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Progettazione di un sistema di ancoraggio e movimentazione magnetica per il targeting di tumori cerebrali tramite globuli rossi ingegnerizzati

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione

Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica

Progettazione di un sistema di ancoraggio e

movimentazione magnetica per il targeting di tumori

cerebrali tramite globuli rossi ingegnerizzati

Relatori: Candidata:

Prof.ssa Arianna Menciassi Francesca Sbaraglia

Dr. Leonardo Ricotti

Dott.ssa Gioia Lucarini

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Indice

Capitolo 1 Introduzione e obiettivi della Tesi ...1

Capitolo 2 Sistemi a rilascio controllato di farmaco: stato dell’arte e prospettive ...5

2.1 Anatomia del sistema nervoso centrale (SNC) ...5

2.2 Tumori del sistema nervoso centrale e possibili trattamenti terapeutici per la cura dei gliomi ...8

2.3 Sistemi a rilascio controllato di farmaco per la cura dei tumori ... 13

2.3.1 Nanoparticelle polimeriche ... 15 2.3.2 Nanoparticelle inorganiche ... 16 2.3.3 Micelle ... 17 2.3.4 Dendrimeri ... 17 2.3.5 Liposomi ... 19 2.3.6 Molecole virali ... 20

2.4 Sistemi a rilascio controllato di farmaco guidati da campi magnetici esterni ... 21

Capitolo 3 L’uso dei campi magnetici in applicazioni biomedicali... 25

3.1 Teoria dei campi magnetici ... 25

3.1.1 Campi magnetici generati da bobine di Helmholtz e bobine di Maxwell ... 27

3.1.2 Campi magnetici generati da un magnete permanente cilindrico ... 31

3.2 Applicazioni dei campi magnetici per uso biomedico ... 34

3.2.1 Sistemi di attuazione magnetica per microrobot ... 35

3.2.2 Stimolazione magnetica transcranica ... 48

Capitolo 4 Il sistema a rilascio controllato di farmaco basato su eritrociti ingegnerizzati ... 52

4.1 Uso degli eritrociti come sistemi per il rilascio controllato di farmaco ... 52

4.2 Sistema a rilascio controllato di farmaco basato su eritro-magneto-HA-virosomi54 Capitolo 5 Risposta degli eritrociti ingegnerizzati ad un campo magnetico esterno ... 61

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ii 5.1 Caratterizzazione magnetica degli eritrociti ingegnerizzati ... 61

5.1.1 Calcolo della suscettività magnetica degli eritrociti ingegnerizzati ... 64 Capitolo 6 Progettazione del sistema magnetico per l’ancoraggio degli eritrociti ingegnerizzati ... 78

6.1 Definizione del distretto anatomico d’interesse ... 78 6.2 Modellizzazione fluidodinamica per l’ancoraggio degli eritrociti ingegnerizzati . 81 6.3 Simulazioni agli elementi finiti di natura elettromagnetica e fluidodinamica ... 88 6.4 Modello analitico per l’ancoraggio degli eritrociti ingegnerizzati ... 94 6.4 Design ottimale del caschetto magnetico per l’ancoraggio degli eritrociti ingegnerizzati ... 103 Capitolo 7 Risultati, conclusioni e sviluppi futuri ... 117 Bibliografia ... 121

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Capitolo 1 Introduzione e obiettivi della Tesi

Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento progressivo del tasso di mortalità per tumori del sistema nervoso centrale. L’incidenza di tumori intracranici primitivi nei Paesi occidentali è di circa 14-20 casi ogni 100000 abitanti/anno [Soffietti 2009]. In Europa nel 2012 sono stati diagnosticati circa 57000 nuovi casi di tumore primitivo al sistema nervoso centrale, con un’incidenza di circa 6 casi ogni 100000 persone in Italia [Ferlay 2013]. È stato stimato che i tumori cerebrali in America rappresentano la principale causa di morte da tumore solido nei bambini e la terza causa di morte per cancro negli adolescenti e negli adulti di età compresa tra i 15 e i 34 anni [Buckner 2007]. Il tumore maligno del sistema nervoso centrale più diffuso è il glioma, tumore che si sviluppa a partire dalle cellule gliali e che interessa principalmente l’encefalo. I principali tipi di trattamenti a cui possono essere sottoposti i soggetti affetti da glioma sono la chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia. Sebbene l’asportazione chirurgica è da considerare l’opzione terapeutica di prima scelta per la maggior parte dei tumori cerebrali primitivi con l’intento di essere la più radicale possibile e nello stesso tempo di preservare le funzioni neurologiche, a causa della natura infiltrante della malattia risulta ancora molto difficile ottenere un’ asportazione completa dei gliomi, sia ad alto che basso grado di malignità. È stato visto infatti che con la sola chirurgia pochi pazienti con glioma maligno superano i sei mesi di vita [Cairncross 2006].

A seguito dell’ intervento chirurgico o nel caso di gliomi particolarmene aggressivi e non trattabili con la chirurgia si può ricorrere al trattamento radioterapico o chemioterapico.

La radioterapia di solito completa l’intervento chirurgico e il trattamento è finalizzato a ridurre il rischio di recidiva. Essa sfrutta radiazioni ionizzanti per distruggere o danneggiare il tumore, cercando di rallentarne la crescita e i tempi in cui può recidivare, ma il trattamento può comportare dei disturbi come il peggioramento del quadro neurologico, irritazione della cute in corrispondenza della zona irradiata, perdita di capelli e stanchezza [Palumbo 2014].

La chemioterapia consiste nella somministrazione, per via endovenosa o orale, ad alte dosi, di uno o più farmaci, detti antiblastici o antineoplastici, capaci di uccidere le cellule tumorali [Haydon 2015]. Basandosi sul principio che le cellule tumorali si riproducono molto più rapidamente di quelle sane, i farmaci utilizzati per questi

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2 trattamenti interferiscono con i meccanismi legati alla replicazione delle cellule, uccidendole durante questo processo.

Il principale svantaggio nell’utilizzo del trattamento chemioterapico è rappresentato dalla bassa selettività: i farmaci esercitano la loro azione sia sulle cellule tumorali sia su quelle sane, provocando una serie di effetti collaterali tossici che possono coinvolgere organi sani. Inoltre l’utilizzo della chemioterapia per la cura dei tumori cerebrali è ostacolato dalla presenza della barriera emato-encefalica, un’unità anatomico-funzionale formata da un sistema complesso di cellule endoteliali, astrociti e periciti, che separano il tessuto cerebrale dal sistema circolatorio. Essa permette il passaggio di sostanze necessarie al metabolismo cellulare, ma blocca gran parte dei composti terapeutici usati per la cura dei tumori cerebrali. È stato visto che circa il 97% dei farmaci usati nel trattamento non riesce ad attraversare la barriera, rendendo nullo l’effetto della terapia [Abbott 2013].

Al fine di migliorare la selettività del trattamento chemioterapico tradizionale e permettere un più facile accesso del farmaco al sito tumorale, negli ultimi decenni si è assistito allo sviluppo di sistemi a rilascio controllato di farmaci sito-specifici per la cura di tumori al cervello. Si tratta di sistemi alternativi per l’indirizzamento di farmaci nell’organismo, volti a circoscrivere l’effetto biologico su una determinata tipologia di cellule, migliorando l’efficacia e riducendo la tossicità di una terapia [Torchilin 2009]. L’idea base è che il farmaco, invece di essere somministrato al paziente in elevata quantità affinché raggiunga la parte malata del corpo a una concentrazione ottimale, sia inserito all’interno di un carrier, o vettore farmacologico, che tenderà a concentrarsi nel punto in cui si desidera il rilascio del medicinale. In questo modo la quantità di principio attivo utilizzata è decisamente inferiore, riducendo i possibili effetti collaterali indotti dalla cura nel paziente e abbattendo i costi.

L’impiego di nanosistemi basati su nanoparticelle delle dimensioni di 3-200 nm, di natura lipidica, polimerica o virale, come carrier farmacologici, è stato ampiamente studiato al fine di migliorare le proprietà terapeutiche e farmacologiche dei farmaci somministrati per via parenterale [Cho 2008]. Tra i sistemi più utilizzati nell’ambito degli studi anti-tumorali clinici e pre-clinici sono da annoverare le nanoparticelle polimeriche, le micelle, i dendrimeri, i liposomi e le molecole virali.

