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Timing delle TC cranio in pazienti con trauma cranico lieve complicato da emorragia intracranica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN

MEDICINA INTERNA

Timing delle TC cranio encefalo in pazienti con trauma

cranico lieve complicato da emorragia intracranica

Candidato Relatore

Dr.ssa Francesca Varocchi Prof. Stefano Taddei

Correlatore

Dott. Massimo Micheli

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Indice

Introduzione ... 4

Definizione ... 5

Classificazione del trauma cranico ... 6

Classificazione clinica ... 6

Differenza tra trauma cranico lieve e commozione cerebrale ... 9

Classificazione in base ai reperti neuroradiologici ... 9

Altre classificazioni del trauma cranico ... 11

Epidemiologia del trauma cranico ... 12

Fisiopatologia del trauma cranico... 14

Cenni di anatomia e fisiologia ... 14

Meccanismi fisiopatologici di danno ... 17

Danno cerebrale primario ... 18

Danno cerebrale secondario ... 27

Danno sistemico secondario ... 29

Ipertensione endocranica ed edema cerebrale... 30

Erniazione cerebrale... 33

Riflesso di Cushing ... 34

Fisiopatologia del trauma cranico lieve ... 34

Manifestazioni cliniche del trauma cranico ... 35

Clinica del trauma cranico lieve ... 36

Crisi epilettiche post-traumatiche ... 37

Complicanze a lungo termine ... 38

Sindrome post-commotiva ... 39

Evoluzione del trauma cranico ... 40

Valutazione e gestione del paziente con TBI in fase acuta ... 41

Anamnesi ed esame obiettivo ... 41

Esami di laboratorio ... 43

Diagnostica per immagini ... 45

La Tomografia assiale computerizzata nel mTBI ... 45

Timing di ripetizione delle TC ... 54

Ruolo della risonanza magnetica nucleare nel mTBI ... 57

Terapia ... 58

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Indicazioni al ricovero ... 60

Indicazioni per la dimissione a domicilio ... 61

Scopo dello studio ... 63

Materiali e metodi ... 64

Disegno dello studio ... 64

Criteri di inclusione ed esclusione ... 64

Strumenti di indagine ... 64

Parametri analizzati ... 64

Popolazione di studio ... 65

Dati anagrafici ... 66

Anamnesi del trauma ... 67

Anamnesi clinica ... 67

Anamnesi farmacologica ... 67

Risultati ... 69

Discussione ... 75

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Introduzione

Tra tutti i tipi di trauma, quello riguardante l’encefalo rappresenta, per frequenza ed impiego di risorse, uno dei maggiori problemi sanitari, costituendo la prima causa di morte in Italia per gli individui di età compresa tra i 15 ed i 44 anni1.

A livello europeo si stima un’incidenza del trauma cranico pari a 235 casi per 100.000 abitanti per anno1; in Italia ogni anno 250 soggetti ogni 100.000 abitanti vengono ricoverati per trauma cranico1,2. La mortalità in Italia si assesta intorno a 17 casi per 100.000 abitanti

per anno (del tutto in linea con la media europea di 15 decessi ogni 100.000 abitanti)3,4,5,6.

Nell’ambito dei traumi cranici, quelli definiti come “lievi” (o mTBI, “Mild Traumatic Brain Injury”) rappresentano una condizione estremamente comune che, seppur generalmente benigna e priva di sequele, può in alcuni casi associarsi a complicanze cliniche anche severe, a breve o a lungo termine, e a varie comorbidità7.

La tempestività del soccorso immediato del paziente e la sua corretta gestione sul territorio possono avere importanti ripercussioni sull'esito a breve, medio e lungo termine. In questi casi i rischi di perdita di tempo ed inappropriatezza dell'assistenza devono essere ridotti al minimo, così da impedire lo sviluppo di danni cerebrali permanenti e garantire la preservazione della qualità di vita del paziente.

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Definizione

Relativamente alla terminologia da utilizzare per la definizione di trauma cranico lieve esiste ancora oggi un certo grado di confusione. Nella letteratura anglosassone i termini “minimal”, “mild”, “minor”, vengono riportati con lo stesso significato, ma talora con sfumature lievemente diverse; in italiano, invece, sono utilizzati in maniera equivalente i termini “minore”, “minimo”, “lieve”, “non commotivo” o “di grado 1”. Fatte salve le precedenti precisazioni, che danno ragione anche della apparente profonda diversità tra le più importanti e riconosciute linee guida, per quanto riguarda il panorama nazionale il trauma cranico lieve dell’adulto (mTBI, Mild Traumatic Brain Injury) è definito come “un’alterazione della

funzione cerebrale, o altra evidenza di patologia cerebrale, causata da una forza esterna”8. Si tratta cioè per definizione di un danno acquisito, procurato dall’applicazione di una forza esterna che può determinare un’alterazione dello stato di coscienza e/o delle funzioni cerebrali8.

Per “alterazione della funzione cerebrale” si intende la presenza di almeno uno tra i seguenti segni o sintomi clinici:

- qualsiasi periodo di perdita o riduzione dello stato di coscienza;

- qualsiasi amnesia per eventi immediatamente precedenti (retrograda) o successivi (anterograda) rispetto al trauma;

- deficit neurologici focali (ipostenia, instabilità posturale, disturbi del visus, aprassia, paresi/plegia, ipoestesie, afasia, etc);

- confusione, disorientamento, obnubilamento del sensorio, rallentamento ideo-motorio8.

Tali alterazioni, che non comprendono le lesioni congenite o degenerative, possono essere temporanee o permanenti e possono determinare vari gradi di disabilità sul piano funzionale o psicosociale.

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Classificazione del trauma cranico

L’estrema eterogeneità del trauma cranico rappresenta uno degli ostacoli più significativi alla classificazione di questa entità e, conseguentemente, alla sua gestione diagnostica e terapeutica9.

E’ possibile classificare il trauma cranico sulla base di indicatori di gravità clinica (come la Glasgow Coma Scale, GCS), oppure in base alla presenza di markers di danno cerebrale al neuroimaging, in base alla dinamica del trauma, ai meccanismi del danno o a parametri laboratoristici, oppure stratificando la popolazione per età, comorbidità e così via. Nonostante vari tentativi di elaborare dei modelli prognostici affidabili che includessero tutti i suddetti parametri, nella pratica clinica attuale risulta più utile considerare le singole variabili in modo indipendente10.

Classificazione clinica

Allo stato attuale la scala di Glasgow (GCS) rappresenta lo strumento universalmente utilizzato per definire la severità del trauma cranico ed il follow-up dello stato neurologico del paziente11. Tale scala ha dimostrato avere una correlazione lineare con la mortalità e gli esiti del trauma e consente una diagnosi precoce sin dalla sua applicazione sul luogo del trauma stesso12.

La scala di Glasgow valuta la responsività oculare, verbale e motoria a stimoli applicati dall’operatore sul paziente (Fig.1). Fu ideata nel 1974 dai neurochirurghi Bryan Jennet e Graham Teasdale dell’Università di Glasgow per valutare lo stato neurologico di pazienti emodinamicamente stabili e non ipossici a 6 ore da un trauma cranico isolato11. La sua comprovata riproducibilità, affidabilità ed il valore predittivo in termini di prognosi generale, tuttavia, hanno reso la GCS lo strumento standard di valutazione in tutti i casi di alterazioni acute dello stato mentale e non soltanto in caso di trauma cranico13.

Il trauma cranico è comunemente suddiviso secondo lo score GCS, misurato approssimativamente entro 30 minuti dal trauma, in:

- Trauma cranico lieve (mTBI), quando il punteggio GCS è compreso tra 13 e 15; - Trauma cranico moderato, quando il punteggio è compreso tra 9 e 12;

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Figura 1. Glasgow Coma Scale: il punteggio è compreso tra 3 (peggiore) e 15 (migliore).

Valuta tre parametri: la responsività oculare, la responsività verbale e la responsività motoria.

Secondo alcuni studi i pazienti con uno score pari a 13 dovrebbero essere considerati, di fatto, come affetti da trauma cranico moderato, in quanto sembrerebbero caratterizzati da una peggiore prognosi e da un’incidenza di lesioni intracraniche più elevata18,19,20.

Per quanto riguarda le limitazioni all’applicazione della scala di Glasgow occorre sottolineare come l’ipossia, l’ipotensione e le intossicazioni da farmaci o alcolici, possano falsamente diminuire il punteggio iniziale, soprattutto entro le prime 6 ore dal trauma; analogamente, la sedazione farmacologica, l’intubazione endotracheale, le fratture ossee a carico delle estremità o le lesioni spinali, le ferite del volto ed i traumi oculari costituiscono fattori confondenti per il corretto calcolo dello score21,22.

