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Acquisizione delle preposizioni spaziali in italiano L2: due campioni empirici a confronto.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione ... 3

Capitolo 1. L’acquisizione di L2 ... 7

1.1 La linguistica acquisizionale ... 7

1.2 L’apprendimento della seconda lingua ... 15

1.3 Italiano come L2 ... 25

Capitolo 2. Le categorie spaziali ... 31

2.1 Percezione e spazialità ... 31

2.2 Strutture e relazioni spaziali ... 34

2.3 Le preposizioni spaziali ... 40

Capitolo 3. L’analisi empirica condotta in Italia ... 50

3.1. Gli informanti ... 50

3.2. Raccolta dati ... 53

3.3 Elicitazione dei dati raccolti in Italia: analisi ... 59

3.3.1 Analisi dati del Livello A1 ... 60

3.3.2 Analisi dati del livello B1 ... 69

3.3.3 Analisi dati del livello C1 ... 76

3.4 Osservazioni conclusive ... 81

Capitolo 4. L’analisi empirica condotta in Inghilterra ... 85

4.1 Gli informanti ... 85

4.2 Raccolta dati ... 87

4.3 Elicitazione dei dati raccolti in Inghilterra: analisi ... 88

4.3.1 Analisi dati del Livello A1 ... 88

4.3.2 Analisi dati del livello B1 ... 93

4.3.3 Analisi dati del livello C1 ... 97

4.4 Osservazioni conclusive ... 101 Capitolo 5. Conclusioni ... 105 Appendice ... 109 Riferimenti bibliografici... 113 Sitografia ... 117 Ringraziamenti ... 119

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Introduzione

L’apprendimento della seconda lingua è da sempre stato trattato da una serie di prospettive: linguistica, sociolinguistica, educazionale, psicolinguistica, neurolinguistica; lo scopo del nostro studio è analizzare l’apprendimento dal punto di vista linguistico, focalizzando l’attenzione sulla relazione tra le teorie linguistiche e l’apprendimento della seconda lingua nell’uso delle preposizioni spaziali.

Le preposizioni sono un elemento essenziale della lingua grazie alla loro funzione di collegamento tra le varie parti del discorso, ma allo stesso tempo, risulta complesso determinare con esattezza il loro uso e il loro valore ai fini dell’apprendimento delle diverse lingue straniere; infatti, esse non racchiudono sempre un significato univoco e monosemico anzi, spesso rivestono diversi ruoli semantici, sintattici e funzionali che divengono decisivi sia dal punto di vista grammaticale sia da quello contenutistico e comunicativo grazie al loro compito di costituire una relazione. Per questo motivo, la nostra ricerca ha come principale obiettivo l’analisi degli usi delle preposizioni spaziali in apprendenti l’italiano come seconda lingua: infatti, crediamo sia importante dedicare uno spazio privilegiato allo studio, all’uso e alla funzione delle preposizioni nell’apprendimento di una seconda lingua.

L’ipotesi di fondo è definibile in tali termini: l’apprendimento delle preposizioni spaziali italiane da parte di apprendenti stranieri in Italia presenta caratteristiche diverse dall’apprendimento delle stesse da parte di discenti che studiano l’italiano come seconda lingua in Inghilterra?

La conoscenza di come gli apprendenti di italiano L2 acquisiscono le preposizioni è oggetto di recenti studi di linguistica acquisizionale; esse infatti rappresentano un elemento considerevole quando si vuole individuare un processo di acquisizione linguistica; non a caso è proprio il corretto uso delle preposizioni che ci permette riconoscere il parlante avanzato di una qualsiasi lingua.

E’ noto come il percorso acquisizionale di una qualsiasi L2 si compie tendenzialmente come processo individuale. Tuttavia, anche se ogni apprendente presenta un proprio percorso, è anche vero che nelle caratteristiche di ognuno di essi si osservano fenomeni costanti che possono essere senz’altro

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interpretati come tratti specifici del più generale processo acquisizionale caratteristico di un particolare gruppo.

La strada percorsa per redigere questa tesi ha inteso indagare il sistema di apprendimento delle preposizioni spaziali italiane da parte di apprendenti stranieri integrando il punto di vista acquisizionale e cognitivo; nonostante i numerosi studi sul funzionamento dei processi cognitivi che determinano l’apprendimento di una seconda lingua, le numerose variabili che influenzano l’apprendimento rendono ancora molto vaghe le conoscenze sulle caratteristiche di tali processi. Un dato però è certo: la centralità dell’apprendente con la sua individualità cognitiva, linguistica, psicologica e sociale. Ogni riflessione acquisizionale deve dunque partire da tale consapevolezza, non tralasciando il fatto che nell’apprendimento di una seconda lingua entrano in gioco numerosi altri fattori, quali, la lingua materna, il tipo di input e le motivazioni.

La prima parte del presente studio (cap. 1 e 2) mira a fornire un quadro teorico di riferimento per l’analisi e l’interpretazione dei nostri dati relativi alle due ricerche, elaborate e confrontate nella seconda parte (cap. 3, 4 e 5).

Nello specifico, l’argomento centrale del primo capitolo è la linguistica acquisizionale che descrive e spiega il processo di apprendimento di una seconda lingua secondo i fattori biologici, cognitivi e affettivi del modello del monitor krasheniano; in particolare ci soffermeremo sull’apprendimento di italiano come L2 analizzando le varie fasi dell’interlingua, “the proposal that L2 learners have internalized a mental grammar, a natural language system that can be described in terms of linguistic rules and principles” (White, 2005: 19). I tre stadi dell’interlingua, cioè fase pre-basica, basica e post-basica, permettono di collocare l’interlingua in un continuum tra L1 e L2, dove l’apprendente, in quanto soggetto attivo nel processo di apprendimento, formula ipotesi sulla lingua d’arrivo e costruisce sistemi provvisori con gli elementi che ha a disposizione.

Nel secondo capitolo approfondiremo la tematica della spazialità, la cui conoscenza avviene attraverso il corpo e per sua mediazione; alla base di tale asserzione vi è la teoria dell’embodiment secondo la quale le capacità cognitive sono condizionate dalle dimensioni fisiche corporee dell’essere umano. In questo modo la percezione, intesa come processo cognitivo, è strettamente

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connessa alla produzione del linguaggio. Tratteremo quindi della linguistica cognitiva, di cosa studia e in che modo i processi linguistici si legano a quelli mentali con la formazione, di conseguenza, di immagini mentali relative allo spazio che ci permettono di orientarci: l’orientamento nello spazio avviene grazie a sistemi di riferimento e alla collocazione di due entità “Figura” e “Sfondo”, la cui relazione (topologica o proiettiva) permette di stabilire la posizione di un oggetto. In seguito, esamineremo le preposizioni spaziali come parti del discorso sia dal punto di vista delle grammatiche normative che degli studi più specificatamente linguistici: da tale indagine ne consegue che le preposizioni di spazio non costituiscono una classe grammaticale dai confini ben precisi. Dopo aver analizzato le relazioni spaziali che esse codificano, ci soffermeremo sullo studio dei processi acquisizionali delle preposizioni spaziali italiane notando che, analogamente a quanto accade nello sviluppo della morfologia nominale e del sistema verbale, l’apprendimento delle preposizioni spaziali procede secondo determinate sequenze implicazionali. Nei capitoli 3 e 4 presenteremo le ricerche svolte rispettivamente in Italia, presso il Centro Linguistico Interdipartimentale (CLI) dell’Università di Pisa e in Inghilterra, presso l’Università di Leeds; dopo aver trattato degli informanti che hanno preso parte al nostro studio, fornendo le informazioni necessarie sulla nazionalità, la loro madrelingua, il loro percorso di studi e il loro livello di italiano, ci soffermeremo sui criteri che hanno guidato il nostro lavoro di raccolta dati e della conseguente estrazione e organizzazione dei due campioni esaminati. Nello specifico, abbiamo preso in considerazione tre livelli di conoscenza dell’italiano A1, B1 e C1, per studiare non solo le differenze che si riscontrano tra un livello e l’altro, ma soprattutto per osservare la presenza di un progressivo miglioramento nell’acquisizione delle preposizioni spaziali italiane; agli studenti dei tre livelli abbiamo distribuito due test sulle preposizioni spaziali da noi ideati, a distanza di sessanta giorni circa l’uno dall’altro. In questo modo abbiamo potuto effettuare un’accurata analisi quantitativa e qualitativa delle preposizioni spaziali utilizzate in maniera corretta ed errata e prestando particolare attenzione a quelle preposizioni che sono state omesse.