Sebbene i sistemi a rilascio controllato di farmaco basati su nanoparticelle mostrino numerosi vantaggi, ci sono ancora alcune limitazioni riguardanti la poca stabilità in circolo, la tossicità e soprattutto la bassa efficienza di trasporto, dovuta alle ridotte

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3 dimensioni dei carriers [Cho 2008]. Per superare questi problemi negli ultimi anni sono stati sviluppati sistemi a rilascio controllato di farmaco basati su cellule, con dimensioni di alcuni micron. Essi possiedono numerosi vantaggi rispetto ai nanosistemi, come un prolungato tempo di rilascio del farmaco, una maggiore capacità di trasporto, una migliore capacità di penetrazione dei tessuti da parte degli agenti farmacologici e una biocompatibilità intrinseca[Cinti 2011].

In particolare il comportamento delle cellule del sangue è stato ampiamente studiato al fine di poter sfruttare le loro caratteristiche per creare sistemi di trasporto altamente efficienti. È stato visto che l’utilizzo di eritrociti come carriers di farmaci antitumorali diminuisce il rischio di effetti collaterali e di reazione immunitaria [Provotorov 2009]. La loro elevata disponibilità, le dimensioni considerevoli rispetto ad altri sistemi di trasporto e i naturali meccanismi di eliminazione rendono i globuli rossi molecole interessanti da impiegare come sistemi di rilascio farmacologico [Doshi 2009].

Il raggiungimento del sito di danno da parte del vettore farmacologico può essere ottenuto sfruttando le caratteristiche strutturali e anatomiche uniche dei tessuti tumorali, attraverso l’inserimento di ligandi specifici sulla superficie del vettore farmacologico o attraverso sorgenti di energia esterne controllate da un operatore. La realizzazione di sistemi di veicolazione farmacologica capaci di rispondere a stimoli fisici wireless controllati in remoto da un operatore, come ultrasuoni, radiazioni luminose o campi magnetici, risulta particolarmente interessante in quanto permette di guidare il carrier direttamente nel sito d’interesse dall’esterno. Particolarmente investigato è stato, ed è tuttora, l’utilizzo di campi magnetici esterni per la guida di sistemi per il rilascio farmacologico.

Un promettente sistema a rilascio controllato di farmaco, che utilizza eritrociti come carrier farmacologici e sfrutta campi magnetici per guidare i vettori farmacologici al sito di danno, è stato sviluppato presso l’Istituto di Fisiologia Clinica di Siena. Il sistema, detto eritro-magneto-HA-virosoma, è stato ottenuto legando una glicoproteina filamentosa di origine virale con proprietà fusogeniche, l’emoagglutinina, alla membrana di un eritrocita, e incapsulando poi nanoparticelle superparamagnetiche e farmaco all’interno del globulo rosso [Cinti 2011]. Attraverso la generazione di un campo magnetico esterno è possibile guidare in maniera controllata gli eritrociti ingegnerizzati al sito di danno dove, attraverso l’interazione dell’emoagglutinina con i residui di acido sialico presenti sulla superficie della cellula target, sono in grado di legarsi alla cellula tumorale e rilasciare il loro contenuto in maniera selettiva. I vantaggi

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4 nell’uso di tale sistema sono molteplici: l’intrinseca biocompatibilità, la maggiore capacità di trasporto degli eritrociti (con diametro tipico di 8 μm) e la possibilità di rilasciare il farmaco direttamente nella cellula tumorale (grazie alla glicoproteina di origine virale), con conseguente aumento della selettività della terapia e conseguente riduzione della dose necessaria per il trattamento.

Lo scopo del presente lavoro di tesi è la progettazione di un sistema magnetico, per l’ancoraggio di eritrociti ingegnerizzati, da utilizzare per il trattamento di tumori gliali. Il sistema, che si presenta sotto forma di un caschetto magnetico, deve essere in grado di generare campi magnetici non uniformi tali da produrre una forza magnetica che blocchi gli eritrociti in corrispondenza del tumore.

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Capitolo 2 Sistemi a rilascio controllato di farmaco:

stato dell’arte e prospettive

2.1 Anatomia del sistema nervoso centrale (SNC)

Il sistema nervoso centrale è quella parte del sistema nervoso che sovrintende alle principali funzioni di controllo ed elaborazione. Esso riceve e analizza le informazioni provenienti dall’ambiente esterno ed interno dell’organismo elaborando le risposte più appropriate.

Nei vertebrati il sistema nervoso centrale è costituito da due parti: l’encefalo e il midollo spinale.

L’encefalo è un organo spugnoso e soffice, completamente contenuto all’interno della scatola cranica e costituito da cervello, cervelletto e tronco encefalico (Fig.1a) [Silverthorn 2010].

Il cervello si forma dal completamento di telencefalo e diencefalo. Il telencefalo, che include la corteccia cerebrale, è estremamente sviluppato e può essere suddiviso in due emisferi cerebrali, porzioni simmetriche che controllano ciascuna le funzioni della metà opposta del corpo. Ogni emisfero è diviso in quattro lobi: frontale, parietale, occipitale e temporale, adibiti a compiti specifici, come il controllo della vista, dell’udito o della percezione olfattiva (Fig.1b). Il diencefalo è più piccolo ed avvolto superiormente e lateralmente dal telencefalo; esso contiene il talamo, l’epitalamo, il metatalamo, l’ipotalamo e il subtalamo, che controllano diverse funzioni, tra cui quelle emotive [Silverthorn 2010].

Il cervello è l’organo principale del sistema nervoso centrale, che si occupa, insieme al sistema endocrino, di parte della regolazione delle funzioni vitali; esso è sede delle regolazioni omeostatiche e delle funzioni cerebrali superiori psichiche e cognitive. Il cervelletto è più piccolo del cervello ed è situato posteriormente sotto di esso; è responsabile dell'equilibrio, della coordinazione e controlla attività complesse come parlare e camminare [Martini 2006].

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Fig.1. (a) Struttura dell’encefalo

(b) Emisfero cerebrale suddiviso in quattro lobi: frontale, parietale, occipitale e temporale

La terza parte dell’encefalo, detta tronco encefalico, collega l'encefalo al midollo spinale e regola molte delle funzioni fondamentali del corpo come la respirazione, il mantenimento della temperatura e della pressione sanguigna. È costituito da tre porzioni: il bulbo, il ponte e il mesencefalo [Martini 2006].

Il midollo spinale è la porzione extracranica del sistema nervoso centrale, collocata all’interno del canale vertebrale e costituita da un insieme di nervi, cellule e fibre nervose. Esso comincia superiormente dal midollo allungato e inferiormente termina tra la seconda e la terza vertebra lombare, raggiungendo con gli ultimi prolungamenti la regione sacrale (Fig.2). Il midollo spinale può essere considerato un centro di integrazione dei segnali nervosi. Infatti, oltre ad occuparsi della trasmissione dei segnali nervosi con origine a livello encefalico, è in grado di elaborare una risposta motoria autonoma, meglio nota come riflesso spinale [Silverthorn 2010].

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Fig.2. Midollo spinale

Sia l’encefalo che il midollo spinale sono immersi in un liquido protettivo, che attutisce e assorbe gli urti, e sono avvolti da tre membrane, chiamate meningi, con funzione di protezione da traumi.

Il sistema nervoso centrale è composto essenzialmente da due tipi di cellule: i neuroni e le cellule della glia.

I neuroni sono cellule eccitabili che grazie alle loro peculiari proprietà fisiologiche e chimiche sono in grado di ricevere, integrare e trasmettere impulsi nervosi. Sono costituiti da un corpo centrale, detto soma, contenente il nucleo, da cui hanno origine i dendriti e l’assone, prolungamenti citoplasmatici, detti neuriti, coinvolti nel meccanismo di trasmissione dell’impulso nervoso (Fig.3a) [Martini 2006].

Le cellule della glia, o cellule gliali, sono cellule di supporto per il sistema nervoso centrale, deputate a svolgere funzioni nutritive, di sostegno e protezione. Non partecipano direttamente alle interazioni sinaptiche e alla trasmissione del segnale elettrico, sebbene le loro funzioni di supporto aiutino a definire i contatti sinaptici e a far sì che i neuroni mantengano la capacità di trasmissione degli impulsi nervosi. Le cellule gliali presentano processi che si estendono dal loro corpo cellulare, ma sono più piccole dei neuroni e sono prive di dendriti e assone [Purves 2001].

