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Le molte facce dell'apprendimento organizzativo: il caso di una partecipata comunale.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ...2

1. Prospettive storiche del concetto di apprendimento organizzativo ...5

1.1 L'apprendimento organizzativo come formazione: il t-group di Lewin e l'action learning di Revans ...7

1.2 Le basi dell'apprendimento organizzativo: Argyris e Schön ...9

1.3 Verso la learning organization: i lavori di Morgan e Senge ...12

1.4 Il knowledge management e la prospettiva giapponese: Ikujiro Nonaka ...17

2. Le molte facce dell'apprendimento organizzativo: un tentativo di sistematizzazione ...22

2.1 L'apprendimento organizzativo nella teoria di Gregory Bateson ...23

2.2 Organizational learning e learning organization ...26

2.3 La learning organization ...27

2.4 Knowledge management ed organizational learning ...31

2.5 Change management ed organizational learning ...35

2.6 Teoria della complessità ed organizational learning ...39

2.7 L'apprendimento organizzativo nel settore pubblico ...44

3. Verso un framework di apprendimento organizzativo ...48

4. Le variabili del framework all'interno della multiservizi ...66

5. L'integrazione delle variabili all'interno della multiservizi: apprendimento organizzativo o no? ...80

Conclusioni ...85

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Introduzione

Che cos'è l'apprendimento? Rispondere a questa apparentemente banale domanda non è in realtà per nulla semplice, se è vero che si sta parlando di processi psico-sociali a volte difficili da determinare, spesso inconsci e per questo sfuggenti. Gli approcci teorici all'apprendimento sono vari, e si possono collocare su un continuum temporale che ha determinato una progressiva complessificazione del concetto. I vari approcci, inoltre, prendono in considerazione aspetti diversi dell'apprendimento e costruiscono un panorama composito che rende giustizia all'ampiezza del concetto ma non permette di darne una definizione univoca.

In questo già tortuoso percorso si inseriscono le riflessioni sull'apprendimento organizzativo (Organizational learning nell'originale formulazione inglese del concetto), inteso come insieme di processi di creazione e trasferimento di conoscenza all'interno di una organizzazione. Già questa prima e generica definizione pone molte problematiche relative alle modalità con le quali l'apprendimento organizzativo può svilupparsi: è chiaro che i contesti organizzativi sono molto diversi tra loro ed ognuno ha proprie specificità che risulteranno in una implementazione differente (o in una mancata implementazione) del processo di apprendimento. Anche per questo, l'apprendimento organizzativo merita di essere approfondito ed in effetti così è stato. A partire dall'influente lavoro del 1978 di Argyris e Schön, Organizational Learning: a theory of action perspective, infatti, il concetto di apprendimento organizzativo ha assunto una importanza preponderante nella letteratura manageriale.

Tale concetto impone a manager e ricercatori di riflettere sui cambiamenti nel modo di intendere l'organizzazione avvenuti a partire dal secondo dopoguerra, in particolare circa la necessità di impostare la direzione organizzativa in modo da renderla in continuo divenire, rinunciando alla staticità e ripetitività tipica del fordismo. Proprio tale pervasività del concetto di apprendimento organizzativo ha contribuito a renderlo sempre più nebuloso come conseguenza del proliferare di autori che tentavano di darne la propria definizione, spesso in maniera indipendente tra loro e finendo, oltretutto, per perdere di vista la dimensione prettamente applicativa del concetto. Oggi, dunque, risulta paradossalmente difficile comprendere cosa sia l'apprendimento organizzativo, nonostante la miriade di articoli in proposito, e questo ha portato anche ad una sostanziale perdita di interesse nei confronti del suo studio. A rendere ancora più difficile la comprensione del concetto, vi è la sua similarità con tutta una serie di

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termini altrettanto rilevanti, come Knowledge Management, Change Management, Learning Organization. Soprattutto l'interesse nei confronti del primo concetto è aumentato sensibilmente a partire dagli anni '90 (Loermans, 2002), finendo quasi per sostituirsi all'organizational learning.

Questo elaborato si pone dunque l'obiettivo di tentare una sistematizzazione teorica del concetto, e di comprendere come esso possa essere utilizzato nella pratica, attraverso la presentazione di un caso di studio relativo ad una organizzazione pubblica.

Il primo capitolo sarà dedicato ad una presentazione storica dell'apprendimento nelle organizzazioni. Dopo aver brevemente presentato il concetto di apprendimento in generale, dunque non strettamente collegato alla variabile organizzativa, si partirà dalle teorizzazioni di Lewin e Revans, rispettivamente ideatori delle metodologie del t-group e dell'action learning, considerati tra i precursori dell'apprendimento organizzativo. Si proseguirà dunque con i principali promotori del concetto, i già citati Argyris e Schön (1978), per poi occuparsi della cosiddetta Learning Organization, teorizzata estensivamente da Senge (1990) ma già delineata quantomeno nei suoi tratti generali da Morgan (1986). Si concluderà con la prospettiva giapponese ed il concetto di Knowledge Management, prendendo in considerazione il lavoro di Nonaka e Takeuchi (1995).

Il secondo capitolo sarà invece dedicato al vero e proprio tentativo di sistematizzazione dei vari concetti presentati, rintracciandone differenze ma soprattutto parallelismi, tentando di identificarne le criticità per presentare un approccio all'apprendimento organizzativo che le superi e che lo renda applicabile.

Nel terzo capitolo, che chiuderà la prima parte dell'elaborato, si tenterà di costruire un framework adatto ad identificare la presenza o meno di processi di apprendimento organizzativo all'interno di una azienda. Per fare questo, si prenderanno in considerazione una serie di variabili (identificate a partire dalle teorizzazioni presentate nei primi due capitoli) ricorrenti all'interno delle organizzazioni e si cercherà di comprendere come esse influenzino le dinamiche di apprendimento.

Il quarto capitolo aprirà la seconda parte dell'elaborato che, supportata dall'esperienza di tirocinio del candidato, presenterà il caso di una partecipata comunale nata recentemente dalla fusione di altre due aziende. Dopo una breve introduzione del caso, ad essa si applicherà dunque il framework presentato nel terzo capitolo, per identificare al suo interno eventuali processi di apprendimento organizzativo, anche

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attraverso l'osservazione partecipata permessa dal periodo passato dal candidato presso l'ufficio del personale. Tale studio sul campo si rende necessario poiché spesso la teorizzazione dei concetti non è esattamente ed esaustivamente applicabile in contesti pratici che inevitabilmente presentano aspetti peculiari e da valutare caso per caso. La parte empirica dunque ha sia la funzione di comprendere il funzionamento dell'organizzazione, sia di identificare le differenze tra teoria e pratica.

Nel quinto capitolo si approfondirà il funzionamento aziendale cercando di comprendere come le variabili del framework interagiscano tra loro, così da capire quali siano le criticità che favoriscono o inibiscono i processi di apprendimento organizzativo all'interno dell'azienda.

Chiuderà l'elaborato una breve conclusione in cui si riassumerà quanto studiato ed osservato, e si cercherà di identificare le lezioni apprese e gli approfondimenti necessari nel prosieguo delle ricerche sull'argomento.

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Capitolo 1

Prospettive storiche del concetto di apprendimento organizzativo

La fine del fordismo ha portato con sé una serie di cambiamenti epocali nel modo di intendere l'organizzazione. L'economia industriale classica, fatta di gerarchie semplici e compiti ripetitivi, ha lasciato spazio alla cosiddetta “economia della conoscenza” (Drucker, 1969), che si sostanzia in una maggiore complessità dell'organizzazione aziendale e una rielaborazione delle dinamiche interne all'azienda. In questo nuovo contesto vengono valorizzati concetti come creatività ed innovazione, in una prospettiva che incoraggia il cambiamento continuo e lo sviluppo di nuova conoscenza. Cambiano anche le professionalità, alle quali sono richieste competenze sempre più trasversali in un'ottica di lifelong learning.