Infine, nel capitolo 5 presenteremo le osservazioni conclusive sul lavoro svolto effettuando un confronto tra i due campioni esaminati; in particolare, dai

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nostri dati emerge che gli apprendenti di italiano L2 tendono ad utilizzare maggiormente determinate preposizioni e ad evitarne altre: questo dato risulta analogo in entrambi i campioni esaminati. Una differenza che abbiamo riscontrato, riguarda il miglioramento tra un test e l’altro: se abbiamo notato un progressivo miglioramento quantitativo e qualitativo tra il primo e il secondo test per gli apprendenti del CLI, lo stesso non possiamo dire del gruppo di apprendenti dell’Università di Leeds; quest’ultimo presenta un miglioramento qualitativo, ma l’analisi quantitativa risulta ottima anche per ciò che concerne il primo test.

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Capitolo 1. L’acquisizione di L2

“What kind of exposure do learners need in order to acquire a second language acquisition? What faculties do learners bring to the task of learning a second language? What role does the social context of learning play in acquisition?”

(Thomas 2013: 27)

1.1 La linguistica acquisizionale

La linguistica acquisizionale “studia processi e modelli relativi all’acquisizione di una lingua non materna, convenzionalmente detta lingua seconda (o L2) perché appresa in età successiva alla prima lingua o lingua materna (L1). […] Oltre a descrivere il processo di apprendimento di L2 e le sue tappe, la linguistica acquisizionale si occupa dei modelli che mirano a spiegare tale processo e dei fattori che lo condizionano” (Chini 2005: 9). Essa ha quindi ambizioni teorico-esplicative, pur essendo sostanzialmente pratico-applicata.

Una prima distinzione terminologica di grande interesse, ma allo stesso tempo controversa, è quella che intercorre tra lingua materna, lingua seconda e lingua straniera; la lingua materna o lingua madre come suggerisce la stessa definizione è la lingua che si parla con la madre o nel nucleo familiare, quindi è quella che il bambino apprende per prima (L1) e in modo naturale tramite il processo di acquisizione linguistica (cfr. Bosisio 2012); la seconda lingua, invece, è diversa dalla lingua madre: essa viene appresa in contesti naturali tramite il contatto diretto tra apprendente e parlanti nativi, svolgendo nello stesso momento due compiti, il primo di tipo comunicativo - comprendere e farsi comprendere - il secondo di tipo acquisizionale, ovvero imparare la seconda lingua (cfr. Klein 1986); infine, la lingua straniera si riferisce ad una lingua non materna, ma appresa nel proprio paese di origine tramite un insegnamento sistematico in contesto istituzionale. Spiegano a tal proposito Andorno e Ramat (2002:8):

“si parla di lingua straniera quando essa è appresa prevalentemente in un contesto in cui non è usata come lingua di interazione quotidiana. In questo caso la lingua verrà appresa prevalentemente attraverso altre forme di contatto, ad esempio l’insegnamento o la

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frequentazione di mezzi di comunicazione come la televisione, i giornali”.

La distinzione tra lingua seconda e lingua straniera, però, non è così netta come appare: basti pensare a tutti quegli studenti che studiano una lingua nel loro paese d’origine e in seguito decidono di trascorrere un periodo nel paese della lingua studiata (come per esempio gran parte degli studenti Erasmus che hanno preso parte al nostro studio). In questo caso si preferisce usare il termine L2, che supera la distinzione tra i due termini sopraindicati e si riferisce più generalmente ad una lingua che non è lingua madre (cfr. Bosisio 2012).

Un ulteriore e doveroso chiarimento riguarda i termini acquisizione e apprendimento. Secondo alcuni dizionari i due concetti in questione non sono distinti, anzi sono entrambi associati allo sviluppo di conoscenze e comportamenti1: l’apprendimento è “il processo mediante il quale si origina un’attività o un’attività preesistente viene modificata attraverso la risposta ad una situazione” oppure “l’apprendimento consiste nell’acquisizione di nuove condotte” e nello “sviluppo di meccanismi costruttivi in grado di rendere conto della novità” (Laeng 1989:788, ad vocem apprendimento). Tuttavia, volgendo l’attenzione all’apprendimento linguistico - fenomeno molto più complicato - non si possono avere risultati omogenei e assoluti; le nozioni di acquisizione e apprendimento dal punto di vista della didattica linguistica sono separati l’uno dall’altro e, per alcuni, sono persino contrapposti:

“Il termine acquisizione è usato per il processo tramite cui una lingua viene imparata come risultato di una esposizione naturale ed in gran parte casuale, il termine apprendimento linguistico [per un processo] in cui l’esposizione è strutturata tramite l’insegnamento linguistico” (Ciliberti 1994:9).

Se da una parte nel concetto di apprendimento sembra essere implicita la nozione di «sforzo» e si tratta di una modalità consapevole di imparare una L2, il processo di acquisizione evoca l’idea di un comportamento involontario che

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Si vedano per esempio le definizioni: Cusatelli (1965:25, ad vocem acquisizione): “[…] processo mediante il quale si sviluppano nell’individuo nuovi comportamenti”; Ibid. (118, ad vocem apprendimento): “[…] processo di acquisizione di un nuovo comportamento”. In De Mauro (2000) alla voce acquisizione si legge apprendimento come sinonimo; alla voce apprendimento (Ibid.: 152): “processo di acquisizione di conoscenze, di informazioni o di comportamenti”.

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ha luogo in un ambiente naturale e non richiede “focalizzazione consapevole sulla lingua” (Chini 2005:11).

L’opposizione tra i due termini è sostenuta anche dal linguista Stephen Krashen (1985) il quale intende con acquisizione un’attività che avviene in modo inconscio, come il comportamento tipico dei bambini che familiarizzano con la lingua materna; l’apprendimento, invece, è uno sviluppo linguistico esplicito, che si realizza in situazioni formali come ad esempio in ambito scolastico.

Molti studiosi, tuttavia, non attuano una distinzione troppo netta tra i due concetti, favorendo la definizione di «interdipendenza», giacché i due processi si compiono spesso contemporaneamente:

“si pensi per esempio a un discente che si reca in un paese straniero per imparare la lingua: oltre ad acquisirla per interazione con i parlanti nativi, spesso egli vuole approfondire le sue conoscenze o confermare le sue ipotesi chiedendo delucidazioni intorno al codice linguistico, svolgendo così un’attività metalinguistica accanto a quella comunicativa” (Bosisio, 2012: 17)

Prima di affrontare lo studio della lingua dell’apprendente (IL), è opportuno trattare di alcuni studi teorici ed empirici fecondi e diversificati che hanno determinato la nascita della linguistica acquisizionale, un nuovo campo di ricerca destinato ad imporsi - a partire dagli anni ottanta - come disciplina scientifica. In epoche precedenti, infatti, la prospettiva dominante era quella dell’insegnamento linguistico e le osservazioni sugli errori e sulle difficoltà incontrate dall’apprendente nello studio della lingua non erano sistematiche bensì svolte in ottica normativa e preventiva.

Tra gli studi più rilevanti nell’ambito della linguistica acquisizionale troviamo l’analisi contrastiva (AC) e l’analisi degli errori (AE).