I principali tipi di cellule gliali del sistema nervoso centrale sono gli astrociti, le cellule ependimali, le cellule microgliali e gli oligondedrociti (Fig.3b)

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Fig.3.(a)Struttura tipica di un neurone (b) Tipi di cellule gliali del sistema nervoso centrale

2.2 Tumori del sistema nervoso centrale e possibili trattamenti

terapeutici per la cura dei gliomi

Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento progressivo del tasso di mortalità per tumori del sistema nervoso centrale, dovuto ad un reale incremento dell’incidenza di alcuni tumori, come ad esempio i linfomi e i glioblastomi nell’anziano.

L’incidenza di tumori intracranici primitivi nei Paesi occidentali è di circa 14-20 casi ogni 100000 abitanti/anno [Soffietti 2009]. Negli Stati Uniti ad esempio si contano circa 40000 nuovi casi ogni anno, con circa 3400 casi nei bambini e negli adolescenti. È stato stimato che i tumori cerebrali in America rappresentano la principale causa di morte da tumore solido nei bambini e la terza causa di morte per cancro negli adolescenti e negli adulti di età compresa tra i 15 e i 34 anni [Buckner 2007].

In Europa nel 2012 sono stati diagnosticati circa 57000 nuovi casi di tumore primitivo al sistema nervoso centrale, con un’incidenza di circa 6 casi ogni 100000 persone in Italia (Fig.4) [Ferlay 2013].

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Fig.4. Incidenza tumori SNC in Europa, International Agency for Research on Cancer (2012)

Come si vede dalla Fig.5, il meningioma è il più frequente tra i tumori del sistema nervoso centrale (35%) ed è una neoplasia solitamente benigna. A seguire ci sono i gliomi, che rappresentano circa il 28% di tutti i tumori primitivi del sistema nervoso centrale e l’80% dei tumori maligni [Ostrom 2013].

Fig.5. (a) Distribuzione tumori SNC (N=326,711), CBTRUS Statistical Report, 2006-2010 (b) Distribuzione tumori maligni SNC (N=112,458), CBTRUS Statistical Report, 2006-2010[Ostrom

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10 I gliomi si sviluppano dalle cellule gliali e possono interessare sia l’encefalo che il midollo spinale. Tuttavia, data la rarità con cui insorgono nel midollo spinale (incidenza di 0,22 casi su 100000), si tende a considerarli una neoplasia quasi esclusiva dell’encefalo [Seki 2015].

In base alle cellule gliali colpite si hanno diverse categorie di gliomi:  Astrocitomi, che insorgono a livello degli astrociti;

 Oligodendrogliomi, la cui sede d’origine sono gli oligodendrociti;  Ependimomi, che colpiscono le cellule ependimali;

 Gliomi misti, che interessano contemporaneamente più cellule gliali.

I tumori gliali possono essere classificati inoltre in base al grado di severità. Secondo il sistema di gradazione a 4 livelli proposto dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che tiene conto del tasso di crescita e della capacità di infiltrazione e diffusione, i gliomi si possono distinguere in:

 Gliomi di basso grado ( grado I e II): tumori a crescita lenta e localizzata;

 Gliomi di alto grado (grado III e IV): tumori altamente vascolarizzati, con elevata tendenza a infiltrarsi. Esempio di astrocitoma di IV grado è il glioblastoma, il tumore più comune e maligno tra le neoplasie della glia. Esso è caratterizzato da elevata mortalità (la sopravvivenza media è minore di un anno dal momento della diagnosi [Stupp 2005]) e rappresenta circa il 55% dei tumori gliali. Il glioblastoma, insieme ai tumori astrocitari, costituisce circa il 75% di tutti i gliomi (Fig.6) [Ostrom 2013].

Fig.6. Percentuale di incidenza dei gliomi (N=92504), CBTRUS Statistical Report, 2006-2010[Ostrom 2013]

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11 I principali tipi di trattamenti a cui possono essere sottoposti i soggetti affetti da glioma sono:

 La chirurgia  La radioterapia  La chemioterapia

L’applicazione di uno o più tipi di terapia dipenderà dal tipo di tumore, dalla sede e dall’età del paziente.

L’asportazione chirurgica è da considerare l’opzione terapeutica di prima scelta per la maggior parte dei tumori cerebrali primitivi con l’intento di essere la più radicale possibile e nello stesso tempo di preservare le funzioni neurologiche [Parney 2012]. L’obiettivo è ottenere la completa asportazione delle cellule tumorali nelle lesioni benigne o la massima riduzione possibile del loro numero nelle lesioni maligne, con lo scopo di alleviare i sintomi e favorire l’efficacia delle successive terapie adiuvanti. I rischi associati a questo tipo di procedura possono essere danni temporanei o permanenti, di natura motoria o sensitiva, a seconda dell’area interessata dal tumore. Negli ultimi anni la diffusione di esami diagnostici preoperatori, come la tomografia computerizzata e la risonanza magnetica, che permettono una visualizzazione diretta delle lesioni tumorali, e il miglioramento delle tecniche neurochirurgiche e di neurorianimazione, hanno permesso di ridurre in modo significativo i rischi intra e postoperatori di lesioni situate in aree critiche, un tempo ritenute inoperabili[Soffietti 2009].

A causa della natura infiltrante della malattia risulta però ancora molto difficile ottenere un’ asportazione completa dei gliomi, sia ad alto che basso grado di malignità. È stato visto infatti che con la sola chirurgia pochi pazienti con glioma maligno superano i sei mesi di vita [Cairncross 2006].

A seguito dell’ intervento chirurgico o nel caso di gliomi particolarmene aggressivi e non trattabili con la chirurgia si può ricorrere al trattamento radioterapico o chemioterapico.

La radioterapia di solito completa l’intervento chirurgico e il trattamento è finalizzato a ridurre il rischio di recidiva. Essa sfrutta radiazioni ionizzanti per distruggere o danneggiare il tumore, cercando di rallentarne la crescita e i tempi in cui può recidivare, ma il trattamento può comportare dei disturbi come il peggioramento del quadro neurologico, irritazione della cute in corrispondenza della zona irradiata, perdita di capelli e stanchezza [Palumbo 2014].

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12 La chemioterapia consiste nella somministrazione, per via endovenosa o orale, di uno o più farmaci, detti antiblastici o antineoplastici, capaci di uccidere le cellule tumorali [Haydon 2015]. Basandosi sul principio che le cellule tumorali si riproducono molto più rapidamente di quelle sane, i farmaci utilizzati per questi trattamenti interferiscono con i meccanismi legati alla replicazione delle cellule, uccidendole durante questo processo (azione citotossica).

La scelta del farmaco chemioterapico da utilizzare dipende dal tipo e dal grado di tumore da trattare e dal quadro clinico (età, sesso e condizioni generali del paziente). Tra i farmaci più utilizzati per la cura dei gliomi vi sono l’agente temozolomide, somministrato per via orale e utilizzato nel trattamento di gliomi avanzati (glioblastoma di prima diagnosi o glioma maligno che manifesta recidiva) [Sengupta 2012] e le nitrosuree, somministrate per via endovenosa e usate per la cura di astrocitomi o glioblastomi multiformi [Takimoto 2008]. Si tratta di composti alchilanti ad azione citotossica che agiscono inibendo la replicazione del DNA e, secondariamente, inducendo alterazioni nella trascrizione dell’RNA e il blocco della sintesi proteica. La chemioterapia non è una terapia altamente selettiva in quanto il suo effetto si fa sentire sulle cellule tumorali ma anche su alcuni tipi di cellule sane dell’organismo, come le cellule dei bulbi piliferi, del sangue e quelle che rivestono le mucose dell’apparato digerente, che condividono con i tumori la capacità di crescere velocemente. A seconda del tipo e della dose di farmaco utilizzato, il trattamento chemioterapico è accompagnato quindi da una serie di effetti collaterali, come perdita dei capelli, vomito, diarrea, calo delle difese immunitarie o infezione della bocca, la cui intensità varia in base alle condizioni fisiche del paziente e può essere ridotta attraverso farmaci specifici[Cancer Research UK website].

L’utilizzo della chemioterapia nella cura dei gliomi e di tutti i tumori cerebrali primitivi è ostacolato dalla presenza della barriera emato-encefalica, un’unità anatomico-funzionale formata da un sistema complesso di cellule endoteliali, astrociti e periciti, che separano il tessuto cerebrale dal sistema circolatorio (Fig.7) [Boaziz 1991].

