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LA TUTELA DELLO IUS EXISTANTIAE NELLE MISURE DI CONTRASTO ALLA POVERTA'.IL CASO DEL COMUNE DI SASSARI.

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DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN PROGRAMMAZIONE E POLITICA DEI SERVIZI SOCIALI

LA TUTELA DELLO IUS EXISTANTIAE NELLE

MISURE DI CONTRASTO ALLA POVERTÀ.

IL CASO DEL COMUNE DI SASSARI

.

RELATRICE

PROF.SSA FRANCESCA NUGNES TESI DI LAUREA DICHIARA SANTUS

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INDICE

INTRODUZIONE pag. 5

CAPITOLO 1 – L'EVOLUZIONE NORMATIVA NAZIONALE E REGIONALE IN MATERIA DI POLITICHE SOCIALI

1.1. Diritto ad un esistenza dignitosa: diritto originario garantito dallo Stato o mero

beneficio concesso dallo Stato ? pag. 8

1.2. Dalla legge Crispi alla legge 328/2000 pag. 18

1.3. Dalla legge 328/2000 alla riforma del titolo V della Costituzione pag. 46

1.4. Conclusioni pag. 54

CAPITOLO 2 – IL SOSTEGNO PER L'INCLUSIONE ATTIVA (SIA) E LA NASCITA DEL REDDITO DI INCLUSIONE (REI)

2.1 Dalla Commissione Onofri ad oggi: le misure adottate dall'Italia per affrontare

la povertà. pag. 57

2.2 La nascita del Sostegno per l'Inclusione attiva: analisi del Decreto

Interministeriale del 26 maggio 2016. pag. 78

2.3 Analisi delle linee guida per la predisposizione dei progetti e la presa in carico: “aspetti coerenti e incongruenti rispetto ad una visione di welfare

generativo”. pag. 89

2.3.1. I progetti personalizzati pag. 97

2.3.2. La fase dell’Assessment: i tratti principali pag. 101

2.3.3. La progettazione, gli obiettivi e gli strumenti pag. 105

2.3.4. La Governance e le fonti di finanziamento pag. 108

2.3.5. Prime osservazioni critiche relative alle Linee guida pag. 112

2.4 Dalla misura di contrasto alla povertà Sostegno per l'Inclusione attiva al

Reddito di Inclusione. pag. 114

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CAPITOLO 3 – IL PROGRAMMA SIA E REIS NEL COMUNE DI SASSARI

3.1 Il recepimento della riforma nazionale in Sardegna con la legge regionale n. 23/2005: I PLUS e il Comune come soggetti attuatori delle Politiche Sociali in Sardegna con particolare riferimento alle misure di contrasto

alla povertà a livello regionale e comunale. pag.131

3.2 La Regione Sardegna: dal Sia al Reis pag.150

3.2.1 Il ruolo degli ambiti di PLUS nel SIA e nel REIS pag.162

3.3 Le misure di contrasto alla povertà nel Comune di Sassari prima del SIA:

i dati del 2016 pag.164

3.4 La prima applicazione del SIA e del REIS nel Comune di Sassari pag.165

3.5 Conclusioni pag.168

CONCLUSIONI pag.172

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INTRODUZIONE

Gli anni della crisi economica hanno visto l'ampia diffusione della povertà assoluta, espressione con cui si definisce la mancanza di risorse economiche necessarie per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Tuttavia l'Italia è rimasta per lungo tempo priva di una misura nazionale universalistica, rivolta cioè a chiunque si trovi in tale condizione ed a sostegno di chi vive la povertà assoluta. Per superare lo storico disinteresse della politica italiana nei confronti dell'argomento, la legge di stabilità n. 208 del 28 dicembre 2015, ha introdotto avanzamenti senza precedenti in materia, introducendo prima la misura transitoria del Sostegno per l'inclusione attiva e di recente, con la legge 15 marzo 2017, n. 33 “Delega

recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni ed al sistema degli interventi e dei servizi sociali”, e con l'approvazione definitiva in Consiglio dei Ministri

del decreto legislativo attuativo del 29.08.2017, il REI, Reddito di inclusione. Nel presente studio si analizzeranno le misure messe in atto dal legislatore italiano inquadrandole alla luce della cornice normativa disegnata dal legislatore costituzionale che pone a fondamento degli interventi di contrasto alla povertà il principio di uguaglianza e la tutela della dignità umana, da salvaguardare attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale ( art. 3 Cost.).

Si cercherà di comprendere se queste misure possano essere viste in un'ottica di welfare generativo e, quindi, se le persone saranno chiamate a concorrere al benessere della società, oppure se questi strumenti coincidano con l'erogazione di meri interventi economici assistenzialistici che lascerebbero le persone in uno stato di bisogno non più solo economico ma, laddove rimanessero inattive e impossibilitate a concorrere al benessere proprio e della collettività (....) anche sociale. La teoria dei diritti trova il proprio fondamento nella posizione centrale riconosciuta alla persona e più specificamente nel nesso tra il riconoscimento dei

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diritti inviolabili (art. 2) e l'affermazione del principio di uguaglianza sostanziale (art 3 comma 2°) (...) e includono pertanto un profilo di cittadinanza attiva in quanto le persone vengono messe effettivamente e socialmente nella condizione di cittadini attivi dello Stato" 1.

L'argomento della tesi verrà approfondito sotto il profilo della natura dei diritti sociali sanciti dalla nostra Costituzione per comprendere se è possibile individuare un dovere dei pubblici poteri nella lotta contro la povertà. Si ricostruirà la storia dell'assistenza in Italia e quali siano stati i passaggi che hanno portato all'adozione della n. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali” e come questa legge sia stata recepita in Sardegna con la Legge Regionale 23/2005. Nel secondo capitolo si entrerà nel cuore della misura del Sostegno per l'Inclusione Attiva analizzando quali siano state le misure di lotta alla povertà adottate in Italia dalla Commissione Onofri ad oggi, approfondendo il Decreto di adozione della misura e le sue Linee guida mettendone in evidenza anche le criticità. Si evidenzierà come la misura del Sostegno per l'inclusione attiva abbia costituito una misura di contrasto alla povertà nata dall'esigenza di traghettare le politiche e gli interventi in materia di esclusione sociale e sostegno al reddito da un approccio categoriale, frammentato e di natura occasionale ad un assetto più organico con una governance chiara.

Si analizzerà come questa misura sia stata definita "ponte" per arrivare all'introduzione di una misura nazionale di contrasto della povertà, denominata Reddito di Inclusione, individuata come livello essenziale delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio. Nel terzo capitolo si approfondirà come la Regione Sardegna abbia affrontato e gestito le risorse del Sostegno per l'inclusione attiva e abbia deciso di stanziare risorse proprie per finanziare l'estensione della platea dei destinatari del beneficio e prevedere un aumento delle somme erogate istituendo con legge regionale del 2 agosto 2016 n. 18 “Il Reddito di Inclusione 1C. Colapietro e M. Ruotolo, Diritti e libertà, con appendice giurisprudenziale, G. Giappichelli Editore, Torino, 2014, p. 8

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Sociale” ( Aggiudu Torrau: aiuto da restituire), in affiancamento e coordinamento con la misura nazionale del SIA. Si descriverà come queste misure siano state gestite all'interno del contesto del Comune di Sassari, al fine di coglierne i limiti e le prospettive di miglioramento.

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CAPITOLO 1 – EVOLUZIONE NORMATIVA NAZIONALE E REGIONALE IN MATERIA DI POLITICHE SOCIALI

1.1. Diritto ad un’esistenza dignitosa: diritto originario garantito dallo Stato o mero beneficio concesso dallo Stato?

La Costituzione Italiana ha tra le sue caratteristiche la centralità dell'Uomo considerato nella sua dimensione relazionale che in parte viene ricondotta ad un’esigenza di ricorrere all'aiuto dell'altro per sopperire ad una propria fragilità fisica e spirituale2. Questa condizione di

bisogno rende necessario che la persona sia collocata in un contesto sociale solidaristico capace di accoglierla e sostenerla e sarebbe all'origine della sua naturale predisposizione all'apertura sociale 3.