Il primo approccio linguistico, di cui Robert Lado è il maggiore esponente, prevede il confronto sistematico di due lingue, quella nativa e quella da apprendere in modo tale da riconoscere similitudini e differenze tra le due e quindi individuare gli elementi linguistici che creano più difficoltà o rendono complicato l'apprendimento della seconda lingua. La prima lingua dunque interferisce con l’acquisizione della seconda e costituisce l’ostacolo principale alla padronanza positiva della nuova lingua. I sostenitori dell’analisi

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contrastiva (AC) affermano che dove le strutture della L1 differiscono da quelle della L2, saranno effettuati errori che riflettono la struttura della prima lingua; l’errore rappresenta una «deviazione» dal percorso di apprendimento ed è quindi da evitare assolutamente. Stando all’ipotesi dell’analisi contrastiva, è infatti considerato il risultato di una tendenza naturale al transfer, ossia un’interferenza linguistica che può essere positiva o negativa e che è causata dalla scarsa familiarità con la L2 (e dal fatto che l’apprendente non ha appreso gli schemi della lingua d’arrivo). Di conseguenza, maggiori sono le differenze tra le due lingue, più negativi saranno gli effetti sul transfer:

“The learner’s L1 is one of the sources of error in learner language. This influence is referred to as a negative transfer. However, in some cases, the learner’s L1 can facilitate L2 acquisition. For example, French learners of English are much less likely to make errors of this kind: the man whom I spoke to him is millionaire than are Arabic learners, because French does not permit presumptive pronouns (like “him”) in relative clause, whereas Arabic does. This type of effect is known as positive transfer.” (Ellis 1997: 51).

Questa asserzione delucida i concetti di “errore” e “tranfer” nell’apprendimento di una L2 secondo il linguista Lado. Tuttavia, se da un lato essa sintetizza i principi che stanno alla base dell’AC e quindi dei diversi approcci che sono stati seguiti per più di vent’anni per studiare i problemi acquisizionali, dall’altro anticipa i problemi e le limitazioni che hanno portato all’abbandono dell’analisi contrastiva in favore dell’analisi degli errori: nonostante l’AC si collochi alla base degli studi sull’interlingua, le sue ipotesi e sperimentazioni evidenziano parecchie imprecisioni e generalizzazioni, in primis l’aver ignorato degli errori che non sono attribuibili all’influenza della prima lingua. In questi studi sull’analisi contrastiva, sottolinea Chini (2005:20), “domina ancora una prospettiva centrata sull’insegnamento, su un idea negativa nell’apprendimento linguistico, mentre manca l’interesse per la descrizione del processo acquisizionale in sé”.

La premessa per sviluppi successivi è definita dalla nuova visione di apprendimento di L1 proposta da Chomsky (1959) in polemica con l’idea comportamentista di “stimolo-risposta-rinforzo”; secondo lo studioso, l’acquisizione linguistica non è un processo imitativo, bensì creativo: il

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bambino non apprende per imitazione di modelli linguistici proposti dagli adulti, difatti egli pronuncia parole e frasi mai sentite prima ma che seguono specifiche regole, ad esempio forme verbali analogiche come dicete e venghi rispettivamente per dite e vieni, prodotte sulla base di rapporti del tipo: dicete sta a dice come leggete sta a legge, venghi sta a vengo come corri sta a corro (cfr. Chini 2005). “The generative view assumes innate mechanisms in order to explain native first language acquisition” (Whong e Write 2013:72); tale approccio, quindi, fa appello ad una grammatica universale (GU) innata per spiegare l’acquisizione di una lingua. Grazie agli studi di Chomsky si sviluppa “un rinnovato interesse scientifico verso l’acquisizione linguistica, vista come una finestra aperta sul funzionamento della facoltà umana del linguaggio e della mente, non più unicamente come un problema empirico di rilevanza applicativo-glottodidattica” (Chini 2005: 21). Nello specifico Chomsky ritiene che la competenza linguistica si basi su un dispositivo innato di acquisizione del linguaggio, il Language Acquisition Device (o LAD) che si aziona ogni qualvolta si apprende una lingua; esso riflette l’idea di fondo di Chomsky, ovvero che molti aspetti del linguaggio sono universali (cfr. sottoparagrafo 1.2).

Il presupposto di una capacità linguistica condivisa da tutti gli essere umani, trovò un’eco anche nel campo delle ricerche sulla L2, un’area che fino a quel momento aveva mostrato scarso interesse per l’analisi dei processi di apprendimento, privilegiando, come abbiamo detto sopra, i problemi dell’insegnamento. L’importanza della prospettiva chomskiana è considerevole per gli ulteriori sviluppi dello studio della L2 e in particolare gli studi di Pit Corder sull’analisi degli errori risentono di tali suggestioni. Infatti, precisa Thomas (2013: 37):

“Corder’s contribution was to argue for a notion that has become a bedrock assumption in contemporary L2 acquisition theory: that L2 learners’ grammar exhibit internal consistency independent of the extent to which they approximate the characteristics of native-speaker grammars of the same language”.

L’analisi degli errori (AE) nasce e si sviluppa a partire dal 1960 grazie al significante contributo del Professore inglese Stephen Pit Corder, secondo il quale “errors are not to be regarded as signs of inhibition, but simply as

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evidence of the learner’s strategies of learning” (Corder 1981:12); a differenza dell’analisi contrastiva che considerava solo il prodotto dell’acquisizione in base al confronto tra le due lingue in contatto, l’AE non escludeva la componente cognitiva del linguaggio, fondamentale per la nozione di errore reputato ora come una manifestazione necessaria di apprendimento. Corder classifica due tipi di errori:

 Errori sistematici o errors cioè errori di “transitional competence” che testimoniano lo stato raggiunto nell’apprendimento della L2;

 Errori non sistematici o mistakes cioè lapsus causati dalla disattenzione, stanchezza o stati emotivi (errori che l’apprendente è in grado di correggere autonomamente).

La “competenza di transizione”, indicata dagli errors “prende a prestito il concetto di competence da Chomsky e dà rilievo al fatto che il discente possiede una certa quantità di conoscenza presumibilmente in continuo sviluppo, che sta alla base degli enunciati che produce e che è compito del linguista applicato studiare” (Corder 1981b:421); essa è sicuramente influenzata dalle conoscenze pregresse del discente, ma “differisce sia dalla lingua materna sia dalla lingua oggetto o da un’eventuale combinazione delle due poiché si fonda essenzialmente su una possibile e semplice grammatica universale, comune a tutti gli individui apprendenti una L2” (Bosisio, C. 2012:56). In particolare, la locuzione “transizione” rimanda ai vari livelli di sviluppo del sistema linguistico dell’apprendente e l’analisi degli errori è un essenziale strumento per identificare lo stato raggiunto nella competence. Secondo i sostenitori dell’AE il concetto di errore è un indizio positivo associato alla creatività che indica una strategia di apprendimento o di comunicazione e non un atto negativo da evitare accuratamente. Lo studio della competenza transitoria ha spostato l’attenzione dal prodotto al processo di apprendimento (contrariamente a quanto avveniva con l’analisi contrastiva) considerando l’intera produzione linguistica dell’apprendente: in questo modo ha permesso di aggiungere l’anello mancante a quella catena che dall’AC, attraverso l’AE, ha condotto le ricerche in ambito acquisizionale allo studio dell’IL.

Negli anni più recenti la linguistica acquisizionale ha raggiunto una certa autonomia concentrandosi sullo studio dell’interlingua, termine introdotto

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dallo studioso americano Larry Selinker e adottato unanimemente dai ricercatori impegnati in tali ambiti di ricerca. Il vocabolo è utilizzato per indicare il sistema linguistico in evoluzione di chi sta apprendendo una seconda lingua e non è quindi da intendersi come una varietà che si trova «a metà strada» tra la lingua di partenza e quella di arrivo, ma come un’attitudine verso l’acquisizione linguistica. La studiosa White (2005: 19) spiega l’interlanguage come “the proposal that L2 learners have internalized a mental grammar, a natural language system that can be described in terms of linguistics rules and principles”. In questo modo, l’acquisizione della seconda lingua è considerata il risultato di un processo creativo, ovvero basato su principi cognitivi che danno luogo ad una sequenza di sviluppo simile per la stessa lingua acquisita come L1 e come L2.