Le cellule endoteliali danno origine ad un endotelio continuo, non fenestrato, caratterizzato da giunzioni occludenti tra le cellule; questa maggiore compattezza impedisce il passaggio di sostanze idrofile o con grande peso molecolare dal flusso sanguigno agli interstizi, con una maggiore capacità di filtraggio rispetto a quella effettuata dalle cellule endoteliali dei capillari di altre parti del corpo. Le proiezioni delle cellule astrocitarie (peduncoli astrocitari) circondano le cellule endoteliali

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13 rafforzando ulteriormente la barriera. I periciti circondano i capillari con lunghi processi e svolgono funzioni di controllo della crescita delle cellule endoteliali e di protezione dell’integrità dei capillari [De Vries 1997].

Fig.7. Barriera emato-encefalica (BEE)

La barriera emato-encefalica protegge il cervello dagli elementi nocivi presenti nel sangue, pur tuttavia permettendo il passaggio di sostanze necessarie al metabolismo cellulare.

Il più grande svantaggio nell’utilizzo della chemioterapia tradizionale per la cura di tumori al sistema nervoso centrale è dato dal fatto che circa il 97% dei farmaci usati nel trattamento non riesce ad attraversare la barriera, rendendo nullo l’effetto della terapia [Abbott 2013].

2.3 Sistemi a rilascio controllato di farmaco per la cura dei tumori

Al fine di migliorare la selettività del trattamento chemioterapico tradizionale e permettere un più facile accesso del farmaco al sito tumorale in modo da ridurre gli effetti collaterali tossici su organi sani, negli ultimi decenni sono stati sviluppati sistemi a rilascio controllato di farmaci sito-specifici.

Si tratta di sistemi alternativi per l’indirizzamento di farmaci nell’organismo, con l’obiettivo di circoscrivere l’effetto biologico su una determinata tipologia di cellule, migliorando l’efficacia e riducendo la tossicità di una terapia [Torchilin 2009]. L’idea base è che il farmaco, invece di essere somministrato al paziente in elevata quantità affinché raggiunga la parte malata del corpo a una concentrazione ottimale, venga inserito all’interno di un carrier, o vettore farmacologico, che tenderà a concentrarsi nel

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14 punto in cui si desidera il rilascio del medicinale. In questo modo la quantità di principio attivo utilizzata è decisamente inferiore, riducendo i possibili effetti collaterali indotti dalla cura nel paziente e abbattendo i costi.

Il raggiungimento del sito di danno da parte del vettore farmacologico può essere ottenuto sfruttando le caratteristiche strutturali e anatomiche uniche dei tessuti tumorali, attraverso l’inserimento di ligandi specifici sulla superficie del vettore farmacologico o attraverso sorgenti di energia esterne controllate da un operatore.

I primi carrier utilizzati per il rilascio del farmaco nel target tumorale si presentavano come contenitori di farmaco passivi, capaci di disperdere le molecole terapeutiche nella loro struttura. Sfruttando alcune particolari caratteristiche dei tumori solidi, come l’aumento del numero dei vasi, l’alterazione della capacità di drenaggio linfatico e la presenza di spazi delle dimensioni di 400 nm tra le cellule endoteliali della parete vascolare, il carrier farmacologico, se di dimensioni inferiori a quelle dell’apertura presente tra le cellule endoteliali, è in grado di accumularsi nel tessuto tumorale. Nella regione d’interesse il farmaco viene rilasciato per effetto di variazioni di PH o cambiamenti delle condizioni chimico-fisiche intracelllulari o extracellulari [Ricotti 2015].

È importante sottolineare che molti dei sistemi usati come vettori farmacologici mostrano proprietà chimico-fisiche che permettono modifiche versatili della loro superficie. Questo ha portato allo sviluppo di una strategia di targeting attivo, basata sull’inserimento, sulla superficie del carrier, di ligandi capaci di riconoscere e legare in maniera specifica recettori presenti sulle cellule tumorali o sulle cellule endoteliali angiogeniche circondanti il tumore [Ricotti 2015]. Esempi di ligandi utilizzati sono gli anticorpi, i peptidi o gli acidi nucleici. La logica alla base di questa strategia è che l’interazione specifica tra il ligando presente sul vettore farmacolgico e il recettore espresso sulla cellula target inneschi un meccanisco di rilascio del farmaco per endocitosi, con conseguente aumento della velocità e dell’entità di somministrazione del farmaco [Gullotti 2009].

Una nuova strategia di targeting attivo ampiamente studiata negli ultimi anni riguarda l’utilizzo di stimoli esterni attivi per guidare direttamente il vettore farmacologico nel sito d’azione. Campi magnetici, campi elettrici, radiazioni luminose o ultrasuoni generati da sorgenti esterne controllate in remoto da un operatore vengono usati per attuare vettori farmacologi e far si che raggiungano il sito di danno in maniera controllata.

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15 È stato visto ad esempio che l’utilizzo di onde a ultrasuoni permette a micelle polimeriche di uscire dal vaso sanguigno e raggiungere il tumore. Inoltre sembra che irradiando con ultrasuoni la regione tumorale le micelle siano in grado di rilasciare il loro contenuto solo nella zona irradiata. Molti studi dimostrano come sia possibile legare o incaspulare l’agente terapeutico all’interno di un sistema di trasporto con proprietà magnetiche, che può essere attuato e guidato attraverso l’applicazione di un campo magnetico esterno [Vasir 2005a].

Diverse strutture macromolecolari sono state studiate al fine di realizzare carrier in grado di trasportare il farmaco nel sito di danno.

Nanosistemi basati su nanoparticelle delle dimensioni di 3-200 nm, di natura lipidica, polimerica o virale, sono stati introdotti al fine di migliorare le proprietà terapeutiche e farmacologiche dei farmaci somministrati per via parenterale [Cho 2008]. Di seguito sono riportati alcuni tra i nanosistemi più utilizzati nel’ambito degli studi anti-tumorali clinici e pre-clinici (Fig.8).

2.3.1 Nanoparticelle polimeriche

Si tratta di particelle del diametro di circa 100 nm realizzate a partire da materiali polimerici. Sono tra i sistemi più biocompatibili e usati negli studi clinici, si prestano bene a modifiche superficiali attraverso trasformazioni chimiche, permettono un controllo farmaco-cinetico eccellente e sono utilizzabili per il trasporto e il rilascio di un ampio range di agenti terapeutici, soprattutto di basso peso molecolare.

Le nanoparticelle polimeriche possono essere realizzate con polimeri naturali, come albumina, chitosano ed eparina o con polimeri sintetici, come l’N-(2-idrossipropil) metacrilammide (HPMA), il glicole polietilenico (PEG) o il poli-gamma-glutammato (PGA) [Cho 2008]. I rivestimenti a base di polimeri possono essere utilizzati anche su altri tipi di nanoparticelle per cambiare e migliorare le loro proprietà di distribuzione. Il polimero PEG ad esempio è stato legato covalentemente alla superficie di alcune nanoparticelle in modo da ridurre la loro immunogenicità e limitare la fagocitosi da parte del sistema reticolo-endoteliale, con conseguente aumento dei livelli ematici di farmaci in organi come cervello, intestino o reni [Faraji 2009] .

Le nanoparticelle polimeriche possono presentarsi sottoforma di nanocapsule o nanosfere. Le nanosfere sono sistemi matriciali in cui il farmaco è fisicamente e uniformemente disperso in una matrice polimerica; le nanocapsule sono sistemi

(19)

16 vescicolari in cui il farmaco è intrappolato in una cavità delimitata da una membrana polimerica [Ricotti 2015].

Come tutti i sistemi colloidali, anche le nanoparticelle polimeriche sono rapidamente eliminate dai macrofagi: una volta iniettate nel circolo sanguigno, circa il 90% di esse viene catturato da fegato e milza in pochi minuti. Questo può risultare un vantaggio nel caso in cui macrofagi o le cellule del fegato rappresentino le cellule da colpire o trattare [Vasir 2005b]. Per evitare la rapida eliminazione delle nanoparticelle è possibile utilizzare tensioattivi idrofilici assorbiti sulla superficie o copolimeri ramificati o a blocchi: per questo scopo l’ossido di polietilene e il glicole polietilenico sono stati ampiamenti usati [Storm 1995].