La necessità di ricorrere all'aiuto delle reti informali è ancora più forte nell'attuale momento storico caratterizzato da una grave crisi economico-finanziaria che rischia di minare la certezza dei diritti sociali che sono il punto debole del principio di eguaglianza 4.

Rispetto a questo ci si vuole ispirare all'analisi esaustiva e approfondita svolta da un autorevole giurista5 nel tentativo di rispondere a due quesiti fondamentali: “Fino a che punto il

legislatore può esimersi dal garantire i diritti sociali per far fronte alle esigenze di bilancio? Fino a che punto l'inerzia o il ritardo del legislatore nell'attuazione dei diritti (in specie sociali) può essere giustificata dalla ponderazione con altri valori o interessi?”

2F. Pizzolato, Il Minimo Vitale. Profili costituzionali e processi attuativi, Milano, Giuffrè editore-2004. Pag. 9 3Idem, pag. 10.

4Cfr. E. Vivaldi e A. Gualdani, estratto da, Il minimo vitale tra tentativi di attuazione e prospettive future, in Diritto e Società 1/2014, Napoli 2014, Editoriale scientifica, p. 115.

5Cfr. M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti

costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa ,Il Mulino, Rivisteweb, Diritto pubblico (ISSN 1721-8985)

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Infatti, fin dal Novecento gli studiosi di diverse discipline hanno approfondito il tema della lotta alla povertà e delle politiche di inclusione sociale spinti anche dall'affermarsi dei principi dello Stato, ma queste domande assumono un significato particolare nei momenti in cui si registrano degli ingenti tagli alla spesa pubblica a causa di crisi economiche.

Una prima possibile chiave di lettura parte dalla classificazione dei diritti sociali in originari (o incondizionati) e derivati (o condizionati)6.

I primi sono suscettibili di tutela immediata in quanto hanno una originaria consistenza di diritti soggettivi (es. diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente, diritto al riposo e alle ferie, diritto a ricevere cure mediche), i secondi (es. diritto all'assistenza e alla previdenza, diritto all'istruzione e all'accesso nelle istituzioni scolastiche) presuppongono per il loro esercizio effettivo un'organizzazione e una idonea all'erogazione di prestazioni.

Perciò nel caso di diritti originari l'azionabilità nei confronti della controparte è immediata e diretta, nel caso dei secondi l'azionabilità presuppone che il legislatore abbia programmato le misure necessarie per il loro godimento.

Analizzare la questione sotto il profilo della natura dei diritti sociali sanciti dalla Costituzione è importante perché consente di rispondere all'interrogativo che comprende quelli sopra enunciati: dalle disposizioni della Costituzione che disegnano il c.d. principio dello Stato Sociale, è possibile ricavare un dovere dei pubblici poteri nella lotta contro la povertà? Per rispondere è necessario definire prima di tutto cosa si intenda per povertà.

Considerarla solo nella sua accezione di scarsità o assenza dei mezzi che consentirebbero di soddisfare i bisogni primari è riduttivo.

Infatti ci sono situazioni in cui le persone possono esercitare un possesso o addirittura un diritto di proprietà su dei beni ma sono impossibilitate per varie ragioni (incapacità, indisponibilità immediata ecc.) ad utilizzarli per soddisfare i propri bisogni primari.

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Perciò la povertà, dove non costituisca una scelta di vita legata a dei valori ma sia subita, è una condizione di fatto che abbraccia sia chi non ha la disponibilità dei beni necessari che chi non riesca ad utilizzarli.

Ancora prima di poter quantificare la povertà è necessario compiere la complessa operazione di individuare i soggetti che possono essere definiti poveri 7 .

Per poter individuare una linea di demarcazione tra chi è povero e chi non lo è 8 è essenziale

circoscrivere il concetto di povertà.

In genere si lo si fa definendo quali beni e servizi siano strettamente necessari per non versare in una condizione privazione, poi li si raggruppa idealmente in un paniere, esprimibile anche in termini di valore economico, in modo che si individui un livello di spesa e si possa considerare chi non riesca a raggiungerlo in una condizione di povertà assoluta.

C'è poi una povertà relativa che viene definita in rapporto alla media delle abitudini sociali proprie del contesto in cui un individuo vive perciò si considera povero chi ha reddito e consumi inferiori in modo evidente a quelli posseduti in media dagli altri membri della società di cui fa parte.

Per esigenze di completezza va considerata anche quella forma di povertà che prescinde dagli effettivi consumi ed è legata all'incapacità di alcune categorie di persone, come chi sia stato abbandonato o sia senza fissa dimora, di inserirsi in un contesto sociale e godere della < libertà sostanziale di vivere il tipo di vita cui, a ragione veduta, danno valore> 9.

Questa molteplicità di forme di povertà rende evidente come questo concetto possa essere espresso correttamente solo attraverso un indicatore “multidimensionale” che consenta di fotografare anche queste situazioni di esclusione sociale (caratterizzate da una basso livello di istruzione, precarietà lavorativa, sfaldamento delle relazioni sociali, indebitamento) perché

7Cfr. M. Baldini, S. Toso, Diseguaglianza, povertà e politiche pubbliche, 2004, il Mulino, p. 110 8Idem, cit p. 110

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tiene conto di vari fattori e in particolare dell'intensità lavorativa (precarietà e saltuarietà dell'impiego) e delle forme di deprivazione materiale.

Il rapporto ISTAT dedicato a la povertà in Italia - Anno 2010 (pubblicato il 15 luglio 2011) aveva evidenziato che l'11% delle famiglie era relativamente povera e il 4,6% lo era in termini assoluti perciò, se si considera anche la fascia dei “ quasi poveri” risultava “ povera o quasi povera circa una famiglia su cinque”.

Questi dati sono ancora più gravi alla luce della ricerca pubblicata dalla fondazione Zancan e dalla Caritas nel 2011 che evidenzia che sfuggono alle rilevazioni ufficiali tutta una serie di risorse insufficienti per vivere in modo dignitoso che impediscono loro di perseguire il diritto alla casa, al lavoro, alla famiglia, all'alimentazione, alla salute, all'educazione, alla giustizia. La situazione si è aggravata ulteriormente in seguito come evidenziato nell'ultimo Rapporto annuale sulla povertà in Italia dell'Istat 10 i cui dati pubblicati nel 2016 rivelano che nel 2015

le famiglie in condizione di povertà assoluta sono state pari a 1 milione e 582 mila e gli individui a 4 milioni e 598 mila, il numero più alto dal 2005 a oggi. L’incidenza della povertà assoluta si mantiene sostanzialmente stabile sui livelli stimati negli ultimi tre anni per le famiglie, con variazioni annuali statisticamente non significative (6,1% delle famiglie residenti nel 2015, 5,7% nel 2014, 6,3% nel 2013). Cresce invece se misurata in termini di persone (7,6% della popolazione residente nel 2015, 6,8% nel 2014 e 7,3% nel 2013). Anche la povertà relativa risulta stabile nel 2015 in termini di famiglie (2 milioni 678 mila, pari al 10,4% delle famiglie residenti dal 10,3% del 2014) mentre aumenta in termini di persone (8 milioni 307 mila, pari al 13,7% delle persone residenti dal 12,9% del 2014).

Definite le varie nozioni di povertà vediamo ora quali prescrizioni prevede la Costituzione per fronteggiare le situazioni in cui si manifesta.

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La premessa concettuale dell'intervento della Repubblica sulla povertà è tracciato nei primi articoli11 che conferiscono valore ai principi di pari dignità e uguaglianza e attribuiscono allo

Stato il compito di tradurli in diritti sostanziali rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese e le diseguaglianze di fatto, realizzando un minimo di omogeneità sociale necessario per un corretto funzionamento della democrazia.

Perciò la Costituzione passa da un piano ideale ad uno concreto e sostanziale secondo il quale è importante tener conto delle reali condizioni di vita delle persone considerando le disparità di condizioni economiche e sociali.

L'articolo 53 comma 2 tiene conto della diversità di reddito sancendo un dovere di contribuire alla spesa pubblica in misura della propria capacità contributiva e chi compie una evasione fiscale viene meno ad un dovere inderogabile 12.

Infatti lo Stato, per garantire ad ognuno un'assistenza dignitosa, deve organizzare dei servizi pubblici che devono essere finanziati dai cittadini attraverso l'adempimento dei doveri tributari.