E’ necessario evidenziare, inoltre, come in tale scala non siano valutati i riflessi tronco-encefalici ed i riflessi pupillari, generalmente utilizzati nella valutazione del paziente traumatizzato.

Altri sistemi classificativi includono il Jouvet Coma Scale23, il Brussels Coma Grades24, il

Grady Coma Scale25 e la scala di Bozza-Marrubini26,27.

Il Jouvet Coma Scale è stato elaborato nel 1969 e valuta sostanzialmente due parametri: la percezione (espressa come capacità di ricezione ed esecuzione di specifici comandi verbali e scritti associati all’orientamento nei parametri temporali) e la reattività agli stimoli (divisi in specifici, non specifici ed autonomici). Lo score varia da 4 a 14 punti ed un punteggio maggiore è correlato ad uno stato più profondo di alterazione della coscienza. Tale classificazione, tuttavia, non risulta facilmente applicabile, pertanto non è utilizzata di routine nei setting di emergenza-urgenza23.

La scala di Bozza-Marrubini, sviluppata nel 198327, prende in considerazione la reattività allo stimolo nocicettivo e verbale ed i riflessi troncoencefalici (pupillare e vestibolo-oculare). Il range di punteggio varia da 3 a 37, con prognosi migliore per punteggi più bassi. Ad oggi, tuttavia, nessuno di questi score ha ottenuto la stessa estensione di utilizzo del GCS.

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Uno dei sistemi classificativi elaborati più recentemente è il FOUR score (Full Outline of Unresponsiveness)28,29, basato sulla valutazione della risposta motoria, oculare, della funzione del tronco encefalo e della respirazione del paziente; a ciascun item è attribuito un punteggio variabile da 0 (peggiore) a 4 (migliore), per un massimo di 16 punti. Il FOUR score è di facile applicazione, risulta in grado di identificare la locked-in syndrome e di discriminare tra diversi livelli di erniazione cerebrale. Tale scala, pubblicata nel 2005, offre il vantaggio rispetto alla GCS di poter essere applicata anche in pazienti portatori di tubo endotracheale, i quali pertanto non possono fornire una risposta verbale necessaria per il corretto calcolo dello score di Glasgow.

Sebbene il FOUR score sia supportato da ampia letteratura che dimostra come esso non sia inferiore al GCS nel predire l’outcome dei pazienti affetti da trauma cranico30,31,32, esso non appare al momento in procinto di sostituire il GCS33,34.

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Differenza tra trauma cranico lieve e commozione cerebrale

Non esiste un vero e proprio consenso universale circa la definizione di commozione cerebrale (o concussione cerebrale, CC); benchè tale termine venga spesso usato come sinonimo di trauma cranico lieve, esso fa riferimento in realtà ad una categoria ristretta nel contesto del trauma cranico lieve, caratterizzata dalla presenza di un’alterazione transitoria delle funzioni neurologiche conseguente ad un trauma da accelerazione/decelerazione o di tipo rotazionale tipicamente associato agli “sport da contatto”.

Secondo quanto stabilito nel corso della International Consensus Conference on Concussion in Sport (Zurigo, 2012)35 “la commozione cerebrale è una forma di trauma cranico, ed è

definita da un complesso processo fisiopatologico a carico dell’encefalo, provocato da forze biomeccaniche”.

Le caratteristiche comuni che definiscono la natura concussiva di un trauma cranico sono le seguenti:

- la commozione cerebrale è provocata da un impatto diretto al capo o al collo che si manifesta sotto forma di forza “impulsiva” trasmessa alla testa;

- la CC esita tipicamente in una rapida e transitoria alterazione delle funzioni neurologiche, che si risolve spontaneamente. In rari casi, però, i sintomi e i segni possono evolvere o persistere per minuti o ore;

- la CC riflette un disturbo funzionale, piuttosto che un danno strutturale all’encefalo, cosicché non sono generalmente individuabili anormalità alle indagini di neuroimaging;

- la CC si esprime mediante il susseguirsi di manifestazioni cliniche che possono comprendere o meno la perdita di coscienza35,36.

- La maggioranza delle commozioni cerebrali (circa l’80-90%) si risolve entro 7-10 giorni, tuttavia, in alcuni casi i sintomi possono protrarsi per più tempo.

Classificazione in base ai reperti neuroradiologici

Il trauma cranico può essere accompagnato dalla presenza di varie tipologie di lesioni, la maggior parte delle quali risulta identificabile mediante esami neuroradiologici.

Il gold standard per l’identificazione di tali lesioni è rappresentato dalla TC del cranio-encefalo senza mezzo di contrasto37,38. Nel corso degli anni, l’importanza di questa metodica per finalità classificative e prognostiche nell’ambito del trauma cranico è progressivamente aumentata, soprattutto in ragione della crescente difficoltà nell’elaborare una valutazione clinica affidabile ed oggettiva del paziente traumatizzato a causa del ricorso sempre più massiccio alla sedazione precoce, all’intubazione e alla ventilazione meccanica37,38.

Inoltre, la tomografia assiale computerizzata offre un approccio più obiettivo ed affidabile nella stratificazione dei pazienti con TBI.

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Le principali alterazioni patologiche sono rappresentate da: - lacerazioni e contusioni dello scalpo;

- fratture delle ossa del cranio; - ematomi epidurali (EDH); - ematomi subdurali (SDH);

- emorragie subaracnoidee traumatiche (tSAH); - contusioni cerebrali ed emorragie intraparenchimali;

- danno assonale diffuso (DAI, Diffuse Assonal Injury) o focale.

Alla luce delle lesioni identificate mediante TC senza mezzo di contrasto è possibile stratificare i pazienti traumatizzati sulla base di categorie di rischio. Nel 1991 Marshall e coll39,40 hanno proposto una classificazione per raggruppare i soggetti affetti da TBI in base ai reperti di neuroimaging; tale classificazione si basa sulle caratteristiche anatomiche della lesione per la determinazione dell’outcome del paziente37 e rimane ad oggi quella più

frequentemente utilizzata dal punto di vista prognostico.

La classificazione di Marshall valuta i riscontri radiodiagnostici quali lo status delle cisterne mesencefaliche, il grado di shift delle strutture rispetto alla linea mediana e l’eventuale presenza di lesioni focali per suddividere i pazienti in 6 gruppi differenti, permettendo così di identificare quelli con maggior rischio di complicanze come l’ipertensione endocranica. Tale classificazione ha dimostrato avere un elevato valore prognostico, infatti, la presenza di uno spostamento della linea mediana superiore ai 5 mm alla prima TC ed una lesione iperdensa o a densità mista di volume superiore a 25 cm3 risulta correlata in maniera certa

ad una mortalità precoce del paziente40.

Figura 3. Classificazione di Marshall, modificata dal Consorzio Europeo di Traumatologia (European

Brain Injury Consortium)

La classificazione di Marshall, tuttavia, non era stata elaborata originariamente con finalità prognostiche, così nel 2005 Maas e coll.41 hanno apportato alcune modifiche ad essa, definendo il cosidetto Rotterdam CT score. Sebbene la classificazione di Marshall sia stata utilizzata anche per valutare l’outcome nel TBI, quasi tutti i pazienti che richiedono craniotomia decompressiva ricadono nella categoria IV o V della classificazione di Marshall

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(spostamento della linea mediana o lesione occupante spazio da evacuare), andando così a sottolineare una limitata capacità discriminativa di questo sistema classificativo. Al contrario il Rotterdam CT score, combinando anche altre caratteristiche TC individuali quali lo status delle cisterne basali, lo spostamento della linea mediana, e differenti tipi di lesioni occupanti massa ed emorragie intracraniche, dà origine ad un modello che ha dimostrato essere preferibile in termini di prognosi42,43,44,45,46.

Figura 4. Score di Rotterdam.

Altre classificazioni del trauma cranico

E’ possibile classificare il trauma cranico anche in base ad altri elementi; vi sono, infatti, fattori ulteriori utili per effettuare una stratificazione prognostica e terapeutica, quali:

1) la dinamica del trauma, in base alla quale si distinguono i traumi cranici chiusi dalle lesioni penetranti;

2) la biomeccanica del trauma, secondo la quale si differenziano i TBI da impatto diretto o indiretto47. Nel primo caso il cranio è colpito da un oggetto, oppure il moto dello stesso viene

arrestato violentemente da un ostacolo esterno; nel secondo caso invece il contenuto della scatola cranica è sottoposto ad uno spostamento, e quindi ad un traumatismo, in seguito all’applicazione di forze differenti dall’impatto diretto tra il cranio ed un oggetto esterno, come avviene tipicamente nei traumi da accelerazione-decelerazione36.