Le nanoparticelle polimeriche sono da considerare sistemi promettenti utilizzabili per il rilascio farmacologico e la cura dei tumori . È stato visto che la matrice polimerica delle nanoparticelle previene la degradazione del farmaco e permette di regolare il rilascio del farmaco da parte della nanoparticella. Variando il peso molecolare e la composizione del polimero infatti è possibile modificare l’intesità del rilascio farmacologico [Prabha 2004]. Anche le proprietà superficiali delle nanoparticelle polimeriche giocano un ruolo importante nel meccanismo di rilascio del farmaco: dato che le nanoparticelle entrano in diretto contatto con le membrane cellulari, le loro proprietà superficiali possono determinare il meccanismo di inclusione intracellulare [Faraji 2009].

2.3.2 Nanoparticelle inorganiche

Le nanoparticelle inorganiche sono costuite da materiali inorganici come silice o allumina, ma anche materiali metallici o ossidi metallici possono essere utilizzati per la realizzazione del core della nanoparticella. Le nanoparticelle inorganiche possono essere ingegnerizzate variando dimensione e composizione superficiale al fine di evitare una loro eliminazione da parte del sistemo reticoendoteliale. Inoltre sono caratterizzate da un certo livello di porosità, variando il quale è possibile influenzare la cinetica di rilascio del farmaco. Esse si mantengono stabili in un ampio range di temperatura e PH, ma la loro scarsa biodegradazione e la loro lenta dissoluzione pongono dei limiti al loro utilizzo, specialmente a lungo termine [Faraji 2009].

(20)

17 2.3.3 Micelle

Sono strutture con un diametro solitamente inferiore a 100 nm che si ottengono dall’associazione spontanea in soluzione di copolimeri anfifilici che formano sistemi colloidali sferici con il farmaco contenuto in un core centrale. In acqua la struttura micellare ottenuta è del tipo core-shell, in cui i segmenti idrofobi si associano all’interno del sistema mentre le porzioni idrofile formano l’involucro esterno. Si forma cosi una struttura caratterizzata da un core idrofobico e da una superficie altamente idrofilica, chiamata corona.

La superficie idrofilica è di cruciale importanza in quanto ostacola le interazioni tra il core e le componenti del sangue,impedendo l’assorbimento e l’eliminazione delle micelle da parte del sistema reticoloendoteliale. Le micelle possono essere funzionalizzate attraverso l’inserimento di ligandi, come peptidi o porzioni di zuccheri, alla fine dei segmenti idrofilici in modo da favorire il legame delle micelle con recettori presenti sulle cellule target [Ricotti 2015].

Un’interessante caratteristica delle micelle polimeriche è la possibilità di renderle capaci di rispondere a stimoli esterni (PH, temperatura, ultrasuoni), ottenendo così un rilascio controllato del farmaco contenuto al loro interno [Kabanov 1992]. Uno dei polimeri più utilizzati è il Pluronic, un copolimero a blocchi basato su ossido di etilene e ossido di propilene.

L’incorporazione del farmaco nelle micelle può avvenire tramite interazione di tipo fisico con le porzioni polimeriche idrofobiche o tramite legame covalente del principio attivo alla molecola [Cho 2008].

Diversi studi sono stati compiuti sulla possibilità di utilizzare le micelle per il rilascio di farmaci nel tessuto cerebrale. Alcuni studi hanno mostrato ad esempio un incremento dell’effetto analgesico del farmaco veicolato dalle micelle [Dutta 2007].

2.3.4 Dendrimeri

Sono molecole altamente ramificate con una architettura tridimensionale controllata. Si tratta di polimeri costituiti da catene di monomeri legati covalentemente che si espandono radialmente e simmetricamente da una zona centrale assumendo una forma ad albero nelle diverse direzioni.

(21)

18 I dendrimeri sono costituiti da tre parti fondamentali: il nucleo, che può essere costituito da un singolo atomo o da una molecola e che può essere omogeneo con gli altri componenti oppure eterogeneo; gli strati concentrici interni, detti generazioni, formati dai monomeri ramificati e polimerizzati, e la zona periferica, ovvero la superficie esterna. Ciascun componente contribuisce a determinare le proprietà globali dell’intero sistema macromolecolare. In particolare, il nucleo svolge la funzione di indirizzare il processo di crescita della macromolecola soprattutto per quanto riguarda forma, direzione di polimerizzazione e dimensioni; gli strati interni determinano la densità, la flessibilità e il volume libero in grado di ospitare altre molecole mentre la superficie, che presenta la gran parte dei gruppi funzionali reattivi, può fungere da punto di partenza per un’ulteriore polimerizzazione e formazione di un nuovo strato o come sito per reazioni più specifiche.

Solitamente il farmaco si lega ai gruppi funzionali, presenti al termine delle ramificazioni, attraverso modifiche chimiche [Kannan 2014] ed è possibile sfruttare gli spazi vuoti presenti nella zona centrale del dendrimero per intrappolare il farmaco all’interno [Dhanikula 2009].

I dendrimeri sono solitamente simmetrici rispetto al core centrale e quando sono sufficientemente estesi assumono una forma sferoidale tridimensionale in acqua.

Le proprietà dei dendrimeri dipendono dai gruppi funzionali presenti sulla superficie molecolare. Ad esempio funzionalizzando le estremità dei dendrimeri con gruppi idrofilici, come gli acidi carbossilici, è possibile creare dendrimeri solubili in acqua. In questo modo è possibile strutturare un dendrimero idrosolubile con un interno idrofobico, che possa trasportare al suo interno un farmaco idrofobico [Faraji 2009]. Le poliammidoammine (PAMAM) sono forse le molecole più conosciute per la sintesi dei dendrimeri e diversi studi sono stati compiuti sul loro utilizzo come sistemi a rilascio controllato di farmaco. Albertazzi et al. ad esempio hanno mostrato come la funzionalizzazione dei dendrimeri a base di PAMAM abbia un drammatico effetto sulla loro capacità di diffusione nel sistema nervoso centrale in vivo e nei neuroni, come mostrato a seguito di una iniezione intraventricolare o intraparenchimale.

Ad oggi i dendrimeri sono l’unica categoria di nanosistemi sintetici che permette un controllo preciso della loro nanostruttura. Sono sistemi altamenti ordinati, con proprietà modulabili e programmabili; di conseguenza sono considerati tra i carrier più adattabili a diverse strategie di targeting e rilascio farmacologico. Inoltre i dendrimeri possono

(22)

19 essere usati come agenti stabilizzanti per nanoparticelle non polimeriche, come ad esempio nanoparticelle d’oro o d’argento [Ricotti 2015].

2.3.5 Liposomi

Tra i nanosistemi di origine lipidica più studiati e utilizzati per la veicolazione di principi attivi vi sono i liposomi, vescicole sferiche formate da uno o più doppi strati fosfolipidici esterni (lamelle), costituiti da lipidi anfifilici che delimitano un compartimento interno idrofilo, in cui è presente materiale in fase acquosa. Solitamente il doppio strato lipidico liposomiale è costituito da polimeri biocompatibili e biodegradabili, presenti nelle membrane biologiche. I costituenti più comuni sono la sfingomielina, la fosfatidilcolina e i fosfogliceridi. Anche il colesterolo, un importante componente delle membrane cellulari, è spesso incluso nella struttura liposomiale in quanto decresce la permeabilità del doppio strato e aumenta la stabilità del liposoma in vivo.

I liposomi sono classificati, sulla base delle loro dimensioni e del numero di lamelle, in vescicole unilamellari piccole, con dimensioni superiori ai 100 nm e costituite da un singolo strato, vescicole unilamellari grandi, con dimensioni superiori a 100 nm e formate da un singolo strato, e vescicole multilamellari, costituite da più strati concentrici e con dimensioni di alcuni micrometri [Masserini 2013].

I liposomi, se non opportunamene modificati, sono rapidamente eliminati dal flusso sanguigno ad opera dei macrofagi del sistema reticoloendoteliale. È possibile aumentare il loro tempo di circolazione nel sangue attraverso l’inserimento del polimero glicole polietilenico (PEG) o di altre catene idrofobiche sulla loro supericie o includendo fosfatidilinositolo e gangliosidi durante la preparazione [Vasir 2005]. I liposomi sono strutture altamente versatili: giocando su parametri come la diffusività liposomiale, la modalità con cui si legano alla cellula bersaglio o con cui incapsulano il loro contenuto è possibile variare la loro efficacia. Recentemente ad esempio è stato dimostrato che la realizzazione di liposomi cationici, contenenti lipidi carichi positivamente, permette la loro diffusione all’interno di sferoidi tumorali tridimensionali [Wientyes 2014].