Questi cambiamenti hanno portato manager e studiosi ad approfondire tutta una serie di concetti che potessero aiutare a sviluppare processi atti ad andare incontro alle modifiche avvenute. Tra questi, risulta centrale quello di apprendimento organizzativo, che cerca di comprendere se e come sia possibile costruire conoscenza all'interno di una organizzazione a vantaggio di tutti i dipendenti intesi come complesso unitario che lavorano per un obiettivo comune.

L'organizational learning, dunque, si inserisce all'interno di un ben più ampio panorama teorico che ha contribuito a rivoluzionare il modo di intendere l'organizzazione. Queste teorie si sviluppano in modo organico tra loro ed ognuna contribuisce ad approfondire ed a completare le altre. L'apprendimento organizzativo, in particolare, mutua alcuni dei propri presupposti teorici dalla teoria sistemica: concepire l'organizzazione come un sistema, fatto di parti in continua interazione tra di loro, è infatti centrale per sviluppare un'idea di apprendimento che presupponga la condivisione della conoscenza. Anche la teoria della complessità ha implicazioni importanti per la costruzione di una organizzazione in grado di apprendere: prendendo le mosse dalla teoria dei sistemi, la approfondisce identificando i sistemi complessi come quelli all'interno dei quali i rapporti tra le parti hanno esiti non prevedibili. I sistemi complessi, dunque, sono caratterizzati da una continua dinamicità. Allo stesso modo, una organizzazione riconducibile ad un sistema complesso deve necessariamente vedere al proprio interno processi di apprendimento continuo per tentare di adeguarsi alle turbolenze che la caratterizzano.

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molto complesse nel corso degli anni, ed hanno inevitabilmente finito per intersecarsi con altri termini simili: il knowledge management, quasi indistinguibile dall'apprendimento organizzativo, si prefigge di studiare modalità di gestione della conoscenza innovative; il change management, studia i processi di cambiamento interni all'organizzazione; la learning organization, identifica la tipologia di organizzazione che applica con successo i processi di apprendimento organizzativo (anche se una reale ed univoca definizione di tale concetto, come vedremo, non esiste).

Prima di entrare in profondità nella descrizione dell'apprendimento nelle organizzazioni, è necessario cercare di comprendere che cosa sia l'apprendimento in generale. Essendo spesso frutto di processi inconsapevoli, non è facile darne una definizione chiara. Anche per questo, storicamente si sono sviluppate varie correnti che hanno tentato di darne una descrizione quantomeno parziale, considerandone taluni aspetti specifici. Nella trattazione di tali correnti si farà riferimento principalmente al volume di Gabrielli e Profili Organizzazione e gestione delle risorse umane, che dedica alla descrizione delle varie teorie dell'apprendimento un corposo paragrafo (il 10.2, p. 240 e sgg.) e che offre un punto di vista rilevante e puntuale che, insieme all'utilizzo di altri contributi, permette una comprensione del tema più che soddisfacente per gli scopi introduttivi di questo paragrafo.

I tentativi di comprensione delle dinamiche attraverso le quali l'uomo apprende sono iniziati nei primi decenni del XX secolo con il behaviorismo, del quale Watson (1913) fu il principale teorico, che identifica l'apprendimento come modifica del comportamento, che avviene attraverso stimoli inviati ai discenti. Questo approccio, sebbene semplice ed ancora acerbo rispetto a quelli che si svilupperanno più avanti, ha avuto grande influenza sulle riflessioni riguardanti l'apprendimento almeno fino alla metà del '900 e, come vedremo tra breve, su di esso si basano le primissime tecniche di gruppo in ambito formativo.

A metà secolo all'interno del sentiero tracciato dal behaviorismo si inserisce la corrente cognitivista, che propone di assegnare un ruolo più attivo al discente, non più mero percettore di stimoli ma capace di elaborare le conoscenze acquisite, interiorizzarle, personalizzarle e collegarle alle esperienze e conoscenze pregresse. Un tal modo di intendere l'apprendimento risulta ovviamente di grande interesse per chi voglia trattare l'organizational learning, che presuppone un contesto aziendale non più dominato da dinamiche meccanicistiche ma che sia in grado di porre al centro le persone con le loro

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peculiarità e dunque con diverse capacità di elaborare le informazioni immagazzinate. Continuando nella breve panoramica sulle teorie dell'apprendimento, vale la pena citare la corrente andragogica, non tanto per la sua applicazione organizzativa quanto per la sua volontà di sottolineare le differenze tra apprendimento nell'infanzia ed apprendimento nell'età adulta. Knowles (1968), tra i più importanti sostenitori della teoria, identifica alcuni fattori che risultano fondamentali nell'implementazione di un processo di apprendimento negli adulti: tra questi, il ruolo dell'esperienza (che permette di valorizzare ogni persona in maniera diversa) e il bisogno di conoscere (ovvero la necessità di identificare precisamente le motivazioni dell'apprendimento per essere maggiormente motivati) possono diventare particolarmente importanti per capire come costruire una organizzazione in grado di apprendere.

Negli anni '80, sulla base degli approcci precedenti, si sviluppa la teoria dell'apprendimento esperienziale. Kolb e Fry (1974) propongono un percorso di apprendimento che parte dall'esperienza concreta, prosegue con una osservazione riflessiva che permette al discente di giungere ad una concettualizzazione astratta e che porterà, in conclusione, alla sperimentazione attiva che cristallizzerà la nuova conoscenza. Anche tale approccio, dunque, si rivela tra i più importanti nell'esteso panorama delle teorie dell'apprendimento, per la sua capacità di sottolineare la complessità del concetto e la conseguente delicatezza nell'implementazione di un percorso che consenta di applicarlo al meglio, sfida che verrà colta dai teorici dell'organizational learning.

L'apprendimento, dunque, è stato oggetto di studio per parecchio tempo prima che venisse applicato con continuità al contesto organizzativo. Nonostante, come abbiamo detto, l'esordio della letteratura sull'organizational learning vero e proprio si possa far risalire al 1978, anno di uscita del libro di Argyris e Schön, si possono identificare alcuni precursori del concetto risalenti agli anni '40 e '50. Si sta parlando, in particolare e come anticipato nell'introduzione, di Kurt Lewin e Reg Revans.

L'apprendimento organizzativo come formazione: il t-group di Lewin e l'action learning di Revans

Kurt Lewin iniziò a sviluppare il concetto e la pratica del t-group nella seconda metà degli anni '40. In quel periodo era ancora il behaviorismo la teoria prevalente, ed infatti le basi concettuali del t-group si rifanno proprio a tale modello, del quale si può dire che

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costituisca uno sviluppo. Il t-group presenta alcuni aspetti in comune con il processo, anch'esso descritto da Lewin, definito unfreeze-change-refreeze (Highhouse, 2002): il primo passaggio consiste nello “scongelare” la situazione esistente, ovvero renderla modificabile; il secondo passaggio porta all'effettiva modifica del comportamento, che poi viene istituzionalizzato e dunque si sostituisce permanentemente a quello precedente. Tale processo, però, viene di solito utilizzato per comprendere il cambiamento nelle organizzazioni; il t-group, invece, ha una prospettiva maggiormente indirizzata alla pratica e può presentare caratteristiche anche molto diverse a seconda del contesto in cui si sviluppa. Dal punto di vista pratico, infatti, il t-group consiste nell'utilizzo di una serie di tecniche, principalmente role-play e discussioni senza leader, atte a comprendere le basi valoriali e comportamentali dei partecipanti ed eventualmente a migliorarle (Highhouse, 2002).

Nel corso della sua storia il t-group andò incontro ad alterne fortune: nel periodo di massima popolarità molte delle maggiori multinazionali nordamericane lo utilizzarono nei propri corsi di formazione, ma allo stesso tempo ricevette feroci critiche da più parti da teorici che ne reputavano oscure le modalità di implementazione e non provabile la sua efficacia.