3) la contemporanea presenza di traumatismi extracranici, che si registrano nel 35% dei casi. La gravità del TBI è fortemente correlata con il coinvolgimento traumatico di altre sedi corporee, infatti, alcune frequenti complicanze sistemiche del trauma, quali l’ipossia, l’ipotensione, l’anemia e l’iperpiressia, possono far precipitare le funzioni neurologiche del paziente36.

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Epidemiologia del trauma cranico

Secondo stime recenti, nel mondo si registra un trauma cranico ogni 15 secondi ed ogni 12 minuti un individuo muore proprio per conseguenze direttamente riferibili al trauma cranico. Nei Paesi occidentali il trauma cranico costituisce la terza causa di morte dopo le malattie cardiovascolari e le neoplasie e la prima causa di morte nella popolazione al di sotto dei 45 anni. Esso determina un enorme costo sociale poiché interessa prevalentemente le fasce di popolazione attiva; inoltre, in molti casi residuano condizioni invalidanti che aggravano ulteriormente le sequele negative sia sul piano umano che economico per il paziente ed i familiari18.

A livello mondiale, è stato registrato un incremento di incidenza dei TBI durante gli ultimi anni, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, verosimilmente in relazione ad una maggior diffusione dei veicoli a motore in queste stesse aree geografiche.

Nell’ambito dei traumatismi del cranio, quelli lievi rappresentano la forma più frequente in Europa: si stima, infatti, che il rapporto tra trauma cranico lieve, moderato e severo sia di 22:1.5:11. Secondo dati emersi da altri studi i casi di mTBI rappresenterebbero circa il

75-95% del totale dei traumi cranici48.

Il tasso di ospedalizzazione per trauma cranico registrato in Italia nel 2003 risultava di 245/100.000 abitanti/anno, valore ridotto del 12.4% rispetto ai dati del 200018. Questo valore è lievemente superiore a quello riportato nella review condotta da Tagliaferri1 nel 2006

relativa all’incidenza del TBI in Europa, dalla quale risultava un tasso di ospedalizzazione per trauma cranico pari a 235/100.000 abitanti.

Una revisione sistematica pubblicata nel 2015 ha stimato l’incidenza del trauma cranico in Europa a valori compresi tra 83.3/100.000 e 849/100.000 abitanti/anno (analisi condotte a livello delle singole regioni di ciascuna nazione)49. Analizzando i dati relativi ad altri continenti, negli Stati Uniti nel 2003 era stimata un’incidenza di trauma cranico pari a 538/100.000 abitanti50; tale valoreha presentato un incremento costante negli anni, fino ad arrivare a 824 casi su 100.000 abitanti riportati nel 2010. La notevole variabilità esistente tra tutti questi valori è il riflesso delle differenti modalità di raccolta dei dati e della mancata standardizzazione nell’archiviazione degli stessi tra regioni e Paesi diversi. Occorre specificare inoltre che il dato italiano di 245/100.000/anno era riferito esclusivamente ai soggetti che avevano subito un trattamento ospedaliero, pertanto risultavano esclusi i pazienti deceduti prima del ricovero, i quali rappresentavano verosimilmente una percentuale non trascurabile18.

Inoltre, a fronte di una riduzione del tasso di ospedalizzazione dei pazienti con TBI, in Italia sembrerebbe aumentare la complessità dei pazienti ospedalizzati18. Secondo i dati raccolti

da Servadei51, ogni 100.000 residenti si registrano annualmente 38 soggetti ricoverati con

lesioni post-traumatiche intracraniche ed 11 interventi neurochirurgici. Nel nostro Paese i pazienti che necessitano di ricovero in unità di terapia intensiva e/o richiedono un intervento neurochirurgico rappresentano il 4-7% del totale18. Le lesioni intracraniche più frequenti sono gli ematomi subdurali, seguiti dagli extradurali e dagli intraparenchimali.

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La valutazione delle SDO (Schede di Dimissione Ospedaliera) italiane del 2003 ha dimostrato come, della totalità dei pazienti ospedalizzati per TBI come diagnosi principale, il 2.12% dei pazienti sia deceduto, il 91.53% sia stato dimesso a domicilio, mentre il restante 6.53% abbia necessitato di ulteriori cure, rappresentate nel 65.84% dei casi dal trasferimento presso altri centri per acuti18.

I dati relativi alla mortalità a livello mondiale mostrano una tendenza alla riduzione, soprattutto nei Paesi più ricchi, grazie al miglioramento dei trattamenti in ambito neurochirurgico ed alla disponibilità di più moderni servizi di Pronto Soccorso.

La mortalità intraospedaliera per TBI in Italia, sempre in riferimento ai dati del 2003, si attestava a valori di 4.1/100,000 abitanti/anno18. Le regioni con mortalità più elevata

risultavano essere il Friuli-Venezia Giulia e l'Emilia Romagna (rispettivamente 7.6/100.000 e 7/100.000), mentre la Campania e la Calabria presentavano la mortalità più bassa (1.8/100.000). Tali valori risultavano inferiori a quelli riportati per la popolazione europea, mediamente di 12 decessi ogni 100 soggetti con TBI, in quanto non venivano considerati i decessi associati alle complicanze sistemiche del trauma ed alle comorbilità di importanza significativa 18,51.

Riguardo alla distribuzione per età, vi sono due picchi di incidenza: uno tra i 16 ed i 35 anni ed uno, meno pronunciato, dopo i 70 anni18. I pazienti anziani, spesso afflitti da comorbilità di rilievo o complicati da patologie insorte durante il ricovero, richiedono ospedalizzazioni almeno 4 volte più prolungate rispetto ai soggetti in età pediatrica.

Le condizioni più frequentemente legate al TBI in Italia appaiono essere gli incidenti stradali (20-45%), seguiti dalle cadute (30-38%), dagli infortuni sul luogo di lavoro (10%), dagli incidenti per attività legate al tempo libero (10%) e dagli atti di violenza altrui (4%) o autoinflitta (1%).

Dai lavori pubblicati si conferma una prevalenza degli incidenti stradali in Italia51,

Germania4,52 e Francia53, con una maggior incidenza di traumi da precipitazione nei Paesi del Nord Europa54 ed un incremento dei traumi da atti di violenza in alcune realtà urbane europee55. Spesso è stata riportata un'associazione del trauma cranico con l'intossicazione da alcool 56, con percentuali variabili dal 24% della Norvegia, al 29% della Danimarca, fino al 51% della Spagna.

Analizzando la distribuzione del TBI per sesso, indipendentemente dall'età, i traumi cranici avvengono più frequentemente nei maschi. Nel nostro Paese il rapporto maschi-femmine risulterebbe variabile tra 2.0:1 e 2.8:118. Verosimilmente la differente distribuzione potrebbe essere spiegata dalla tendenza maschile a prendere parte più frequentemente ad attività ad alto rischio di traumatismo (ad es. sport di contatto). Ulteriori fattori di rischio dimostrati sono il basso status socio-economico, il decadimento cognitivo di vario grado fino alla demenza conclamata, l’abuso di alcool e le intossicazioni18,57.

Nell’ambito degli esiti invalidanti da trauma cranico, in un recente studio di prevalenza di Langlois56 viene indicato che negli Stati Uniti 1893 soggetti ogni 100.000 abitanti vivono con una qualche disabilità o limitazione alla normale attività conseguente ad un trauma cranico.