I liposomi possono contenere composti idrofilici, che rimagono incapsulati nel core acquoso, o composti idrofobici, che possono però sfuggire all’incapsulamento diffondendo all’esterno della membrana fosfolipidica. Possono aderire alla membrana

(23)

20 della cellula bersaglio in modo da riversare al suo interno il proprio contenuto o semplicemente trasferire il farmaco attraverso processi di endocitosi [Faraji 2009]. Le vescicole liposomiali sono ampiamente utilizzate come sistemi di rilascio del farmaco per il trattamento di patologie cerebrali, come tumori o ischemia.

2.3.6 Molecole virali

Sono stati compiuti numerosi studi sull’utilizzo delle molecole virali come sistemi per il trasporto farmacologico sfruttando le proprietà fusogeniche attraverso cui il virus si lega alla cellula target e l’elevata efficienza di trasfezione. Esistono virus in natura, come il parvovirus canino, che hanno un’affinità naturale per recettori che mostrano una sovraregolazione in molti tumori, e virus che invece vengono ingegnerizzati in modo tale che attacchino solo le cellule malate del corpo, replicandosi selettivamente in queste e provocando la morte della cellula per lisi o apoptosi[Portney 2006]. Attraverso strumenti chimici o di ingegneria genetica si fa in modo che il virus mostri sulla superficie del capside molecole o peptidi target, che facilitino il legame di ligandi o anticorpi, come la transferrina o l’acido folico, usati per il targeting di specifici tumori in vivo [Manchester 2006].

Fig.8. Principali nanocarriers utilizzati in studi clinici e pre-clinici

Sebbene i sistemi di drug delivery basati su nanoparticelle mostrino numerosi vantaggi, ci sono ancora alcune limitazioni riguardanti la poca stabilità in circolo, la tossicità e

(24)

21 soprattutto la bassa efficienza di trasporto, dovuta alle ridotte dimensioni dei carrier [Cho 2008].

Per superare questi problemi negli ultimi anni sono stati sviluppati sistemi a rilascio controllato di farmaco basati su cellule, con dimensioni di alcuni micron. Essi posseggono numerosi vantaggi rispetto ai nanosistemi, come un prolungato tempo di rilascio del farmaco, una maggiore capacità di trasporto, una migliore capacità di penetrazione dei tessuti da parte degli agenti farmacologici e una biocompatibilità intrinseca[Cinti 2011].

L’utilizzo di carrier fisiologici può rappresentare un valido sistema alternativo alla chemioterapia per il rilascio controllato del farmaco antitumorale, capace di minimizzare gli effetti collaterali. In particolare il comportamento delle cellule del sangue è stato ampiamente studiato al fine di poter sfruttare le loro caratteristiche per dar vita a sistemi di trasporto altamente efficienti.

È stato visto che l’utilizzo di eritrociti come carriers di farmaci antitumorali diminuisce il rischio di effetti collaterali e di reazione immunitaria [Provotorov 2009]. La loro elevata disponibilità, le dimensioni considerevoli rispetto ad altri sistemi di trasporto e i naturali meccanismi di eliminazione rendono i globuli rossi molecole interessanti da impiegare come sistemi di rilascio farmacolgocico [Doshi 2009].

2.4 Sistemi a rilascio controllato di farmaco guidati da campi magnetici

esterni

A causa di problemi di scalabilità e di vincoli di spazio, non è possibile inserire attuatori e sorgenti di energia all’interno di sistemi di rilascio farmacologico in modo da guidarli verso il sito di danno [Timko 2010]. La realizzazione di sistemi di veicolazione farmacologica capaci di rispondere a stimoli fisici wireless controllati in remoto da un operatore, come ultrasuoni, radiazioni luminose o campi magnetici, risulta particolarmente interessante in quanto permette di guidare il carrier direttamente nel sito d’interesse dall’esterno. Particolarmente investigato è stato, ed è tuttora, l’utilizzo di campi magnetici esterni per la guida di sistemi per il rilascio farmacologico.

L’idea è quella di legare o incapsulare l’agente terapeutico in nanoparticelle magnetiche, tipicamente con proprietà superparamagnetiche, in modo da guidarle nel sito d’interesse con un campo magnetico esterno oppure è possibile inserire, all’interno

(25)

22 del sistema contenente il farmaco, nanoparticelle superparamagnetiche al fine di rendere il sistema magnetico e manovrabile attraverso campi magnetici esterni.

Le nanoparticelle superparamagnetiche (SPION) sono costituite da un core di magnetite ( ) o magnemite ( ) di dimensioni inferiori a 10 nm, protetto da un rivestimento di materiale polimerico o inorganico, che rende le nanoparticelle biocompatibili e stabili [Neuberger 2005]. Il rivestimento superficiale delle nanoparticelle è essenziale per le applicazioni biomedicali: anche se non soggette a campi magnetici esterni infatti le SPION, a causa delle proprietà superparamagnetiche, hanno un’ elevata tendenza a formare agglomerati. Inoltre una volta iniettate nel sangue tendono ad essere eliminate dal sistema reticoloendoteliale. Attraverso l’utilizzo di un guscio polimerico o inorganico si riesce ad evitare la formazione di agglomerati e ad aumentare il tempo in cui le nanoparticelle magnetiche rimangono in circolo [Sun 2008].

Le proprietà magnetiche di queste nanoparticelle permettono il loro utilizzo in numerose applicazioni: possono essere usate come agenti di contrasto in procedure di risonanza magnetica [Cunningham 2005] o come vettori magnetici, in sistemi di rilascio di farmaco, trasportabili in siti specifici attraverso gradienti di campo magnetico [Johannsen 2005]; inoltre possono essere riscaldate selettivamente attraverso l’applicazione di un campo magnetico ad alta frequenza in modo da indurre ipertermia o ablazione del tessuto vicino [Jurgons 2006].

Attraverso processi chimici è possibile aggiungere componenti nelle nanoparticelle magnetiche in maniera modulare. Ligandi, come agenti terapeutici, coloranti ottici o molecole target con alta affinità nei confronti di specifiche cellule tumorali, possono essere collegate alla superficie delle nanoparticelle o incorporate al loro interno [Sun 2008]. Questo permette l’utilizzo delle nanoparticelle come dei veri e propri sistemi di trasporto per il farmaco in grado di rilasciare l’agente terapeutico nel sito di danno, guidati da un campo magnetico esterno. In alcuni casi le nanoparticelle non sono usate come vettori farmacologici ma sono inserite insieme al farmaco nel sistema di trasporto e utilizzate per guidarlo nel sito d’azione. In questo modo è possibile usare carrier più grandi delle nanoparticelle e inserire quantità maggiori di farmaco al loro interno. Verso la fine degli anni Settanta sono state sviluppate le prime particelle magnetiche composte da magnetite da utilizzare per il trasporto di farmaci chemioterapici all’interno di eritrociti, albumina o microsfere polimeriche. È stato visto che attraverso un’iniezione intravenosa dei sistemi di trasporto e l’utilizzo di un magnete esterno, si

(26)

23 assisteva all’accumulo del farmaco all’interno dell’area tumorale e ad una diminuzione del tumore [Widder 1979]. Eritrociti magnetici ottenuti dall’incapsulamento di farmaco e particelle di magnetite e cobalto-ferrite sospese in un fluido hanno mostrato la capacità di trasportare il farmaco nel sito desiderato attraverso un campo magnetico esterno [Sprandel 1987a]. Studi successivi hanno cercato di aumentare le proprietà magnetiche delle particelle e la loro efficacia. Lubbe et al. [Lubbe 1999] usarono SPION di 100 nm di diametro rivestite da un guscio polimerico e funzionalizzate parzialmente con epirubicina. Iniettando le particelle nella vena femorale di topi sotto l’influenza di un campo magnetico esterno di 0.2 T, si riusciva ad ottenere la completa regressione di un adenocarcinona e di un ipernefroma impiantati rispettivamente nell’orechio e nell’addome del topo. Alexiou et al. [Alexiou 2000] raggiunsero la completa remissione di un carcinoma cutaneo spinocellulare VX-2 in conigli dopo l’iniezione intra-arteriosa di SPION ricoperte di amido e funzionalizzate con il farmaco metotrexato (Fig.9).

