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caratterizzazione in vitro delle colinesterasi di Diopatra neapolitana (Annelida, Onuphidae) e valutazione dell'uso come biomarker di esposizione a pesticidi.

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Dipartimento di Biologia

Corso di Laurea Magistrale in Biologia Marina

Tesi di Laurea

“Caratterizzazione in vitro delle colinesterasi di Diopatra

neapolitana (Annelida, Onuphidae) e valutazione dell’uso come

biomarker di esposizione a pesticidi”

Candidato:

Matteo Colombo

Relatore:

Prof. Carlo Pretti

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RIASSUNTO

L’impiego dei biomarkers nelle attività di monitoraggio della contaminazione ambientale è, da molto tempo, considerato uno strumento prognostico/diagnostico finalizzato alla rilevazione di effetti precoci ai livelli più bassi dell’organizzazione biologica (molecole, cellule) che potenzialmente possono interessare i livelli superiori (organismi, popolazioni); in questo ambito i markers di tipo biochimico rivestono un ruolo predominante. In questo lavoro di tesi è stata condotta la caratterizzazione biochimica in vitro degli enzimi appartenenti alla classe delle colinesterasi nel polichete Diopatra neapolitana. Le colinesterasi (ChE) rappresentano un biomarker di esposizione a contaminanti ad azione neurotossica, quali i composti appartenenti alla classe degli organo-fosforici e carbammati, di largo impiego nelle attività agricole come pesticidi. La tossicità primaria di queste sostanze è dovuta alla capacità di inibire l’attività di alcune forme di ChE, impedendo una corretta trasmissione degli impulsi nelle sinapsi colinergiche delle giunzioni neuromuscolari con conseguenti disordini nel sistema nervoso-motorio. La specie oggetto dello studio è rappresentata da D. neapolitana, polichete tubicolo e fossorio tipico dei fondi molli delle aree estuariali. Dal punto di vista ecologico D. neapolitana rappresenta fonte di nutrimento per pesci e uccelli acquatici, contribuisce alla stabilizzazione del sedimento e favorisce l’insediamento e l’adesione di alcune specie algali; in aggiunta questa specie ha un notevole valore economico in quanto oggetto di raccolta e vendita come esca per la pesca sportiva.

La caratterizzazione è stata condotta indagando l’affinità dell’enzima per diversi substrati (acetil-, butirril-, propionilcolina), i livelli di attività enzimatica in diverse parti del corpo, i principali parametri cinetici (Km e Vmax) e la risposta in vitro a inibitori modello (eserina, iso-OMPA, BW284C51) e alcuni carbammati (Carbofurano, Methomyl, Aldicarb e Carbaryl). Inoltre le attività enzimatiche sono state visualizzate su gel di poliacrilammide attraverso elettroforesi in condizioni native.

I risultati hanno evidenziato che i substrati maggiormente idrolizzati sono acetil- e propionilcolina, soprattutto nella parte posteriore del verme. Una scarsa attività catalitica è stata evidenziata con il substrato butirrilcolina, confermata dall’analisi elettroforetica. I parametri cinetici sono stati confrontati con la poca letteratura disponibile sui policheti, evidenziando alcune differenze. I carbammati selezionati nello studio hanno mostrato una maggiore potenza di inibizione dell’attività colinesterasica condotta con la propionilcolina come substrato. Aldicarb ha evidenziato il maggiore effetto inibitorio delle attività.

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SOMMARIO

RIASSUNTO ... 2

1. INTRODUZIONE ... 4

1.1 ECOTOSSICOLOGIA E BIOMARKERS ... 5

1.1.1. GLI INVERTEBRATI COME ORGANISMI SENTINELLA IN ECOTOSSICOLOGIA

9

1.2. IL POLICHETE OGGETTO DELLO STUDIO: DIOPATRA NEAPOLITANA (Delle

Chiaje, 1841) ... 10

1.3. Il BIOMARKER OGGETTO DELLO STUDIO: LE COLINESTERASI ... 16

1.3.1. COMPONENTI DEL SISTEMA COLINERGICO ... 16

1.3.2. LE COLINESTERASI ... 17

1.4. CONTAMINANTI AMBIENTALI CON ATTIVITA’ ANTI-COLINESTERASICA:

ORGANOFOSFORATI E CARBAMMATI ... 20

2. SCOPO DELLA TESI... 23

3. MATERIALI E METODI ... 24

3.1. REAGENTI ... 24

3.2. CAMPIONAMENTO DEGLI INDIVIDUI E MANTENIMENTO IN LABORATORIO 24

3.3. PREPARAZIONE DELLE FRAZIONI CELLULARI ... 26

3.4. DETERMINAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE PROTEICA ... 26

3.5. SAGGI ENZIMATICI: ATTIVITÀ COLINESTERASICA ... 27

3.6. ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILAMMIDE IN CONDIZIONI NATIVE ... 31

3.7. ANALISI STATISTICHE ... 32

4. RISULTATI ... 33

5. DISCUSSIONI ... 40

6. CONCLUSIONI ... 46

7. BIBLIOGRAFIA ... 47

8. RINGRAZIAMENTI ... 55

(4)

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1.

INTRODUZIONE

Il mare con le sue risorse rappresenta un importante patrimonio per tutte le forme viventi, uomo compreso, per tale motivo è fondamentale tenerne sotto controllo la salute. Negli ultimi decenni, la crescente urbanizzazione della fascia marino costiera ha generato, a lungo andare, una forte pressione antropica tale da compromettere fortemente l’integrità dell’ecosistema marino. Secondo la definizione dell’ONU l’inquinamento marino consiste nell’ “introduzione diretta o indiretta da parte dell’uomo, nell’ambiente, di sostanze e di energie capaci di produrre effetti negativi sull’intero ecosistema, sulle sue diverse componenti sia vegetali che animali, sulle risorse biologiche, sulla qualità delle acque, e di conseguenza anche sulla salute umana e sulle attività marittime”. La contaminazione delle zone costiere proviene maggiormente dalle attività agricole e industriali, e dagli insediamenti urbani responsabili della diffusione in mare di un enorme quantitativo di sostanze tossiche provenienti dai rifiuti (Martella et al., 1997; Sumpter et al., 1996; Duzzin et al., 1986). Gli effetti dell’inquinamento nell’ambiente marino possono verificarsi a differenti livelli di organizzazione biologica, a partire dal livello subcellulare fino a comportare cambiamenti a livello delle comunità (Bayne et al., 1985). Negli ultimi anni si è ritenuto utile disporre di vari programmi di biomonitoraggio che si basano sull’utilizzazione di “bioindicatori” intesi come “organismi o sistemi biologici usati per valutare la variabilità, generalmente degenerativa, della qualità dell’ambiente, rivelando la presenza di composti inquinanti e il loro grado di concentrazione nelle acque, mediante identificabili alterazioni biochimiche, fisiologiche e morfologiche a loro carico” (Bargagli et al., 1998). Un corretto biomonitoraggio, che preveda l’utilizzo di bioindicatori e permetta una buona interpretazione dei dati, richiede una buona conoscenza delle principali caratteristiche delle specie prese in esame: ciclo riproduttivo, anatomia, fisiologia, mobilità, nicchia ecologica e bioaccumulo di sostanze dannose per l’organismo. Le migliori specie bioindicatrici sono distribuite su un vasto areale, sono reperibili in tutti i periodi dell’anno e sono facilmente identificabili. Un bioindicatore può essere definito ottimale quando la concentrazione di un determinato inquinante risulta essere in relazione quantitativa alla risposta biologica della specie considerata (Nimis et al., 1994).

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1.1 ECOTOSSICOLOGIA E BIOMARKERS

Il termine “ecotossicologia” fu usato per la prima volta da Truhaut nel 1969. Egli definì questa scienza “un ramo della tossicologia che si occupa dello studio degli effetti tossici di inquinanti, naturali o di sintesi, sui costituenti animali, vegetali e microbici degli ecosistemi, in un contesto integrato”. Questa definizione è stata modificata nel tempo, allo scopo di coprire una prospettiva ecologica più ampia. Lo studio dei differenti organismi è solo il primo passo per comprendere gli effetti di xenobiotici sulle comunità, sulle loro funzioni e, a lungo termine, sulla biodiversità.

Una definizione più aggiornata di ecotossicologia potrebbe essere “la scienza dedicata allo studio e alla prevenzione degli effetti avversi, dovuti a emissioni antropiche di sostanze chimiche, sulla struttura, le funzioni e la biodiversità degli ecosistemi”. In questa disciplina l’attenzione è rivolta a composti chimici sia di origine antropica che naturale e, per quanto concerne i secondi, le indagini riguardano le azioni umane che generano ulteriori rilasci ambientali o ne aumentano la tossicità o la biodisponibilità, aumentando così l’esposizione di popolazioni e comunità (Tarazona e Ramos-Peralonso, 2014).