Andorno (2006) definisce l’interlingua come frutto di una competenza transitoria che è temporanea e soggetta ad adattamenti poiché la sua struttura, dovuta non solo alla lingua di partenza e d’arrivo ma anche a meccanismi innati e inconsci, può cambiare nel tempo. In prospettiva di linguistica acquisizionale, per quanto riguarda le varietà dell’interlingua dell’apprendente Chini (2005) individua tre fasi:

 Fase iniziale o pre-basica: l’apprendente tende ad utilizzare «key words» su cui sono organizzati gli enunciati che risultano brevi ed elementari; si avvale si una grammatica semplice formata da regole pragmatiche; ricorre principalmente al contesto situazionale, alla deissi, aiutandosi con il linguaggio del corpo e con i gesti; la morfologia è casuale o assente;

 Fase basica: è caratterizzata dall’uso di strategie lessicali per rendere la morfologia (compare il verbo anche se non ancora flesso, avverbi che indicano temporalità); il lessico si arricchisce; la parte più informativa dell’enunciato (focus) si colloca alla fine dell’enunciato stesso, mentre la parte iniziale contiene elementi di contesto spaziale o temporale; prevale la paratassi, con uso raro di subordinate;

 Fase post-basica: l’apprendente perfeziona la morfologia e la flessione verbale e sviluppa interlingue sempre più complesse che si avvicinano alla varietà nativa colloquiale.

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I tre stadi permettono di collocare l’interlingua in un continuum tra L1 e L2, dove l’apprendente, in quanto soggetto attivo, formula ipotesi sulla lingua d’arrivo e costruisce sistemi provvisori con gli elementi che ha a disposizione. Lo studioso americano propose la teoria dell’interlingua secondo la quale vi è una struttura psicologica latente nel cervello che viene attivata quando un individuo prova ad apprendere una seconda lingua:

“It was postulated there that such a psychological structure must be latent in the brain, becoming activated when a learner attempts to express meanings in a TL2 and to interact with speakers of the TL” (Selinker 1992:33).

Selinker osservò che in una determinata situazione, le espressioni prodotte dal discente sono differenti da quelle che i parlanti nativi produrrebbero se tentassero di comunicare lo stesso messaggio. Questo paragone palesa un sistema linguistico distinto, la cui presenza può essere verificata studiando le espressioni degli apprendenti che provano a riprodurre una norma della lingua bersaglio. Nella fase iniziale - come abbiamo visto - gli apprendenti utilizzano dei sistemi “ridotti” o semplificati rispetto alle lingue standard, comunicando con poche parole; ciò mette in risalto sia il lessico e le interazioni più frequenti che le omissioni comuni di elementi funzionali come ausiliari, articoli e preposizioni. Sulla base del concetto di semplificazione, gli studiosi di linguistica acquisizionale hanno notato una sorta di analogia fra le IL di apprendenti di qualsiasi L2, qualunque sia la loro L1: nel primo stadio dell’apprendimento gli sviluppi dell’interlingua sono simili, poi essa evolve successivamente in un continuum di varietà di apprendimento via via più simili alla lingua di arrivo.

Il contributo offerto dalla linguistica acquisizionale e quindi lo studio peculiare del comportamento linguistico dell’apprendente, può essere utile non solo per meglio comprendere il funzionamento della mente umana durante l’apprendimento di una lingua, ma giova anche all’insegnante di lingua straniera nella pianificazione della propria strategia pedagogica e nella comprensione dell’approccio del discente alla lingua straniera. Infatti, affinché l’insegnamento sia efficiente, bisogna tener conto della gradualità di apprendimento e della variabilità intrinseca dell’interlingua.

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1.2 L’apprendimento della seconda lingua

L'apprendimento della seconda lingua o Second language acquisition o SLA ha da sempre suscitato la curiosità e l’interesse di molti studiosi, che hanno cercato di rispondere in modo universale e soddisfacente alle domande sopraindicate (p.3). Le loro ricerche, teoriche e sperimentali, sui processi di acquisizione hanno dato origine alle teorie sull’apprendimento della seconda lingua per favorire l’attività dell’insegnante e l’approccio del discente alla lingua straniera: alcune indicazioni metodologiche appaiono indispensabili per costruire interventi didattici completi e attenti ai bisogni dell’apprendente. La centralità di quest’ultimo con le sue competenze, le sue motivazioni e i suoi percorsi personali è indispensabile per le tendenze metodologiche e per un adeguato approccio. Klein (1986: 1) afferma che: “The focus throughout is the learner, who is seen a being obliged by social circumstances to apply his language learning capacity to the available linguistic material.”

In questo senso l’analisi dell’interlingua effettuata nel sottocapitolo precedente, è proficua per meglio conoscere il discente e tracciarne un «profilo».

Secondo lo studioso Krashen il processo di apprendimento è il risultato dell’interazione tra fattori ambientali e il meccanismo interno di cui è dotato il parlante. L’elaborazione krasheniana del modello del Monitor tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta considera l’apprendimento di una L2 un processo interno determinato da tre componenti mentali:

L’organizzatore

Il filtro affettivo

Il monitor

Dei tre operatori interni previsti dal modello di Krashen due - il filtro affettivo e l’organizzatore - agiscono a livello inconscio, mentre il monitor opera a livello conscio. Il filtro agisce per controllare l’ingresso dei dati linguistici in arrivo, a seconda delle motivazioni, dei bisogni e della sua personalità più o meno ansiosa. Il filtro determinerebbe i modelli di L2 verso cui l’apprendente è più sensibile, quelle che prende in considerazione per prime e la rapidità con cui apprende la seconda lingua (cfr. Chini 2005).

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Una volta che la lingua in ingresso passa attraverso il filtro arriva all’organizzatore, meccanismo cognitivo che organizza progressivamente il nuovo sistema linguistico “in modo tale da produrre l’ordine comune in cui vengono apprese le strutture grammaticali, gli errori sistematici che vengono fatti e le costruzioni temporanee che usano gli apprendenti” (Dulay, Burt e Krashen 1985: 34).

Infine il monitor, da cui il modello prende il nome, è il controllo conscio che ogni parlante è in grado di esercitare sulle proprie produzioni linguistiche, al fine di elaborare informazioni:

“L’attivazione del monitor è legata alla disponibilità di tempo sufficiente per sorvegliare la propria produzione linguistica e al fatto che l’attenzione dell’apprendente-parlante sia centrata sulla forma del messaggio anziché (o oltre che) sul suo contenuto.” (Andorno e Ramat, 2012: 10).

Il grado di utilizzazione del monitor dipende dalla personalità e dall’età dell’apprendente: prestare attenzione a produrre espressioni corrette è un tratto della personalità di molti adulti, che producono molte autocorrezioni e, di conseguenza, esitazioni nel parlare. Sia i bambini che le persone sicure3, invece, si preoccupano di meno quando fanno errori e questo aumenta l’assimilazione della L2 a livello subconscio. Da ciò si deduce che durante il processo di apprendimento può presentarsi una sorta di discrepanza tra competence e performance, concetti introdotti da Ferdinand de Saussure, che indicano rispettivamente la conoscenza di una lingua e la capacità di saperla utilizzare (“competenza linguistica”) e l’uso concreto di quella determinata lingua in un determinato momento comunicativo (“esecuzione linguistica”): l’apprendente di una seconda lingua può non rispecchiare la sua competenza linguistica nell’uso effettivo della lingua per vari motivi come ansia e stanchezza o semplicemente motivazioni legate all’ambiente comunicativo (situazioni formali, argomento poco interessante). La produzione linguistica, pertanto, può risultare qualitativamente inferiore rispetto a quella dimostrata in altri contesti comunicativi (cfr. Andorno e Ramat 2012; Pichiassi 2012).