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Fisiopatologia del trauma cranico

Cenni di anatomia e fisiologia

Al fine di comprendere i meccanismi fisiopatologici che sottendono al trauma cranico è necessario effettuare una breve digressione sulla morfologia macro e microscopica del complesso testa-encefalo. Tra le strutture anatomiche che compongono questo sistema vi sono:

- scalpo: rappresenta la prima linea di difesa contro urti o traumi; è una struttura spessa circa

1-1.5 cm, formata da 5 strati di tessuto, dei quali il più superficiale è il derma, mentre quello più interno è il periostio (o pericranio), aderente alle ossa proprie del cranio. Lo scalpo offre allo stesso tempo una resistenza alla compressione ed al taglio, assorbendo parzialmente e redistribuendo le forze applicate;

- cranio: quello “propriamente detto” si divide a sua volta in neurocranio e splancnocranio

(o viscerocranio). Il neurocranio è costituito da ossa piatte di spessore compreso tra 2 e 6 mm unite tra di loro tramite suture a formare la scatola cranica. Tali strutture ossee (frontale, etmoide, sfenoide, occipitale, due parietali e due temporali) sono formate da 3 strati: il tavolato esterno, la diploe ed il tavolato interno; la diploe è composta da osso trabecolare localizzato tra i 2 livelli di osso compatto. Lo splancnocranio invece è formato dalle ossa del massiccio facciale, ovvero mascella, mandibola e zigomo, a formare una struttura di protezione per le prime vie aeree e digerenti;

- encefalo e liquor: l’encefalo è una struttura semisolida del peso di 1400 g circa, che occupa

l’80% della scatola cranica. E’ ricoperto da tre membrane distinte, che dall’esterno all’interno, sono: la dura madre, l’aracnoide e la pia madre58. Questi tre tessuti delimitano

degli spazi (epidurale, subdurale e subaracnoideo) nei quali possono formarsi ematomi ed emorragie, definiti appunto dalla loro posizione, che determina anche le conseguenze del danno.

La dura madre, detta anche pachimeninge, ricopre l’interno del cranio ed è formata da uno spesso strato di tessuto connettivo denso aderente alla superficie interna delle ossa craniche (detto strato periostale), che si riflette poi in uno strato più interno (strato meningeo). Questi due foglietti si dissociano in alcune aree per accogliere i vasi venosi endocranici che drenano il sangue dall’encefalo, denominati seni della dura madre, che per definizione non hanno pareti proprie ma solo costituite dai 2 foglietti della dura madre. La dura madre forma inoltre a livello intracranico alcune introflessioni, o sepimenti, denominati grande falce, falce cerebellare e tentorio del cervelletto, che vanno a separare rispettivamente i due emisferi telencefalici, i due emisferi cerebellari ed infine gli emisferi cerebrali da quelli cerebellari. L’aracnoide è una lamina connettivale intermedia, costituita da epitelio pavimentoso semplice, separata dalla dura madre dallo spazio subdurale virtuale, e dalla pia madre dallo spazio subaracnoideo, reale, in quanto contenente il liquido cefalorachidiano. L’aracnoide, che insieme alla pia madre forma le leptomeningi, non si approfonda nei solchi e nelle scissure encefaliche ma segue l’andamento dell’osso e della dura madre. L’aracnoide, inoltre, si comporta come un organo emuntorio deputato al costante riassorbimento del liquor in quanto è il responsabile della formazione delle granulazioni di Pacchioni (o villi

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aracnoidei), ovvero piccole evaginazioni connettivali rivestite da cellule dotate di microvilli, che attraversano la dura madre fino ai seni venosi consentendo al liquido cefalorachidiano di circolare dallo spazio subaracnoideo verso il flusso ematico dei seni venosi59.

Infine, la pia madre è formata da fasci di tessuto connettivo lasso che si riflettono dalla superficie dell’encefalo sulla tonaca avventizia dei vasi nello spazio subaracnoideo, accompagnando i vasi verso l’interno dell’encefalo.

A livello embriogenenetico, l’aracnoide e la pia madre traggono origine dalle cellule della cresta neurale intorno alla quarta settimana di sviluppo dell’embrione, mentre la dura madre è formata da cellule mesenchimali di origine mesodermica.

Anatomicamente l’encefalo è suddiviso in cervello (a sua volta diviso in diencefalo e telencefalo), cervelletto e tronco encefalico (ulteriormente suddiviso in bulbo, ponte e mesencefalo); tutte e tre queste strutture si ritrovano immerse nel liquido cerebrospinale o liquor (Cerebro-spinal Fluid, CSF, o liquido cefalorachidiano)60, che costituisce una protezione ulteriore per l’organo in caso di trauma.

Il CSF è prodotto dalle cellule ependimali dei plessi coroidei situati nei ventricoli laterali; da questi ultimi passa nello spazio subaracnoideo. La quantità di liquor normalmente presente in un individuo adulto varia da 60 a 200 mL, si presenta come un liquido incolore, di peso specifico compreso tra 1001 e 1010, con pH lievemente più acido rispetto al plasma, compreso tra 7,28 e 7,32. Contiene proteine (circa 10-20 mg/dL), in prevalenza albumina, ed una quota di glucosio, di norma in quantità inferiori del 10-20% rispetto a quelle plasmatiche. Può contenere fino ad 8 elementi cellulari per mm3, rappresentati soprattutto da leucociti. Il liquor protegge il contenuto della scatola cranica dagli urti ed è necessario per gli scambi di metaboliti, ormoni e altre proteine tra le varie parti dell’encefalo.

In condizioni di normalità il CSF esercita una pressione compresa tra 5 e 15 mmHg (corrispondenti a 65-195 mmH₂O). La presenza di sangue all’interno dei ventricoli, come può avvenire in caso di trauma cranico, è in grado di ostruire il normale circolo del CSF, causando idrocefalo; allo stesso modo, i danni cerebrali che inducono una variazione del pH del liquor a loro volta influenzano i centri respiratori ed il flusso cerebrale.

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- barriera emato-encefalica (BEE): è di fatto un’unità anatomico-funzionale realizzata dalle

particolari caratteristiche delle cellule endoteliali che costituiscono la parete dei vasi sanguigni cerebrali. Negli organi al di fuori dell’encefalo le pareti dei capillari sono formate da cellule endoteliali fenestrate, dotate cioè di piccoli “fori” che permettono il passaggio di alcuni composti. Nell’encefalo, invece, le cellule endoteliali formano uno strato continuo, non fenestrato, in quanto sono unite tra di loro da giunzioni occludenti (tight junction). Un altro fattore che contribuisce alla formazione della BEE è dato dalle proiezioni delle cellule astrocitarie, detti peduncoli astrocitari (conosciuti anche come “limitanti gliali”), che circondano le cellule endoteliali, potenziando pertanto l’effetto barriera. La BEE è fondamentale per mantenere l’ambiente del tessuto nervoso adatto alla sopravvivenza delle cellule neuronali, permettendo la regolazione degli scambi ionici e dei neurotrasmettitori. In condizioni di normalità la BEE intatta impedisce il passaggio di molecole idrofile o ad elevato peso molecolare (superiore cioè a 500 Dalton); fanno eccezione quelle capaci di attraversare autonomamente e senza bisogno di fenestrazioni le membrane cellulari (ad esempio l'ossigeno, il diossido di carbonio, l'etanolo e gli steroidi) e quelle che passano la barriera per mezzo di specifici trasportatori (quali gli zuccheri ed alcuni amminoacidi). Un trauma cerebrale che danneggia la BEE altera tale equilibrio contribuendo allo sviluppo di edema cerebrale post traumatico 61,62.

- flusso ematico cerebrale: il metabolismo cerebrale dipendente quasi esclusivamente dall’ossidazione del glucosio e ciò è reso possibile solo a fronte di un’adeguata pressione di ossigeno. Per mantenere una pressione di ossigeno appropriata è necessario che l’encefalo riceva un flusso ematico costante (cerebral blood flow o CBF) pari al 15% dell’intera gittata cardiaca, corrispondente a circa 750-1000 cc di sangue al minuto. Il circolo cerebrale è in grado di adattarsi ad ogni variazione del metabolismo cerebrale, prevenendo o limitando tutti quei fattori capaci di comprometterne il regolare funzionamento, grazie a meccanismi di regolazione che sono propri dei vasi cerebrali. I più importanti sono:

1) autoregolazione: si configura di fatto come la capacità dei vasi sanguigni di mantenere costante il flusso ematico cerebrale entro ampi limiti di variazione della pressione di perfusione cerebrale (Cerebral perfusion pressure, CPP). Il CBF ubbidisce alla legge di Poiselle che stabilisce che “la portata di un fluido attraverso un condotto è direttamente proporzionale al gradiente di pressione ai due estremi ed alla quarta potenza del raggio, ed inversamente proporzionale alla lunghezza del condotto ed alla viscosità del fluido”. Si può pertanto tradurre come segue:

CBF=PPC/RVC

Dove RVC sono le resistenze vascolari cerebrali. Lo stimolo all’autoregolazione è quindi il mantenimento di una costante PPC, non la pressione arteriosa sistemica in senso assoluto. La PPC a sua volta è uguale alla differenza tra pressione arteriosa sistemica media (MAP) e pressione intracranica (ICP):

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Quest’ ultima rappresenta l’equilibrio della pressione esercitata dai volumi di encefalo, liquor e sangue all’interno della scatola cranica, la quale si comporta come una struttura non espandibile; in condizioni di normalità in un adulto la ICP ha valori compresi tra 5 e 15 mmHg in posizione supina e diventa negativa (-10 mmHg) in posizione ortostatica. In un individuo sano la differenza fra MAP e CPP risulta irrilevante ma diviene invece significativa quando tale equilibrio viene a mancare e si stabilisce la cosiddetta ipertensione endocranica, definita da valori di ICP superiori a 20 mmHg. Il meccanismo di autoregolazione garantisce il mantenimento di un flusso ematico cerebrale costante quando la CPP è compresa tra 50 e 150 mmHg; si considera ottimale un valore di CPP > 70 mmHg. Per valori inferiori ai 40 mmHg, il flusso cerebrale crolla e si manifestano vari sintomi quali nausea, confusione mentale, alterazione del visus, sincope fino ad arrivare alla vera e propria ischemia cerebrale. In caso di MAP superiore a 150 mmHg, al contrario, viene meno la capacità di autoregolazione del flusso, con conseguente danno della barriera ematoencefalica e formazione di edema cerebrale63,64, 65.