L’ecotossicologia è una disciplina rivolta allo studio, con metodo scientifico, del destino e degli effetti dei contaminanti sull’ambiente, non limitandosi ad osservare e descrivere i fenomeni ma elaborando anche delle previsioni. L’inclusione della “previsione” è fondamentale per elevare il rango di questa disciplina al livello di scienza. A tale scopo l’ecotossicologia dovrebbe essere una disciplina trasversale che si avvale, in modo integrato, della chimica ambientale, della tossicologia ambientale e dell’ecologia (Vighi e Bacci, 1998).

La finalità ultima dell’ecotossicologia riguarda gli effetti dei contaminanti su popolazioni e comunità. A tale scopo vengono studiati gli effetti a livelli di organizzazione inferiori, quali gli individui, sia come punto di partenza che come approccio metodologico, selezionando quegli endpoint che possono predire o misurare gli effetti ai livelli superiori (popolazioni e comunità). Tra tali endpoint, tipici esempi possono essere la letalità, la produzione di biomassa (misurata come tasso di crescita) e la riproduzione. L’interpretazione degli effetti dovrebbe essere comunque connessa al ruolo, al livello trofico e alle caratteristiche della specie (Tarazona e Ramos-Peralonso, 2014).

Nel contesto della valutazione del rischio ambientale (stima con metodo scientifico degli effetti avversi, potenziali o reali, di contaminanti o altre attività antropiche sugli ecosistemi o sui loro componenti) e nel tentativo di creare delle efficienti strategie di gestione dei rischi legati

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all’immissione di sostanze chimiche in ambiente, gli ecotossicologi devono affrontare i seguenti problemi (Depledge e Fossi, 1994):

 Classificare le tossicità relative dei contaminanti per i biota

 Predire i percorsi, il destino e le concentrazioni finali di specifiche sostanze in differenti ecosistemi

 Predire il danno ecologico che protrebbe risultare dall’accumulo di particolari concentrazioni di sostanze nei biota

 Fissare limiti verificabili, sicuri e raggiungibili per le sostanze chimiche in differenti ecosistemi

Aspetti fondamentali da considerare in tali indagini sono (Depledge e Fossi, 1994):

 interazioni tra contaminanti

 influenza di fattori ambientali sulla tossicità dei contaminanti

 graduali cambiamenti ecologici indotti dai contaminanti nel corso di lunghi periodi (diversi anni)

 differenze di suscettibilità interpopolazione determinate dal genotipo o dal fenotipo

 differenze biogeografiche di tossicità legate a variazioni climatiche e alla sensibilità intrinseca delle specie in varie condizioni climatiche

I biomarkers sono strumenti molto utili in ecotossicologia poiché possono dare informazioni sugli effetti dei contaminanti sugli organismi, piuttosto che semplici quantificazioni dei livelli presenti in ambiente. Infatti la sola conoscenza dei livelli di inquinanti presenti non dà nessuna informazione sugli effetti che possono verificarsi sui biota in condizioni naturali (Peakall e Walker, 1994). Ad ogni modo, l’approccio dei biomarkers non è inteso come una sostituzione delle tecniche convenzionali ma come un complemento di grande rilevanza ecologica (Depledge e Fossi, 1994).

I biomarkers sono stati definiti in vari modi, tanto che in certi frangenti i confronti tra diversi studi sono stati difficili o impossibili (McCarty e Munkittrick, 1996). Una definizione chiara e comprensiva è quella data da Depledge nel 1994, secondo il quale un biomarker è “una variazione biochimica, cellulare, fisiologica o comportamentale, che può essere misurata in un tessuto, in un fluido biologico o a livello dell’intero organismo (individuo o popolazione) e che fornisce l’evidenza di un’esposizione e/o un effetto di uno o più inquinanti”.

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Vengono riconosciuti biomarkers generali e specifici. I primi sono costituiti da risposte dell’organismo a livello molecolare, cellulare e fisiologico, che non possono essere direttamente ricondotte ad una sola classe di contaminanti, ma che indicano lo stato generale di stress dell’organismo (ad esempio danni al DNA, disordini immunitari, indici somatici). I secondi sono rappresentati da risposte biochimiche e fisiologiche che si manifestano in un organismo a seguito dell’esposizione ad una particolare classe di inquinanti (ad esempio, inibizione delle colinesterasi) (Vighi e Bacci, 1998).

I biomarkers sono stati divisi in tre gruppi generali (Committee on Biological Markers of the National Research Council, 1987):

 Esposizione

Presenza o evidenza del composto parentale, di suoi metaboliti o altri prodotti biologici, o altri cambiamenti in parametri fisici o biochimici che possono essere associati all’esposizione allo stress. Nel paradigma dose-risposta in tossicologia, i biomarkers di esposizione possono essere considerati un surrogato della dose.

 Effetto

Cambiamento nella presenza, nel livello o nella funzionalità di parametri fisici o biochimici, attribuibile sia all’esposizione a uno stress che a danni alla salute o ad altre risposte negative. Nel paradigma dose-risposta in tossicologia, i biomarkers di effetto possono essere considerati come un surrogato della risposta.

 Suscettibilità

Presenza o cambiamento in qualche parametro fisico o biochimico, indice che il sistema in questione può essere particolarmente sensibile agli effetti di un certo stress, nel caso che questo si presenti.

Gli autori che hanno proposto questo raggruppamento hanno comunque enfatizzato il fatto che un biomarker deve essere validato stabilendo una relazione causa-effetto tra l’esposizione e la risposta biologica di interesse.

Inoltre sono riconosciute quattro classi di biomarkers:

 Biochimici (enzimi, ormoni, metallotioneine)

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 Tossicologici (comportamento dei tossici, letalità, teratogenicità, mutagenicità, cancerogenicità)

 Ecologici/di comunità (addizioni, rimozioni, alterazioni di strutture e relazioni in ecosistemi o in comunità)

Deve essere sottolineato che, in condizioni naturali, gli organismi sono esposti a miscele di contaminanti e ad un enorme numero di fattori chimico-fisici (temperatura, salinità, ossigeno, ecc.), ecologici e fisiologici (stato nutrizionale, stato ormonale, età, ecc.). Le interazioni dei contaminanti in miscela ed i fattori ambientali influenzano fortemente le risposte metaboliche dell’organismo e, conseguentemente, i biomarkers. Pertanto ci si trova di fronte a differenti tipi di relazioni dose-riposta, che corrispondono alle diverse interazioni tra contaminanti ed alle variazioni dei fattori ambientali (Vighi e Bacci, 1998).

Negli organismi i primi effetti dovuti ad esposizione a contaminanti si manifestano come alterazioni o danni a livello molecolare. Tali alterazioni, seguendo la gerarchica dell’organizzazione biologica, arrivano a colpire i livelli di organizzazione più alti, fino alle comunità e gli ecosistemi. I markers di tipo biochimico costituiscono degli importanti sistemi di allarme precoce, utilizzabili per diagnosticare il tipo di stress chimico a cui l’organismo è sottoposto. Inoltre attraverso il principio della intercorrelabilità degli effetti ai vari livelli di complessità strutturale, i markers biochimici permettono di prognosticare le conseguenze a lungo termine, al fine di evitare eventi ecologicamente inaccettabili (Fossi, 2000a).

I principali vantaggi dell’uso dei biomarkers in programmi di biomonitoraggio sono i seguenti:

 forniscono una risposta integrata dell’esposizione complessiva della specie sentinella, tenendo conto sia delle diverse vie di assunzione che delle esposizioni nel tempo, entro un determinato spazio

 danno una risposta integrata dell’insieme delle interazioni tossicologiche e farmacocinetiche della miscela di composti a cui è sottoposto l’organismo

 forniscono una risposta immediata all’esposizione al tossico (ore, giorni)

Certi processi biochimici e fisiologici possono subire modificazioni in funzione dell’età, del sesso e dello stato ormonale dell’organismo. Tuttavia, la conoscenza della biologia della specie sentinella e della variabilità tra individui permette di ridurre tali fattori di disturbo (Vighi e Bacci, 1998).