Nello stesso periodo in cui Lewin stava sviluppando il suo t-group, ovvero immediatamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Reg Revans, anch'egli profondamente influenzato dalle teorie behavioriste, introdusse il concetto di action learning. Questa modalità di apprendimento condivide alcuni principi con il t-group: anch'essa utilizza tecniche di gruppo per provocare una modifica nel comportamento dei partecipanti. L'action learning, però, prevede più specificamente applicazioni in ambito organizzativo: la prima comparsa del termine risale al 1945 quando Revans ne propose l'utilizzo ai manager di una industria mineraria per migliorare il loro grado di apprendimento gruppale (Revans, 1982). Proprio per la sua peculiarità ed applicazione specifica, l'action learning è andato incontro a varie interpretazioni (condividendo in un certo senso lo stesso destino dell'apprendimento organizzativo) che a loro volta si rifanno a diverse teorie: l'action research lewiniana e l'apprendimento esperienziale di Kolb (già citato) su tutte (Marsick, 1999). Al di là delle pur rilevanti differenze, comunque, tutte le interpretazioni presentano gli stessi elementi di base: è previsto un incontro tra i partecipanti (solitamente in numero non maggiore a sei) che discutono dei problemi che hanno incontrato in un determinato contesto e tentano di sviluppare una

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soluzione in maniera condivisa, grazie alle differenti prospettive che emergono durante l'incontro (Marsick, 1999). La prospettiva fortemente pratica di tali tecniche e i molti sviluppi avvenuti in ambito sia formativo che organizzativo hanno imposto altrettante modifiche al modo di concepire il t-group e l'action learning, che oggi presentano caratteristiche assenti nella loro formulazione originaria e che sono, esse stesse, in continuo divenire.

Come si può intuire da questa pur breve panoramica, le esperienze di apprendimento di gruppo sviluppatesi alla fine della Seconda Guerra Mondiale sono ancora lontane dalla complessità che si raggiungerà con alcune teorizzazioni successive, ma presentano già elementi interessanti che saranno molto rilevanti lungo tutto il corso delle riflessioni sull'organizational learning. In particolare, le dinamiche dell'action learning anticipano quelle che saranno del team work, che come vedremo è essenziale all'interno di una azienda che voglia implementare l'apprendimento organizzativo in maniera efficace.

Le basi dell'apprendimento organizzativo: Argyris e Schön

Il classico testo sull'organizational learning di Argyris e Schön (1978), che sviluppa ed approfondisce una serie di articoli scritti dai due autori nella prima metà del decennio, rappresenta una svolta nella letteratura manageriale, introducendo una serie di concetti che costituiranno le basi di tutte le teorizzazioni successive. I due autori tentano di identificare le criticità che impediscono alle organizzazioni di implementare processi di organizational learning e propongono un modello in grado di superare tali criticità. Gli autori chiariscono preliminarmente un concetto all'apparenza banale ma in realtà fondamentale: l'apprendimento individuale che avviene all'interno delle organizzazioni (ad esempio attraverso corsi di formazione in aula, dunque privi di rielaborazione collettiva del sapere acquisito) è qualcosa di sostanzialmente diverso dall'apprendimento organizzativo. Se il singolo apprende, non è detto che anche l'organizzazione apprenda. E' pur vero che l'apprendimento organizzativo si sviluppa a partire dagli individui, ma deve agire nell'ambito di processi che coinvolgano l'organizzazione nel suo complesso. Tali processi vengono identificati da Argyris e Schön nelle teorie dell'azione, che corrispondono alle modalità utilizzate dai membri per determinare il proprio comportamento all'interno dell'organizzazione. Le teorie

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dell'azione vengono distinte in espoused theories, che corrispondono ai processi ufficiali, dichiarati dai membri come quelli effettivamente utilizzati nell'organizzazione, e theories in use, i comportamenti effettivamente osservabili. Mentre le prime sono scritte in documenti formali e dunque sono di carattere esplicito, le theories in use sono invece tacite e dunque gli stessi membri spesso le mettono in pratica in maniera inconscia, senza realmente rendersene conto. E' dunque frequente che si crei una discrepanza tra teorie ufficiali e teorie effettive.

Risulta perciò chiaro come un processo di apprendimento organizzativo debba necessariamente passare da una riflessione che riguardi le theories in use: sono infatti queste che, in ultima istanza, regolano il reale funzionamento aziendale. Argyris e Schön, in questo frangente attingendo da varie teorizzazioni precedenti, non da ultimo il seminale lavoro di Bateson (1972) che verrà approfondito nel capitolo seguente, identificano due distinte tipologie di apprendimento che vanno ad agire sulle theories in use: la prima, definita single-loop-learning, porta ad accorgersi di errori nelle teorie come conseguenza di un risultato differente dalle aspettative nel momento della messa in pratica delle teorie stesse e quindi ad accorgimenti che però non le modificano, ma al contrario le rafforzano; la seconda, double-loop-learning, impone di agire direttamente sui principi fondativi delle teorie, modificandole dunque in maniera permanente. Per comprendere meglio questi due fondamentali concetti, è possibile fare riferimento ad un esempio tratto da Argyris (1977), e che Argyris e Schön riprendono nel loro libro del 1978. L'esempio è quello di un termostato che controlla la temperatura di una stanza: si ha single-loop-learning se il termostato è in grado di riscaldare o raffreddare la stanza fino a portarla ad una temperatura precedentemente definita; si ha double-loop-learning, invece, quando il termostato è in grado di identificare da solo la temperatura ottimale per la stanza, ed agire di conseguenza. Nonostante gli autori riconoscano che entrambe le tipologie si possano ricondurre ad apprendimento organizzativo, il loro interesse si concentra soprattutto sul double-loop-learning, che presupponendo un cambiamento più radicale si presta ad una modifica dei comportamenti più profonda ed irreversibile.

Come attuare, dunque, un processo di double-loop-learning nella pratica? Argyris e Schön descrivono due modelli organizzativi, con caratteristiche in gran parte opposte, che si differenziano proprio per il loro approccio nei confronti del double-loop-learning. Il primo modello, detto Modello O-I, presenta al proprio interno continui tentativi di sopprimere il dissenso e il conflitto, attraverso l'attuazione di specifiche strategie

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difensive (Anderson, 1997). Secondo Argyris, i valori che muovono le organizzazioni riconducibili al Modello O-I sono uno stretto controllo dei processi, la minimizzazione delle perdite, la soppressione dei problemi e un continuo tentativo di agire nella maniera più razionale possibile (Argyris, 1996). Argyris e Schön (1996), peraltro, notano anche come alcune caratteristiche sociali considerate virtuose, come l'integrità ed il tentativo di supportare gli altri, finiscano in realtà per sostenere questi meccanismi di difesa, che dunque si possono considerare, quantomeno in parte, radicati nel normale comportamento umano, e dunque ancora più difficili da rompere. Questa modalità di organizzazione, dunque, impedisce la libera circolazione delle informazioni e soprattutto porta le persone, attraverso il meccanismo difensivo citato, ad una distorsione dei fatti fino alla negazione delle problematiche interne all'organizzazione stessa. Questa situazione pone i membri nell'incapacità di valutare le theories in use ed il loro ruolo all'interno di questi processi, inibendo il double-loop-learning, che presuppone proprio questa capacità di valutazione delle teorie, preliminare alla loro modifica. Argyris (1993) approfondisce questo aspetto introducendo il concetto di action maps, ovvero le mappe di tali meccanismi difensivi che permettono di identificare i problemi all'interno delle singole aziende.

Il secondo modello, il Modello O-II, presenta ampia libertà di azione dei membri, esplicitazione del dissenso e conseguente assenza delle dinamiche difensive sperimentate nel primo modello. In questi contesti, dunque, vi sono le condizioni perfette per sviluppare double-loop-learning: le theories in use vengono continuamente messe in discussione, e se necessario modificate in profondità.

