare l’ambito.

Le difficoltà fiscali sono numerose e sono strettamente connesse alla complessità che sussiste nell’individuare il soggetto passivo del tributo e la base imponibile, la difficoltà nei controlli, la mancanza di informazioni, la poca chiarezza e conoscenza per gli operatori di un fenomeno così dinamico qual è l’economia condivisa.

Le origini di tali difficoltà sono riconducibili a fattori quali l’opportunismo fiscale, inteso non come elusione fiscale quanto piuttosto come interpretazione delle norme da parte delle imprese nel modo a loro più congeniale. Le imprese della sharing economy spesso tendono a cogliere gli aspetti a loro più favorevoli riguardo quali norme si applichino e se si applichino tendendo generalmente a preferire il regime fiscale a loro più favorevole. Tale fenomeno non è nuovo, ma nel contesto dell’economia condivisa assume enormi dimensioni.

Emblematico risulta essere la figura del fornitore del bene/servizio come lavoratore autonomo responsabile per i tributi relativi il proprio lavoro esentando la piattaforma da ogni altro onere fiscale associato al lavoro dipendente.

Altro fattore causa delle difficoltà in regime fiscale è la natura di micro-business della maggior parte delle attività economiche che rientrano nel sistema della sharing economy. Le dimensioni modeste e il carattere occasionale delle prestazioni rendono difficile sia l’adempimento degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti sia l’individuazione delle eventuali violazioni da parte delle agenzie fiscali.

Tra gli attori della sharing economy possiamo distinguere sia individui privati che offrono beni e servizi sia imprese e, seppur il problema abbia manifestazioni più rilevanti nel primo caso, riguarda comunque entrambe le categorie di soggetti. Conseguenza diretta di questi due fattori è una consistente presenza dell’economia sommersa nell’economia della condivisione, ma oltre a questa è possibile anche parlare di formal sharing e informal sharing: con la prima espressione si fa riferimento a quelle attività economiche che si svolgono in conformità con quanto previsto dal sistema giuridico; con la seconda espressione si fa riferimento invece a quelle attività che sono lecite, ma non regolamentate dall’ordinamento in relazione a fisco, salute, sicurezza e altri standard minimi.

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modello economico trattato nella presente tesi è quello che sorge a causa del fatto che la maggior parte delle aziende che svolgono la propria attività economica ha la propria sede in paesi con tassazione agevolata, limitando così agli Stati le entrate fiscali derivanti dall’imposizione fiscale sul ricavato dalle aziende.

Ma individuare il regime fiscale applicabile non sarebbe così difficile se venissero fatte le giuste qualificazioni secondo la legge, la disciplina non sarebbe così incerta e sarebbe possibile individuare dei modelli di riferimento.

Una cosa è certa: la situazione varia da caso a caso, quindi va sempre contestualizzata. Presa comunque consapevolezza del fatto che le entrate derivanti dalle prestazioni legate alla sharing economy siano fonte di reddito, non possono queste non essere tassate secondo le norme relative ai tributi, nella fattispecie quelle relative alle imposte sul reddito.

La base imponibile può essere stabilita considerando i profitti derivanti dall’attività lavorativa al netto delle spese necessarie per il suo svolgimento e quindi considerate deducibili.

Non bisogna dimenticare inoltre che la prestazione di beni/servizi relativi all’economia condivisa è soggetta all’imposta sul valore aggiunto nei paesi in cui questa è prevista e la cui misura dipende dal paese di residenza del prestatore o del fruitore del servizio. È indubbio che le attività economiche della sharing economy debbano essere assoggettate alle imposte locali previste per le attività economiche svolte (come le imposte di soggiorno in riferimento ad Airbnb), benché possa essere considerata prestazione occasionale e sottoposta ad un regime di favore.

Alcune piattaforme hanno cercato di mettersi in regola col pagamento dei tributi e hanno promosso iniziative volte ad aiutare gli utenti ad adempiere i propri obblighi fiscali o a prelevare quanto dovuto al fisco attraverso la transazione tramite piattaforma.

Un caso ancora irrisolto è quello che si chiede come regolamentare l’imposizione fiscale della sharing economy. Le possibilità sono due: la prima consiste nel disciplinarla in maniera affine agli ambiti del mercato corrispondente per settore d’attività non tenendo conto della particolarità del rapporto; la seconda possibilità, invece, intende individuare una imposizione fiscale ad hoc tenendo conto delle particolarità delle differenze che sussistono.

In realtà si ritiene che le categorie esistenti non possono essere considerate inadeguate alla sharing economy, quindi l’intervento legislativo, in tal caso, dovrebbe volgersi a una

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semplice chiarificazione su quale regime fiscale debba essere applicato piuttosto che introdurre una nuova disciplina.

In Italia un passo avanti è stato fatto col D.l. 24 Aprile 2017, N. 50, in particolare l’articolo

4 disciplina gli affitti brevi, con durata inferiore ai 30 giorni, introducendo una ritenuta del 21% (la cosiddetta “tassa Airbnb”) applicata dagli intermediari che intervengono nel pagamento del canone, riscuotendolo dall’inquilino e versandolo al locatore. La

trattenuta può essere a titolo d’acconto o d’imposta (quando il locatore opta per la cedolare secca).

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2 SETTORI DI SVILUPPO DELLA SHARING ECONOMY 2.1 Valore dell’economia della condivisione nel mondo

Dopo aver, nel primo capitolo, inquadrato la sharing economy collocandola in un contesto generale, dandone una definizione, descrivendone le sue caratteristiche ed esponendone i suoi vantaggi e le sue criticità, adesso ci si addentrerà nel “clou” del fenomeno stesso. L’economia della condivisione, come già detto, è divenuta universalmente riconoscibile a partire dal 2008, dopo la crisi finanziaria ed economica e con l’affermarsi nelle nuove tecnologie. Da allora ha avuto un enorme sviluppo, per tale motivo è bene tenere a mente le proporzioni economiche del fenomeno secondo quanto sostenuto dalle indagini condotte dalla Pwc24: nel 2014 la società stima che il valore della sharing economy nel

mondo sia di circa 15 miliardi di dollari e che in Europa, in uno studio effettuato nel 2016, il suo valore sia di circa 28 miliardi di euro e che questo entro il 2025 ammonterà a 570 miliardi di euro, tali cifre tengono conto delle transazioni legate ai cinque principali settori della sharing economy quali: finanza collaborativa, alloggi tra privati, trasporti tra privati, servizi domestici a richiesta e servizi professionali a richiesta.

È necessario però non farsi abbagliare dai grandi numeri, dietro questi ancora oggi vi è una realtà molto variegata: servizi online di tale portata non si sono ancora affermati in maniera omogenea in tutto il mondo.

Casi di successo della sharing economy sono riscontrabili sicuramente negli Stati Uniti (non a caso le principali piattaforme quali Airbnbn e Couchsurfing hanno sede principale a San Francisco) e in Europa, ma un caso che, seppur emergente, è di portata impressionante risulta essere quello della Cina dove nell’ultimo decennio il concetto di economia condivisa è passato dall’avere valenza marginale a quello di una vera potenza economica.

In Cina il governo si è impegnato nella creazione di un'economia di condivisione nazionale istituendo uno speciale istituto di ricerca interamente dedicato al fenomeno della Sharing Economy. Secondo quanto riportato da questa organizzazione nel report del 2016 si prevede che il valore di mercato dell'economia di condivisione cinese cresca a un

24 Pwc: PricewaterhouseCoopers, è una società, operativa in 158 Paesi, che fornisce servizi professionali

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