I servizi finanziati con la contribuzione dei più abbienti consentono di realizzare l'uguaglianza sostanziale attraverso misure che: rendano effettivo il diritto al lavoro art. 4 comma 1, assicurino ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione art. 24 comma 3, agevolino con misure economiche e altre provvidenze le famiglie, specie quelle numerose art. 31 comma 2, proteggano la maternità, l'infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo art 31, comma 2, garantiscano cure agli indigenti art. 32 comma 1, assicurino ai capaci ed ai meritevoli anche se privi di mezzi, il diritto a raggiungere i gradi

11Cfr S.Fois, Principi fondamentali diritti e doveri dei cittadini nella Costituzione, a cura di Aljs Vignudelli, Maggioli editore-Rimini-1991,p. 17.

12Cfr. M. Ruotolo, La Costituzione ed i suoi principi: sempre rispettati? Eguaglianza e pari dignità sociale, Appunti per una lezione. Padova, Centro culturale Altinate/San Gaetano, Auditorium, 15 febbraio 2013- p. 4

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più alti degli studi art.34 comma 3, garantiscano il diritto del lavoratore ad una retribuzione non solo proporzionata ma in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza dignitosa art. 36, comma 1, garantiscano al cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere il diritto al mantenimento e all'assistenza art. 38, comma1.

Perciò in capo allo Stato sussiste il dovere di garantire prestazioni che sono finanziate attraverso i tributi e costituiscono lo strumento per garantire il soddisfacimento del diritto di ciascuno ad una esistenza dignitosa.

La tutela di questo diritto è fondamentale e può considerarsi propedeutico rispetto agli altri che hanno comunque grande dignità come si evince anche dalla scelta del legislatore di attribuire, con l'art. 117, co.2, lett. m, Cost., allo Stato la competenza legislativa in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Perciò il legislatore individua un diritto percepito come tale da tutti, e non un mero beneficio configurabile come una concessione dello Stato; implicitamente questo implica anche la garanzia in capo ad ogni cittadino di un minimo vitale che gli consenta di esercitare i propri diritti, poter partecipare alla vita politica, economica e sociale del Paese13.

L'esistenza e la preminenza di questo diritto ad un’assistenza dignitosa si possono evincere anche da alcune pronunce della giurisprudenza costituzionale.

In particolare è significativa la sentenza n. 10/2010 che è stata emessa in seguito ad una questione sollevata da alcune regioni che avevano eccepito una invasione della competenza legislativa regionale da parte de legislatore nazionale a causa dell'articolo art. 81, co. 32, d.lgs. n. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008.

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Questa disposizione normativa istituiva un fondo speciale destinato al soddisfacimento di bisogni di natura alimentare (successivamente anche energetici e sanitari) dei cittadini meno abbienti e prevedeva la concessione della c.d. Social card in favore dei residenti di cittadinanza italiana che si trovavano in condizioni di maggior disagio economico.

Sembra opportuno riportare un passo illuminante della sentenza citata nella quale la Corte Costituzionale ha osservato che “una normativa posta a protezione delle situazioni di estrema

debolezza della persona umana, qual è quella oggetto delle disposizioni impugnate, benché incida sulla materia dei servizi sociali e di assistenza di competenza residuale regionale, deve essere ricostruita anche alla luce dei principi fondamentali degli artt. 2 e 3, secondo comma, Cost., dell’art. 38 Cost. e dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Il complesso di queste norme costituzionali permette, anzitutto, di ricondurre tra i «diritti sociali» di cui deve farsi carico il legislatore nazionale il diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno – in particolare, alimentare – e di affermare il dovere dello Stato di stabilirne le caratteristiche qualitative e quantitative, nel caso in cui la mancanza di una tale previsione possa pregiudicarlo. Inoltre, consente di ritenere che la finalità di garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale legittima un intervento dello Stato che comprende anche la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli”.

Perciò l'intervento del legislatore statale viene considerato legittimo perché consente di tutelare persone in situazioni di estremo bisogno che, in quanto tali, sono titolari di un diritto fondamentale che deve essere garantito in modo appropriato, tempestivo e uniforme su tutto il territorio nazionale. "Ebbene, dando concretezza al “diritto di togliersi la fame”, la Corte ritiene che dette norme di legge statale non siano invasive della competenza legislativa

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regionale in quanto destinate a definire il livello essenziale delle prestazioni inerenti appunto al diritto sociale a ricevere aiuto in situazioni di estremo bisogno"14.

Perciò dal combinato disposto degli artt. 2 e 3, co. 2, Cost., dell'art. 38 Cost e dell'art 117, co. 2, lett. m, Cost. e della sentenza citata sembra emergere con chiarezza che esiste un diritto ad ottenere le prestazioni indispensabili per alleviare le situazioni di estremo bisogno e che lo Stato si deve rifare ai principi enunciati in queste disposizioni normative per garantire tale diritto e determinare le caratteristiche qualitative e quantitative degli interventi necessari al suo soddisfacimento.

Questi principi sono rafforzati dalla Carta europea dei diritti fondamentali il cui articolo 34, comma 3 prevede espressamente il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa finalizzate a garantire un'esistenza dignitosa alle persone che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali.

Questo è ancora più rilevante se si considera che i trattati dell'Unione europea spesso non hanno tra i loro obiettivi il perseguimento dell'uguaglianza in senso sostanziale, eppure la risoluzione del parlamento europeo del 20 ottobre 2010 “auspica“ l'introduzione di sistemi di reddito minimo in tutti gli Stati membri dell'Unione europea, quale modo più efficace per combattere la povertà, per garantire un adeguato standard di vita e per favorire l'integrazione sociale”15.

Si può ritenere che questa tendenza dell'Unione Europea possa essere ricondotta alle teorie liberali secondo le quali, poiché la povertà limita la libertà, il suo contenimento o la sua eliminazione sono un compito dello Stato16.

14Cfr. S. Scagliarini, Diritti sociali nuovi e diritti sociali in fieri nella giurisprudenza costituzionale, Gruppo di Pisa, p.30, reperibile all'indirizzo www.gruppopisa.it, ultimo accesso giugno 2016

15Reperibile all'indirizzo www.europarl.europa.eu 16Cfr M. Ruoltolo, op. cit. p. 6

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Abbiamo visto sopra come le varie situazioni di povertà siano diverse tra di loro e causate e costituite da diversi fattori perciò per superarle non sono sufficienti strumenti di carattere esclusivamente economico-finanziario.

Infatti è fondamentale che i contributi economici siano affiancati da interventi che favoriscano l'inclusione sociale perché chi versa in situazioni di povertà spesso vive anche forme di emarginazione di varia natura.

Le misure di integrazione dei redditi dovrebbero avere lo scopo di assicurare protezione sociale alle famiglie in condizione di bisogno ma accanto ad esse i servizi sociali dovrebbero garantire interventi finalizzati allo sviluppo delle capacità e la riorganizzazione delle risorse delle varie persone.

A tal fine sono state avanzate diverse proposte di intervento, le più significative sono due: il sussidio di disoccupazione, finalizzato a reinserire i beneficiari nel mercato del lavoro o l'erogazione di un reddito di partecipazione o di un reddito minimo garantito, avente o meno come contropartita lo svolgimento di un'attività socialmente utile, il cui finanziamento fosse garantito anche mediante il coinvolgimento del c.d. Terzo settore.

Una delle questioni giuridiche di non facile soluzione è il quesito sulla legittimità di chiedere delle controprestazioni consistenti nello svolgimento di attività socialmente utili a fronte di un contributo economico.

Secondo alcuni c'è il rischio che l'incondizionalità dell'erogazione reddituale riduca il lavoro a una libera scelta del soggetto, “smarrendo così la dimensione qualificante di dovere che quello ha nella nostra costituzione”17.

Si evidenzia inoltre che, nel caso in cui in condizioni di crisi economica dello Stato, il reddito minimo garantito fosse inferiore alla soglia minima necessaria al mantenimento, si trasgredirebbe il principio dell'uguaglianza sostanziale perché non sarebbero soddisfatti

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proprio quei cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere che l'art. 38 cost. si prefigge di tutelare.