Chiaramente anche questi due modelli rappresentano delle interpretazioni ideali di ciò che succede nelle organizzazioni, e sono utili per una descrizione teorica; la realtà però sarà sempre più complessa, ed alcune caratteristiche dei due modelli finiranno per convivere nella medesima organizzazione, che pur si avvicinerà maggiormente ad uno dei due.

Alla luce di quanto appena detto, si può interpretare il lavoro di Argyris e Schön come un tentativo di identificare le criticità delle organizzazioni che impediscono a queste di implementare processi di organizational learning. La soluzione a tali criticità, essenzialmente individuata nella sostituzione del Modello O-I con il Modello O-II, risulta di difficilissima applicazione, come sottolineato anche da alcuni autori che si sono occupati di fare una lettura critica delle teorie di Argyris e Schön (Lipshitz, 2000).

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Anche per questo motivo, forse, i due autori vengono citati estensivamente nell'ambito di individuazione di problematiche organizzative, ma non altrettanto spesso laddove si cerchino soluzioni concrete.

Lo stesso apprendimento organizzativo, d'altra parte, e la sua distinzione da quello individuale, presenta problematiche che Argyris e Schön hanno messo a fuoco con precisione, e questo è il grande merito del loro lavoro e ciò che gli ha conferito grande attrattiva ed un posto di rilievo nella letteratura manageriale. Ma dal punto di vista delle applicazioni pratiche la loro opera non risulta, secondo Lipshitz (2000), altrettanto soddisfacente.

Verso la learning organization: i lavori di Morgan e Senge

A partire dalla seconda metà degli anni '80 la letteratura sull'apprendimento organizzativo ha avuto importanti sviluppi grazie ad alcuni contributi innovativi che hanno determinato sia un rinnovamento sia una maggiore complessità delle tematiche affrontate. Si sta parlando, in particolare, di Gareth Morgan e, soprattutto, di Peter Senge. I lavori di questi due autori danno grande risalto alla componente sistemica dell'organizzazione. Secondo la teoria dei sistemi, il tutto (in questo caso l'organizzazione) è qualcosa di diverso dalla somma delle singole parti. La componente individuale, come già nelle teorizzazioni di Argyris e Schön, risulta dunque tutto sommato marginale. E' bene precisare subito che essa non viene completamente meno (banalmente: l'organizzazione è pur sempre formata da individui, dunque da essi non si potrà mai prescindere; d'altra parte la stessa teoria sistemica riconosce la presenza di parti in interazione tra loro), ma si colloca in una posizione che potremmo definire di subordinazione rispetto all'organizzazione vista come una totalità unica. E' proprio in virtù di questa subordinazione che si ha il passaggio dal concetto di apprendimento organizzativo a quello di Learning Organization: l'apprendimento organizzativo non è diretta conseguenza di quello individuale, ma è l'organizzazione in quanto tale che impara. Tale teorizzazione appare fin da subito problematica: come si può definire una Learning Organization? In che modo essa apprende? I tentativi di rispondere a questi interrogativi, come vedremo nel corso di questo elaborato, sono stati molti, ma non altrettanto frequentemente le risposte fornite sono state soddisfacenti.

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Se Peter Senge è dai più considerato il padre della Learning Organization, altri autori prima di lui si sono occupati del concetto. Tra questi, Gareth Morgan, con la sua opera del 1986 Images of Organization, è colui che ha contribuito in maniera più interessante. Morgan descrive le organizzazioni, facendo anche ampio uso del contributo di moltissimi autori diversi, attraverso varie metafore: tra queste, risulta rilevante per la nostra trattazione quella che propone di considerarle come cervelli, metafora strettamente collegata ai principi della teoria sistemica. I vari contributi all'interno dell'organizzazione, infatti, emergono come un outcome unico: l'azione individuale, quindi, risulta importante solo nella misura in cui contribuisce alla creazione del suddetto outcome complessivo.

Morgan utilizza anche alcuni principi mutuati dalla cibernetica, scienza multidisciplinare sviluppatasi a partire dagli anni '40 che studia le modalità di trasmissione delle informazioni: tramite essa vengono sviluppati i due differenti concetti di “apprendimento” ed “apprendimento dell'apprendimento”, che presentano molte similitudini con quelli, rispettivamente, di single-loop-learning e double-loop-learning incontrati con Argyris e Schön. Come si può vedere, dunque, la continuità concettuale nelle varie teorizzazioni dell'apprendimento organizzativo è ben visibile e nonostante le complessificazioni attuate nell'ambito della Learning Organization, i precetti introdotti da Argyris e Schön restano ancora validi.

Al di là ed a conclusione dell'esposizione dei riferimenti teorici utilizzati per sviluppare la propria visione dell'organizzazione che apprende, Morgan propone alcuni principi che dovrebbero (il condizionale come sempre è d'obbligo) aiutare i manager nella costruzione di tale tipologia di organizzazione. Tali principi, quattro in tutto, tentano di considerare le variabili che intervengono nei processi organizzativi per controllarle ed indirizzarle: il primo principio impone di identificare i cambiamenti ambientali prima che essi avvengano, per poter così anticiparli; il secondo ed il terzo ricalcano quasi perfettamente il double-loop-learning, ed urgono di mettere in discussione le modalità organizzative per modificarle e dunque promuovere l'emergere di nuove; il quarto ed ultimo propone in modo molto generale di progettare organizzazioni che facilitino l'apprendimento (Morgan, 1986).

Morgan, però, si spinge oltre ed arriva a teorizzare una tipologia di organizzazione detta “olografica”: essa rappresenta un ulteriore approfondimento della metafora del cervello e dunque condivide le basi con la Learning Organization appena descritta attraverso i quattro principi, ma ad essi ne affianca altri. I più importanti sono quelli

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della varietà necessaria (per cui la differenziazione interna all'organizzazione deve corrispondere a quella dell'ambiente esterno) e della ridondanza (per cui all'interno dell'organizzazione deve esserci un insieme di conoscenza condivisa dai membri, che permette migliore comunicazione e favorisce l'apprendimento). La metafora olografica non è stata particolarmente approfondita nella letteratura manageriale, e dunque manca una sua critica completa ed esaustiva. Nondimeno, i due principi summenzionati torneranno anche nell'ambito della knowledge creating company di Ikujiro Nonaka e della scuola giapponese, e dunque meritano di essere citati. Anche l'organizzazione olografica, inoltre, è strettamente collegata alla teoria sistemica ed ai principi della cibernetica, e dunque non si colloca al di fuori della discussione sulla Learning Organization ma anzi ne rappresenta una delle varianti più interessanti e più innovative.

I meriti del lavoro di Morgan sono diversi e devono essere sottolineati: oltre ad avere, come già detto in più occasioni, solide basi teoriche ben descritte e contestualizzate, l'autore si premura di identificare in maniera chiara alcuni principi da applicare nella costruzione di una Learning Organization, dando quindi anche un taglio pratico alla propria trattazione, cosa per nulla scontata come abbiamo visto e come vedremo. Allo stesso tempo, però, i precetti di Morgan sembrano soffrire delle stesse problematiche già incontrate con Argyris e Schön: si caratterizzano per essere estremamente generali ed in ultima istanza la loro reale applicazione appare piuttosto difficoltosa proprio perché le modalità con le quali applicare i principi non vengono esaminate a fondo. Come già ricordato in apertura di paragrafo, il lavoro di Peter Senge The Fifth Discipline: the Art and Practice of The Learning Organization rappresenta uno spartiacque nella letteratura sull'apprendimento organizzativo: è infatti grazie a tale libro che il concetto di Learning Organization cessa di essere un termine di nicchia, conosciuto solo da pochi addetti ai lavori particolarmente illuminati, e giunge a rappresentare uno dei più importanti paradigmi manageriali della nostra epoca. A partire dal 1990, anno di uscita del libro di Senge, le citazioni bibliografiche sulla Learning Organization aumentano esponenzialmente, e le riflessioni raggiungono nuovi livelli di complessità che ne sottolineano le potenzialità ma anche, come vedremo, i limiti.