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La sicurezza è profondamente collegata allo sviluppo della seconda lingua: a parità di condizioni chi è sicuro si sé usa poco il monitor ed è un apprendente con risultati migliori.

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L’ipotesi alla base del modello krasheniano postula l’esistenza di sequenze di apprendimento naturali e universali, in base alle quali le regole della lingua vengono apprese automaticamente secondo un ordine prevedibile; tale presupposto fonda le sue radici sul sistema di acquisizione chomskiano, secondo il quale l’acquisizione di L1 non avviene per imitazione e ripetizione meccanica come sostiene l’ottica comportamentista, ma è una capacità innata negli esseri umani.

Di fatto, il comportamentismo studia l’apprendimento in base alla modificazione del comportamento, senza prendere in considerazione i processi mentali e attribuendo molta importanza agli effetti prodotti dall’ambiente e dall’esperienza; in questo modo, anche comportamenti complessi come la produzione e la comprensione del linguaggio vengono regolati dal meccanismo dello “stimolo-risposta-rinforzo” 4

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La critica distruttiva di Chomsky segna la fine del comportamentismo (la teoria comportamentista risulta attualmente superata) e la nascita del cognitivismo: secondo lo studioso, la mente umana è un sistema dotato di regole e l’acquisizione linguistica non può essere un processo imitativo, bensì creativo: il bambino non apprende la lingua tramite imitazione di modelli linguistici proposti dai genitori, difatti egli articola parole e frasi mai sentite prima, ma che seguono specifiche regole (i cosiddetti universali linguistici5). Tale affermazione rispecchia l’idea di fondo del linguista Chomsky ovvero che molti aspetti del linguaggio sono universali: la grammatica generativa, infatti, costituirebbe il punto di partenza per l’apprendimento e lo sviluppo della propria L1, ma allo stesso tempo, si tratterebbe di una piattaforma comune a tutte le lingue e a tutte le grammatiche, grazie all’esistenza di un dispositivo di acquisizione linguistica innato, il LAD (Language Acquisition Device) che si trova alla base della grammatica universale e guida l’apprendente nella ricostruzione del sistema linguistico.

L’opinione fortemente innovatrice di Chomsky ebbe un riscontro anche nel campo delle ricerche sulla seconda lingua, infatti:

4 Secondo la teoria dello “stimolo-risposta-rinforzo” ad un determinato stimolo

corrisponde una risposta vincolata dal rinforzo positivo o negativo.

5

Gli universali linguistici sono innati e sono definiti come le proprietà comuni a tutte le lingue umane (cfr. Chomsky 1981).

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“[…] given the many similarities between first and second language acquisition, if Universal Grammar can explain the former, it will also play a part in the latter. Furthermore, UG might explain some of the differences between L1 and L2 acquisition by providing a theoretical frame for investigating constructs such as the Critical Period (whereby innate language faculties constraining first language acquisition might not be available to older L2 learners) and transfer when comparing pairs of languages in a principled way” (Myles, 2013: 54).

Di conseguenza, la grammatica universale si spiega come un sistema di principi e tratti comuni a tutte le lingue naturali e “può essere considerata come una teoria dei meccanismi innati, una matrice biologica sottostante che fornisce un quadro all’interno del quale si sviluppa la crescita della lingua” (Chomsky 1981: 178).

Il meccanismo innato di acquisizione linguistica spiegherebbe la relativa rapidità con cui le lingue vengono apprese: il bambino infatti è portato a formulare regole sulla lingua che apprende e a generare espressioni che non possono essere ricondotte ad un semplice condizionamento da parte dell’input, anzi:

“lo stimolo linguistico esterno sarebbe insufficiente qualitativamente (l’argomento della povertà dello stimolo) e quantitativamente inadeguato (frammentario, con errori, false partenze, etc.) dato che mancano, ad esempio, correzioni e indicazioni su ciò che non è grammaticale” (Pichiassi 2012: 15).

Sullo stesso argomento, la studiosa White in The Handbook of Second Language Acquisition (2005) sostiene che:

“UG is postulated as an explanation of how it is that learner come to know properties of grammar that goes far beyond the input, how they know that certain things are not possible, why grammars are one of sort rather than another. The claim is that such properties do not have to be learned. Proposals for an innate UG are motivated by the observation that, at least in the case of L1 acquisition, there is a mismatch between the primary linguistic data (PLD) namely the utterance the child is exposed to, and the abstract, subtle and

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complex knowledge that the child acquires. In other words, the input underdetermines the output (the grammar). This is known as the problem of the poverty of the stimulus or the logical problem of language acquisition.”

Chi impara una seconda lingua possiede già un modello di realizzazione della Grammatica Universale nella struttura della sua prima lingua; il ruolo che svolge la GU nell’apprendimento della seconda lingua è stato argomento di numerosi dibattiti, che non si sono ancora conclusi. In particolare, “research focused mainly on whether or not UG is available to L2 learners, and in what form” (White 2005: 23). Le ipotesi sull’accessibilità della GU nel processo di apprendimento di una seconda lingua sono tre:

no access: alcuni studiosi (tra i quali O’Grady) affermano che l’apprendimento della L2 non metta in gioco la Grammatica Universale, ma è basato su altre proprietà della mente e su abilità diverse come la capacità di imitazione, memorizzazione etc (cfr. Andorno e Ramat 2012). O’Grady spiega infatti: “research on second language learning provides opportunities to observe the acquisition device functioning under conditions of duress – either because of extreme limitations on the available input (as in the case of classroom learning) or because one or more of its component modules have been compromised or both” (O’Grady, 2005: 58);

Indirect access position: gli apprendenti di una seconda lingua hanno accesso indiretto alla Grammatica Universale; essi passano attraverso la realizzazione dei parametri della loro L1: “nel caso che la L1 e la L2 si comportino diversamente rispetto a un certo tipo di parametro ci si aspetta che all’inizio gli apprendenti preferiscano i valori della lingua madre” (Andorno e Ramat 2012: 21). L’ipotesi più conosciuta e che rientra all’interno di tale descrizione, è the fundamental difference hypothesis di Bley-Vroman; lo studioso sostiene che il processo di apprendimento linguistico di una seconda lingua è differente dall’acquisizione di una L1: infatti, mentre il primo coinvolge il meccanismo innato di cui sono dotati tutti gli esseri umani (LAD), il secondo osserva un generale problem-solving skill: “The function of the domain specific acquisition system is filled in adults (though indirectly

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and imperfectly) by this native language knowledge and by general abstract problem-solving system. I shall call this proposal the Fundamental Difference Hypothesis” (Bley-Vroman, 1989:50). Gli adulti, di conseguenza, non hanno diretto accesso alla GU per cui devono utilizzare le loro abilità problem-solving come ipotesi, ragionamento induttivo e deduttivo, analogie;

access position: gli apprendenti hanno accesso diretto alla Grammatica Universale potendo assegnare i valori ai parametri senza fare riferimento alla L1 (cfr. Andorno e Ramat , 2012) ; tale presupposto reputa il meccanismo che regola l’acquisizione di L1 analogo a quello che consente l’apprendimento di L2; nonostante l’apprendente L2 adulto raggiunga un livello di competenza linguistica nativa di rado, è possibile che il dispositivo di acquisizione linguistica sia disponibile oltre il periodo critico. Vari linguisti come Schwartz (1997), Ellis (1994), Dulay, Burt e Krashen (1974) ritengono simili le fasi di apprendimento di L1 ed L2: l’ordine di acquisizione di certi morfemi nella seconda lingua rispecchia quello della prima. Ad esempio, gli studi di Schwartz che si basano sull’apprendimento linguistico da parte di bambini e adulti L2 che condividono un simile background sono a favore di tale ipotesi e nello specifico egli parla di una fundamental Identity hypothesis: "The result of the comparison between the developmental sequences of adult and child L2 lend support to the hypothesis that linguistic-specific mechanisms do drive nonnative grammar construction" (Schwartz, 1997: 15).