Ma se il reddito incondizionato garantito si rivelasse anche lo strumento più idoneo a contenere quella insicurezza esistenziale che porta la persona ad emarginarsi c'è da chiedersi se non c'è il rischio che incentivi la scarsa voglia di lavorare di alcuni.

Perciò in genere si ritengono più efficaci altri strumenti fondati su una correlazione tra reddito e lavoro ma all'interno dei quali il reddito garantito è essenzialmente una misura finalizzata al reinserimento nel mondo del lavoro.

Viene chiesto alla persona che percepisce tale reddito di impegnarsi nello svolgimento di un'attività di cura della comunità, svolta liberamente, valutabile e finanziabile su progetto, “al fine di saldare meglio il rapporto fra diritti e doveri attraverso una valorizzazione del principio di solidarietà sociale” 18.

Questa modalità di intervento diventa pertanto una concreta forma di lotta all'esclusione sociale, e viene addirittura considerata da alcuni studiosi l'unica in sintonia con i principi sanciti dalla Costituzione.

Infatti rispetterebbe il principio della doverosità del lavoro, si concretizzerebbe in una iniziativa per il bene comune e perseguirebbe il principio di sussidiarietà orizzontale espressamente sancito nell'art. 118, ultimo comma, Cost.

Si conclude qui questo inquadramento costituzionale del tema relativo al diritto al minimo vitale e alla sua natura e si riprenderà in seguito l'analisi delle varie misure di contrasto alla povertà adottate dal Governo fino ad arrivare al Sia e alle successive misure introdotte dal Governo, che costituiscono l'argomento principale di questo lavoro.

18Cfr. A. Iannuzzi, estratto da Diritto e Società 1/2014, La garanzia dei diritti sociali fra ipotesi di nuovi doveri

e richieste di assunzione di maggiori responsabilità individuali,-Riflessioni sul Welfare generativo e sulla

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1.2 - Dalla legge Crispi alla L. 328/2000

In Italia il concetto di assistenza è profondamente cambiato nel tempo, solo dopo l'unificazione iniziò a contemplare la reale consapevolezza e volontà di aiutare coloro che effettivamente versavano in una condizione di disagio/ bisogno e avevano necessità di essere aiutati.

Prima consisteva essenzialmente in un atto di beneficenza, motivato da principi etici e religiosi e guidata dalla pratica religiosa dell'indulgenza proposta dalla Chiesa che prometteva la redenzione dell'anima a coloro che donavano in favore dei poveri. Queste donazioni e questi lasciti ereditari rendevano cospicuo il patrimonio dell'istituzione religiosa che poteva svolgere funzioni di assistenza e beneficenza in assoluta indipendenza dallo Stato che non possedeva analoghe risorse.

Tale primato della Chiesa iniziò a vacillare solo dopo l'unificazione d'Italia avvenuta nel 1861 (formalmente sancita con la legge 17 marzo 1861 n.4761 con cui Vittorio Emanuele II assunse per se e per i suoi successori il titolo di re d'Italia).

Infatti iniziò ad affermarsi lo Stato liberale che aveva come presupposto teorico le dottrine razionaliste che si conciliavano meglio con il processo di industrializzazione in atto in tutto il paese e contestavano i valori trascendentali secondo i quali la carità cristiana avrebbe aperto il regno dei cieli.

In questo periodo gli equilibri sociali si modificarono radicalmente, per effetto dei processi dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione si assistette ad una disgregazione della famiglia patriarcale che per secoli aveva costituito l'unica forma di sicurezza sociale.

Questo creò un disagio sociale ed economico profondo e lo Stato italiano si trovò sia ad affrontare il problema dell'assistenza ai bisognosi afflitti dalla notevole carenza di risorse

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materiali, che ad arginare la Chiesa per evitare che mantenesse il proprio primato in ambito assistenziale.

Lo Stato unitario poté realizzare tali obiettivi grazie ad un patrimonio di istituzioni private assistenziali che ereditò alla sua nascita alla fine del XIX secolo senza pari in Europa per numero e per ricchezza 19.

Nell'ambito dell'assistenza erano attive numerose istituzioni di beneficenza private, principalmente cattoliche, denominate Opere Pie: nel 1880 erano 11.495, di cui quasi la metà controllate da congregazioni religiose; nel 1900 erano addirittura di 23.272 .

Lo stato Italiano disciplinò per la prima volta il settore dell'assistenza nel 1862 con la legge n. 753/1862, con cui istituì in ogni Comune una “congregazione di carità”.

Tali congregazioni costituirono i primi organi di assistenza pubblica generica nei confronti dei bisognosi e venne loro attribuito il compito di amministrare le elargizioni di beni di privati destinate ai poveri.

Accanto a questi organismi pubblici, istituiti dallo stato, continuarono a svolgere le proprie attività assistenziali le società di mutuo soccorso, alcune associazioni e organizzazioni private, e la rete assistenziale della Chiesa20.

Un concetto più moderno ed organico di assistenza pubblica iniziò ad affermarsi grazie alla proposta di legge del ministro Crispi che venne approvata nel 1890 (legge n° 6972 del 17 luglio 1890 “ Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”).

La riforma prevista nella legge Crispi aveva come presupposto un concetto di assistenza come funzione autonoma pubblica con l'obiettivo di prevenire o eliminare situazioni di svantaggio o condizioni problematiche, come la povertà, che non trovavano soluzioni spontanee.

19Cfr .M. Ferarra, Le Politiche Sociali, Bologna, il Mulino, 2006 pp. 252-253

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Con questa legge si iniziò a mettere ordine nel complesso ed intricato sistema delle Opere Pie, assoggettandole alla disciplina pubblica, regolandone la costituzione, il funzionamento e l'estinzione e denominandole dapprima Istituti pubblici di beneficenza ed in seguito IPAB. La legge prevedeva un controllo pubblico sulle stesse e la loro parziale laicizzazione attuati attraverso l'obbligo di investire i patrimoni in titoli di stato e immobili, la nomina pubblica dei consigli di amministrazione e l'introduzione di controlli statali sui loro bilanci.

Perciò le forme di assistenza ai poveri e agli indigenti attuate dalla Chiesa e dai privati continuarono ad essere svolte ma sotto il controllo dello Stato diventando una forma di assistenza e beneficenza pubblica anche in ottemperanza a quanto stabilito nell'articolo 1 che impose loro la natura giuridica “pubblica “ 21.

Questa legge fu innovativa anche perché conferì formalmente dignità alle persone in situazioni di bisogno economico riconoscendo loro il diritto di essere aiutate dallo Stato a prescindere dal culto praticato e dalle opinioni politiche, affrancandole dalla dipendenza dalla Chiesa.

Tuttavia la legge Crispi ha alcuni limiti, il più rilevante dei quali consiste nella natura dell’intervento dello Stato che non investe le proprie risorse per favorire l’emancipazione di chi è in una condizione di indigenza ma per salvaguardare l’ordine pubblico e così spesso finisce per determinare una emarginazione sociale e fisica.

Sostanzialmente non viene superata una visione dell’assistenza improntata sul paternalismo e sul controllo sociale degli assistiti.

Inoltre pur assoggettando le opere pie alla gestione pubblica e riconoscendo nelle finalità delle istituzioni di beneficenza dei fini pubblici ne mantiene inalterata la natura privatistica.

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Per questi suoi limiti la legge Crispi ebbe un'influenza molto limitata sulla configurazione del sistema anche perché non si occupava né della programmazione dei servizi da erogare ai soggetti in difficoltà, né della riforma della rete degli enti gestori 22.

La legge Crispi, fu integrata dalla legge n. 309 del 18 luglio 1904 “Istituzione delle Commissioni provinciali di assistenza e beneficenza pubblica” meglio nota come legge Giolitti dal ministro proponente.

La legge Giolitti istituì delle Commissioni Provinciali con il compito di effettuare controlli pubblici sull'operato degli Istituti di Pubblica Assistenza e Beneficenza e un Consiglio superiore con la finalità istituzionale di monitorare i problemi sociali sul territorio nazionale. Questi organismi consentivano allo Stato di acquisire in modo ancora più forte la titolarità delle funzioni in materia di assistenza rendendolo più presente sul territorio e di conseguenza in grado di esprimere giudizi tecnici in materia assistenziale.