Perché è solo con il lavoro di Senge che si ha questo aumento di interesse? D'altra parte, come visto poco sopra, prima di lui altri teorici si erano occupati della Learning

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Organization, in certi casi anche in maniera approfondita. Bisogna innanzitutto notare che il lavoro di Morgan, il più completo tra quelli che precedono Senge, si distingue per essere di comprensione particolarmente difficile: le metafore del cervello ed olografica non sono certo immediate. Senge, invece, utilizza una retorica ed una strutturazione che si prestano bene ad essere comprese da una vasta platea, e le cinque discipline (corpus centrale del suo lavoro), sono molto attraenti dal punto di vista teorico (Calhoun et al., 2011). Questo, paradossalmente, è anche ciò che potenzialmente può squalificare le teorie di Senge, come vedremo in chiusura di paragrafo.

Come detto, la teoria centrale presente nel lavoro di Senge ruota attorno a cinque discipline, considerate fondamentali per la costruzione di una organizzazione in grado di apprendere. Tali discipline sono: Personal Mastery, che consiste nello sviluppo individuale (di ogni membro dell'organizzazione) attraverso la comprensione di essere parte del tutto, tale da favorire un miglioramento delle competenze tecniche ma soprattutto personali; Mental Models, che condivide molte caratteristiche con le theories in use di Argyris e Schön e rappresenta dunque l'insieme di assunti, ideali e dunque modalità di azione interne all'organizzazione. Come le theories in use, anche i mental models sono in gran parte inconsci, e dunque devono essere esplicitati per impedire che risultino paralizzanti; Building Shared Vision: costruire una visione condivisa è fondamentale non solo per creare un clima di unità e dunque contribuire alla già citata percezione dei membri di essere parte di un tutto, ma anche per identificare un obiettivo univoco che permetta ad ogni membro di agire al massimo delle proprie capacità (proprio perché inserito in un contesto in cui si sente utile e dunque valorizzato) ed all'organizzazione di raggiungere il massimo dell'efficienza e dell'efficacia; Team Learning: il lavoro in team rappresenta uno dei punti fondamentali della Learning Organization, poiché è grazie al lavoro di gruppo che si può favorire la condivisione delle informazioni e dunque anche lo sviluppo dei singoli membri del team; Systems thinking, è la disciplina centrale, che collega le altre quattro ed è in definitiva ciò che distingue la Learning Organization dalle altre tipologie di organizzazione. Dare una definizione di tale disciplina, peraltro, è particolarmente difficile poiché lo stesso Senge non la descrive in maniera approfondita.

Come abbiamo visto, la teoria sistemica faceva parte del framework concettuale dell'apprendimento organizzativo già con Morgan, e Senge si pone all'interno del medesimo sentiero, se possibile dando ancora maggior risalto alla teoria. Le basi teoriche di Senge, dunque, sono chiare e provengono direttamente dalla letteratura

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precedente: Argyris e Schön, teoria dei sistemi, cibernetica.

In apertura di paragrafo è stato detto che le caratteristiche delle teorie di Senge che ne hanno determinato la fortuna, in qualche modo ne hanno anche messo in luce le problematicità.

La visione sistemica di Senge è di tipo olistico: nonostante le cinque discipline partano dallo sviluppo individuale, in ultima istanza è l'organizzazione in quanto tale che impara, quasi avesse volontà propria. Caldwell (2012) critica ampiamente la reificazione, se non antropomorfismo, insiti in tale impostazione: la marginalizzazione dell'individuo nella Learning Organization di Senge è vista come qualcosa di profondamente negativo.

La trattazione delle cinque discipline, come detto, è estremamente accessibile: ma per fare ciò Senge ha dovuto dargli un taglio molto astratto che si rende conseguentemente di difficile applicazione pratica (Calhoun et al., 2011): in questo senso Senge condivide il destino già riservato ad Argyris e Schön, le cui teorie, per quanto attraenti, non si sono rivelate di grande utilità pratica.

L'astrattezza della descrizione delle cinque discipline, inoltre, ha portato ad un grande numero di interpretazioni differenti (Ortenblad, 2007). Questo aggiunge ulteriori difficoltà alle molte già incontrate nel tentativo di rendere le teorizzazioni dell'autore utilizzabili: come poterle applicare se non vi è nemmeno accordo su cosa sia l'organizzazione descritta? Ortenblad sostiene inoltre che lo stesso Senge tratti il concetto in maniera spesso ambigua, e dunque lui stesso sia da imputare almeno in parte per questa difficoltà di definizione. D'altra parte, ciò significa anche che qualsiasi definizione data in astratto possa andare bene, a patto di trarla in maniera anche indiretta da quanto scritto nel libro di Senge.

Per tutti questi motivi, l'interesse attorno alla Learning Organization si è sviluppato molto velocemente ma si è sgonfiato in maniera altrettanto celere una volta esposti tutti i suoi limiti. Nonostante il libro di Senge continui ad essere citato, a partire dagli anni 2000, dopo un decennio di fasti, le citazioni della Learning Organization sono diminuite drasticamente ed oggi il termine sembra essere stato sostituito da altri concetti più recenti ed all'apparenza più utilizzabili (Scarbrough e Swan, 2001). Tra questi, particolare risalto ha avuto, fin dalla seconda metà degli anni '90, quello di knowledge management il cui principale artefice, Ikujiro Nonaka, sarà protagonista del prossimo paragrafo.

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Il knowledge management e la prospettiva giapponese: Ikujiro Nonaka

Come anticipato alla fine del precedente paragrafo, già a partire dalla seconda metà degli anni '90, pur con la Learning Organization che ancora attraeva le attenzioni dei manager di tutto il mondo, iniziò a farsi largo un concetto nuovo, destinato a crescere di importanza nel decennio successivo: quello di knowledge management. Ovviamente i due concetti in parte si sovrappongono, e il tentativo di comprenderne le differenze sarà parte del capitolo successivo.

Il knowledge management si sviluppa soprattutto grazie al teorico giapponese Ikujiro Nonaka, che prima con l'articolo del 1991 The knowledge-creating company e poi con l'omonimo libro del 1995 pone le basi teoriche di tale concetto.

Il punto da cui parte Nonaka è il riconoscimento che, in un'epoca di forte incertezza, la conoscenza è l'unica variabile che può consegnare ad una organizzazione un vantaggio competitivo duraturo. Tale idea non è nuova: il knowledge worker, infatti, fu introdotto fin dal 1959 da Peter Drucker, e in fin dei conti tutta la letteratura sull'apprendimento organizzativo si ispira a tale modo di vedere. Ma Nonaka si spinge più a fondo ed arriva a teorizzare una organizzazione che non solo permetta ai propri membri di apprendere, ma che sia in grado essa stessa di creare conoscenza, secondo il principio tipicamente giapponese del miglioramento continuo.

Ma cosa significa creare conoscenza? Significa innanzitutto essere in grado di intercettare le conoscenze tacite e soggettive degli individui e metterle al servizio dell'organizzazione. Vi è dunque un parziale ritorno alle dinamiche dell'apprendimento organizzativo ed un relativo distacco dalla Learning Organization: l'apprendimento individuale, però, esce modificato dall'esperienza teorica della Learning Organization e si differenzia anche dall'accezione che del termine avevano dato Argyris e Schön, per diventare qualcosa di più profondo, che ha a che fare con le soggettività dei singoli individui, ovvero con il riconoscimento che ogni individuo può portare qualcosa di unico all'interno dell'organizzazione proprio in forza del suo essere quell'individuo particolare, con le sue esperienze e con i suoi modi peculiari di interpretare le situazioni. In questo senso, anche le teorie di Nonaka si possono ricondurre alla corrente sistemica: la scuola giapponese, però, rispetto a Morgan e Senge conferisce maggior importanza al ruolo del singolo all'interno del sistema nel suo complesso, cioè l'organizzazione. Nonostante l'organizzazione venga vista principalmente come sistema, però, in Nonaka non viene completamente meno l'idea dell'organismo vivente, particolarmente

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nella misura in cui, in certi passaggi, Nonaka sembri conferire all'organizzazione una identità sua propria. La questione è spinosa, e la sua risoluzione non semplice.