Numerosi sono gli studi empirici che dimostrano l’accessibilità della GU nel processo di apprendimento di L2; tra questi studi vi è quello della linguista White, che ha condotto una ricerca su studenti adulti giapponesi di inglese L2 e ha dimostrato che “interlanguage grammars are natural language grammars coinstrained by UG” (White, 2005: 37). In particolare, la studiosa sostiene che i discenti giapponesi hanno avuto accesso ad un principio della GU “too subtle to be learned solely from input” (White, 2005:20): the Overt Pronoun Constraint (OPC)6 che, continua la linguista “states that in null argoment languages (languages allowing both null and overt pronouns), an overt pronoun

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cannot receive a bound variable interpretation, that is, it cannot have a quantified expression (such as everyone, someone, noone) or a wh-phrase (who, which) as its antecedent”. Infatti, nonostante tale principio della grammatica generativa non sia presente nella loro lingua madre, i giapponesi che studiano l’inglese osservano il principio OPC dando conferma che anche la seconda lingua ha accesso alla grammatica universale.

Ricordando che le interlingue sono lingue naturali a tutti gli effetti pare fondamentale sostenere che la GU sia accessibile, se non altro per determinare i limiti entro i quali le lingue possono diversificarsi: infatti, spiegano Andorno e Ramat (2012: 21): “le interlingue non violano quei principi della Grammatica Universale che definiscono le proprietà delle lingue umane possibili”.

Se il percorso di apprendimento di una L2 risulta analogo in tutti gli esseri umani grazie alla Grammatica Universale, alcune differenze nell’apprendimento di L2 sono riconducibili al fattore età. L’idea che i bambini riescano meglio nell’acquisizione della seconda lingua rispetto agli adulti è avvalorata da diversi studi scientifici; di solito l’ambiente linguistico degli apprendenti adulti è più povero di comunicazione naturale e di referenti concreti rispetto a quello di un apprendente bambino: questo implica risultati migliori anche nella pronuncia e nella sintassi della lingua straniera. Di conseguenza, se la seconda lingua viene appresa simultaneamente alla prima, il risultato sarà migliore rispetto ad un apprendimento di L2 che avviene in un tempo successivo all’acquisizione della prima lingua e in cui la competenza sviluppata non sarà confrontabile con quella nativa. Questo è possibile poiché durante il primo ciclo di vita, esiste un periodo detto “periodo critico o sensibile” in cui l’acquisizione linguistica avviene in maniera ottimale; superato questo periodo, l’abilità linguistica può essere acquisita ma in maniera sensibilmente ridotta. Fu Lennerberg (1967) che avanzò tale ipotesi, a seguito di alcuni studi effettuati su individui che avevano subito dei danni celebrali e il cui recupero linguistico – concernente la prima lingua - sembrava avvenire in maniera migliore nei bambini piuttosto che negli adulti (cfr. Guasti, 2007 :47). L’ipotesi è avvalorata da alcune osservazioni su bambini cresciuti in situazioni sociali complesse ed esposti quindi al linguaggio in ritardo: nonostante le carenze linguistiche, se i bambini venivano esposti al linguaggio entro la fine del periodo critico riuscivano a recuperare in maniera eccellente. Scrive Guasti

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in L’acquisizione del linguaggio (2007) “Se l’esposizione avviene troppo tardi, però, il tipo di lingua che si riesce ad acquisire è piuttosto rudimentale.”

Per ciò che concerne l’apprendimento di una L2, alcuni studiosi (Perry e Harris, 2002; Flege, 1999) affermano l’esistenza di una molteplicità di periodi critici: ogni abilità linguistica appare soggetta a periodi sensibili differenti. Ad esempio, i linguisti Perry e Harris suggeriscono che il periodo sensibile per l’acquisizione del sistema fonologico di una seconda lingua termini attorno ai sette anni; ciò significa che “soggetti esposti dopo i 7 anni hanno prestazioni sensibilmente più basse dei soggetti nativi” (Guasti, 2007: 271); per quanto riguarda la sintassi e la morfologia, gli stessi studiosi propongono che il periodo di acquisizione ottimale si concluda rispettivamente attorno ai nove e ai dodici anni.

Tuttavia, se da una parte si è notato che i bambini raggiungono livelli di pronuncia quasi nativa rispetto agli adolescenti e agli adulti, questi ultimi apprendono una L2 in maniera più veloce grazie ai meccanismi cognitivi. Esistono numerose ipotesi che contribuiscono alla spiegazione della differenza tra bambini e adulti che imparano una seconda lingua:

 Fattori biologici  Fattori cognitivi  Fattori affettivi

L’ipotesi biologica tiene presente che il cervello del bambino e dell’adulto sono diversi, per cui lo è anche la capacità di organizzare il nuovo sistema linguistico. Lo studioso Lenneberg a metà degli anni novanta presentò l’ipotesi che nei bambini piccoli la potenzialità per la funzione del linguaggio si trova in entrambi gli emisferi e dopo, con il passare degli anni gli emisferi sviluppano funzioni specializzate ma complementari (la sede del linguaggio per la maggior parte degli adulti è nel lato sinistro del cervello).

L’ipotesi cognitiva propone che la differenza si colloca all’inizio delle «operazioni formali» ossia la capacità di formulare ipotesi astratte, su realtà non presenti e formulare generalizzazioni. Il sistema cognitivo dell’adulto è logicamente più maturo rispetto ad un bambino e di conseguenza può risultare apparentemente più adatto al compito di apprendimento di una seconda lingua. Gli adulti, infatti, sanno applicare consapevolmente le regole grammaticali o formare delle proposizioni ben costruite. Tuttavia, anche se inizialmente gli

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adulti sembrano compiere dei grandi progressi, i bambini grazie all’apprendimento a livello subconscio sembrano superarli quasi sempre. Infine, i fattori affettivi fanno in modo che gli adulti sono meno abili a raggiungere lo stato mentale aperto necessario affinché si realizzi il processo di acquisizione e filtrano di più la lingua.

Come abbiamo visto, il processo di apprendimento di una lingua non consiste nella semplice percezione, memorizzazione e riproduzione di input linguistici: esistono fasi di analisi, rielaborazione e riorganizzazione del materiale linguistico (cfr. Andorno e Ramat 2012) che dimostrano quanto la produzione linguistica di un apprendente sia determinata anche da fattori cognitivi. Partendo dal presupposto che le capacità cognitive sono fondamentali nell’apprendimento linguistico, vi sono numerosi studiosi che definiscono la SLA una branca delle scienze cognitive; Doughty e Long in The Handbook o Second Language Acquisition (2005) definiscono l’apprendimento della seconda lingua “a matter of change in an individual’s internal mental state” (Doughty e Long, 2005: 4). In altre parole, l’ottica cognitiva sottolinea l’importanza dei processi mentali interni poiché la mente, così come un computer “elabora e trasforma i dati immessi” (Pichiassi, 2012: 16).

D’altra parte però, riteniamo che l’apprendimento della seconda lingua è un processo complesso che non comprende solo aspetti cognitivi, ma anche linguistici, sociali:

“It might seem artificial to separate formal (linguistic), cognitive and social aspects of language, as of course the learning and the use of language routinely involve all three at the same time.” (Myles 2013: 47).

L’interrelazione tra i vari aspetti ha determinato la creazione di vari modelli didattici che si interessano non solo a «cosa» insegnare ma soprattutto a «come» farlo, tenendo conto dei fattori fisiologici (l’età), psicologici (le motivazioni), linguistici (la lingua materna e la lingua da apprendere) del discente e ha reso possibile l’approfondimento e l’evoluzione di specifiche tecniche glottodidattiche.