Attraverso questa legge lo Stato riconosce e valorizza ulteriormente l'assistenza privata e si assume il compito di controllarla, coordinarla ed integrarla con proprie forme di assistenza. La beneficenza viene considerata come fenomeno sociale e si sancisce il diritto dell’indigente ad essere assistito ed il dovere della società di prendersi cura dei meno abbienti.

Anche rispetto all’assistenza garantita dalla legge si riconosce come la stessa sia svolta soprattutto da istituzioni private e pubbliche che la esercitano in modo autonomo mentre allo Stato rimangono competenze sussidiarie soprattutto riconducibili ad interventi di ricovero di diseredati o inabili e, dal 1904, con l'istituzione dei manicomi, anche dei malati di mente. Prima dell'avvento del fascismo la normativa vigente delinea un sistema di beneficenza svolto da diversi attori come segue: in caso di ricovero, in prima istanza intervengono le istituzioni di beneficenza in base alle loro risorse finanziarie, in caso di loro indisponibilità economica intervengono le congregazioni di carità istituite in ogni Comune, solo se entrambe non 22M. Ferrara, Le Politiche Sociali, Bologna, il Mulino, 2006 pp. 243/245.

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riescono a far fronte alle necessità del cittadino subentra il Comune competente per domicilio di soccorso cioè quello nel quale il cittadino bisognoso di assistenza, dimora da almeno cinque anni ( nel 1954 con legge n 251 saranno ridotti a 2).

Lo Stato interviene direttamente solo nel caso in cui neppure il Comune sia in possesso delle risorse economiche per sostenere le spese necessarie all’indigente.

La legge Crispi, con le integrazioni apportate dalla legge Giolitti, costituì uno dei cardini legislativi dell'apparato assistenziale italiano almeno sino agli anni 70.

Dopo la prima guerra mondiale la popolazione espresse con forza l'esigenza di nuove e più incisive riforme sociali.

Si svilupparono forti tensioni sociali che determinarono una notevole conflittualità tra la borghesia imprenditoriale, il settore agrario ed il mondo del lavoro; e questo spianò la strada all'avvento del fascismo.

Il Partito fascista aveva tra i propri capisaldi un potere amministrativo fortemente centralizzato pertanto abrogò la legge Giolitti, che contrastava con tale principio di politica interna.

Nel periodo in cui dominò il regime fascista la politica assistenziale attraversò due diverse fasi.

All'inizio le riforme previdenziali vennero limitate, in seguito si sviluppò una politica assistenziale più che previdenziale in alcuni ambiti fondamentali della vita dei cittadini 23.

Il regime fascista accentrò la gestione delle politiche assistenziali esercitando un controllo capillare attraverso la costituzione a livello nazionale di nuovi enti assistenziali e previdenziali che si occupavano di categorie specifiche.

Ebbe origine da questo quella categorizzazione degli assistiti che per lungo tempo, anche dopo la caduta del fascismo, caratterizzò l'assistenza nel nostro paese costituendo un grosso 23Cfr. a cura di A. Mari, La programmazione sociale: valori, metodi e contenuti, saggio di Milena Cortigiani, Maggioli editore, 2012 pag. 29

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limite perché ostacolò una visione olistica e sistemica ed impedì una considerazione dei problemi organica e ampia.

Questa limitatezza teorica e pratica si tradusse in una una programmazione inefficace delle risorse 24.

Tra le istituzioni nate sotto il regime fascista ebbe un particolare rilievo l'O.M.N.I (Opera nazionale per la protezione della maternità e dell'infanzia) a cui fu attribuita la finalità di aiutare gestanti, madri bisognose o abbandonate, famiglie non in grado di assistere i propri figli, minorenni portatori di handicap fisici o psichici spesso in totale stato di abbandono. Venne istituita con la legge 10 dicembre 1925, n. 2277 (regol. 15 aprile 1926, n. 718) e modificata dal r. decr.-legge 21 ottobre 1926, n. 1904 (legge 5 gennaio 1928, n. 239) e dalla legge 13 aprile 1933 n. 298 (resterà in funzione sino al 1975). Nonostante le competenze di questo ente assistenziale fossero numerose e coprissero un'ampia fascia di bisogni non fu in grado di condurre in modo organico ed unitario i vari interventi nel settore della tutela dell'infanzia 25.

Nello stesso periodo furono istituiti anche altri organismi tra i quali l'Opera nazionale degli orfani di guerra (ONOG, 1929) e l'Ente per l'assistenza degli orfani di lavoratori morti per infortuni sul lavoro nel 1941 e che nel 1948 sarà trasformato in Ente nazionale per l'assistenza degli orfani dei lavoratori italiani (ENAOLI) e venne affidato alla Provincia con R.D. Nel 1927 il compito di assistere i figli illegittimi.

Nell'ambito della legislazione minorile nel 1934 venne inoltre creato il Tribunale per i Minorenni (legge del 20 luglio del 1934 n. 1404) con competenza penale, civile e amministrativa.

24Cfr. F. Villa, Dimensioni del servizio sociale. Principi teorici generali e fondamenti storico-sociologici, c.e vita e pensiero prima ristampa terza edizione, 2002 pag 124

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Da ciò che precede è evidente come il regime fascista rivolgesse una particolare attenzione alla tutela dei minori ma si dedicò anche ad altre categorie attraverso la creazione di Enti di Assistenza quali l'Unione italiana ciechi (1923) e l'Ente nazionale per la protezione e assistenza ai sordomuti (1942).

L'erogazione dell'assistenza sanitaria e della previdenza sociale venne affidata a tre enti diversi: l'istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (I.N.A.I.L 1933), l'istituto Nazionale per l'assicurazione contro le malattie ( INAM 1943, soppresso con l'entrata in vigore della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) e l'Istituto nazionale per la previdenza sociale I.N.P.S. 1933 esistente ancora oggi.

A livello locale vennero istituiti gli Enti Comunali di Assistenza (E.C.A) nel 1937 che sostituirono le Congregazioni di Carità e avevano sia un obiettivo prettamente assistenziale, che consisteva nel soccorrere ed assistere i poveri del Comune, gli orfani, i minori abbandonati, i ciechi ed i sordomuti poveri, che una finalità di ordine pubblico perché avevano l'obbligo di redigere un “elenco dei poveri” in ogni comune e questo consentiva al regime fascista di ottenere una schedatura degli strati di popolazione meno abbienti.

L'obiettivo principale in tema di assistenza perseguito dal regime fascista non fu il benessere dei cittadini nella loro unicità ma il controllo sociale e questo si tradusse nell'assenza di una visione di insieme dei problemi, nell'incapacità di cogliere i veri bisogni e di rimuoverne le cause e nella mancanza di una programmazione efficace delle risorse.

L'ideologia fascista delineò pertanto una forma di assistenza specifica e settoriale, riservata cioè a determinate categorie, attuata dagli Enti nazionali.

Questo sistema si incardinò bene in quello basato sull'assistenza generica normata nel 1890 e inaugurò una tendenza a riunire le persone in categorie legate a problemi assistenziali di varia natura che si perpetuò sino a pochi anni fa.

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Questa funzione dell'assistenza di controllo della popolazione permea tutta la legislazione sociale fascista 26.

Fra gli interventi normati troviamo varie forme di tutela: durante la malattia tramite l'obbligo assicurativo contro la tubercolosi, della maternità attraverso la creazione dei consultori materni e la costituzione dell'opera nazionale maternità ed infanzia, della famiglia con l'istituzione degli assegni familiari, nel campo assistenziale la fondazione di enti autarchici comunali di assistenza, in sostituzione degli enti caritativi.

La politica sociale si espande e riguarda il controllo di ambiti sempre più numerosi della vita dei cittadini e una crescente fondazione, organizzazione e gestione degli organismi deputati a questo scopo; organismi quasi sempre di carattere nazionale, quindi accentrati e con il ruolo di strumenti di regime.

Il ruolo dell'assistente sociale è coerente con questo quadro concettuale infatti è un impiegato pubblico con compiti di controllo e di contenimento delle aree di potenziale devianza sociale il suo ruolo professionale viene incorporato negli apparati dello “Stato Nazionale previdenziale”27.