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1.1.1. GLI INVERTEBRATI COME ORGANISMI SENTINELLA IN ECOTOSSICOLOGIA

Gli invertebrati sono organismi largamente impiegati come organismi sentinella nelle attività di monitoraggio e valutazione del rischio ambientale (Fossi et al., 2000b). Questi organismi predominano rispetto agli altri animali negli ecosistemi in termini di numero di specie e di biomassa. Negli ambienti acquatici pelagici e bentonici svolgono funzioni chiave nelle reti trofiche. Sono caratterizzati da una straordinaria diversità ecologica e biologica, e ciò rappresenta un motivo di interesse ma anche di difficoltà nello studiare gli effetti di xenobiotici in questo gruppo. Infatti negli invertebrati si possono osservare sensibilità specie-specifiche rispetto a tossici con particolari meccanismi d’azione. Si possono osservare anche differenze filetiche riguardo ad alcuni meccanismi di detossificazione, quali alcuni enzimi coinvolti nel metabolismo di xenobiotici. Questa variabilità è riconducibile alla diversità molecolare osservabile in questo gruppo, frutto di lunghi tempi ed alti tassi evolutivi (Chaumot et al., 2014). Le loro popolazioni sono spesso numerose, pertanto è possibile effettuare campionamenti senza influenzare negativamente le dinamiche di popolazione. Alcune specie sono semplici da mantenere in laboratorio ed hanno il vantaggio di poter essere utilizzate nei test evitando l’impiego di vertebrati che, tra l’altro, presentano problemi etici relativi alla sperimentazione animale (Fossi et al., 2000b; Chaumot et al., 2014). Le attuali conoscenze dei meccanismi biochimici e molecolari di molte specie di invertebrati permettono di interpretare ragionevolmente le risposte dei biomarkers, in termini di valutazione del rischio ambientale (Fossi et al., 2000b). Tra gli invertebrati i policheti rappresentano una sorgente primaria di cibo per organismi, quali pesci e crostacei, che hanno importanza commerciale ed alimentare per l’uomo. Risulta pertanto di grande interesse acquisire una maggiore quantità di conoscenze circa i meccanismi di bioaccumulo e risposta biochimica ai contaminanti in tale taxon (Freitas et al., 2012, 2015).

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1.2. IL POLICHETE OGGETTO DELLO STUDIO: DIOPATRA

NEAPOLITANA (Delle Chiaje, 1841)

Regno: Animalia Phylum: Annelida Classe: Polychaeta Ordine: Eunicida Famiglia: Onuphidae Genere: Diopatra

Specie: Diopatra neapolitana Delle Chiaje, 1841

Questa specie appartiene all’ordine degli Eunicida. Come tutti i policheti, gli eunicidi sono caratterizzati da un corpo vermiforme metamerico diviso in 3 parti principali: la regione cefalica, costituita da prostomio e peristomio, il tronco metamerico e la regione anale, o pigidio. Gli eunicidi fanno parte dei policheti erranti e, come la maggior parte di essi, sono caratterizzati da metameria omonoma poichè nel tronco non si osserva il fenomeno della tagmatizzazione, ovvero la presenza di segmenti differenziati e specializzati (Fauvel, 1923).

Le 7 famiglie che fanno parte di quest’ordine sono accomunate dalla presenza di un faringe evertibile ventrale, dotato di un complesso apparato mandibolare costituito da mandibole ventrali e mascelle dorsali. Le parti che costituiscono questo apparato sono composte da calcio, carbonato di magnesio e scleroproteine. Tale apparato è un carattere autapormofo e ciò indica la monofilia del taxon. Gli eunicidi mostrano 4 tipi di apparati mandibolari, distinti in base alla morfologia e alla disposizione dei pezzi che lo compongono (Paxton, 1986).

La famiglia di appartenenza di D. neapolitana è quella degli Onuphidae. Gli onufidi sono tipici di fondi molli e sono prevalentemente tubicoli. Questi hanno un’ampia ripartizione ecologica e geografica, infatti sono distribuiti dalle zone intertidali alle zone profonde di tutti i mari ed oceani. Sono comuni in acque superficiali e, in zone batiali ed abissali, sono più rappresentati di qualsiasi altro gruppo di eunicidi. Alcune specie vivono in tubi permanenti, mentre altre possono spostarsi con il tubo. Tutte le specie possono abbandonare il tubo e costruirne di nuovi (Fauchald e Jumars, 1979).

Le dimensioni corporee generalmente variano da 5 cm a 30 cm di lunghezza e da 3 mm a 8 mm di larghezza. Tuttavia, sono state misurate lunghezze di 300 cm per specie del genere Americonuphis.

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La forma del corpo è cilindrica anteriormente per la presenza del faringe, mentre medio-posteriormente può essere più o meno appiattita o convessa in relazione alle dimensioni corporee, allo sviluppo delle branchie e alle abitudini di vita dell’animale (tubicolo o scavatore).

Il prostomio è ovale o circolare e solitamente è più largo che lungo. Questo porta 5 antenne dorsali, un paio di palpi frontali dorsali ed un paio di palpi labiali ventrali. Gli stili portano strutture sensoriali e secretorie. Gli occhi, quando presenti, sono situati alla base delle antenne laterali posteriori ed anteriori. Questi possono variare da macchie oculari fino a occhi dotati di lenti. Gli organi nucali sono delle fossette ciliate dorsali con la funzione di chemorecettori.

Il peristomio manca tipicamente di parapodi ed è costituito da un anello completo, che in alcuni generi forma una piega anteriore a protezione delle fosse nucali. Quando presenti, i cirri tentacolari sono inseriti dorsalmente sul peristomio (Figura 1).

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Il faringe evertibile è una struttura sacciforme muscolare che si apre nel peristomio, è localizzata sotto l’esofago e si estende posteriormente. Questo contiene un apparato mandibolare elaborato, costituito da 1 paio di mandibole ventrali e 4 o 5 file di mascelle dorsali, pari o impari.

I parapodi sono sub-biramosi. I notopodi (ramo dorsale) sono ridotti e rappresentati solo dalla base delle branchie e dei cirri dorsali (Figura 2). I parapodi dei primi 8 chetigeri sono differenti rispetto a quelli del resto del corpo riguardo a orientamento, lunghezza, lobi parapodiali e tipi di chete. I parapodi modificati portano cirri ventrali che vengono rimpiazzati nei parapodi mediani e posteriori da strutture ghiandolari. I cirri dorsali solitamente sono presenti in tutti i parapodi e portano chete interne. I lobi parapodiali consistono di lobi presetali, aciculari e postsetali. I lobi pre- e postsetali si riducono nei parapodi posteriori.

Le branchie sono presenti nella maggior parte delle specie e sono costituite da espansioni dei cirri dorsali (Figura 3). Sono prevalentemente sviluppate nella parte anteriore del corpo e, in alcuni generi, dal 40°-60° chetigero sono ridotte a filamenti.

Le notochete sono ridotte ed interne al cirro dorsale o sono assenti. Quando sono presenti, sono più corte nei parapodi modificati e più lunghe nei parapodi non modificati. Le neurochete (presenti nel neuropodio, il ramo parapodiale ventrale) sono ancorate alle acicule (Figura 4).

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Il pigidio è di solito costituito da un piccolo lobo con un ano dorsale. Sono presenti 1 o 2 paia di cirri anali.

I tubi sono generalmente circolari in sezione trasversa. Questi sono composti da un strato interno mucoso, secreto dall’animale, e da uno strato esterno costituito da materiale agglutinato, fra cui sedimento, parti dure di altri animali ed alghe.

Dal punto di vista delle abitudini alimentari, gli onufidi sono considerati prevalentemente scavengers onnivori (Fauchald e Jumars, 1979).

Solitamente i sessi sono separati e non si osserva dimorfismo sessuale, ma sono stati descritti anche casi di ermafroditismo (Paxton, 1986).

La specie D. neapolitana (Figura 5) mostra dimensioni relativamente grandi, raggiungendo lunghezze oltre i 30 cm, larghezze fino a 8 mm e sviluppando fino a 250 chetigeri (Paxton, 1986).

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Questa, come le altre specie del genere

Diopatra, è caratterizzata dalla presenza di

cirri tentacolari e filamenti branchiali disposti a spirale.

Alcuni caratteri morfologici che possono permettere il riconoscimento della specie sono: il numero di anelli sui ceratofori (15-16), la presenza di macchie bianche su antenne e palpi (non osservabili in individui fissati), la forma rotondeggiante delle fosse nucali, il livello al quale le branchie cominciano (chetigero 4-5) e al quale finiscono (chetigero 56-70) ed il numero di denti sulle chete pettinate (5-10). Riguardo alle chete, sono presenti uncini pseudocomposti uni- e bidentati con 2 file di piccole spine lungo l’asse, e chete limbate nei primi 4 parapodi modificati. Nei restanti parapodi sono presenti sia chete limbate che pettinate, con uncini bidentati subaciculari nei parapodi 19-25 (Rodrigues et al., 2009).