2) regolazione chimica: è di fatto la riposta alla pressione parziale di CO2 e PO2, infatti,

l’alcalosi e l’ipocapnia inducono vasocostrizione cerebrale, mentre l’acidosi, l’ipossia e l’ipercapnia stimolano la vasodilatazione. Sembra ormai definitivamente dimostrato che il meccanismo alla base della risposta vascolare alla CO2 sia di natura chimica, legato alle

variazioni di pH indotte dalla CO2: la molecola di CO2 è priva di qualunque effetto sulla

parete vascolare ma diffonde rapidamente attraverso la barriera ematoencefalica e si dissocia producendo idrogenioni che fanno variare il pH del tessuto perivascolare.

3) regolazione metabolica: i dati disponibili documentano l’importanza di sostanze derivate dalla degradazione locale dei prodotti del metabolismo o coinvolte nel processo stesso della trasmissione sinaptica, quali potassio (K+), idrogeno (H+), lattato, adenosina, glutammato ed ossido nitrico;

4) regolazione neurogena: l’innervazione autonoma influenza prevalentemente i grossi vasi con vasodilatazione mediante stimolo sui recettori β1-adrenergici e vasocostrizione indotta dallo stimolo dei recettori α1-adrenergici. Da sottolineare la possibilità di una vasocostrizione significativa, con riduzione critica del CBF, per valori estremamente elevati di catecolamine endogene circolanti, come avviene in corso di shock emorragico66.

Meccanismi fisiopatologici di danno

I meccanismi fisiopatologici che stanno alla base degli effetti del trauma cranico possono essere divisi in tre categorie, strettamente interconnesse tra di loro: il danno cerebrale primario, il danno cerebrale secondario ed il danno sistemico secondario. L’approccio clinico al paziente con TBI deve fondare le sue basi sulla conoscenza della fisiopatologia del danno cerebrale; inoltre, il trattamento neurochirurgico degli esiti intracranici del danno primario è un punto cardine della gestione terapeutica dei traumi severi. Le lesioni encefaliche primarie possono essere evitate solo adottando adeguate misure di prevenzione, mentre quelle secondarie dipendono in larga misura dall’ efficacia e dalla qualità delle prime

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cure prestate sul luogo dell’evento, durante il trasporto e nelle prime ore del ricovero ospedaliero, con particolare riguardo al supporto del respiro e del circolo.

Danno cerebrale primario

Il danno cerebrale primario consiste nel danneggiamento meccanico delle strutture encefaliche che si realizza come diretta conseguenza del trauma; i meccanismi che lo sottendono possono essere eterogenei ma sono di fatto accomunati dalla proprietà di trasferimento di energia meccanica alle strutture intracraniche. Tra i meccanismi principali si riconoscono l’impatto diretto nel contesto dei traumi chiusi, le lesioni penetranti della testa, il danno da rapida accelerazione-decelerazione e la propagazione di onde d’urto. L’esito macroscopico del danno cerebrale primario consiste nella formazione di contusioni cerebrali, ematomi, emorragie e danno da stiramento o strappamento della sostanza bianca (DAI, danno assonale diffuso). A livello microscopico, invece, questo danno si realizza con la morte neuronale ed il danneggiamento del microcircolo.

Le lesioni macroscopiche si dividono in intrassiali ovvero emorragie intraparenchimali, ed

extrassiali, comprendenti ematomi epidurali, ematomi subdurali, emorragie subaracnoidee

ed emorragie intraventricolari. Oltre alle principali forme di lesioni intracraniche sono comprese nei danni cerebrali primari anche le lacerazioni dello scalpo e le fratture delle ossa craniche67,68.

Le lacerazioni e le contusioni dello scalpo possono provocare abbondanti sanguinamenti in caso di rottura di grossi vasi. Per quanto riguarda invece le fratture ossee, esse si rilevano nel 3% dei casi di TBI. Si distinguono in fratture lineari della volta, fratture depresse della volta e fratture della base cranica. Circa la metà dei pazienti presenta una frattura semplice lineare ma il 4% presenta una frattura depressa. Possono inoltre essere distinte in fratture aperte, in caso di diretta comunicazione tra parenchima encefalico e ambiente esterno per concomitante lacerazione dello scalpo, oppure fratture chiuse nelle quali non vi è soluzione di continuo dello scalpo.

Non esiste alcun rapporto di proporzionalità diretta tra i tipi di frattura cranica ed il grado di severità della lesione encefalica: la frattura può assorbire completamente l’energia del colpo ed accompagnarsi a minime lesioni dell’encefalo, così come possono realizzarsi lesioni encefaliche gravi o mortali senza frattura ossea68.

Ematomi epidurali (EDH)

Si riscontrano in una percentuale variabile tra l’1 ed il 3% di tutti i traumi cranici. Sono raccolte ematiche localizzate nello spazio virtuale compreso tra la superficie interna della teca cranica e la dura madre, tipicamente nella regione temporo-parietale, dove le ossa del cranio sono più sottili e dunque più fragili. Sono dovute generalmente alla lacerazione di vasi arteriosi per frattura di ossa adiacenti (ad esempio l’arteria meningea media causata tipicamente da frattura del temporale); meno frequentemente sono lacerate le vene durali

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satelliti di un’arteria meningea o un seno venoso durale, in altri casi l’emorragia riguarda vene diploiche in sede di frattura o minuscoli vasi (sanguinamento a nappo) che connettono la dura madre all’osso. La raccolta può dunque variare da una piccola falda di pochi cc ad un vasto ematoma di oltre 50-60 cc di volume. Proprio in ragione della loro natura, sono meno frequenti nella popolazione anziana e nei bambini di età inferiore ai 2 anni per la maggior fissità tra dura madre e teca cranica in queste fasce di età, essendo invece più frequenti in soggetti di età compresa tra i 20 ed i 30 anni69.

Un sanguinamento epidurale arterioso ad alta pressione e rapida espansione disseca la dura madre dalla superficie interna della teca, formando il cosiddetto ematoma “a lente biconvessa” che spesso rimane confinato entro il limite delle suture craniche dove la dura madre aderisce più strettamente al tavolato osseo.

Alla TC del cranio senza mdc appaiono come lesioni iperdense, lenticolari o ovoidali e la presenza di una densità radiologica mista nel loro contesto è indicativa di sanguinamento in atto.

L’EDH può manifestarsi con una moltitudine di segni clinici; vi può essere un periodo iniziale e transitorio di incoscienza successiva al trauma al quale fa seguito un “intervallo lucido”, della durata di ore o addirittura giorni, durante il quale le funzioni neurofisiologiche sono relativamente conservate70. Quando la lesione si espande la coscienza si deteriora rapidamente: tale situazione è descritta in letteratura come “paziente che parla e muore”. Studi su larga scala71,72 hanno tuttavia dimostrato la presenza dell’intervallo lucido solo in una piccola percentuale di pazienti con grave TBI (12-25% dei casi). E’ stato calcolato che il 12-42 % dei soggetti con EDH rimanga cosciente nell’intervallo di tempo compreso tra il trauma e l’intervento chirurgico.

In caso di una raccolta ematica in sede temporale si determina una compressione del lobo temporale causando erniazione dell’uncus e della circonvoluzione dell’ippocampo attraverso l’incisura del tentorio del cervelletto; farà seguito una diminuzione dello stato di coscienza per sofferenza del tronco dell’encefalo ed una precoce midriasi omolaterale per sofferenza delle fibre parasimpatiche del III nervo cranico, stirate e compresse. L’anisocoria dunque è un sintomo tardivo, espressione di incuneamento ed è presente in una percentuale variabile dei pazienti (tra il 18 ed il 44%, sulla base delle casistiche considerate). Altri sintomi di presentazione sono deficit neurologici focali, emiparesi, crisi epilettiche.