Tra i suoi compiti principali c'è quello di erogare benefici assistenziali a individui, gruppi e strati sociali in difficoltà e come tale ha una prevalente funzione di ordine pubblico.

Il servizio sociale si esprime in modo particolare nel contesto delle fabbriche in cui ha la connotazione di servizio di patronato ed assistenza, a carattere decisamente paternalistico ed è reso da assistenti sociali formati alla scuola di formazione di San Gregorio al Celio, a Roma.

26N. Stradi, in Nuovo Dizionario di Servzio Sociale, voce Assistenza (storia della), pag. 74, a cura di Annamaria Campanini, 2013, Carocci, Roma

27Cfr G. Rossi, P. Donati (a cura di) I.Colozzi ,L'evoluzione del Sistema italiano di Welfare State, in Welfare State. Problemi ed alternative, Milano, 1982, pp 301-322.

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Alla fine della seconda guerra mondiale si crea un forte bisogno di assistenza a causa del proliferare di profughi, deportati, orfani e invalidi le cui situazioni sono spesso gravi e richiedono interventi urgenti.

Nel giugno del 1945 viene istituito il ministero dell'Assistenza post-bellica per far fronte all'esigenza di promuovere e coordinare interventi adeguati.

Tale Ministero dura in carica soltanto due anni in seguito ai quali le sue competenze verranno attribuite alla Direzione generale dell'assistenza pubblica, istituita in seno al Ministero dell'interno, ed in seguito ad altri ministeri.

Il ministero dell'Assistenza ebbe una grande importanza perché fu la prima forma di organizzazione a livello ministeriale che gestì in modo organico ed unificato le varie forme di assistenza sociale.

Fu affiancato da una delegazione del Governo italiano che assunse in seguito la struttura di Amministrazione per gli aiuti internazionali (AAI) e operò in stretta sinergia con l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Assistenza e la ripresa delle popolazioni colpite dalla guerra (UNRRA ).

Nel 1946 si svolse a Tremezzo un importante convegno internazionale di studio sull'assistenza sociale organizzato dal ministero dell'Assistenza post-bellica in collaborazione con l'UNRRA. Lo scopo del convegno fu individuare gli obiettivi e le linee guida operative che avrebbero dovuto orientare l'assistenza pubblica e le conseguenti riforme istituzionali, amministrative e legislative necessarie per realizzarli .

Nel corso del convegno i vari attori sociali si confrontarono sui problemi dell'assistenza sociale e dell'assistenza all'infanzia, sulla legislazione del lavoro e sulle modalità per incentivare la ricostruzione del Paese.

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Si diede un grande risalto al ruolo e alla funzione dell'Assistente sociale considerato come il professionista che doveva essere il promotore della grande opera di risanamento sociale che si intendeva realizzare.

Tra i due principali obiettivi individuati in seno al convegno troviamo l'avvio di una riforma del settore assistenziale organica e organizzata, anche attraverso la costituzione di un ministero specifico; e lo sviluppo della professione di Assistente sociale mediante la creazione di scuole in ambito universitario ed il riconoscimento del titolo di diploma.

Dopo la caduta del regime fascista l'assistenza sociale trovò un nuovo importante punto di riferimento nei principi, nei valori e nei diritti sanciti nella Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948.

La Costituente era formata dagli esponenti di varie correnti ideologiche che diedero vita ad un confronto appassionato e costruttivo che generò anche la volontà di superare la concezione paternalistica dell'assistenza che fino a quel momento era stata predominante.

La Carta costituzionale operò una decisa inversione di tendenza e sancì la nascita di un moderno sistema di sicurezza sociale; da questa cornice teorica scaturì un graduale processo di rinnovamento ideale e organizzativo.

Sul piano ideale viene riconosciuta espressamente l'assistenza sociale come diritto dei cittadini (art. 38), sul piano organizzativo la Costituzione modifica l'assetto degli enti locali e attua un sostanziale decentramento attribuendo alle Regioni la potestà legislativa in materia di “beneficenza pubblica”, oltre che di “assistenza sanitaria ospedaliera”, “assistenza scolastica” ecc.. (art.117 cost.).

Inoltre attribuisce alle regioni anche la titolarità nella stessa materia nelle funzioni amministrative.

Attua poi un ulteriore decentramento prevedendo che tali funzioni amministrative debbano essere esercitate in via ordinaria tramite delega agli enti locali (Province e Comuni). Sono

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escluse alcune funzioni di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite direttamente ai Comuni e alle Province con legge statale (art.118).

Si attua una vera e propria rivoluzione perché si passa da una beneficenza che consiste nella gestione di iniziative autonome di singoli benefattori all'affermare il principio che tutti i cittadini sono titolari di un diritto pubblico soggettivo alla liberazione dal bisogno.

Questo nuovo scenario implica anche una differente coscienza e comprensione dei rapporti tra società ed istituzioni da cui discende l'interesse della collettività di predisporre interventi adeguati allo scopo, mediante “una diversa articolazione dei rapporti fra centro e periferia, tra stato ed autonomie locali”28.

Nel secondo dopoguerra il diritto sociale non è più dipendente dalle scelte del legislatore ordinario e dalla posizione lavorativa del singolo ma diventa un diritto fondamentale riconosciuto formalmente ai cittadini dallo Stato Sociale.

Lo stesso legislatore è tenuto a rispettare tale principio che costituisce una cornice entro la quale si deve muovere senza limitarne o indirizzarne la discrezionalità e lo costringe a disciplinare i vari interventi in campo sociale.

I moderni sistemi democratici perseguono il benessere collettivo legittimati dai diritti sociali che costituiscono espressione del principio personalistico e di quello solidaristico29.

Il diritto all'assistenza sociale viene sancito espressamente dall'art. 38, primo comma, Cost. Il cui testo recita: “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale”.

28Atti della Commissione parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, vol. I, Camera dei Deputati, Roma 1953, cap. 1

29F.A.Cancilla, Servizi Del Welfare E Diritti Sociali Nella Prospettiva Dell'integrazione Europea, Giuffre' Editore,2009, P. 22

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Dal testo di questo articolo si evince come la Costituzione consideri il diritto all'assistenza sociale strettamente collegato al “diritto alla vita” e voglia garantire a chiunque si trovi in condizione di bisogno i mezzi primari di sostentamento 30.

Perfettamente coerente con questi commi dell'articolo 38 è anche il terzo che garantisce ai

disabili un trattamento educativo e professionale adeguato ai propri bisogni ed alle proprie capacità sancendo il loro diritto ad ottenere l'educazione e all'avviamento professionale. Il legislatore conferisce una grande importanza al diritto all'assistenza sociale che è volta ad assicurare una vita dignitosa ed a tutelare situazioni di particolare bisogno dei cittadini in quanto tali, rispetto ai quali un'attività lavorativa è preclusa o comunque non esercitabile nelle forme ordinarie e di conseguenza concorre a rispettare i diritti inviolabili garantiti dall'art. 2 Cost. ed il principio della pari dignità sociale e dell'uguaglianza sostanziale, sanciti nell'art. 3 Cost.

Diverso è il diritto alla previdenza sociale sancito nel secondo comma dello stesso art. 38 Cost., che riguarda i soli lavoratori “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” pertanto presupponendo l'esercizio di una attività lavorativa attuale o precedente, ed è stato attuato mediante la creazione di un sistema di tipo assicurativo.

Il compito di tutelare i soggetti titolari di tali diritti viene attribuito ad organi ed istituti preposti o integrati dallo Stato inteso nel senso più ampio di Repubblica comprensivo delle autonomie regionali e locali 31.

Come illustrato prima il concetto che l'assistenza sia una funzione pubblica è precedente alla Costituzione; la legge Crispi nel 1890 aveva reso pubbliche le numerose opere pie presenti sul

30Cfr. E. Ferioli, Diritti e servizi sociali nel passaggio dal welfare statale al welfare municipale,Torino, G.Giappichelli editore, 2003 p. 18

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territorio alla fine del XIX secolo, mentre il regime fascista aveva affiancato all'attività assistenziale svolta da tali Enti l'assistenza fornita da altri enti pubblici nazionali

L'aspetto fortemente innovativo dell'art .38 cost. è l'esplicita previsione di un diritto all'assistenza sociale che si inserisce a pieno titolo nel catalogo dei diritti sociali costituzionalmente garantiti.