D. neapolitana è un predatore tubicolo che

vive su fondi fangosi estuariali e marini in zone intertidali e poco profonde. La specie è

distribuita in tutto il Mediterraneo e lungo le coste atlantiche della penisola iberica e della Francia (Berke et al., 2010). Tuttavia, è stata segnalata la sua presenza anche in Mar Rosso, nell’oceano Indiano e Pacifico, ma tali segnalazioni sono ritenute dubbie ed il reale pattern di distribuzione della specie non è stato ancora definito (Dağli et al., 2005). Ad ogni modo, sembra che il limite nord dell’areale di distribuzione sia localizzato tra la Bretagna ed il confine franco-spagnolo (Rodrigues et al., 2009).

La strategia riproduttiva non è del tutto chiara ma è presente una fase larvale lecitotrofica natante. I risultati di studi svolti in Portogallo suggeriscono che la specie sia a sessi separati e che si riproduca in estate (Cunha et al., 2005). Studi svolti in Turchia hanno evidenziato la presenza di gameti nel

Figura 5. D. neapolitana. Vista della morfologia generale (A,B); parte cefalica, vista dorsale (C,D,E); individuo giovanile (F); tubo completo (G); vista dei tubi in natura (H); individui maturi, presunti maschio e femmina (I). Da: «Redescription and biology of

Diopatra neapolitana (Annelida: Onuphidae), a

protandric hermaphrodite with external spermaducal papillae», Arias A. et al. (2016).

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celoma durante tutti i mesi dell’anno eccetto che gennaio, suggerendo che la specie abbia un periodo riproduttivo lungo, ma con un picco tra aprile ed agosto (Dağli et al., 2005). Come altri policheti, questa specie è capace di rigenerare le porzioni del corpo perdute. Possono essere rigenerate sia le porzioni cefaliche che quelle caudali ed il tasso di sopravvivenza è correlato al numero di segmenti branchiali che restano nell’individuo in rigenerazione. La rigenerazione totale è raggiunta in 50-70 giorni dall’amputazione (Figura 6) (Pires et al., 2012).

D. neapolitana è una specie definita

“ecosystem engeener”. In alcune aree le popolazioni di questa specie possono raggiungere alte densità: sono stati riportati valori di 198 individui/m2, associati ad una biomassa di 408 g/m2 (Dağli et al., 2005). Gli individui costruiscono e vivono dentro robuste strutture tubulari che emergono dal

sedimento. Queste strutture alterano i regimi di flusso locale, stabilizzano i sedimenti, facilitano l’insediamento di alghe e microalghe, aumentano la complessità strutturale dell’habitat e riducono l’attività di predatori e bioturbatori, aumentando così la biodiversità dell’habitat (Berke et al., 2010).

D. neapolitana costituisce un’importante risorsa alimentare per alcune popolazioni dei biota marini,

tra cui uccelli e pesci.

Questa specie è da lungo tempo raccolta ed utilizzata come esca per la pesca sportiva e professionale. Tale attività di raccolta ha acquisito una grande importanza commerciale in molte parti del mondo e, parallelamente, ha suscitato la preoccupazione di molti scienziati riguardo agli effetti sulle dinamiche di popolazione, sui sedimenti e sulla fauna ed infauna associata (Cunha et al., 2005).

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Inoltre è stato recentemente dimostrato che, in ambienti costieri, D. neapolitana è un ottimo bioindicatore di contaminazione da metalli (Freitas et al., 2012), da composti farmaceutici (Freitas et al., 2015) e da sostanza organica (Carregosa et al., 2014).

1.3. Il BIOMARKER OGGETTO DELLO STUDIO: LE COLINESTERASI

1.3.1. COMPONENTI DEL SISTEMA COLINERGICO

L’acetilcolina (ACh) è un neurotrasmettitore che ha la funzione di mediare la comunicazione intercellulare nelle sinapsi chimiche del sistema nervoso e nelle giunzioni neuromuscolari del sistema somatomotore. ACh è sintetizzata e rilasciata dal terminale assonale di fibre colinergiche presinaptiche, presenti sia nel sistema nervoso centrale (SNC) che nel sistema nervoso periferico (SNP).

Il SNC è costituito da encefalo e da midollo spinale. Il SNP consta di vie afferenti e vie efferenti ed è costituito dai motoneuroni e dal sistema nervoso autonomo, a sua volta diviso nella sezione simpatica, parasimpatica ed enterica.

A seguito del rilascio di ACh nel vallo sinaptico (il ridotto spazio interposto tra fibre pre- e postsinaptiche), questa si lega a recettori nicotinici o muscarinici presenti su fibre postsinaptiche, determinando in queste ultime una risposta che può essere di tipo elettrico o mediata da secondi messaggeri. Le vie del sistema nervoso autonomo possono essere sia eccitatorie che inibitorie e sono costituite da due neuroni (pre- e postsinaptico). Le vie somatomotorie sono sempre eccitatorie e costituite da un solo neurone. Le principali funzioni del sistema colinergico sono:

 nel SNC modulazione dei cicli sonno-veglia, dello stato di vigilanza, dei processi di apprendimento e memoria, delle informazioni che attraversano il talamo

 nel SNP autonomo neuroni pregangliari, sia parasimpatici che simpatici, rilasciano ACh su recettori nicotinici localizzati su neuroni postgangliari

 i neuroni postgangliari parasimpatici rilasciano ACh su recettori muscarinici localizzati sulle cellule bersaglio di muscolo liscio e cardiaco, di alcune ghiandole esocrine ed endocrine e di un tipo di tessuto adiposo

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 i motoneuroni rilasciano ACh nelle giunzioni neuromuscolari (sinapsi tra motoneuroni e miociti), questa si lega a recettori colinergici nicotinici presenti sulla placca motrice (membrana postsinaptica dei miociti), determinando una risposta che porta alla contrazione muscolare.

L’enzima acetilcolinesterasi (AChE) idrolizza ACh in acetato e colina (Figura 4b) ponendo fine alla trasmissione dell’impulso nervoso. La colina viene captata e riassorbita dal terminale assonale, dove viene rigenerata nuova ACh. AChE è localizzato sia nella matrice fibrosa presente nel vallo sinaptico, sia ancorato alla membrana postsinaptica (Silverthorn, 2007). Il blocco improvviso della sua funzione è letale, mentre una sua perdita graduale, come nel morbo di Alzheimer o in altre patologie, è associata ad una progressiva riduzione delle funzioni cognitive, autonome e motorie (Soreq e Seidman, 2001).

1.3.2. LE COLINESTERASI

Le colinesterasi (ChE) sono una famiglia di enzimi appertenenti alla classe delle idrolasi seriniche (Waiskopf e Soreq, 2015). Questi enzimi sono caratterizzati da una alta attività idrolitica verso gli esteri della colina e sono inibiti dall’alcaloide carbammato naturale fisostigmina, anche noto come eserina (Massoulié et al., 1992). Di questa famiglia fa parte l’enzima acetilcolinesterasi (AChE; EC 3.1.1.7), il quale è conosciuto fin dai primi decenni del 1900 per il suo ruolo fondamentale nell’idrolisi dell’acetilcolina (ACh) (Karczmar, 2010) (Figura 7).

AChE è stato definito un “enzima perfetto”, poichè la sua velocità catalitica è vicina al limite teorico imposto dalla diffusione del substrato (Massoulié et al., 1992). Tuttavia, la struttura cristallografica delle ChE ha rivelato che il sito

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18

attivo è localizzato all’interno di un core proteico globulare, alla base di una stretta tasca catalitica delineata da residui aromatici. Inoltre sono stati identificati vari subsiti funzionali all’interno della tasca catalitica: la triade catalitica, composta da residui di serina, istidina e acido glutammico, con la funzione di idrolizzare il substrato; la tasca acilica, che interagisce con il gruppo acilico del substrato; il sito anionico di legame con la colina, che interagisce con il gruppo cationico del substrato. Un altro importante componente è la cavità ossianionica, che stabilizza lo stato di transizione enzima-substrato (Waiskopf e Soreq, 2015) (Figura 7 e 8).

A causa di una distribuzione asimmetrica delle cariche, la molecola AChE è caratterizzata dalla presenza di un forte dipolo elettrico. È stato ipotizzato che tale dipolo possa favorire il movimento del substrato cationico ACh verso l’interno della tasca catalitica ed il movimento del prodotto anionico acetato verso l’esterno. Comunque, esperimenti di mutagenesi hanno mostrato che riducendo tale campo elettrico il tasso di catalisi non cambia (Soreq e Seidman, 2001).