L’ematoma epidurale, se tempestivamente diagnosticato, può avere una prognosi eccellente; una diagnosi errata o tardiva è la principale ragione di un outcome sfavorevole, infatti, la natura apparentemente banale di un trauma che inizialmente non produce segni o sintomi neurologici può dare un falso senso di sicurezza, inoltre, i sintomi come la cefalea ed il vomito possono comparire tardivamente. L’intervallo lucido è un’eccezione e non la regola, in quanto non esistono né un quadro clinico tipico né una logica sequenza temporale di eventi prevedibili nell’EDH. Tra i fattori che correlano con un outcome peggiore vi sono le dimensioni della lesione superiori a 30 ml, uno shift delle strutture rispetto alla linea mediana pari o superiore a 12 mm, la densità mista della lesione alla TC ed infine l’associazione con altri tipi di lesioni73,74,75.

L’approccio chirurgico mediante craniotomia ed evacuazione dell’ematoma è quello raccomandato in pazienti affetti da EDH di volume superiore a 30 ml, indipendentemente dallo stato neurologico valutato mediante GCS76, mentre la presenza alla TC di un EDH che

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comprime il parenchima cerebrale sottostante impone il trattamento chirurgico immediato ed indifferibile (entro 90 minuti) mediante craniotomia osteoplastica. Diversamente, in caso di pazienti non comatosi (GCS >8) con ematoma epidurale di volume inferiore ai 30 mL e con spessore inferiore a 15 mm, determinante shift rispetto alla linea mediana inferiore a 5 mm, è indicato un approccio conservativo mediante TC ripetute nel tempo76. Nelle altre situazioni, la scelta tra un trattamento conservativo o uno chirurgico rimane un argomento ancora dibattuto77.

Di fatto, l’outcome dei pazienti affetti da EDH sottoposti ad intervento chirurgico sembrerebbe dipendere da fattori quali l’intervallo intercorso tra il trauma e l’intervento, l’età del paziente e lo stato neurologico prima dell’intervento, piuttosto che dalla sede o dalle dimensioni dell’ematoma78,79. Secondo alcuni Autori la prognosi sarebbe principalmente

correlata al GCS ed al valore di ICP, seguiti dal grado di spostamento della linea mediana alla TC e dall’età del paziente 80,81,82.

La mortalità dei pazienti affetti da EDH, non in stato di coma alla diagnosi e rapidamente sottoposti ad intervento chirurgico, è di circa il 5-10%36,41,76; tuttavia, tale percentuale sale al 40% in caso di pazienti con segni avanzati di erniazione cerebrale83.

Ematomi subdurali (SDH)

Sono raccolte ematiche estese tra la dura madre e l’encefalo, tipicamente causate dal rapido spostamento delle strutture parenchimatose rispetto alla scatola cranica, come avviene nel contesto dei traumi da accelerazione-decelerazione. Tali spostamenti provocano la lacerazione dei vasi venosi drenanti il sangue dalla corteccia cerebrale (dette vene cortico-durali o vene a ponte) in zone di solito diametralmente opposte alla sede dell’impatto. Trattandosi di sanguinamenti che originano dal movimento dell’encefalo rispetto alla scatola cranica, sono più frequenti in presenza di atrofia cerebrale, e quindi nei pazienti geriatrici. Essendo generalmente stravasi ematici di tipo venoso, tendono a formarsilentamente e a comprimere progressivamente il parenchima cerebrale adiacente, determinandone ischemia. Per tale motivo le manifestazioni cliniche possono essere ritardate nel tempo: in base alla latenza della presentazione clinicasono suddivisi in SDH acuti, se sintomatici entro 24 ore dal trauma, subacuti, se sintomatici tra 24 ore e 2 settimane dal trauma, o cronici, se si manifestano oltre le 2 settimane dall’evento traumatico.

Gli SDH cronici sono più frequenti nei pazienti anziani, nei quali si manifestano con sintomi sfumati come la cefalea, l’instabilità posturale ed il decadimento cognitivo ingravescente, anche a seguito di traumi cranici apparentemente di modesta entità. Inoltre, proprio per la loro natura di sanguinamenti prevalentemente venosi, affinchè si formino rapidamente immediatamente dopo un trauma è necessario che la velocità dell’impatto sia piuttosto elevata. Pertanto, l’ematoma subdurale acuto traumatico, a differenza di quello cronico tipico dell’anziano, si associa generalmente ad altre lesioni severe, come l’emorragia subaracnoidea traumatica e la contusione cerebrale. Il 12-29% dei traumatizzati cranici gravi, infatti, si presenta con un SDH acuto76; di questi, circa il 60% va incontro ad un rapido deterioramento delle condizioni neurologiche entro 6 ore dal trauma ed il 10% dopo le prime 24 ore.

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Alla TC senza mezzo di contrasto gli SDH si rilevano come lesioni con un caratteristico aspetto “a semiluna” e, in quanto spesso correlati ad un effetto massa, si associano alla deviazione controlaterale delle strutture parenchimatose oltre la linea mediana, alla scomparsa dei solchi corticali ipsilaterali ed alla compressione degli spazi ventricolari.

Per quanto concerne le prospettive terapeutiche, l’evacuazione chirurgica mediante craniotomia è di norma la scelta per pazienti con lesioni di spessore > 10 mm o con shift

rispetto alla linea mediana > 5 mm, indipendentemente dallo score di Glasgow76. In pazienti in stato di coma (GCS < 9) con lesioni di spessore < 10 mm o con shift rispetto alla linea mediana < 5 mm, la craniotomia è raccomandata in caso di peggioramento del quadro neurologico (definito come riduzione di almeno 2 punti dello score di Glasgow dal momento del trauma) oppure nei casi di midriasi fissa e/o di ICP superiore a 20 mmHg76. Negli altri

casi, un approccio di tipo conservativo è di norma applicato se il paziente è clinicamente stabile e presenta ematomi di dimensioni limitate (inferiori a 10 mm di spessore)84,85,86. Tra i fattori prognostici più importanti vi sono l’età del paziente, il grado di compromissione neurologica valutato mediante GCS ed infine la presenza o meno di segni di erniazione cerebrale76. Nonostante il pronto intervento chirurgico mediante craniotomia decompressiva,

la prognosi dei pazienti affetti da SDH è solitamente peggiore rispetto a quella dei pazienti affetti da ematoma subdurale cronico e EDH. Complessivamente, la maggioranza delle casistiche riporta una mortalità di oltre il 50% ed una morbilità prossima all’80%, specialmente nelle forme acute36,76,87.

Emorragie subaracnoidee post traumatiche (tSAH)

Sono stravasi ematici situati nello spazio subaracnoideo, nel quale scorre il liquido cefalorachidiano, e possono essere provocati dalla rottura dei piccoli vasi della pia madre per varie cause. Si riconoscono forme spontanee o primitive, dovute ad esempio ad aneurismi misconosciuti o a MAV, e forme secondarie, delle quali le più frequenti sono quelle post-traumatiche.

L’emorragia subaracnoidea post-traumatica è generalmente espressione di trauma cranico grave ed infatti è rilevabile nel 33-60% dei pazienti con TBI in generale e nel 44% dei pazienti affetti da traumi cranici severi88,89,90. La presenza di tSAH è correlata ad una prognosi peggiore rispetto a quanto avviene in un TBI di pari gravità senza tTSH, infatti è ormai dimostrato che vi sia una correlazione diretta tra tSAH ed incidenza di complicanze quali idrocefalo (per alterato deflusso di liquor), emosiderosi superficiale (con conseguente accumulo e deficit soprattutto del VIII paio di nervi cranici) ed ipertensione endocranica89,91. La relazione tra emorragia subaracnoidea e prognosi peggiore sembra esser dovuta soprattutto a due fattori: l’aumento della pressione intracranica e l’insorgenza, tipicamente a distanza di 3-7 giorni dal trauma, di vasospasmo arterioso. Quest’ultimo rappresenta una delle complicanze più temibili delle emorragie subaracnoidee post-traumatiche in quanto determina inevitabilmente una situazione di grave ischemia del parenchima cerebrale41. In realtà il meccanismo fisiopatologico che sottende all’instaurarsi di vasospasmo non è stato ad oggi del tutto compreso; esso sarebbe conseguenza di fattori diversi dalla sola presenza di sangue nello spazio subaracnoideo. Alla base di tale fenomeno vi sarebbe un massivo

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rilascio di serotonina ed altri metaboliti in corso di trauma cranico, come dimostrato dal riscontro di elevati livelli di endotelina-1 nel liquor di pazienti affetti da vasospasmo post-TBI92,93. L’altra possibile causa sembrerebbe essere direttamente la forza di trazione esercitata sui vasi durante il trauma94. Secondo i dati della letteratura il vasospasmo tende a risolversi entro il 14esimo giorno dal trauma cranico, anche se sono stati riportati casi di persistenza fino al 30esimo giorno95,96,97,98.