Si è detto che al centro del processo di creazione della conoscenza vi è l'individuazione della conoscenza tacita. Tale concetto rappresenta la metà della dicotomia principale nelle teorizzazioni di Nonaka: l'altra è la conoscenza esplicita. Tale suddivisione fu introdotta da Polanyi (1962), ed è proprio partendo da Polanyi che Nonaka costruisce la sua riflessione. Ma di cosa si sta parlando? Non è facile spiegare cosa sia la conoscenza tacita: è in parte riconducibile alle theories in use di Argyris e Schön, e dunque ai Mental Models di Senge, ma ha delle caratteristiche che la differenziano da entrambi i modelli. Si può dire che la conoscenza tacita abbia una componente pratica, legata alle capacità tecniche, ed una componente cognitiva, fatta di modelli e valori (Nonaka, 1991). La difficoltà nella sua descrizione sta dunque nel fatto che entrambe queste componenti sono sfuggenti essendo espressione di qualcosa che normalmente si forma nel corso degli anni e dunque non esprimibile a parole. Si pensi alle competenze tecniche: solitamente si imparano attraverso il lavoro stesso (si parla infatti di learning by doing), spesso senza rendersi nemmeno conto dei propri progressi; la stessa cosa si può dire per i valori, che vengono internalizzati lentamente e quasi senza accorgersene. Per Nonaka vi sono due fattori che influenzano la conoscenza tacita, rendendola utilizzabile: la varietà dell'esperienza, ovvero il superamento dei semplici compiti routinari per creare una esperienza lavorativa dinamica; la costruzione di un commitment che coinvolga il lavoratore nella sua totalità, sia con la mente che con il corpo, per metterlo nelle condizioni di conoscere in maniera approfondita l'esperienza fatta (Nonaka, 1994). Al centro del processo di creazione di conoscenza tacita, dunque, vi è l'individuo.

La conoscenza esplicita, invece, è di immediata comprensione, e dunque facilmente comunicabile e condivisibile. Comunque, Nonaka precisa che tali due tipologie di conoscenza non devono essere considerate come separate, ma interagiscono tra loro collocandosi su di un continuum (Nonaka e von Krogh, 2009).

Nonaka individua quattro modalità di trasmissione della conoscenza, derivanti dall'interazione tra le due tipologie appena viste: da conoscenza tacita a conoscenza tacita, da conoscenza esplicita a conoscenza esplicita, da conoscenza tacita a conoscenza esplicita e da conoscenza esplicita a conoscenza tacita. Nel primo caso si ha un passaggio individuale di conoscenza da una persona ad un'altra, senza che però tale conoscenza entri a far parte di quella organizzativa, mentre nel secondo si

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combinano tra loro conoscenze esplicite già presenti, senza che vi sia creazione di nuova conoscenza. Le ultime due modalità sono strettamente collegate tra loro e sono, in definitiva, le più importanti: una conoscenza tacita viene condivisa da un individuo con l'organizzazione, e dunque diventa esplicita; i singoli individui poi la internalizzeranno modificando la propria conoscenza tacita. Una knowledge-creating company deve presentare al proprio interno tutte e quattro queste modalità, che creeranno quello che Nonaka chiama ciclo di creazione della conoscenza.

Nonaka (1994) identifica inoltre alcune condizioni che favoriscono la creazione di conoscenza: la cosa interessante è che egli cita caos creativo, ridondanza e varietà necessaria, ovvero i principi che già Morgan mise al centro della propria teorizzazione della organizzazione olografica. Nonaka e Konno (1998), inoltre, introducono il concetto di “ba”, ovvero una sorta di “spazio comune”, come descritto da Alavi e Leidner (2001), grazie al quale i dipendenti possono condividere le proprie conoscenze. Il concetto di “ba”, però, è uno di quei termini giapponesi difficilmente traducibili in altre lingue, e dunque non è il caso di approfondirlo più di tanto anche perché il suo ruolo all'interno della teoria di Nonaka è tutto sommato marginale.

Come vedremo, tale teoria è stata messa in dubbio da più parti, sia nella sua applicabilità pratica sia nella sua concettualizzazione teorica. Questo anche se, in effetti, Nonaka non si limita ad una mera descrizione dei processi di creazione della conoscenza, ma tenta di individuare alcuni principi che dovrebbero favorirne l'implementazione. In questo frangente, viene espressamente citata, come appena ricordato, la metafora olografica di Morgan, di cui vengono ripresi sia il principio della varietà necessaria sia, soprattutto, quello della ridondanza: anche per Nonaka, infatti, una base di conoscenza condivisa tra i membri dell'organizzazione aiuta a rafforzare le relazioni e dunque favorisce la creazione di nuova conoscenza. Come agevolare la ridondanza? Ad esempio creando team di progetto paralleli, soluzione che però può risultare dispendiosa; si può allora individuare una precisa rotazione delle funzioni che permetta agli individui di sviluppare capacità in più rami possibili; è fondamentale poi permettere ai membri di avere libero accesso alle informazioni aziendali. Nonaka sottolinea anche il ruolo centrale del management nel promuovere tali processi. Un ultimo principio introdotto (o forse, anche in questo caso, dovremmo dire ripreso, dato che si collega ampiamente alla teoria della complessità) da Nonaka è quello di caos creativo: non imporre limiti né confini, non solo mentali ma anche fisici (si pensi all'importanza della disposizione degli uffici all'interno di un'azienda), e ridurre il

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controllo attuato sugli individui (senza ovviamente sconfinare nell'anarchia organizzativa) conduce a maggiore libertà e dunque ad una migliore condivisione delle informazioni, base della conoscenza.

Nonostante questi consigli pratici, però, come poc'anzi anticipato anche il knowledge management di Nonaka è stato criticato fin nelle sue linee essenziali. Una prima perplessità, indirizzata al cuore della teoria, sta nell'apparente paradosso insito nella descrizione delle modalità di trasmissione della conoscenza: se viene più volte sottolineata la necessità della presenza di tutte e quattro per poter identificare una knowledge creating company, appare quantomeno singolare la configurazione di due di esse (da tacita a tacita e da esplicita ad esplicita) come meri processi di transfer, mentre solo le due modalità “trasversali” (da tacita ad esplicita e da esplicita a tacita) possono essere considerate processi di vera e propria conversione, e dunque creazione, di conoscenza (Bratianu, 2010). Una critica puramente teorica, dunque, pur sempre rilevante nella misura in cui si pone interrogativi che coinvolgono anche una sua eventuale applicazione.

Parimenti rilevabile, comunque, è una critica alla pratica del knowledge management: come si crea, in concreto, nuova conoscenza? Nonaka non risponde adeguatamente a questa domanda, limitandosi a porre al centro la conoscenza tacita, peraltro più volte identificata come problematica e sfuggente, e dunque intrinsecamente difficile da trasformare in conoscenza esplicita (Powell, 2007). Anche l'internalizzazione della conoscenza esplicita pone alcuni problemi in termini di applicabilità: proprio l'attenzione all'unicità delle soggettività individuali, come visto punto cardine della teoria di Nonaka, può portare a problemi di interpretazione delle informazioni acquisite che possono essere internalizzate in maniera completamente diversa dai vari membri e dunque risolversi in una conoscenza confusionaria che non porta a caos creativo, ma al contrario favorisce l'allontanamento dei membri stessi.

Anche le teorie di Nonaka, dunque, si prestano ad incontrare difficoltà pratiche, come rilevato anche da un sondaggio della società di consulenza Bain & Co. (citato da Powell, 2007) che ha identificato il knowledge management come il concetto manageriale le cui teorizzazioni si sono rivelate meno applicabili. Si parla già, in effetti, di post-Nonaka knowledge management (Schütt, 2003), come tentativo di superare le criticità rilevate in particolare in relazione alla non chiara natura della conoscenza tacita.