Muta il modello di Stato Sociale e si passa da un sistema basato sulla carità ad uno fondato sulla sicurezza sociale propria del moderno welfare state la cui essenza, consiste nel fatto che il governo assicura standard minimi di reddito, alimentazione, salute, alloggio e istruzione ad ogni cittadino come diritto politico e non come carità ed ha il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Per comprendere bene l'evoluzione del concetto di assistenza sociale è importante richiamare il dibattito nato sul significato e contenuti delle nozioni di " assistenza sociale" e di "beneficenza pubblica" che sono stati usati erroneamente nella legislazione di settore, precedente e successiva all'entrata in vigore della Costituzione come due parole che intendono e connotano lo stesso oggetto.

Esiste invece una profonda differenza concettuale ed ideologica, in quanto il concetto di beneficenza si rifà alla la concezione antica dell'attività assistenziale caratterizzata da prestazioni concesse in via caritativa, volontaria e discrezionale, mentre la nozione di assistenza implica una concezione più moderna, volta alla realizzazione più sistematica del benessere della società.

Questo è dimostrato anche dal fatto che nella Costituzione si utilizza il termine assistenza sociale nell'art. 38 primo comma, mentre si usa l'espressione tradizionale di "beneficenza pubblica" nel testo originario dell'art. 117 Cost., là dove si disciplina il riparto delle competenze legislative ed amministrative tra Stato e Regioni.

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La Corte Costituzionale nel tempo si espresse in diversi modi ma nella sua interpretazione più moderna e significativa di tale scelta diversa dei termini, sostiene che il costituente avesse voluto riservare alla competenza statale l'intera attività legislativa di attuazione del diritto sociale all'assistenza e lasciare alla potestà legislativa ed amministrativa regionale quegli interventi discrezionali , occasionali e limitati alle risorse finanziarie di volta in volta disponibili, al di fuori del riconoscimento di un diritto e di una correlata pretesa giuridica da parte del titolare 32.

Perciò durante la prima fase del processo di decentramento delle funzioni socio assistenziali a favore degli enti regionali, fino all'entrata in vigore del d.p.r. n.616/77, le regioni vennero escluse dall'attuazione e tutela del diritto all'assistenza sociale e la relativa competenza legislativa venne riservata allo Stato.

Negli anni 70 la legislazione assistenziale si arricchì notevolmente in concomitanza con l'avvio delle Regioni a statuto ordinario, istituite con legge 5 maggio 1970, n. 281.

Il d.p.r. N° 9/1972 (riguardante" il trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle

funzioni amministrative statali in materia di beneficenza e del relativo personale) e il d.p.r n.

616/77 ed il decreto legislativo n. 112/98 attuarono il trasferimento delle competenze amministrative statali in materia di assistenza e beneficenza pubblica alle regioni ordinarie. L'art. 1 del citato d.p.r. N° 9/72 prevedeva : " tutte le funzioni amministrative esercitate dagli

organi centrali e periferici dello Stato in materia di beneficenza pubblica sono trasferite, per il rispettivo territorio, alle Regioni a statuto ordinario" ma in realtà riservava ancora

moltissime competenze alo Stato in base all'interpretazione condivisa dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 139/1972, che all'attuazione legislativa ed amministrativa dell'art. 38 Cost. dovesse restare nelle attribuzioni statali.

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In effetti il decreto suddetto lasciava sotto la competenza dello stato quella serie di funzioni a cui si è accennato sopra caratterizzata da una grande disorganicità e in capo a altri organi dell'amministrazione centrale e periferica dello Stato, di enti pubblici di carattere nazionale o sovra-regionale e di istituzioni private di assistenza e beneficenza.

Alle Regioni vennero trasferite solo le funzioni inerenti alle Ipab operanti sul territorio regionale ed agli enti comunali di assistenza e vari servizi coordinati precedentemente dal Ministero dell'interno

Le varie regioni attuarono questo decentramento in tre modi diversi: adottando le norme necessarie per l'esercizio provvisorio delle funzioni loro trasferite, o ricorrendo ad una legge generale per disciplinare l'insieme di tutte le attribuzioni trasferite o infine approvando una legge specifica in materia di assistenza.

Il d.p.r. 616/77 – adottato a seguito della legge di delega n 382/1975 (contenente norme sull'Ordinamento regionale e sull'organizzazione della pubblica amministrazione) diede vita ad una importante svolta nel processo di progressivo decentramento delle funzioni assistenziali.

Alcuni sostengono addirittura che tale atto normativo, superò in modo definitivo l'interpretazione fornita dalla Corte costituzionale della nozione di beneficenza pubblica ed effettuò una ripartizione dei compiti tra Stato e Regioni ed Enti locali, che non ha precedenti. Il d.p.r. n. 616/77 dedica alla beneficenza pubblica alcune disposizioni inserite nel titolo III sui “ Servizi Sociali” precisando che le funzioni amministrative attinenti alla stessa riguardano: “tutte le attività che attengono, nel quadro della sicurezza sociale, alla

predisposizione ed erogazione di servizi gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche, sia in denaro che in natura, a favore dei singoli, o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono individuati i destinatari, anche quando si tratti di forme di

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assistenza a categorie determinate, escluse soltanto le funzioni relative alle prestazioni economiche di natura previdenziale”.

Perciò il concetto di beneficenza è molto diverso da quello previsto nell'interpretazione della giurisprudenza costituzionale del 1972, è coerente con la più moderna concezione dei servizi sociali ed evita ogni tipizzazione delle categorie di destinatari (tranne che per le prestazioni di carattere previdenziale che continuano a rientrare nella competenza esclusiva dello Stato). Mentre il d.p.r. Del 1972 sottolineava ancora che la competenza amministrativa generale dello Stato in materia di assistenza fosse riservata allo Stato il d.p.r. 616/77 rovescia tale prospettiva prevedendo che allo Stato fossero riservate solo alcune attribuzioni puntualmente elencate, mentre si trasferivano alle regioni e agli enti locali le principali competenze amministrative relative all'organizzazione e gestione dei servizi sociali.

Entrando nel dettaglio alla competenza statale, oltre alla funzione di indirizzo e coordinamento, si riservavano una serie di funzioni amministrative residue e tassative (interventi di primo soccorso in caso di catastrofe o calamità naturale di particolare gravità, prima assistenza a favore dei profughi, protezione sociale a favore di appartenenti alle Forze armate, ecc.), che, per loro stessa natura non potevano essere delegate agli enti locali.

Lo Stato trasferì così alle regioni un complesso di attribuzioni amministrative tanto ampio da conferire loro un ruolo centrale nella generale disciplina, organizzazione e realizzazione degli interventi pubblici volti ad istituire un primo embrionale sistema di assistenza sociale regionale.

In particolare le regioni ebbero il potere di definire con propri atti normativi gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari, promuovere forme di collaborazione tra gli enti locali, anche obbligatorie; suddividere tra gli enti locali le risorse finanziarie statali relative alle funzioni trasferite e dare vita alle prime forme decentrate di programmazione delle politiche sociali.

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Il d.p.r. 616/77 attribuiva ai comuni tutte e funzioni amministrative riconosciute dalla legge per l'organizzazione ed all'erogazione dei servizi di assistenza e di beneficenza di loro competenza e un insieme ampio ed organico di compiti amministrativi di gestione e di organizzazione dei servizi di assistenza.

Pertanto con il il d.p.r. 616/77 si realizzò un vero e proprio decentramento territoriale delle “istituzioni della solidarietà”33.

Inoltre era previsto che venisse definito con legge regionale direttamente ai comuni il trasferimento del personale, dei beni, delle funzioni delle Ipab regionali ( tranne quelle operanti nella sfera educativa e religiosa) e degli enti comunali di assistenza ( d.p.r. n. 616/77, art. 25, V comma.).

Lo scopo di questo comma era eliminare le Ipab e gli enti comunali di assistenza, considerati espressione un sistema assistenziale vetusto che si intendeva sostituire con la titolarità e gestione nel Comune di tutte le funzioni amministrative ed assistenziali rilevanti a livello locale.