La clinica della tSAH è condizionata dalla gravità dell’emorragia; il paziente può presentare sintomi quali cefalea diffusa (dovuta all’attivazione dei nocicettori meningei dal sangue), nausea o fotofobia, fino ad arrivare al rigor nucalis ed al coma profondo.

Alla TC senza mdc le emorragie subaracnoidee post-traumatiche sono riconoscibili come delle iperdensità localizzate solitamente a livello dei solchi e delle scissure encefaliche. In alcuni casi questi stravasi ematici sono conseguenza dell’espansione di emorragie intraventricolari o intracerebrali nello spazio subaracnoideo.

A differenza di quanto avviene per le emorragie subaracnoidee spontanee, per le tSAH non esistono veri e propri modelli classificativi sulla base dei reperti neuroradiologici, in quanto vi sono molte variabili che influiscono sul significato di queste lesioni e rendono difficile classificarle, tuttavia, ad oggi, si utilizzano la classificazione di Fisher99, quella di

Morris-Marshall100 ed infine quella di Greene101, ideate per le emorragie subaracnoidee spontanee e poi applicate alle forme traumatiche.

Dal punto di vista prognostico, il livello di coscienza, l’età del paziente e la quantità di sangue rilevato alla TC sono i fattori più determinanti per la prognosi102, 103. La presenza di

sangue nelle cisterne di base alla TC eseguita al momento del ricovero è uni dei segni più sfavorevoli in quanto è correlata ad un aumento immediato dei valori medi di ICP.

Contusioni cerebrali ed emorragie intraparenchimali

Le contusioni cerebrali focali sono le più frequenti lesioni intracraniche associate al trauma cranico, essendo riportate nell’8 % di tutti i traumi cranici ed in una percentuale variabile dal 13 al 35% dei traumi cranici severi104.

Generalmente si localizzano a livello dei poli e delle superfici inferiori dei lobi frontali e parietali, regioni particolarmente suscettibili all’impatto diretto contro le protuberanze ossee della base cranica nel contesto di traumi da accelerazione-decelerazione. Possono localizzarsi omolateralmente alla sede del trauma (lesioni da colpo) oppure controlateralmente ad essa (lesioni da contraccolpo).

Si presentano come aree eterogenee ed in genere multiple di necrosi, infarcimento ed emorragia con edema perilesionale. La patogenesi delle contusioni cerebrali consiste nel danneggiamento dei piccoli vasi parenchimali ed esita nella formazione di diffuse aree emorragiche petecchiali con edema circostante.

Nella fase iniziale le contusioni sono caratterizzate microscopicamente da emorragie perivascolari, picnosi delle cellule nervose, rigonfiamento degli astrociti e alterazioni delle guaine mieliniche. Quando i meccanismi di questo processo interessano aree più estese di parenchima si innescano una serie di eventi emodinamici e biochimici, quali il persistere

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della rottura della barriera ematoencefalica, il rilascio di enzimi da parte delle emazie stravasate, la produzione di leucotrieni, prostaglandine e radicali liberi in conseguenza della cascata dell’acido arachidonico, che vanno ulteriormente a interferire sulla reattività vascolare e sull’omeostasi dei meccanismi coagulativi locali. Il risultato è che in poche ore si può formare un vero e proprio ematoma intracerebrale.L’estensione e la coalescenza di queste regioni emorragiche della sostanza grigia determina lo sviluppo di veri e propri ematomi intraparenchimali, i quali possono produrre un effetto massa significativo provocando nei casi più severi erniazione cerebrale.

Generalmente i focolai contusivi piccoli, con volume inferiore ai 10 cc, non tendono ad aumentare di estensione e raramente richiedono un intervento chirurgico. Le contusioni superiori ai 20 cc tendono nel 50% dei casi ad evolvere entro le 24 ore successive alla diagnosi TC e possono richiedere l’evacuazione chirurgica, particolarmente se sono localizzate nei lobi temporali, in quanto a questo livello proprio per la vicinanza anatomica con l’incisura del tentorio è maggiore il rischio di erniazione105.

I pazienti a rischio di evoluzione di un’iniziale contusione dovrebbero essere tenuti in stretta osservazione, sottoposti a monitoraggio della ICP e a controlli TC seriati.

I soggetti con segni di deterioramento dello stato neurologico, ipertensione endocranica refrattaria a terapia medica e segni di effetto massa sono invece candidati all’intervento chirurgico immediato. Allo stesso modo, l’evacuazione urgente dell’ematoma mediante craniotomia è indicata per pazienti con ematomi di grandi dimensioni (> 50 cc), oppure se il

paziente presenta GCS tra 6 e 8 con lesione in sede frontale o temporale di dimensioni superiori ai 20 cc con shift della linea mediane di almeno 5 mm e/o compressione delle cisterne della base alla TC.

In caso di pazienti con lesioni intraparenchimali senza segni di compromissione dello stato neurologico, con ICP controllata e senza segni di importante effetto massa le linee guida suggeriscono una stretta osservazione e la ripetizione di TC nel tempo76,106.

La mortalità degli ematomi intracerebrali dipende dalla possibilità di ridurre chirurgicamente la pressione intracranica e dallo stato di coscienza del paziente prima dell’intervento neurochirurgico36,107.

Danno assonale diffuso (DAI, Diffuse Axonal Injury) o focale

E’ un processo patologico tipicamente localizzato a livello della sostanza bianca e provocato dalle forze tangenziali che si generano in corso di TBI. Si distingue un insulto assonale primario, in cui si ha lacerazione degli assoni della sostanza bianca, ed un insulto secondario, che esita in modificazioni patologiche progressive dei neuroni che conducono inesorabilmente a morte cellulare.

Il danno assonale diffuso costituisce la prima causa di coma in pazienti nei quali non si rinvengono ematomi intracranici; la reale incidenza di questo fenomeno non è nota, tuttavia si stima che almeno il 50% dei traumatizzati cranici gravi, anche con evidente danno focale

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(ematomi, contusioni, emorragie), presenti un DAI, che conduce all’exitus del paziente nel 35% dei casi.

Alla base dei meccanismi che spiegano la patogenesi del danno assonale vi è proprio la differenza sostanziale in termini di danno post-traumatico tra l’encefalo e gli altri organi, in quanto l’encefalo possiede una peculiare risposta meccanica alle forze d’urto ad esso applicate. Un qualunque organo che subisce un impatto viene compresso e deformato ad opera di una parte dell’energia cinetica, mentre la parte rimanente lo costringe a muoversi nella direzione del vettore della forza; la resistenza maggiore a questo movimento è costituita dalla forza d’inerzia offerta per lo più dall’apparato muscolo-osteo-articolare circostante. Il parenchima cerebrale, invece, è racchiuso in una struttura poco deformabile ed è immerso in un fluido; questi fattori impediscono il diffondersi delle onde meccaniche generate dall’urto. Quando una forza colpisce il cranio tutta l’energia cinetica lo spinge a muoversi insieme al contenuto encefalico; il tessuto cerebrale continuerà tuttavia a muoversi con la stessa energia anche una volta che il capo si sia fermato e subirà un nuovo urto contro la superficie interna del cranio stesso (danno da contraccolpo). Inoltre, anche in caso di trauma indiretto (cioè senza che il cranio venga inizialmente colpito), il rachide cervicale agisce come un fulcro attorno al quale tutte le forze inerziali vengono facilmente trasmesse sempre e comunque al parenchima encefalico, con conseguenti danni correlati all’entità dei fenomeni di compressione, slittamento e soprattutto di accelerazione angolare108.

Le regioni più sottoposte a tale danno sono le “zone di confine” tra sostanza bianca e sostanza grigia degli emisferi cerebrali, il corpo calloso ed alcune strutture del tronco encefalico (peduncoli cerebellari superiori e mesencefalo), a causa dei diversi coefficienti di elasticità e viscosità. In altre parole, la massa encefalica sollecitata dalla forza inerziale non si muove tutta insieme, ma subisce movimenti di accelerazione-decelerazione in tempi diversi e questo provoca lacerazione e strappamento di assoni e piccoli vasi. Altre aree interessate tipicamente dal DAI sono i nuclei della base ed in generale tutte quelle zone del parenchima encefalico in cui, per i particolari rapporti anatomici, la risposta ad un’accelerazione angolare è maggiore.