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1.3 Italiano come L2

La seconda lingua può essere appresa spontaneamente nel Paese in cui viene parlata grazie al contatto con i parlanti nativi oppure può essere studiata a scuola (o all’Università), sotto la guida di un insegnante attraverso uno specifico programma che conduce al raggiungimento della competenza linguistica. Le due modalità di apprendimento possono anche combinarsi, come avviene agli studenti universitari del programma europeo Erasmus che trascorrono un periodo in Italia per apprendere la lingua «in loco» e scelgono di seguire un corso di lingua italiana. Essi, in genere, apprendono spontaneamente la lingua grazie all’interazione quotidiana con i nativi. I processi d’apprendimento tuttavia dipendono da diversi fattori come abbiamo visto nei sottocapitoli precedenti: un ruolo notevole che facilita l’apprendimento, oltre al fattore età è il fattore motivazione; più gli apprendenti hanno il desiderio di inserirsi all’interno del contesto sociale italiano, più proficuo sarà il loro apprendimento della lingua. A questo proposito bisogna fare riferimento da un lato a tutti quegli studenti che vengono a studiare in Italia che possiedono in generale una forte motivazione integrativa e dall’altro a coloro che tendono a limitare al minimo indispensabile i contatti con il Paese ospite, apprendendo solo gli elementi essenziali che permettano la sopravvivenza nel quotidiano.

In un primo momento l’interlingua del discente straniero è caratterizzata da una semplificazione sul piano morfologico e sintattico e al ricorso alla tecnica della giustapposizione o della coordinazione semplice: questa è la fase pre-basica, durante la quale, come abbiamo visto, l’apprendente si serve di alcune espressioni associate ad un significato per le proprie produzioni, individuate e isolate nell’input fornito da nativi. Si noti l’esempio di Andorno (2006) relativo ad una frase pronunciata da un bambino cinese in Italia:

- Nativo: “e conosci delle parole del dialetto cinese, lo usi?” - Non nativo: “cinese, si parlo. Andato, no parlo”

Spiega Andorno (2006:5):

“Un’espressione come cinese può valere nel parlato di un apprendente in questa fase, per “in Cina”, “la Cina”, “i cinesi”, “quando ero in Cina”; andato può valere per designare un qualsiasi

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evento o azione che includa il movimento, per fissare la conclusione di un evento, per designare un viaggio”.

La sequenza può significare quindi: “quando ero in Cina, conoscevo / usavo parole dei dialetti cinesi; adesso che sono qui / adesso che quel periodo è finito, non conosco / non uso più quelle parole”. Per ciò che concerne la disposizione degli elementi nell’enunciato, le varietà prebasiche seguono dei criteri pragmatici e non sintattici; aggiunge Andorno (2006:5):

“Gli enunciati prodotti possono essere dotati di un solo elemento, quello indispensabile a trasmettere l’informazione mancante (il focus dell’enunciato), oppure di più elementi, di cui quello maggiormente informativo, il focus, è posto al fondo e/o porta l’accento dominante dell’enunciato. In posizione iniziale tendono invece a disporsi, quando sono espressi, gli elementi di setting (che forniscono le coordinate spazio-temporali per le quali vale l’enunciato) e il topic, l’argomento intorno al quale verte l’affermazione che viene fatta.”

Nel caso dell'enunciato precedente:

Cinese, sì parlo. Andato, no parlo setting focus setting focus

Superata questa prima fase in cui la componente pragmatica svolge un ruolo fondamentale nel processo comunicativo, avviene il passaggio alla fase basica, dove entrano in gioco gli elementi grammaticali in una sequenza che vede prima i più importanti dal punto di vista semantico e poi quelli che risultano sintatticamente più liberi. Sembra che il discente nella seconda fase presenti una «sensibilità morfologica», ovvero una morfologia in elaborazione (cfr. Banfi 1993). La ricca morfologia dell’italiano è senza dubbio uno dei tratti più difficili da apprendere; per questo motivo gli apprendenti prediligono le componenti più salienti dal punto di vista semantico e formale durante le prime fasi di apprendimento e non producono morfemi grammaticali liberi, caratterizzando, il più delle volte, un fenomeno di «omissione» di articoli, ausiliari, pronomi atoni e preposizioni.

Traiamo dalla Banca Dati di Pavia (cfr. Andorno 2006) il seguente enunciato, pronunciato da Markos, un apprendente eritreo di madrelingua

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tigrina a circa due mesi dall'arrivo in Italia. Markos descrive qui una sua giornata tipica:

- M: io studiare + primo io studio + ogni giorno + dopo studio + eh - io apro la - televisione - e guar/ guardo la musica dopo + andare + latta/ lattëria e siete caffè + basta

Nonostante le frasi dell’esempio siano organizzate attorno ad un verbo, quest’ultimo non possiede un valore modale, aspettuale o temporale: il verbo è semplice portatore di valore lessicale.

Una caratteristica interessante in questa fase riguarda l’utilizzo dei verbi all’infinito che vengono usati come forma basica (talvolta con sfumature aspettuali di duratività o aspettualità, o in contesti ipotetici o futuri). Si veda l’esempio di una donna sinofona immigrata a Milano, tratto dagli studi di Banfi (1993):

- S: Un cameriere fare così, lavorare tanti > [un cameriere fa così, lavora tanto]

L’infinito al posto del verbo flesso è usato prevalentemente da apprendenti cinesi; si veda anche l’esempio seguente, tratto dalla Banca dati di italiano L2 (cfr. Ramat e Andorno 2002), in cui una donna cinese parla della vita in Cina:

- C: con amici stare insieme + mangiare fuori + vedere film + molto libere + non come Italia + qua lavorare sempre

Nella fase basica il sistema fonologico è quello che avverte un peso specifico più alto della L1, infatti:

“Tra i diversi piani dell’analisi linguistica delle IL, il piano fonologico risulta quello più marcatamente segnato da fenomeni di interferenza tra i sistemi della lingua di partenza e il sistema della lingua d’arrivo” (Banfi 1993:48).

Nonostante Banfi ritenga l’asserzione «intuitiva», secondo i risultati della ricerca di Bernini, il quale ha condotto uno studio su immigrati arabofoni in area milanese:

“L’acquisizione del sistema fonologico della lingua d’arrivo, l’italiano, sembra essere anche correlato alla maggiore o minore marcatezza che i singoli fonemi rivestono, sì che il grado di difficoltà nell’apprendimento del sistema fonematico della L2 sembra variamente determinato da universali e da tendenze che

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risulterebbero indipendenti dal sistema della L1 degli apprendenti: in tal senso i fatti interferenziali sarebbero correlati a fatti di natura più complessa, dipendenti dagli universali linguistici” (Banfi 1993:48).

I tratti fonologici più comuni tra le interlingue sono fenomeni di semplificazione nel consonantismo che interessano soprattutto fonemi complessi dell’italiano (cfr. Banfi 1993):

- La liquida palatale /λ/ > /lj/ nell’IL di grecofoni: “il biliètto d’aereo” (il biglietto);

- La nasale palatale /ɲ/ > /nj/ e le affricate /ts/ > /s/ nell’IL di arabofoni: “insenianti” (insegnanti) “informasioni de scuole” (informazioni). Analogamente alla fonologia, il livello sintattico è soggetto a fenomeni di interferenza tra l’italiano - in quanto lingua d’arrivo - e la lingua nativa. Si noti l’esempio di un tedescofono (cfr. Banfi 1993):

- T: cento marchi io non ho > [io non ho cento marchi]

Come si evince dall’esempio appena mostrato, l’ordine delle parole della L1 è piuttosto rilevante: la sintassi tedesca serve da modello all’interlingua dell’apprendente, basti notare la posizione dell’oggetto nella frase.