La scarsa importanza degli enti comunali di assistenza fece si che la loro soppressione avvenisse senza particolari problemi anche perché “gravitavano nell'orbita delle Amministrazioni comunali”34.

Fù molto più complessa e contrastata la soppressione delle Ipab perché questi enti avevano un maggiore peso e le mansioni da loro svolte nell'ambito assistenziale erano talvolta rilevanti. Dopo un acceso dibattito la loro soppressione fu dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale che, con una storica sentenza (corte cost., sent. 30.07.1980, n° 173), ravvisò un eccesso di delega nell'art. 25 del d.p.r. n. 616/77.

33F. Giuffrè ,La Solidarietà nell'ordinamento costituzionale, Milano, 2002, pag. 298

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Le Ipab regionali continuarono ad esistere con personalità di diritto privato, quando avevano i requisiti di una istituzione privata, e quelle regionali continuarono ad operare in base a quanto previsto dalla legge Crispi del 1890, fatte salve le competenze regionali di vigilanza e controllo sulle stesse riconosciute dal d.p.r. n. 9/1972.

Da questo si evince con una chiarezza ancora maggiore quanto il d.p.r. n. 616/77 delineasse un sistema di beneficenza pubblica costituito da strutture pubbliche, con competenze attribuite soprattutto a regioni e dagli enti locali (salvo quelle destinate allo Stato).

Le competenze in materia di programmazione, organizzazione ed erogazione delle prestazioni socio-assistenziali erano in mano al settore pubblico e non era contemplato un ruolo di altri enti che erogavano ulteriori prestazioni, come le Ipab regionali, o altri soggetti operanti nel settore quali gli enti ecclesiastici, le fondazioni di diritto privato, le associazioni ed il volontariato.

Nonostante diversi di questi enti privati operassero già in modo significativo nell'ambito socio-assistenziale non vennero nemmeno disciplinate eventuali forme di collaborazione con i soggetti pubblici nell'erogazione dei servizi.

Si superò uno scenario amministrativo frammentato e con una tendenza alla categorizzazione e si delineò un nuovo modello di welfare socio-assistenziale italiano in cui le competenze gestionali erano in capo ai comuni e rilevanti funzioni amministrative di programmazione e coordinamento venivano trasferite dallo Stato alle regioni.

Il d.p.r. 616/77 prevedeva che venisse approvata una legge statale generale di riordino del sistema socio-assistenziale nazionale, simile a quella prevista dalla legge n. 833/78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale.

Tale legge cornice avrebbe dovuto adeguare il sistema socio-assistenziale alle mutate esigenze della società ed individuare i principi e criteri generali che avrebbero garantito una uniformità di trattamento di tutti i cittadini della Repubblica.

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Venne fissato per l'approvazione di tale legge quadro il termine del primo gennaio del 1979 prevedendo che dopo tale data, anche in assenza di questo provvedimento legislativo, le regioni avrebbero avuto la facoltà di disciplinare direttamente i modi e le forme di attribuzione ai comuni dei beni e del personale necessari per l'esercizio delle funzioni amministrative trasferite.

E l'approvazione non si ebbe fino al 2000 perché le forze politiche entrarono fortemente in conflitto su problematiche come quella riferita sopra nel dettaglio relativa alla soppressione delle Ipab.

Perciò nell'ambito delle politiche socio-assistenziali le regioni acquisirono un ruolo sempre più rilevante anche a causa di tale vuoto normativo che non consentì di attuare in modo pieno le modalità con cui la Costituzione articolava la concorrenzialità tra Stato e regioni nella materia e disegnò in modo particolare e anomalo il rapporto tra principio autonomistico e principio di uguaglianza.

Nonostante le varie proposte di legge il Parlamento non riusci ad approvare la legge quadro di riforma dell'assistenza ma emanò alcune leggi di carattere settoriale come quelle sugli asili nido comunali (l. n. 1044/71), sui consultori familiari ( l.n. 405/75), sulle persone handicappate (l. n. 104/92).

Nel 1997 venne approvata la legge n.59 che ha rafforzato il decentramento amministrativo in materia di servizi sociali.

Nel ventennio che va dal 1977 a tale legge le regioni hanno emanato diverse normative di riordino dei servizi socio-assistenziali che, a causa del vuoto legislativo nazionale che comportava la mancanza di principi fondamentali, criteri omogenei di organizzazione e standard delle prestazioni a cui uniformarsi, sono risultate molto meno omogenee di quanto fosse previsto nel disegno costituzionale.

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Il proliferare di norme regionali si è articolato in due fasi, la prima costituita dalle leggi adottate dopo l'entrata in vigore del d.p.r. n. 616/77 la seconda più recente che ha uniformato le norme in materia di servizi socio-assistenziali al nuovo assetto organizzativo delle Unità Sanitarie Locali disciplinate dai decreti legislativi n. 502/1992 e 517/1993 di riforma della sanità.

Le normative regionali di riordino dei servizi socio-assistenziali adottate tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottanta sono molto varie e complesse, per esigenza di spazio mi limiterò ad un inquadramento in riferimento all'impostazione generale delle politiche sociali emergenti e ad altri due specifici aspetti: il quadro organizzativo ed istituzionale delle competenze socio-assistenziali ed il rapporto pubblico/privato nell'erogazione delle prestazioni per cercare di capire se a livello regionale fu riprodotta l'impostazione generale del d.p.r 616/77 basata su un modello pubblicistico di assistenza che attribuiva la maggior parte delle competenze gestionali al Comune.

Sotto il profilo dei principi e degli indirizzi ispiratori delle politiche sociali regionali le leggi regionali di riordino dei servizi sociali approvate negli anni ottanta sono essenzialmente omogenee.

Infatti i vari interventi sociali erano ispirati soprattutto al rispetto della dignità della persona umana, al benessere della popolazione, a garantire al cittadino il libero sviluppo della sua personalità e la sua partecipazione alla vita della comunità.

Perciò la nozione giuridica di assistenza sociale e del relativo diritto non è più limitata al semplice soddisfacimento dei bisogni primari che aveva caratterizzato l'intervento caritativo. Queste normative regionali non si limitano a prevedere interventi in situazioni di bisogno legate all'inabilità al lavoro ed alla povertà ma abbracciano una prospettiva più ampia disegnando un sistema di servizi sociali finalizzato a fornire risposte ad una sfera più ampia di bisogni sociali emergenti nell'intera popolazione.

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Non vengono previsti tanto interventi a carattere settoriale come quelli adottati a livello nazionale (esempio la legge sui consultori familiari) ma la creazione di un sistema complesso ed integrato con pluralità di interventi, finalizzati a realizzare il più generale obiettivo di garantire il benessere ed il libero sviluppo della persona umana che andavano dall'assistenza economica a quella abitativa, dall'inserimento lavorativo all'abolizione delle barriere architettoniche.

La normativa regionale si ispira fortemente all'articolo 3 della costituzione che propone un principio di uguaglianza sostanziale rispettato attraverso il superamento delle differenze di tipo economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Mentre le regioni legiferavano in un'ottica universalistica superando le categorie di bisogno sul piano nazionale, negli anni ottanta, si realizzò una politica di austerità con l'introduzione di vincoli e misure volti a limitare la spesa pubblica.

Questa sostanziale inerzia del legislatore nazionale rispetto alla definizione di principi e standard nell'ambito delle politiche sociali conferì un ruolo preponderante alle regioni che disegnarono il nuovo modello di welfare state

Ci furono alcune eccezioni soprattutto nel sud della penisola e nel Lazio dove diverse regioni non parteciparono a questo processo con la conseguenza che le risposte ai bisogni dei cittadini furono molto diverse nei differenti territori35.

Come abbiamo già accennato prima, tutte le leggi regionali attribuivano in linea di massima alle regioni funzioni di indirizzo, coordinamento e controllo delle attività socio-assistenziali, l'approvazione degli strumenti di programmazione socio-assistenziale regionale, chiamati piani sociali o piani socio-assistenziali regionale, la suddivisione dei finanziamenti regionali destinati ai servizi sociali contenuti in un fondo vincolato, detto fondo sociale o fondo socio-assistenziale regionale e le competenze relative alle Ipab regionali ed infra-regionali.

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