La diagnosi di DAI è accertabile solo mediante esame istopatologico post-mortem, anche a distanza di tempo dall’evento traumatico. Alla base del danno assonale primario vi è la rottura traumatica dell’assone del neurone, mentre il DAI secondario è causato da una serie complessa di cascate biochimiche indotte dall’insulto traumatico, fra le quali la liberazione di aminoacidi eccitatori, principalmente glutammato ed aspartato, l’alterazione dell’omeostasi del calcio intracellulare e la formazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS)109,110,111. Esistono alcuni markers di DAI, identificabili mediante metodiche di immunoistochimica; tra i quali i più noti sono la proteina precursore della beta-amiloide (β-APP), la proteina dei neurofilamenti (NF), la proteina S100 e l’enolasi neurone-specifica (NSE).

Per quanto riguarda l’aspetto strumentale, la TC senza mdc che si esegue tipicamente in urgenza può non essere in grado di identificare correttamente le lesioni tipiche del DAI, rappresentate generalmente da multiple e focali aree emorragiche, di dimensioni comprese tra 1 e 5 mm. La tecnica di indagine prescelta per lo studio di queste lesioni è infatti la RMN, che ha dimostrato di avere una maggiore sensibilità rispetto alla TC senza mdc. La RMN,

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inoltre, riesce a riconoscere le lesioni non emorragiche, come l’edema associato al danno assonale, mediante le sequenze FLAIR.

Sulla base dei reperti neuroradiologici, il DAI è classificato in 3 livelli di gravità112:

- nel I grado il danno è concentrato nella sostanza bianca periemisferica, più precisamente alla giunzione grigia-bianca con prevalente impegno dei lobi frontali e temporali;

- nel II grado alle lesioni emisferiche si aggiunge il coinvolgimento del corpo calloso, vero “marker” radiologico del danno assonale;

- nel III grado oltre alle lesioni presenti nel grado I e II si aggiunge il danno del tronco encefalo nei quadranti postero-laterali del mesencefalo e al passaggio ponto-mesencefalico.

I sintomi di presentazione sono molteplici, i più frequenti sono la perdita di coscienza, la cefalea, la nausea, il vomito o disturbi del sonno.

La prognosi è solitamente infausta. I soggetti affetti dalla forma severa si mantengono in uno stato di coma profondo per un periodo prolungato, presentando anche disfunzioni troncoencefaliche ed autonomiche113. È importante sottolineare però che in molti pazienti con DAI si assiste ad un progressivo miglioramento clinico, pur con meccanismi ancora poco noti; l’ipotesi più accreditata è che tutto dipenda dal grado di sofferenza metabolica energetica instauratasi nel neurone durante le prime ore dal trauma.

Emorragie intraventricolari (IVH)

Il trauma è una delle primarie cause di emorragia intraventricolare secondaria.

La presenza di IVH è indice dell’applicazione di forze intense a livello cranico, infatti queste si rilevano nel 10-25 % dei TBI di grado moderato-severo. Raramente si tratta di emorragie isolate, più frequentemente rappresentano l’estensione di emorragie intraparenchimali o subaracnoidee adiacenti. Nei casi in cui non risulta chiaramente identificabile una lesione del parenchima, le emorragie intraventricolari sembrano esser dovute a lacerazione di vene subependimali a livello del fornice, del setto pellucido e dei plessi corioidei.

Queste lesioni non causano frequentemente idrocefalo, tuttavia, in caso di abbondanti versamenti ematici occludenti il terzo ventricolo o i forami di Monroe si può rendere necessaria l’applicazione di derivazioni ventricolari.

La prognosi delle IVH è generalmente infausta, soprattutto per le forme associate ad altre lesioni primarie.

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Figura 6. Esempio di lesioni TC percepibili (Allen D., Thaler N., Classification of Traumatic Brain Injury

Severity: A Neuropsychological Approach, Cluster analysis in neuropsychological research: Recent

applications, pp.95-123; 2013).

Figura 7. Lesioni intracraniche acute rilevate mediante TC. A) Ematoma subdurale; B) ematoma epidurale;

C) contusione cerebrale; D) emorragia subaracnoidea; E) frattura cranica e corpo estraneo (frammento di pallottola); F) pneumoencefalo; G) erniazione cerebrale; H) contusione ed emorragia intraventricolare con idrocefalo. (Brody D., Mac Donald C., Shimony J., Current and future diagnostic tools for traumatic brain injury: CT, conventional MRI and diffusion tensor imaging, Handbook of Clinical Neurology, Vol. 127, 2015).

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27 Danno cerebrale secondario

Il danno cerebrale secondario intracranico è un danno indiretto del trauma; esso consiste in una serie di alterazioni funzionali/anatomiche a livello cellulare che conseguono ad una cascata molecolare che si innesca al momento dell’impatto ed è in grado di protrarsi per ore e giorni dopo il trauma stesso62,114,115. Tali variazioni dell’omeostasi intra ed extracellulare sono innescate probabilmente da una massiva depolarizzazione neuronale che avviene al momento del trauma e dai disturbi ionici che fanno seguito36.

I principali eventi patologici sono rappresentati da:

- eccitotossicità ovvero neurotossicità, essa è la diretta conseguenza dell’alterazione

dell’omeostasi del calcio, in quanto durante il trauma cranico la depolarizzazione dei neuroni porta al rapido ingresso di ioni calcio, i quali provocano un massiccio rilascio di neurotrasmettitori eccitatori, come il glutammato e l’aspartato. Quando i livelli di glutammato superano il valore di 50-100 mmol/L si induce l’apoptosi dei neuroni entro poche ore proprio a causa dell’ipereccitabilità116;

- perossidazione delle membrane cellulari sostenuta dai radicali liberi dell’ossigeno;

- disfunzione mitocondriale;

- squilibri elettrolitici, indotti dall’attivazione dei canali N-metil-D-aspartato

dipendenti, che hanno come effetto finale l’ingresso di calcio e di sodio nel comparto intracellulare e l’estrusione degli ioni potassio. Proprio quest’ultimo è responsabile del rigonfiamento degli astrociti, mentre l’accumulo intracellulare di calcio determina rapida morte neuronale116,117;

- risposta infiammatoria, sostenuta da citochine pro-infiammatorie quali IL-1β,

TNF-a ed IL-6. TrTNF-a queste, il TNF-α è in grTNF-ado di TNF-alterTNF-are direttTNF-amente l’integrità dellTNF-a barriera emato-encefalica118,119;

- ischemia secondaria al danneggiamento diretto ed all’occlusione del microcircolo,

associata al vasospasmo arterioso che si instaura in seguito ad un TBI;

- infine, apoptosi dei neuroni, per tutti i meccanismi sopra citati.

Le cellule sono provviste di sistemi di difesa verso il danno cerebrale secondario quali le molecole ad azione antiossidante, tuttavia tali meccanismi possono non essere in grado di garantire l’integrità strutturale e funzionale dei neuroni, che vanno di fatto incontro a morte. Inoltre, gli eventi sopra citati sono in grado di determinare edema cerebrale ed ipertensione endocranica, che a loro volta aggravano ulteriormente il danno cerebrale36,120,121,122.

I meccanismi neurochimici, neuroanatomici e neurofisiologici del danno cerebrale secondario sono stati studiati intensamente nel modello animale. Si pensa che, nonostante l’impossibilità di riparare in modo efficace le conseguenze del danno cerebrale primario, alcune alterazioni associate a quello secondario siano invece reversibili123,124. Tuttavia, nonostante siano stati condotti numerosi trials preclinici e clinici al fine di dimostrare l’efficacia di interventi a scopo neuroprotettivo che potessero prevenire il danno cerebrale secondario, non sono state ancora individuate strategie vantaggiose125.

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Figura 8. Cascata di eventi innescati dal trauma cranico. (Rosenfeld V, Maas I, Bragge P, Morganti-Kossmann

C. Early management of traumatic brain injury, Trauma surgery, volume 380, Issue 9847, September 22, 2012).

Figura 9. Sequenza di eventi implicati nel danno primario e secondario (Erdman J, Oria M, Pillsbury L, editors.

Nutrition and Traumatic Brain Injury: Improving Acute and Subacute Health Outcomes in Military Personnel, National Academies Press (US); 2011).

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