Nella famiglia ChE è presente un altro enzima, meno specifico di AChE ma capace di idrolizzare ACh e vari altri esteri. Questo è chiamato bitirrilcolinesterasi, pseudocolinesterasi o colinestarasi aspecifica (BChE; EC 3.1.1.8). La funzione fisiologica di BChE non è nota ma è stato visto che questo può funzionare da “diversivo molecolare”, poichè può reagire con agenti anti-ChE prevenendo la loro interazione con AChE (Soreq e Seidman, 2001; Shen, 2002).

Inoltre nella classe delle idrolasi seriniche è presente un altro gruppo di enzimi, le carbossilesterasi (CE). Questi sono presenti in vari tessuti di vertebrati e di invertebrati e possono idrolizzare un’ampia varietà di esteri, sebbene ogni enzima abbia una caratteristica specificità di substrato verso esteri endogeni o xenobiotici (Thompson, 1999).

AChE e BChE mostrano forti somiglianze sia nella sequenza genica che in quella proteica, e differiscono principalmente per la dimensione del sito anionico. Questo può spiegare le differenze nell’affinità di substrato e nell’efficienza catalitica tra i due enzimi (Figura 8). Questi enzimi sono

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19

codificati da due differenti geni e mostrano un elevato grado di polimorfismo molecolare a causa di splicing alternativo e di modificazioni post trascrizionali e post traduzionali. Le differenti isoforme enzimatiche sono specie-specifiche e possono dipendere dal tipo cellulare, dallo stato di differenziazione, dallo stato fisiologico e da stimoli esterni (Shen, 2002). Sia AChE che BChE sono costituiti da polimeri di subunità catalitiche e sono state riconosciute forme globulari e forme asimmetriche. In relazione a queste differenze, per entrambi gli enzimi si distinguono forme idrosolubili, anfifiliche o ancorate alle mebrane o alle matrici extracellulari tramite interazioni molecolari (Chatonnet e Lockridge, 1989).

I due enzimi si distinguono per l’affinità di substrato e per la reattività ad inibitori specifici. AChE ha maggiore affinità per ACh piuttosto che per altri esteri colinici ed è poco attiva su butirrilcolina (BCh). BChE idrolizza preferenzialmente BCh e proprionilcolina (PCh) ma può idrolizzare anche ACh, sebbene ad una velocità 20 volte inferiore a quella di AChE. AChE è inibita da 1,5-bis(4-allildimetilammoniofenil)pentan-3-one dibromuro (BW284C51), mentre BChE da tetraisopropil pirofosforoammide (iso-OMPA).

AChE è prevalentemente presente nel SNC e nelle giunzioni neuromuscolari, laddove BChE è scarsamente presente, mentre quest’ultima è sintetizzata prevalentemente nel fegato e rilasciata nel plasma (Massoulié et al., 1992).

Le ChE sono presenti sin dai primissimi stadi della filogenesi e dell’ontogenesi. È stata evidenziata la loro presenza in organismi privi di sistema nervoso come Plasmodium, in spugne ed in amebe. Inoltre è stata rilevata la presenza di ChE in uova fecondate e/o in embrioni allo stadio di 2 o 4 cellule di tutti gli animali studiati sotto questo aspetto. Tra tali animali sono presenti anellidi, nematodi, spugne, echinodermi, molluschi, insetti e vertebrati fra cui pesci, uccelli, anfibi, urodeli, rettili, monotremi e mammiferi. Comunque deve essere sottolineato che, nel corso dell’ontogenesi, la presenza di AChE ed altri componenti del sistema colinergico aumenta molto più rapidamente (logaritmicamente) quando si formano le placche neurali e i neuroblasti (Karczmar, 2010). Inoltre, in molti dei gruppi animali citati, sono state determinate le sequenze codificanti per AChE (Soreq e Seidman, 2001).

Nel corso del tempo si sono accumulate evidenze per cui nei vertebrati, oltre alle “classiche” funzioni catalitiche, le ChE svolgono svariate altre funzioni non catalitiche. Numerosi autori hanno lavorato su questo argomento ed i loro risultati hanno mostrato che le ChE sono implicate in funzioni quali neurogenesi, adesione cellulare nel tessuto nervoso, sinaptogenesi, attivazione di neuroni dopaminergici, assemblaggio di fibre amiloidi, ematopoiesi e trombopoiesi (Soreq e Seidman, 2001).

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20

Data la fondamentale importanza ed ubiquitarietà dell’attività ChE nei phyla animali e data la specificità con cui tale attività è inibita da particolari classi di inquinanti, l’inibizione di attività ChE è da lungo tempo riconosciuta come un utile strumento nelle indagini ecotossicologiche, con il ruolo di biomarker di esposizione a pesticidi (Caballero et al., 1990; Peakall e Walker, 1994; Depledge e Fossi, 1994; Payne et al., 1996; Kristoff et al., 2009; Cacciatore et al., 2012; Chaumot et al., 2014). Tuttavia, sia in vertebrati che in invertebrati, l’inibizione di attività ChE è stata osservata a seguito di esposizione in vivo ed in vitro ad altri contaminanti, quali detergenti e surfactanti (Martinez-Tabche et al., 1996; Gulhermino et al., 2000), metalli (Shmidt e Ibrahim, 1994) e miscele complesse (Martinez-Tabche et al., 1996; Payne et al., 1996). Questo può indicare una possibile interazione di tali contaminanti con le colinesterasi.

1.4. CONTAMINANTI AMBIENTALI CON ATTIVITA’

ANTI-COLINESTERASICA: ORGANOFOSFORATI E CARBAMMATI

I pesticidi organofosforici (OP) costituiscono un gruppo di molecole di sintesi del quale fanno parte esteri, ammine e derivati tiolici dell’acido fosforico (Figura 9). Questi sono globalmente e ampiamente utilizzati poichè sono molecole poco persistenti nell’ambiente, non sono soggette a bioaccumulo e a biomagnificazione e non rilasciano prodotti secondari tossici. Queste caratteristiche giustificano la loro applicazione in pratiche agricole e zootecniche e li hanno resi preferibili ad altre classi di pesticidi (Stoytcheva e Zlatev, 2011). A seconda della struttura chimica della molecola, alcuni OP possono necessitare di una reazione di bioattivazione prima di divenire biologicamente attivi.

A

B

D C

Figura 9: struttura di alcuni pesticidi organofosforici. A: Dichlorvos; B:

(21)

21

In ogni caso, l’effetto tossico degli OP consiste nell’inibizione degli enzimi della famiglia colinesterasi (ChE) negli organismi colpiti. La maggior parte degli OP mostra alti livelli di tossicità acuta. Il meccanismo di azione è quello per cui un gruppo sostituente della molecola OP perde il legame con l’atomo di fosforo centrale, il quale lega e fosforila specificamente l’aminoacido serina facente parte del sito attivo dell’enzima, causando la perdita della funzione enzimatica (Vale e Lotti, 2015; Costa e Ashner, 2014) (Figura 10). ChE fosforilata è stabile e la rottura del legame fosforo-enzima può richiedere da poche ore a diversi giorni, a seconda della struttura chimica dell’OP. ChE fosforilata si idrolizza spontaneamente in acqua ad un tasso molto lento, ma la velocità può aumentare in presenza di alcune sostanze nucleofile come le ossime. Queste possono reagire con l’enzima fosforilato tramite legami elettrostatici con il sito anionico dell’enzima, per poi legarsi all’atomo di fosforo del residuo di OP. A questo punto l’ossima fosforilata si distacca dall’enzima, lasciandolo completamente riattivato. La pralidossina (2-PAM) è usata come antidoto a seguito di intossicazioni da OP (Adams, 1999). In altri casi l’enzima fosforilato può andare incontro ad un processo chiamato “invecchiamento”, dovuto alla perdita di un gruppo alchilico della serina. A seguito di questo processo l’enzima è considerato inibito irreversibilmente e per ripristinare la sua funzione è necessaria la sintesi di nuovo enzima (Costa e Ashner, 2014; Mineau, 1991).

I carbammati (Figura 11) rappresentano un’altra importante classe di pesticidi il cui meccanismo d’azione è basato sull’inibizione delle colinesterasi. Sono dei derivati dell’acido N-metil carbammico e sono stati prodotti negli anni ’50 per soddisfare la richiesta di insetticidi ad attività anticolinesterasica, che presentassero rispetto agli OP una maggiore specificità di azione ed una minore tossicità verso i mammiferi. Attualmente questi composti trovano largo impiego nel settore agricolo in molti paesi, spesso in sostituzione agli OP (Vale e Lotti, 2015). I carbammati mostrano diversi gradi di tossicità acuta, non necessitano di reazioni di bioattivazione e l’effetto inibitorio è

(22)

22

transiente e reversibile poichè, in acqua, l’enzima carbamilato si riattiva velocemente. Inoltre gli enzimi inibiti non subiscono il fenomeno dell’invecchiamento (Costa e Ashner, 2014).