Dopo la fase basica avvengono l’ampliamento del lessico e la conseguente classificazione in categorie come “nome”, “aggettivo”, “verbo” e il riconoscimento di categorie flessive come quelle di tempi verbali, persona, genere e numero. L’evoluzione dell’interlingua nella fase postbasica guida all’utilizzo sempre maggiore di parole funzionali come articoli, pronomi, ausiliari e preposizioni. Giacalone Ramat scrive a proposito degli ausiliari:

“Lo sviluppo dell’ausiliare come categoria, sembra marcare un momento evolutivo del sistema temporale, quando cioè l’apprendente acquista consapevolezza che la funzione dell’ausiliare è di mettere in relazione il tempo dell’evento col momento dell’enunciazione o con un altro punto di ancoraggio. A questo punto il tempo dell’enunciato sarà marcato sull’ausiliare piuttosto che espresso mediante mezzi lessicali, come in interlingue più iniziali.” (Giacalone Ramat 1993: 375).

Esempi di ausiliare non realizzato (da apprendente anglofono, in Italia da un mese) si evincono dagli studi di Giacalone Ramat (1993:373):

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29 - J: io non capito

- J: poi noi arrivato in Belfast

L’organizzazione del sistema verbale della L1 - in questo caso l’inglese - può avere un peso sul percorso di sviluppo: l’inglese ha infatti i tempi composti da ausiliare + participio passato “che sono (parzialmente) assimilabili al passato prossimo italiano” (Giacalone Ramat 1993: 375).

Infine per ciò che concerne le preposizioni, elementi appresi in uno stadio avanzato che figurano come indicatore essenziale dei meccanismi di apprendimento di una L2 e che rappresentano l’argomento principale di questa tesi, è opportuno dedicare considerevole parte del capitolo successivo.

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Capitolo 2. Le categorie spaziali

Are linguistic differences among languages superficial, languages being essentially and underlyingly not very different from one another? or do they

reflect a different conceptualization of the space? Do linguistic differences affect the forging of the spatial conceptual categories in linguistic development? More generally, are the two systems of representation –

cognition and space – distinct? (Marotta e Meini, 2012).

2.1 Percezione e spazialità

Alla base di ogni apprendimento c’è sempre la percezione dell’oggetto (cosa o concetto) da apprendere. La percezione è intesa dalla psicologia come esperienza di oggetti capaci di stimolare i nostri organi di senso, ed è frutto di un’elaborazione mentale (cfr. Pichiassi 2009): la percezione quindi è un processo cognitivo e non solo puramente sensoriale.

La capacità di percepire in modo preciso i segnali linguistici è fondamentale per l’apprendimento di una lingua, “ed è strettamente connessa alla produzione del linguaggio” (Pichiassi, 2009:19): l’una e l’altra si presuppongono.

A partire dalla metà del secolo scorso, gli scritti di Noam Chomsky hanno delineato un paradigma forte all’interno del quale inquadrare le relazioni tra fenomeni linguistici e processi cognitivi. Il «cognitivismo» - continua Pichiassi (2009:15) - “non considera la mente come recettore passivo delle informazioni che giungono dai sensi, ma come un elaboratore attivo che opera sui dati che ha a disposizione tramite i processi cognitivi che sono in parte innati in parte appresi attraverso l’esperienza”.

Il riconoscimento del ruolo attivo della mente umana nei processi cognitivi si fonda sull’idea di embodiment: le capacità cognitive sono condizionate dalle dimensioni fisiche corporee dell’essere umano. La linguistica cognitiva (LC) assume che non vi sia separazione tra mente e corpo e che anzi la dimensione mentale sia radicata nella dimensione fisica, poiché ritiene che il nucleo essenziale del sistema concettuale scaturisca direttamente dall’esperienza corporea. La mente, quindi, non è qualcosa di astratto e

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32

separato dal corpo ma embodied: è “un tutt’uno con la dimensione fisica dell’essere umano” (Gaeta e Luraghi, 2003: 20).

La LC evidenzia l’importanza del ruolo della semantica come ponte tra facoltà cognitiva umana e capacità linguistica. In particolare, gli studiosi Langacker e Lakoff affermano che esiste un continuum fra grammatica e lessico. Ciò significa che le forme grammaticali (affissi, ma anche le cosiddette «parole vuote», come articoli, preposizioni, ausiliari) sono dotate di significato, e che esso non è qualitativamente diverso da quello delle forme lessicali, ma semplicemente più astratto. In altre parole, il significato originario delle forme grammaticali è rintracciabile, almeno diacronicamente, e motiva la loro estensione da un’originaria funzione significativa più «piena» a uno specifico significato grammaticale. Da metafore spaziali7 derivano i significati di molte forme grammaticali. Spesso la base di partenza è offerta da sostantivi che denotano parti del corpo: per esempio fronte nell’avverbio e preposizione di fronte (a).

Infatti, la conoscenza dello spazio avviene attraverso il corpo e per sua mediazione; d’altra parte la dimensione corporea è la prima dimensione fisica accessibile all’essere umano.

“In questa prospettiva il corpo umano riveste un ruolo cospicuo: la cognizione dipende in modo essenziale da esso e dalle sue particolari proprietà percettive e motorie, nonché dal tipo di esperienze che quel corpo fa, e dalla sua interazione con l’ambiente e con il mondo.” Violi (2003:58)

ll diretto collegamento tra mente e mondo tramite il corpo è basato sulla percezione che è sempre contestualizzata e costruita:

“il mondo viene percepito essenzialmente come opportunità per l’azione finalizzata a un certo scopo, da parte di uno specifico organismo che agisce con determinate finalità, all’interno di una data interazione” (Violi 2003: 70).

In questo modo la percezione è direttamente connessa all’azione e a loro volta percezione e azione sono legate alla cognizione.

7

La teoria della metafora viene elaborata da Lakoff e Johnson in vari lavori a partire dal 1980 e rappresenta la connessione tra la semantica astratta e la base cognitiva che informa la nostra conoscenza. Cfr. Gaeta e Luraghi (2003: 20).

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Il nesso azione-percezione-cognizione è forse il nucleo più caratterizzante delle ricerche sulle basi corporee del linguaggio nel campo del cognitivismo contemporaneo. Tutte le teorie che si rifanno all’embodiment rifiutano l’idea di percezione come passiva registrazione di informazione; la percezione è invece vista come immediatamente legata alle possibilità per l’azione.

“Ciò implica un’altissima integrazione fra percezione e cognizione che non sono più pensabili come moduli rigorosamente separati e indipendenti, ma divengono processi sempre più integrati e sovrapposti.” (Violi, 2003: 71).

Il campo della spazialità nel linguaggio è divenuto negli ultimi anni oggetto di moltissimi studi che includono le rappresentazioni del movimento, gli schemi di orientamento, le metafore temporali a base spaziale. Le categorie spaziali che esprimono relazioni spaziali, sia statiche che dinamiche, sono state esaminate nelle varie lingue, ma soprattutto nel campo dell’acquisizione linguistica:

“In research applied to L2 acquisition, the topic has been examined with special reference to the role that L1 constraints may play in L2 learning. The long term debate about the need for a universal grammar has often taken the aspect of a struggle between cognitive principle, normally assumed as universal since biologically based, and functional principles, more anchored to historical and social as well as cultural constraints.” (Marotta e Meini 2012: 291).

In particolare, esistono due diversi approcci nello studio del linguaggio spaziale: un nativistic approach, (Jackendoff 1983; Landau 1994; Talmy 2000) secondo il quale esiste una lista ristretta di nozioni innate e universali che possiedono tutti gli esseri umani e codificate per mezzo di adposizioni e un relativist/functionalist approach (Lakoff 1987; Vandeloise 1991: Levinson 2003) secondo cui “spatial language is conditioned in different ways and to different degrees by cultural conventions, and reflects representations created by exposure to spatial words relative to one’s native language (Marotta e Meini 2012:290).

Nella nostra ricerca assumiamo un punto di vista esperienzialista e cognitivo, tenendo in considerazione che la L1 esercita un’influenza sul processo di apprendimento: in particolare, i parlanti seguono dei principi

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