Studi clinici sono stati effettuati anche su uomini. Lubbe et al. [Lubbe 1996] ad esempio hanno iniettato SPION funzionalizzate con epirubicina in 14 pazienti con tumori solidi di tipo, localizzazione e stadio diversi. Un campo magnetico esterno di 0.5-0.8 T è stato applicato sul tumore per circa 60-160 minuti. In sei pazienti è stato rilevato un accumulo di particelle nel tessuto tumorale e dopo circa 60 giorni il fegato, organo coinvolto nei processi di elimininazione delle particelle magnetiche, non mostrava al suo interno particelle, dimostrando la sicurezza della procedura.

I liposomi e le micelle sono tra i nanosistemi che meglio si prestano ad incapsulare un gran numero di nanoparticelle magnetiche. Inserendo al loro interno un agente terapeutico, è possibile usare questi sistemi per il trasporto del farmaco nel sito di danno sotto l’azione di un campo magnetico esterno [Sun 2008]. Chandra et al. [Chandra 2015] hanno realizzato due differenti dendrimeri a base di glicole polietilenico e PAMAM per stabilizzare nanoparticelle superparamagnetiche con core di magnetite. Hanno investigato sulla possibilità di utilizzare i due sistemi come vettori per il trasporto di farmaco chemioterapico nel sito tumorale sotto l’azione di un campo magnetico esterno ed hanno ottenuto un’efficacia di trasporto del farmaco doxorubicina nel sito di danno pari al 95%.

(27)

24

Fig.9. Carcinoma cutaneo spinocellulare VX-2 prima(a) e dopo(b) l’iniezione intra-venosa delle SPION e l’applicazione di un campo magnetico esterno per 60 min su coniglio [Alexiou 2000].

(28)

25

Capitolo 3 L’uso dei campi magnetici in applicazioni

biomedicali

3.1 Teoria dei campi magnetici

Quando un oggetto con proprietà magnetiche è inserito all’interno di una regione dello spazio in cui è presente un campo magnetico , sarà soggetto ad una coppia magnetica e ad una forza magnetica .

La coppia magnetica può essere espressa secondo la formula [Jiles 1998]:

(1)

dove e sono rispettivamente il volume e il vettore magnetizzazione dell’oggetto.

La coppia magnetica tende ad allineare il vettore magnetizzazione dell’oggetto nella direzione del campo magnetico applicato e fa si che assuma quindi una certa orientazione nello spazio (Fig.10a).

La forza magnetica invece è espressa dalla formula [Jiles 1998]:

(2)

Si tratta della forza propulsiva che mette in moto l’oggetto. Una volta che l’oggetto è orientato in una certa direzione, attraverso la generazione di un gradiente di campo magnetico è possibile guidarlo lungo una specifica direzione dello spazio (Fig.10b). Le equazioni (1) e (2) si basano sull’assunzione che l’oggetto magnetico è piccolo rispetto ai cambiamenti spaziali del campo magnetico , per cui si può considerare uniforme all’interno dell’oggetto. Assumendo inoltre che l’oggetto ha proprietà magnetiche omogenee nello spazio, rappresenta il valore del campo magnetico applicato al centro della massa dell’oggetto.

(29)

26

Fig.10. (a) Applicazione coppia magnetica su un oggetto con proprietà magnetiche (b) Applicazione forza magnetica su un oggetto con proprietà magnetiche

Coppie e forze magnetiche controllate possono essere esercitate su microrobot mobili, in modo da realizzare una navigazione wireless attraverso l’utilizzo di elettromagneti o magneti permanenti disposti in configurazioni diverse nello spazio.

Particolarmente ricorrente è l’utilizzo di bobine di Helmholtz e di bobine di Maxwell. Le bobine di Helmholtz sono due bobine magnetiche circolari identiche, di uguale diametro e con lo stesso numero di spire, posizionate lungo un asse comune. Esse sono separate da una distanza pari al loro raggio e sono attraversate da una corrente che scorre nello stesso verso (Fig.11a).

Questa particolare conformazione genera un campo magnetico uniforme lungo l’asse comune delle bobine (Fig.11b), utilizzato per generare coppie sul microrobot, necessarie per orientarlo in una certa direzione nello spazio.

Fig.11. (a) Coppia di bobine di Helmholtz

(30)

27 Le bobine di Maxwell sono due bobine circolari identiche con asse coincidente, separate da una distanza , dove è il raggio della bobina, e sono percorse da una corrente che scorre in verso opposto (Fig.12a). La configurazione di Maxwell genera gradienti di campo magnetico uniformi lungo l’asse comune delle bobine (Fig.12b), sfruttati per esercitare forze magnetiche che mettono in moto il microrobot lungo una certa direzione nello spazio.

Fig.12. (a) Coppia di bobine di Maxwell

(b) Gradiente di campo magnetico uniforme generato da una coppia di bobine di Maxwell [Yesin 2006]

3.1.1 Campi magnetici generati da bobine di Helmholtz e bobine di Maxwell

In generale quando una corrente elettrica scorre in un conduttore genera un campo magnetico, secondo la legge di Biot-Savart [Hayt 2006].

Si consideri una spira di raggio R percorsa da una corrente , con asse x coincidente con l’asse della spira e con origine nel centro della spira stessa (Fig.13). In un punto P lungo l’asse della spira, a distanza dal centro della spira, l’elemento infinitesimo di spira genera un campo magnetico diretto lungo x:

(3)

dove è la permeabilità magnetica del vuoto ed è la distanza tra l’elemento infinitesimo di spira e il punto P.

(31)

28 Il campo magnetico risultante generato dalla spira nel punto P sarà diretto lungo l’asse della spira e il suo valore sarà pari alla somma delle componenti generate dai tratti infinitesimi di spira :

(4)

Fig.13. Spira circolare percorsa da corrente

Dall’equazione (4) è possibile ricavare le espressioni del campo magnetico generato dalle bobine di Helmholtz e dalle bobine di Maxwell.

Si consideri una coppia di bobine di Helmholtz con asse comune coincidente con l’asse x, separate da una distanza pari al loro raggio e centrate rispetto all’origine del sistema di riferimento. Le bobine sono attraversate da una corrente che scorre nello stesso verso (Fig.14).

Il modulo del campo magnetico generato dalle due bobine in un punto P lungo l’asse x, di coordinata e distante dalla bobina di destra e dalla bobina di sinistra (Fig.) è:

(5)

(32)

29

Fig.14. Coppia di bobine di Helmholtz

Dall’espressione (5) è possibile ricavare il campo magnetico generato dalla coppia di bobine di Helmholtz nell’origine del sistema di riferimento ( ). Esso è costante e può essere correlato alla corrente secondo la seguente espressione:

(6)

Il coefficiente di proporzionalità k dipende dalle caratteristiche geometriche delle bobine.

Si consideri ora una coppia di bobine di Maxwell disposte lungo un asse comune coincidente con l’asse x, separate da una distanza pari a , dove è il raggio delle bobine, e centrate rispetto all’origine del sistema di riferimento. Le bobine sono attraversate da una corrente che scorre in verso opposto (Fig. 15).

Il modulo del campo magnetico generato dalle due bobine in un punto P lungo l’asse x, di coordinata e distante dalla bobina di destra e dalla bobina di sinistra (Fig.) è:

(7)

(33)

30

Fig.15. Coppia di bobine di Maxwell

L’espressione del gradiente di campo magnetico generato dalla coppia di bobine di Maxwell lungo l’asse comune è la seguente:

(8)

Dall’espressione (8) è possibile calcolare il gradiente di campo magnetico uniforme presente nella regione interna compresa tra le bobine di Maxwell in :

(9)

Anche in questo caso il gradiente è costante e direttamente proporzionale alla corrente che scorre nelle bobine secondo un coefficiente di proporzionalità g, dipendente dalle caratteristiche geometriche.

È importante sottolineare che le bobine di Maxwell generano anche una componente di gradiente uniforme nella direzione radiale. La componente radiale del gradiente di campo magnetico calcolata in corrispondenza dell’origine del sistema di coordinate ha una ampiezza pari alla metà dell’ampiezza della componente di gradiente in direzione assiale [Jeong 2013].

(34)

31 3.1.2 Campi magnetici generati da un magnete permanente cilindrico

Si consideri un magnete permanente cilindrico di raggio e altezza h con asse coincidente con l’asse z (Fig. 16).

Il campo magnetico generato in un punto P(x,y,z) nello spazio può essere calcolato attraverso un modello di corrente equivalente, secondo il quale quando un magnete cilindrico è magnetizzato in una certa direzione e saturato uniformemente, il campo magnetico in ogni punto dello spazio esterno al cilindro può essere generato solo dalla corrente di superficie che scorre sulla superficie laterale del magnete permanente [Wang 2012].