Gli organofosforici ed i carbammati sono altamente liposolubili. Ciò consente a queste molecole di penetrare attraverso l’epidermide e di superare la barriera ematoencefalica. Inoltre, per lo stesso motivo, tali molecole vengono facilmente assorbite anche dal tratto gastrointestinale e respiratorio (Sultatos, 1994).

(23)

23

2.

SCOPO DELLA TESI

Lo scopo di questo lavoro è stato quello di effettuare una caratterizzazione biochimica delle colinesterasi solubili di D. neapolitana ed indagare la rilevanza dell’attività colinesterasica come biomarker di esposizione a pesticidi in questa specie, in prospettiva di un suo possibile utilizzo come biomarker di esposizione a contaminanti con attività anti-colinesterasica quali pesticidi organofosforati e carbammati.

A tale proposito è stata indagata la distribuzione delle ChE in diverse regioni corporee di D.

neapolitana, utilizzando differenti substrati.

Allo scopo di esaminare le principali forme di ChE presenti, è stata effettuata la caratterizzazione dell’attività enzimatica in vitro utilizzando differenti substrati ed inibitori modello, determinando i principali parametri cinetici. A supporto dell’approccio catalitico, le attività enzimatiche sono state “visualizzate” anche attraverso una analisi elettroforetica in condizioni native.

Per chiarire il potenziale impiego dell’attività ChE in D. neapolitana come biomarker di esposizione a pesticidi, sono stati selezionati e testati in vitro 4 carbammati.

Questo lavoro intende fornire un set di dati riguardo ai livelli basali di attività ChE in D.

neapolitana, che possano essere integrati in ulteriori studi, incentrati sulla possibile utilità di questa

specie come sentinella in programmi di biomonitoraggio di ambienti costieri estuariali a fondi molli.

(24)

24 Figura 12: fase di prelievo del sedimento (sinistra); tubi di D. neapolitana (destra).

3.

MATERIALI E METODI

3.1. REAGENTI

I reagenti utilizzati, di grado analitico o superiore, sono di provenienza Sigma Aldrich (St. Louis, MO, USA).

3.2. CAMPIONAMENTO DEGLI INDIVIDUI E MANTENIMENTO IN

LABORATORIO

Gli individui di D. neapolitana sono stati raccolti nel canale Mira (40°38′ N, 8°45′ W), situato nella laguna Ria de Aveiro (Aveiro, Portogallo). Questo canale è stato scelto come sito di campionamento in virtù della sua classificazione come area non contaminata (Cerqueira e Pio, 1999; Quintaneiro et al., 2006; Freitas et al., 2014; Velez et al., 2015). Il campionamento è stato effettuato nel mese di settembre e durante il periodo di bassa marea, momento in cui le zone intertidali sono accessibili. Utilizzando una pala sono stati prelevati dei blocchi di sedimento, all’interno dei quali gli organismi si ancorano tramite la secrezione dei loro tubi. I tubi sono stati rimossi dal sedimento e trasportati in laboratorio all’interno di un contenitore in plastica in condizioni umide (Figura 12).

In laboratorio gli individui sono stati estratti manualmente dai tubi e stabulati in acquari per permettere l’acclimatazione, la rigenerazione dei metameri ed una eventuale detossificazione. Secondo Pires et al. (2012) la rigenerazione è considerata completa quando non si nota differenza di larghezza tra i nuovi e i vecchi segmenti. Gli acquari, dotati di filtri meccanici esterni, contenevano

(25)

25

acqua marina artificiale (18 L) ed un mix di sedimenti fini e medi provenienti dall’area di campionamento. In precedenza è stata frequentemente controllata la contaminazione di tali sedimenti per garantire la qualità dei dati. Negli acquari sono state mantenute condizioni costanti di salinità (28 PSU), temperatura (19 ± 1 °C), pH (7.8 ± 0.1), fotoperiodo (12h luce: 12h buio) e aerazione continua. Gli organismi sono stati alimentati ogni 3 giorni con frammenti di mitili provenienti dalla stessa area di campionamento (Figura 13).

Dopo il periodo di stabulazione di 15 giorni, 5 individui sono stati estratti dai tubi, sacrificati tramite immersione in azoto liquido e sezionati con un bisturi in diverse parti (Pires et al., 2012) (Figura 14):

 Segmento apicale: regione prebranchiale, amputazione a livello del chetigero 4

 Segmento intermedio: regione branchiale, compresa tra i chetigeri 5 e 60

 Segmento posteriore: regione postbranchiale, amputazione a livello del chetigero 60

Figura 13 : acquari per la stabulazione di D. neapolitana.

(26)

26

3.3. PREPARAZIONE DELLE FRAZIONI CELLULARI

Ogni segmento, dopo essere stato asciugato con carta bibula, è stato manualmente triturato con un pestello di marmo; i tessuti ottenuti sono stati pesati e omogeneizzati in un potter Elvejem con tampone fosfato 100 mM a pH 8.0 (1:2 w/v). Gli omogeneizzati sono stati sonicati per 15 secondi e centrifugati per 10 minuti a 10000 x g; entrambe le operazioni sono state svolte a 4 °C. Il sovranatante (frazione S9) è stato recuperato, aliquotato in provette Eppendorf da 500 μL, congelato in azoto liquido e conservato a -80 °C fino alle analisi.

Inoltre, per ognuno dei 5 individui sono state unite aliquote di sovranatante a pari contenuto proteico derivanti dai 3 segmenti corporei. Esperimenti preliminari hanno mostrato che l’attività ATChI-ChE in frazioni S9 ottenute da tale unione non è significativamente differente dall’attività in frazioni S9 derivanti dal corpo intero; per questa valutazione sono state confrontate le attività medie di 3 repliche biologiche. Per questo motivo, le analisi relative al corpo intero sono state svolte su frazioni S9 ottenute dall’unione di uguali aliquote di sovranatante dei 3 segmenti corporei.

3.4. DETERMINAZIONE DELLA CONCENTRAZIONE PROTEICA

La concentrazione proteica delle frazioni S9 di D. neapolitana è stata determinata tramite il metodo di Lowry (Lowry et al., 1951). Questo metodo colorimetrico ad alta sensibilità (10 µg/mL) si basa sulla capacità degli ioni Cu2+, presenti nel reattivo di rame, di legarsi in ambiente basico ai gruppi CO-NH2 delle proteine, determinando un viraggio di colore della soluzione a violetto. È una

reazione specifica per i polipeptidi e non avviene con singoli amminoacidi, poiché necessita della presenza di almeno due gruppi CO-NH2. Nella seconda fase, gli acidi fosfotungstinico e

fosfomolibdico, presenti nel reattivo di Folin, vengono ridotti dal complesso rame-proteina a blu di tungsteno e blu di molibdeno. Il solo reattivo di Folin in ambiente basico si legherebbe esclusivamente ad amminoacidi con anello aromatico, quindi la colorazione blu dipenderebbe solo da questi. Nel metodo di Lowry, in cui il reattivo di rame è aggiunto prima del reattivo di Folin, quest'ultimo reagisce con l'intera molecola proteica legata ai cationi Cu2+, aumentando la sensibilità e la precisione del metodo. La densità ottica della colorazione blu, determinata mediante spettrofotometro, è proporzionale al contenuto di proteine.

Per la determinazione delle proteine totali sono stati preparati in doppia serie uguali volumi di S9 delle varie regioni corporee (diluita in acqua deionizzata 1:400 e 1:800), di bianco (acqua

(27)

27

deionizzata) e di standard (albumina bovina alla concentrazione di 100 µg/mL), ai quali sono stati aggiunti i reagenti indicati nel protocollo del metodo. Dopo 30 minuti è stata letta l'assorbanza allo spettrofotometro, alla lunghezza d'onda di 750 nm. Sulla base di questi valori, la concentrazione di proteine è stata calcolata mediante la proporzione:

Δ Ac : Δ As = X : Y

Dove:

Δ Ac (Δ Assorbanza campione) = Ac - Ab (Assorbanza bianco);

Δ As (Δ Assorbanza standard) = As -Ab (Assorbanza bianco);

X = concentrazione proteica del campione;

Y = concentrazione proteica dello standard (100 µg/ml). X = Δ Ac/ Δ As x 100

Per determinare la concentrazione proteica del campione, si moltiplica il valore ottenuto (X) per il fattore di diluizione del campione.

X = Δ Ac/ Δ As x 100 x fattore di diluizione

3.5. SAGGI ENZIMATICI: ATTIVITÀ COLINESTERASICA

L’attività colinesterasica (ChE) nelle frazioni S9 di D. neapolitana è stata determinata secondo il metodo descritto da Ellman et al. (1961), utilizzando i substrati modificati acetil- (ATChI), propionil- (PTChI), butirril- (BTChI) tiocolina ioduro.