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Nel corso di questo capitolo sono state presentate le teorie più importanti legate all'apprendimento organizzativo. Come abbiamo visto, sono presenti diverse basi concettuali condivise dai vari autori, e questo può aiutare a sviluppare un primo framework generale che individui alcune caratteristiche necessarie per una organizzazione che voglia implementare davvero dei processi di apprendimento che le permettano di conseguire, all'esterno, un vantaggio competitivo, ed all'interno la creazione di una struttura efficiente. Allo stesso tempo, però, nel corso del capitolo si sono resi chiari altri due punti che invece possono portare non poche difficoltà: innanzitutto, ogni teoria presenta i propri punti deboli, soprattutto al momento dell'applicazione pratica; secondariamente, e forse questo è il problema più difficile da superare nella stesura di un elaborato, risulta a prima vista impossibile persino dare una descrizione univoca di cosa sia l'apprendimento organizzativo. Tale concetto, infatti, ha implicazioni così profonde da necessitare di essere calato nei singoli contesti organizzativi. Si potrebbe dire che vi sono tante definizioni di apprendimento organizzativo quante sono le organizzazioni esistenti. Non si può prescindere, inoltre, nemmeno dal problema relativo all'osservatore: ogni persona, infatti, può interpretare i processi organizzativi in maniera diversa dagli altri, dunque non vi è univocità nemmeno qui: le definizioni di apprendimento organizzativo potrebbero dunque essere tante quanti sono gli osservatori esistenti.

Tali problematiche verranno analizzate, con ampio utilizzo della vastissima letteratura dedicata all'argomento, nel secondo capitolo.

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Capitolo 2

Le molte facce dell'apprendimento organizzativo: un tentativo di

sistematizzazione

Le teorie analizzate nel corso del primo capitolo non sono state in grado di rispondere in maniera soddisfacente alla domanda fondamentale che questo elaborato si pone: che cos'è l'apprendimento organizzativo? Come vedremo, una risposta univoca a tale interrogativo non esiste, o quantomeno non è ravvisabile nella letteratura dedicata. In maniera del tutto preliminare, si può dire che la difficoltà nel definire l'apprendimento organizzativo sia conseguente alla grande diversificazione dei contesti a cui si può applicare. Come anticipato nel primo capitolo, infatti, ogni organizzazione presenta delle peculiarità che la differenziano da tutte le altre: si può dunque dire che vi siano tanti tipi di apprendimento organizzativo quante sono le aziende che, in astratto, possono applicarlo. Lo stesso concetto di Learning Organization, dunque, non può essere definito univocamente, se non nelle sue linee generali. Il concetto, d'altra parte, è stato considerato da molti punti di vista differenti e ne sono state date varie interpretazioni. Nel corso di questo capitolo, quindi, si studierà l'apprendimento organizzativo attraverso le prospettive più interessanti e maggiormente utilizzabili da un punto di vista pratico, per tentare di costruire un framework applicabile (che non pretende in alcun modo di essere esaustivo), cercando di evitare semplificazioni eccessive che possano squalificare il framework stesso. Per fare questo, è necessario innanzitutto rendersi conto della complessità della materia che si sta trattando, non solo per sfuggire alle banalizzazioni ma anche nel tentativo di non perdere di vista la materia stessa, distaccandosene eccessivamente. E' necessario, quindi, seguire il consiglio di Tsoukas (2005): “know what you are doing”.

Preliminarmente alla trattazione delle questioni specifiche, vi sono alcune problematiche generali da affrontare, anche per inquadrare la materia ed alcune sue sfaccettature che non è il caso di approfondire ma comunque meritevoli di essere citate.

Nella letteratura sulla Learning Organization, viene dato per scontato il fatto che l'apprendimento organizzativo porti, quasi automaticamente, ad un miglioramento delle performance aziendali. In realtà, non è necessariamente così. L'apprendimento può

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anche non venire valorizzato se l'organizzazione non riesce a comprenderlo (certe volte può anche passare inosservato tra i membri dell'organizzazione); altre volte l'aumento di conoscenza organizzativa può portare a problematiche o addirittura conflitti interni (tipicamente quando non vi è sufficiente capacità di interpretazione della conoscenza acquisita) e dunque essere addirittura controproducente. In questi casi si può dire che ci sia stato apprendimento? Quando l'apprendimento può dunque essere considerato utile? Tsang (1997) parla di apprendimento come immagazzinamento di conoscenza accurata. Lo stesso concetto di conoscenza accurata, però, pone dei problemi: come si può definirla oggettivamente? Tutte queste domande non sono affatto scontate. Entro certi limiti, può avere senso parlare di conoscenza oggettiva, e dunque in qualche modo accurata. Ma i contesti organizzativi singoli possono rendere difficile la sua individuazione; contesti diversi, inoltre, possono interpretare le medesime informazioni in maniera diversa, proprio alla luce delle loro specificità. Una conoscenza oggettiva in senso generale, dunque, appare difficilmente individuabile, anche ammesso che esista.

Un'altra questione che riveste una certa importanza è quella dei rapporti che l'organizzazione ha con l'esterno. Quando si parla di apprendimento organizzativo, infatti, si tende a considerare principalmente, se non esclusivamente, le dinamiche interne all'azienda: la struttura, le relazioni e comunicazioni tra i membri. Ma in un mondo dinamico come quello attuale, la conoscenza si costruisce anche prestando attenzione a ciò che accade fuori dall'azienda, ed in particolare al comportamento dei competitor, dei propri partner e dei clienti esterni. Avere una profonda conoscenza di tutti questi soggetti è uno dei punti focali per assicurarsi un vantaggio competitivo, ed essi possono offrire informazioni cruciali per sviluppare un processo di apprendimento organizzativo davvero applicabile nella quotidianità aziendale, che vada ad impattare sulle cosiddette conoscenze core dell'organizzazione.

Fin da queste prime riflessioni risulta chiaro come la materia dell'apprendimento organizzativo sia troppo vasta per essere coperta in maniera completa: i paragrafi che seguono, dunque, si pongono l'umile obiettivo di approfondire solo alcune delle variabili coinvolte nella definizione del concetto.

L'apprendimento organizzativo nella teoria di Gregory Bateson

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management aziendale. Un suo apporto al concetto di apprendimento organizzativo, dunque, può apparire a prima vista forzato. In realtà, la peculiarità e la trasversalità dei suoi studi ne fanno un intellettuale rilevante in moltissimi campi diversi; inoltre il suo interesse nei confronti della cibernetica, scienza che come anticipato nel primo capitolo si occupa del trasferimento delle informazioni e della comunicazione negli organismi viventi (di cui gli organismi sociali fanno parte) chiarisce le implicazioni che gli studi di Bateson possono avere per la comprensione delle dinamiche di apprendimento all'interno delle organizzazioni.

D'altra parte, espliciti riferimenti a Bateson non sono assenti nella letteratura sull'argomento: gli stessi Argyris e Schön, le cui teorie sono state ampiamente trattate nel primo capitolo, mutuano i propri concetti di single-loop e double-loop learning proprio da Bateson (1972). Quest'ultimo, infatti, propone una suddivisione del concetto di apprendimento in tipologie di complessità crescente. La difficoltà dei concetti espressi e lo stile di scrittura non sempre immediatamente comprensibile di Bateson impongono cautela nella trattazione delle sue teorie, ricordando la necessità espressa in apertura di capitolo di non cadere nella banalizzazione dei concetti presi in considerazione.