La densità di corrente sulla superficie laterale del cilindro è definita secondo il modello come [Wang 2012]:

(11)

dove è la magnetizzazione rimanente del magnete e è la permeabilità magnetica del vuoto, pari a 4π .

In generale se I è la corrente di superficie che percorre una traiettoria chiusa circolare lungo la superficie laterale di un cilindro, parallelamente al piano xy, la densità di corrente totale che scorre sulla superficie laterale del cilindro può essere espressa come:

(12)

In coordinate cilindriche, un punto M( ) sulla superficie del cilindro può essere espresso come M( ), dove , e .

Sia un tratto infinitesimo di altezza del cilindro. Il campo magnetico generato in un punto P(x,y,z) dalla corrente di superficie che percorre una traiettoria circolare chiusa lungo la superficie laterale del cilindro ad altezza , può essere espresso in accordo con la legge di Biot-Savart e il principio di sovrapposizione degli effetti come segue:

(35)

32

Fig16. Magnete permanente cilindrico [Wang 2016]

Dove è il raggio vettore di un punto ( ) sulla superficie del cilindro corrispondente alle coordinate del tratto infinitesimo di lunghezza del circolo di corrente e è il raggio vettore del punto P(x,y,z) in cui si vuole calcolare il campo magnetico. Sia (14) e definito

Il campo magnetico generato dal circolo di corrente nel punto P(x, y, z) nelle tre direzioni dello spazio è esprimibile come:

(15)

Il campo magnetico totale generato dal magnete permanente nel punto P(x,y,z) si ottiene integrando i valori ottenuti per un singolo circolo di corrente ad altezza su tutta la lunghezza del cilindro h:

(36)

33 (16)

Sostituendo l’espressione della densità di corrente (11) in (16) si ottiene:

(17)

Si consideri ora un magnete permanente cilindrico con asse parallelo all’asse z, infinatamente lungo in direzione z e magnetizzato perpendicolarmente al suo asse con magnetizzazione . Il magnete ha raggio ed è centrato rispetto all’origine del sistema di riferimento (Fig.17).

Le componenti di campo magnetico generate dal magnete in coordinate cilindriche sono [Jones 1995]: (18)

Dal momento che il magnete è infinitamente lungo in direzione z è possibile trascurare la componente del campo magnetico.

(37)

34 (19)

Fig.17 Magnete permanente infinatamente lungo in direzione z, sul piano xy

3.2 Applicazioni dei campi magnetici per uso biomedico

I campi magnetici da tempo hanno trovato un largo utilizzo in medicina, sia in campo diagnostico che in ambito terapeutico. Si pensi ad esempio all’uso della risonanza magnetica come strumento diagnostico per acquisizioni di immagini dettagliate del corpo umano. Diversi studi hanno inoltre mostrato come tale sistema possa essere usato per la propulsione e il controllo di microrobot inseriti in fluidi corporei e utilizzabili in procedure chirurgiche o diagnostiche minimamente invasive [Mathieu 2003, Mathieu 2007, Tamaz 2008].

Sistemi di magneti permanenti ed elettromagneti possono essere utilizzati per guidare dispositivi miniaturizzati, cateteri e capsule endoscopiche all’interno del corpo umano [Lucarini 2015a, Lucarini 2015b, Cha 2010].

I campi magnetici possono essere impiegati anche in tecniche non invasive di stimolazione magnetica del tessuto cerebrale per lo studio delle connessioni neuronali al’interno del cervello o per il trattamento di disturbi psichiatrici e neurologici, quali la depressione, il morbo di Parkinson o le allucinazioni [Burt 2002, Seminowicz 2004]. Di seguito sono riportati alcuni tra i più importanti sistemi di navigazione magnetica per microrobots presenti in letteratura e sono illustrati alcuni sistemi di stimolazione

(38)

35 magnetica transcranica, che sfruttano diverse combinazioni di elettromagneti per ottimizzare il campo magnetico in regioni specifiche del cervello.

3.2.1 Sistemi di attuazione magnetica per microrobot

Negli ultimi anni si è assistito ad un notevole sviluppo nel campo della microrobotica [Abbott 2007]. Recenti progressi nella scienza e nella tecnologia su micro-scala hanno portato allo sviluppo di robot molto piccoli da impiegare in applicazioni mediche, biologiche ma anche industriali [Nelson 2010]. Robot mobili con dimensioni inferiori a 1 mm, indicati con il termine di microrobot, possono muoversi facilmente nei fluidi biologici, possono avere accesso a piccoli spazi e interagire con sistemi microscopici presenti nel corpo umano [Lucarini 2014]. Tali sistemi rappresentano quindi strumenti rivoluzionari da impiegare in procedure di rilascio farmacologico, di manipolazione cellulare o in procedure chirurgiche e diagnostiche che coinvolgono l’orecchio interno, l’ambiente intraoculare o l’ambiente cardiovascolare [Yesin 2006].

Il problema principale nell’utilizzo di microrobot riguarda la modalità di attuazione. Quando le dimensioni scendono al di sotto del millimetro infatti è praticamente impossibile inserire attuatori o sorgenti di energia al loro interno, a causa di problemi di scalabilità e di vincoli di spazio. Numerosi studi hanno mostrato come l’uso dei campi magnetici sia la soluzione migliore per attuare e guidare microsistemi [Nelson 2010]. I campi magnetici esterni possono essere generati da magneti permanenti o elettromagneti.

Gli elettromagneti hanno il principale vantaggio di generare campi magnetici variabili senza usare parti in movimento, garantendo la sicurezza del paziente e del personale medico, e permettono di variare i campi magnetici variando il valore della corrente. Gli elettromagneti sono però generalmente ingombranti e richiedono alte correnti per generare adeguati campi magnetici e soprattutto gradienti, con conseguente alto consumo di potenza e produzione di calore [Lucarini 2015a].

I magneti permanenti possono applicare forze e coppie rilevanti su un sistema magnetico, in maniera poco costosa e in forma compatta, senza l’uso di correnti di elevato valore e senza riscaldamento dei tessuti. In questo caso però il campo magnetico può essere modulato traslando o ruotando uno o più magneti esterni. Inoltre il campo

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36 magnetico generato non può essere spento ma solo diminuito, allontanando i magneti esterni dallo spazio di lavoro, andando ad interferire con l’ambiente circostante [Lucarini 2015].

Gran parte dei sistemi di attuazione magnetica per microborobot presenti in letteratura sono costituiti da elettromagneti in quanto permettono una guida più precisa rispetto ai magneti permanenti [Lucarini 2014]. In particolare molti sistemi usati per la navigazione magnetica di microrobot presentano bobine di Helmholtz e bobine di Maxwell disposte in diverse configurazioni nello spazio.

Yesin et al. [Yesin 2006] ad esempio hanno proposto un semplice sistema di guida magnetica che permette il movimento di un microrobot nel piano attraverso l’uso di una coppia di bobine di Helmholtz e una coppia di bobine di Maxwell coassiali, messe in rotazione da un motore. Le bobine sono posizionate lungo un asse comune, simmetricamente rispetto ad un canale centrale riempito con acqua, ampio 1000 μm e profondo 300 μm, in cui è presente il microrobot (Fig.18). Il controllo dell’orientamento e della direzione di moto del microrobot è del tutto indipendente: le bobine di Helmholtz sono messe in rotazione e attraverso la generazione di un campo magnetico uniforme esercitano una coppia sul microrobot determinandone l’orientamento lungo una certa direzione. Solo quando le bobine di Maxwell vengono alimentate il microrobot inizierà a muoversi.

Il microrobot proposto da Yesin et al. [Yesin 2006] è un sistema altamente miniaturizzato costituito da Nickel, che prevede un rivestimento polimerico biocompatibile. Ha una forma ellittica di dimensioni 950x400 (Fig.19a) ed una magnetizzazione di saturazione di circa - in corrispondenza di un campo magnetico esterno di 0.2 (Fig.19b). Possibili aree di applicazione per microrobot di questo tipo comprendono procedure chirurgiche, diagnostiche e di sensing in ambienti intraoculari, cardiovascolari o dell’orecchio interno. Studi compiuti sul gradiente di campo magnetico richiesto per vincere la forza di drag presente nel sangue o nel corpo vitreo hanno mostrato che sono necessari valori dell’ordine di 0.7 .

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