Questa tecnica misura la velocità di idrolisi dei substrati in tiocolina e acetato ad opera delle differenti colinesterasi presenti nel campione. La tiocolina liberata riduce il reattivo acido ditiobisnitrobenzoico (DTNB), si forma lo ione 2-nitro-5-tiobenzoato (TNB-) che in acqua, a pH neutro o alcalino, si ionizza nel dianione TNB2- (Figura 15). Questo è di colore giallo ed assorbe la radiazione elettromagnetica alla lunghezza d’onda di 412 nm, quindi la densità ottica della soluzione può essere determinata mediante uno spettrofotometro.

(28)

28

I saggi enzimatici, di tipo cinetico, sono stati condotti in cuvette monouso, in un batch di rezione del volume totale di 3130 μL. Il batch di reazione conteneva tampone fosfato 100 mM a pH 8.0, DTNB 10 mM, differenti concentrazioni di substrato (ATChI, PTChI e BTChI) e la concentrazione di proteine risultata ottimale a seguito di esperimenti preliminari. La densità ottica della soluzione è stata determinata con uno spettrofotometro a doppio raggio Perkin Elmer, con letture ogni 5 secondi per 5 minuti, alla lunghezza d’onda di 412 nm e alla temperatura di 25 °C. L’attività enzimatica è stata corretta per l’idrolisi spontanea del substrato ed è stata calcolata mediante la seguente formula, esprimendo il valore come nmoli di substrato idrolizzato/min/mg proteine:

Dove:

 A/min = variazione di assorbanza al minuto

 Vol. campione = volume del sovranatante

 Vol. totale = volume totale del batch di reazione

412 = coefficiente di estinzione molare del TNB2- (1.36 x 104 M-1cm-1)

 cammino ottico della cuvetta (1 cm)

 mg proteine = concentrazione di proteine nel campione

A/min

Vol. totale

Vol. campione

412

x



x

x mg proteine

(29)

29

Ai fini della caratterizzazione biochimica delle colinesterasi di D. neapolitana, sono stati eseguiti esperimenti per valutare i seguenti aspetti:

- Valori ottimali di temperatura a cui svolgere i saggi

- Concentrazione ottimale di proteine con cui svolgere i saggi - Intervalli di tempo durante i quali monitorare le cinetiche

- Livelli di attività enzimatica nelle differenti regioni corporee (anteriore, intermedia, posteriore, corpo intero) utilizzando i substrati ATChI, PTChI e BTChI

- Affinità di substrato e parametri cinetici Km e Vmax con i diversi substrati, secondo

l’equazione di Michaelis-Menten

A seguito della caratterizzazione biochimica sono stati svolti esperimenti di inibizione in vitro: - Inibizione di attività ChE da parte di inibitori modello: eserina emisolfato (inibitore

aspecifico di ChE), iso-OMPA (inibitore specifico di BChE), 1,5-bis(4-allildimetilammoniofenil) pentan-3-one dibromuro (BW284C51, inibitore specifico di AChE)

- Inibizione di attività ChE da parte di carbammati: Carbofurano, Methomyl, Aldicarb, Carbaryl

Per la valutazione dei valori ottimali di temperatura e concentrazione di proteine sono state confrontate le attività medie osservate per ogni combinazione di temperatura (25 °C, 37 °C) e concentrazione proteica (0.15 mg, 0.5 mg, 0.75 mg), utilizzando il substrato ATChI 470 μM. Le medie si riferiscono a 3 repliche biologiche.

Per la valutazione del tempo di monitoraggio delle reazioni sono state confrontate le attività medie osservate per un tempo di 5 e di 10 minuti, utilizzando il substrato ATChI 470 μM. Le medie si riferiscono a 3 repliche biologiche.

Per la determinazione dei livelli di attività enzimatica nelle differenti regioni corporee e con diversi substrati, è stata saggiata l’attività nelle regioni corporee di 5 repliche biologiche. I substrati e le concentrazioni utilizzate sono state: ATChI 470 μM, PTChI e BTChI 1880 μM.

Per la determinazione dei parametri cinetici e dell’affinità di substrato è stata misurata l’attività nei segmenti posteriori di 5 repliche biologiche, utilizzando i substrati ATChI, PTChI e BTChI nel range di concentrazione 29 – 3770 μM, eseguendo diluizioni seriali in base 2. Quindi è stato adottato il modello di Michaelis-Menten, seguendo la formula:

(30)

30

dove:

 V = attività enzimatica

 Vmax = velocità massima

 Km = concentrazione di substrato a cui la velocità è metà di Vmax

 [S] = concentrazione di substrato

Per i test di inibizione in vitro con inibitori modello sono state preparate soluzioni stock di eserina emisolfato e BW284C51 in tampone fosfato 100 mM a pH 8.0, mentre la soluzione stock di iso-OMPA è stata preparata in etanolo. Eserina è stata testata nel range di concentrazioni 0.001 – 10 μM, eseguendo diluizioni seriali in base 10. BW284C51 è stato testato alle concentrazioni 1, 100, 200, 400, 800 μM. Iso-OMPA è stato testato solo alla concentrazione 10 mM. Tutte le stock sono state diluite in tampone fosfato (100 mM, pH 8.0). Utilizzando 5 repliche biologiche, sono state incubate aliquote da 50 μL di S9 delle regioni intermedie con l’inibitore opportunamente diluito, alla temperatura di 25 °C. Inibitore e campione erano in rapporto 1:10. I controlli sono stati preparati aggiungendo a S9 un uguale volume di solvente (tampone fosfato o etanolo) privo di inibitore. Dopo 30 minuti è stata misurata l’attività enzimatica utilizzando i substrati ATChI 470 μM e PTChI 1880 μM. Infine è stata calcolata la % di inibizione rispetto al controllo, la concentrazione che inibisce il 50% dell’attività (IC50) e i suoi limiti di confidenza al 95%.

Per i test di inibizione in vitro con carbammati, questi sono stati solubilizzati in metanolo e poi diluiti in tampone fosfato (100 mM, pH 8.0). Sono state testate concentrazioni nel range 0.001 – 10 μM, eseguendo diluizioni seriali in base 10. Per queste analisi sono state utilizzate le frazioni S9 del corpo intero di 3 repliche biologiche. Queste sono state incubate con gli inibitori seguendo la stessa procedura descritta sopra, così come i controlli sono stati preparati come già descritto, ma introducendo metanolo per valutare l’effetto del solvente. La concentrazione di metanolo nel batch di incubazione non ha mai superato l’1%. La misura dell’attività enzimatica è stata effettuata come descritto sopra. Per ciascun carbammato è stata determinata la % di inibizione rispetto al controllo, l’IC50 e i suoi limiti di confidenza al 95%.

V

=

V

max

[S]

(31)

31

3.6. ELETTROFORESI SU GEL DI POLIACRILAMMIDE IN

CONDIZIONI NATIVE

Questa tecnica si basa sul principio per cui, in presenza di una differenza di potenziale elettrico, una molecola con carica netta non nulla migra verso l’elettrodo con segno opposto alla sua carica. La mobilità elettroforetica delle diverse proteine è influenzata sia dalla carica che queste assumono alle condizioni di pH a cui si trovano, sia dal loro ingombro sterico. Questo è dovuto all’effetto di setaccio molecolare operato dal gel elettroforetico in cui avviene la migrazione. Tale effetto è proporzionale alla concentrazione di acrilammide presente nel gel poiché, all’aumentare di questa, diminuisce la porosità e molecole più ingombranti migrano più lentamente. Nella tecnica di elettroforesi nativa viene preservato il folding proteico, grazie all’assenza di sostanze denaturanti e di calore. Pertanto, gli enzimi mantengono la loro funzione e possono essere evidenziati con colorazioni specifiche.

L’analisi elettroforetica in condizioni native è stata effettuata allo scopo di separare le proteine delle frazioni S9 del corpo intero di D. neapolitana, di evidenziarne l’attività colinesterasica e carbossilesterasica, e di svolgere dei saggi di inibizione in vitro.