Bateson identifica quello che chiama Apprendimento Zero come semplice risposta ad un segnale, ovvero come ricezione di una informazione; l'Apprendimento Uno, invece, identifica la modifica di un comportamento nell'istante x+1 rispetto al comportamento osservato all'istante x, a parità di contesto (secondo Bateson non si può mai prescindere dal contesto: se i contesti all'istante x ed x+1 fossero diversi, non si potrebbe parlare di Apprendimento Uno ma di semplice Apprendimento Zero). Così descritto, l'Apprendimento Uno presenta in effetti punti in comune con il single-loop-learning; l'Apprendimento Due (o Deuteroapprendimento), infine, si qualifica come “cambiamento nel processo di Apprendimento Uno”, in particolare “cambiamento correttivo dell'insieme di alternative entro il quale si effettua la scelta” (Bateson, 1972). Tale definizione si avvicina dunque a quella di double-loop-learning, poiché la modifica delle alternative di scelta implicherebbe una messa in discussione delle alternative precedentemente presenti.

Nella letteratura dedicata all'apporto di Bateson al concetto di apprendimento organizzativo, però, non vi è accordo sulle definizioni delle varie tipologie di apprendimento da lui descritte. Tosey (2005) sostiene che il double-loop-learning non coincida con il deuteroapprendimento, e che lo stesso deuteroapprendimento sia

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definito in modi diversi: a volte è semplicemente identificato con il miglioramento delle capacità di apprendimento, altre volte è effettivamente equiparato al double-loop-learning (inteso come capacità di mettere in discussione le norme esistenti). In maniera simile, Visser (2007) sostiene che il deuteroapprendimento sia stato trattato a volte come il double-loop-learning, altre volte come qualcosa di distinto sia dal single-loop sia dal double-loop. Altri autori sostengono poi che il deuteroapprendimento corrisponda alla consapevolezza da parte delle organizzazioni delle modalità attraverso le quali si svolgono al loro interno i processi di single e double loop learning (Ortenblad, 2004). C'è grande ambiguità, dunque, e questo certo non aiuta a rendere la teoria dell'apprendimento batesoniana utilizzabile in ambito pratico; aiuta però a rendersi ulteriormente conto del fatto che, anche tra chi si occupa da anni del concetto di apprendimento organizzativo, i dubbi restano e le interpretazioni divergono.

Non vi è dubbio, comunque, che la teoria batesoniana sia da ricondurre al filone sistemico: concepire le organizzazioni come sistemi diverrà, come abbiamo visto, un punto centrale delle teorie sulla Learning Organization (in particolare nelle formulazioni di Morgan e Senge), ma prima di esse è Bateson a dare spunti interessanti in questo senso. In particolare, per Bateson i sistemi (anche quelli sociali) sono in grado di adattarsi, e tale adattamento presuppone apprendimento. In ambito organizzativo, dunque, l'individuo non solo apprende (Apprendimento Uno, nel senso di immagazzinamento di nuova conoscenza), ma apprende ad apprendere (Apprendimento Due), ovvero riconosce le circostanze nelle quali avviene l'apprendimento e dunque è presumibilmente anche in grado di gestirle. Le due tipologie di apprendimento, perciò, non sono mutuamente esclusive (come sembrava in Argyris e Schön, che conferivano al double-loop-learning una importanza maggiore rispetto al single-loop) ma convivono all'interno di una organizzazione che apprende. Entrambe, insomma, sono funzionali alla costruzione di un processo di apprendimento organizzativo, che non può quindi basarsi solo su una delle due.

Il saggio sulle categorie dell'apprendimento è senza dubbio il più interessante ai fini di questo elaborato. Vi sono però altre osservazioni presenti nel lavoro di Bateson che meritano di essere citate proprio per la loro vasta applicazione. Nel capitolo introduttivo di Mente e Natura (1979) Bateson sostiene che “in natura non esistono variabili monotone”. Se tale principio è vero anche in ambito sociale, una possibile domanda da porsi è la seguente: è possibile che troppo apprendimento faccia male alle

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organizzazioni? Incidentalmente, nell'introduzione a questo capitolo è stato detto che certe volte l'apprendimento può risultare controproducente: questa affermazione sembra dunque sostenuta dal principio esposto da Bateson.

Come abbiamo già osservato in apertura di paragrafo, il lavoro di Bateson non è di facile interpretazione. Paradossalmente, proprio tale difficoltà consente delle riflessioni non banali che possono risultare utili nell'interpretazione di un concetto labirintico come quello di apprendimento organizzativo.

Organizational learning e learning organization

Nel primo capitolo si è parlato sia di Organizational Learning sia di Learning Organization, ma non è stato chiarito quali siano le differenze tra i due termini, se ci sono, e quali i punti di contatto. Anche su tale questione la letteratura non è concorde: alcuni autori li utilizzano in modo interscambiabile, trattandoli dunque come sinonimi; altri ne identificano differenze anche sostanziali. Tsang (1997) sostiene che una learning organization sia una organizzazione che implementi in maniera vincente processi di organizational learning. Anche Confessore (1997) considera i due termini estremamente simili.

Robinson (2001) tenta una sistematizzazione più profonda e identifica due filoni di ricerca sull'apprendimento organizzativo: quello descrittivo, che studia i processi di apprendimento all'interno delle organizzazioni, e cerca di capire come essi avvengono; quello normativo, che invece si occupa di comprendere come fare per implementare nella pratica un processo di apprendimento organizzativo. Il primo filone, dunque, fa ampio uso di ricerche empiriche, mentre il secondo ha una impostazione teorica (anche se, come detto, si prefigge di passare dalla teoria alla pratica). Robinson parla di studi di organizational learning in relazione al filone descrittivo, e di studi sulla learning organization in relazione al filone normativo. Quest'ultimo, dunque, si caratterizzerebbe per un tentativo di identificazione delle variabili che devono essere presenti per far sì che una organizzazione possa dirsi una learning organization. E' interessante notare come Robinson riconduca al filone normativo sia le teorie di Senge, sia quelle di Argyris e Schön, nonostante le molte differenze tra questi autori: i due filoni, quindi, possono avere al proprio interno teorizzazioni anche molto diverse tra loro. Lo stesso Tsang (1997) propone una dicotomia pressoché identica.

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di apprendimento organizzativo non aiutino a chiarire il concetto, ma al contrario lo rendano ancora più nebuloso: propongono dunque una ulteriore, nuova definizione secondo la quale si ha apprendimento organizzativo quando i membri dell'organizzazione utilizzano i dati in loro possesso per modificare il proprio comportamento in modo tale da favorire un continuo adattamento da parte dell'organizzazione stessa: in modo da farla diventare, cioè, una learning organization. In questo caso, dunque, gli autori identificano una precisa consequenzialità tra volontà di implementazione di apprendimento organizzativo e costruzione di learning organization, ed è proprio la consequenzialità che sembra descrivere meglio il rapporto tra i due concetti.

E' comunque generalmente accettato che l'apprendimento sia una parte fondamentale di ogni organizzazione (Kim, 1993; Hawkins, 1994; Ortenblad, 2004), essendo le organizzazioni formate da persone, ed essendo l'apprendimento un processo insito in ogni essere vivente. Ci si potrebbe dunque spingere fino ad affermare che ogni organizzazione, indipendentemente dai suoi processi interni, sia una learning organization, intesa come organizzazione che apprende. Però, il concetto di learning organization è più complesso di così, ed alla sua nebulosità sono in parte da imputare le difficoltà insite nella distinzione dei termini di organizational learning e learning organization. Si rende necessario dunque un ulteriore approfondimento atto a chiarire le caratteristiche della learning organization.

La learning organization

Nonostante le teorizzazioni descritte nel primo capitolo, in particolare in riferimento ai lavori di Morgan e Senge, le generalità della learning organization non sono per nulla scontate. In generale e preliminarmente, sembra comune utilizzare il concetto di cultura organizzativa per descrivere la learning organization: quest'ultima, infatti, è una organizzazione in grado di sviluppare processi di apprendimento organizzativo soprattutto sulla base del fatto che ha una cultura interna adatta a fare ciò.

Secondo Ortenblad (2004), il concetto di learning organization è stato mantenuto volutamente vago dai suoi teorizzatori, in modo da essere trattato più come una mappa generale che non come una tipologia di organizzazione ben definita. Vengono comunque identificate alcune variabili che devono essere considerate per la

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