Per tale analisi è stato utilizzato l’apparato Bio-Rad mini-Protean Cell II (Bio-Rad, USA). La migrazione elettroforetica è avvenuta attraverso uno stacking gel al 4% e un resolving gel al 10% di acrilammide. Oltre alla frazione S9 e ad un marcatore di pesi molecolari (BLUeye Prestained Protein Ladder), sono state fatte migrare AChE purificata da anguilla elettrica (Electrophorus

electricus) e BChE purificata da siero equino. Gli enzimi purificati sono stati utilizzati come

controllo per verificare l’efficacia della tecnica di colorazione e per identificare le bande reattive ChE di S9. I campioni, prima di essere caricati sul gel, sono stati addizionati in rapporto 1:1 con una soluzione di saccarosio 20% (w/v), tampone fosfato 10 mM a pH 6.5 e blu di bromofenolo 0.1%. Sono stati caricati 50 μg di proteine di S9 e 1 U di enzimi purificati. La corsa è stata condotta al voltaggio costante di 150 V (Kristoff et al., 2006) per 40 minuti, a freddo. Alla fine della corsa, le strisce di gel sono state separate e sottoposte a differenti trattamenti:

 per evidenziare la presenza di bande reattive ad attività colinesterasica (ChE), alcune strisce di gel (AChE, BChE, S9) sono state colorate con una soluzione di acido maleico 0.2 M aggiustato a pH 6.0 prima dell’uso, citrato di sodio 0.1 M, solfato di rame 0.03 M, potassio ferricianuro 5 mM. Prima dell’incubazione del gel, a questa soluzione è stata aggiunta una seconda soluzione contenente il substrato di interesse (ATChI, PTChI o BTChI, a seconda dei casi), solfato di rame 0.03 M e acqua. Questa seconda soluzione è stata centrifugata per

(32)

32

10 minuti a 2000 rpm per eliminare il precipitato dovuto al solfato di rame (Li et al., 2005). In questa tecnica la tiocolina, prodotto della reazione colinesterasica, riduce il ferricianuro di potassio, il quale reagisce con gli ioni Cu2+ portando alla formazione di un precipitato rosso-bruno.

 Alcune strisce (AChE, S9) sono state preincubate per 30 minuti in eserina emisolfato 1 μM e tampone fosfato 100 mM a pH 8.0; successivamente sono state colorate mediante la colorazione per bande ad attività ChE descritta nel punto sopra.

 Per evidenziare la presenza di bande reattive ad attività carbossilesterasica (CE), una striscia (S9) è stata incubata in una soluzione contenente tampone fosfato 100 mM a pH 8.0, naftilacetato 3.2 mM, 2-naftilacetato 3.2 mM e fast blue RR salt 2.4 mM (Li et al., 2005). 1-NA e 2-1-NA sono stati solubilizzati in acetone e aggiunti alla soluzione. In questa tecnica il naftolo, prodotto della reazione carbossilesterasica, si lega al colorante fast blue e si formano delle bande nero-verdastre.

 Una striscia è stata preincubata per 30 minuti in eserina emisolfato 1 μM e tampone fosfato (100 mM, pH 8.0); successivamente è stata colorata mediante la colorazione per bande ad attività CE descritta nel punto sopra.

Dopo l’incubazione nelle soluzioni coloranti per 2 ore a temperatura ambiente e in agitazione delicata, le strisce di gel sono state sciacquate con una soluzione decolorante di acqua, metanolo al 30% ed acido acetico al 10%.

Allo scopo di stimare i pesi molecolari delle bande, è stata eseguita una scansione dei gel e una analisi delle immagini con Image J software (NIH, Bethesda, MD, USA).

3.7. ANALISI STATISTICHE

Per la definizione delle condizioni sperimentali ottimali, le variabili temperatura e concentrazione di proteine sono state analizzate mediante two way-ANOVA e test di Bonferroni.

Le differenze tra trattamenti o condizioni sono state valutate mediante one way-ANOVA e test di Dunnett (controllo VS trattamenti) o test di Tukey (confronto tra condizioni).

I parametri cinetici (Km, Vmax) ed i valori di IC50 sono stati calcolati mediante una analisi di

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Tutte le analisi sono state svolte mediante Graphpad Prism versione 5.0 per windows, Graphpad software, San Diego, California, USA.

4.

RISULTATI

Ai fini di delineare il profilo di caratterizzazione delle colinesterasi presenti nelle frazioni cellulari S9 ottenute da diversi segmenti corporei di D. neapolitana, è stata condotta una valutazione preliminare che permettesse di individuare i valori ottimali di temperatura e concentrazione di proteine per ottenere le migliori linearità delle cinetiche enzimatiche ed i più alti valori di attività. A questo scopo, sono stati confrontati i turnover enzimatici (espressi come nanomoli di substrato idrolizzato/mg di proteina/minuto) ottenuti usando come substrato ATChI 470 μM, testando due temperature (25 °C e 37 °C) e tre diverse concentrazioni di proteine (0.15, 0.5 e 0.75 mg) all’interno del mix di reazione mantenuto al volume costante di 3,13 mL (Fig. 1).

Figura 16: valutazione della temperatura di incubazione e della concentrazione di proteine ottimale nel mix di reazione in saggi di attività colinesterasica (incubazione 30 min, substrato ATChI 470 μM). Dati espressi come nmol/min/mg proteina (media ±ES; n=3). Lettere diverse indicano differenze significative (p<0.05), two-way ANOVA (test di Bonferroni).

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I risultati mostrano che, tra le temperature testate, le condizioni che permettono di ottenere i più elevati valori di attività enzimatica sono rappresentate dalla temperatura di 25 °C ed una concentrazione di proteine di 0.15 mg, come confermato dall’analisi two-way ANOVA seguita dal test di Bonferroni (p<0.05). Inoltre, tutti i saggi sono stati svolti monitorando la reazione per 5 e 10 minuti. Dato che non sono emerse differenze significative nella linearità delle cinetiche svolte ai due diversi tempi, per gli altri saggi di attività enzimatica è stato scelto un tempo di 5 minuti.

La Fig. 17 mette a confronto i livelli di attività enzimatica riscontrati con i substrati ATChI 470 μM (ATChI-ChE) e PTChI 1880 μM (PTChI-ChE) nelle frazioni S9 derivanti dai diversi segmenti corporei e dal corpo intero. L’attività ATChI-ChE più alta è stata osservata nei segmenti posteriori, seguiti da quelli intermedi, mentre il livello più basso di attività è stato riscontrato nei segmenti apicali e nel corpo intero. Tuttavia, le differenze tra i segmenti posteriori ed intermedi non sono risultate statisticamente significative. Sono invece risultate significative le differenze sia tra i segmenti posteriori ed apicali che quelle tra i segmenti posteriori ed il corpo intero (p<0.05) (Fig. 17A). L’attività PTChI-ChE osservata nei segmenti posteriori è risultata essere significativamente maggiore (p<0.05) di quella nei segmenti apicali, ma non significativamente differente da quella osservata nei segmenti intermedi e nel corpo intero (Fig 17B).

Fugura 17: attività ChE (media ±ES; n=5) espressa come nmol/min/mg proteine (A: ATChI-ChE, 470 μM, B: PTChI-ChE, 1880 μM) in differenti segmenti corporei (A: apicale; I: intermedio; P: posteriore; INTERO: corpo intero). Lettere diverse indicano differenze significative (p<0.05), one-way ANOVA (test di Tukey).

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Con il substrato BTChI 1880 μM è stata osservata una bassa attività (BTChI-ChE) in tutti i segmenti e nel corpo intero, con un valore massimo di 2.6 ± 0.08 nmol/min/mg proteine nel segmento posteriore.

Dato che i segmenti posteriori hanno mostrato la più alta attività enzimatica, questi sono stati usati nei successivi esperimenti di caratterizzazione dei parametri cinetici. Inoltre, poiché non sono emerse differenze di attività statisticamente significative tra il segmento posteriore e quello intermedio, quest’ultimo è stato usato per gli esperimenti di inibizione delle colinesterasi.

Mediante un’analisi di regressione non lineare sono state ottenute le curve di attività colinesterasica con i tre substrati; con queste sono stati poi determinati i principali parametri cinetici. Le curve di attività ATChI-ChE e PTChI-ChE sono associate ad un R2 rispettivamente di 0.90 e 0.92, mentre la curva BTChI-ChE è associata ad un R2 di 0.78 (Fig. 18)

L’attività enzimatica più alta è stata riscontrata con il substrato ATChI 470 μM, con il quale è stato ottenuto un valore di 117.7 ± 1.7. Con il substrato PTChI 1880 μM è stata misurata un’attività di 64.1 ± 3.3. Con il substrato BTChI 1880 μM è stato osservato un valore di 2.6 ± 0.08. Tutti i valori sono espressi come nmol/min/mg proteine e rappresentano media ± ES (n=5).

Figura 18: regressione non lineare dell’attività colinesterasica in D. neapolitana (segmenti posteriori) con i substrati ATChI, PTChI, BTChI (range 29-3770 μM). Ogni punto rappresenta media ±ES (n=5).

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