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Messa a punto di un metodo di purificazione di fattore H da plasma umano finalizzato all'ottenimento di un concentrato per il trattamento di malattie rare associate a difetti congeniti della via alternativa del complemento.

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Academic year: 2021

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Riassunto

Il fattore H (fH) è una glicoproteina plasmatica di 155 KDa, che gioca un ruolo fondamentale nella regolazione della via alternativa del complemento e possiede proprietà anti-infiammatorie: previene il legame del fattore B al C3b, promuove la dissociazione del complesso enzimatico C3bBb e agisce come cofattore del fattore I nel clivaggio del C3b.

In questa tesi è descritta la messa a punto di un metodo di purificazione del fH umano, a partire da un intermedio (frazione III) derivante dal frazionamento etanolico del plasma, finalizzato all’ottenimento di un concentrato arricchito di tale glicoproteina da utilizzare nel trattamento di patologie rare associate a difetti ereditari del sistema del complemento, quali la Sindrome Emolitico Uremica atipica e la Glomerulonefrite Membranoproliferativa di tipo II.

Il metodo di purificazione delineato include: l’estrazione del fH dalla frazione III, una filtrazione di profondità, una filtrazione chiarificante, uno step di trattamento con miscela solvente/detergente per l’inattivazione dei virus envelope, due step di separazione cromatografica a cui fa seguito uno step di nanofiltrazione per la rimozione dei virus envelope e non envelope.

Il primo step cromatografico è condotto utilizzando uno scambiatore anionico debole mentre nel secondo step è utilizzata una resina di affinità avente come ligando l’eparina.

Il concentrato di fattore H così ottenuto ha un buon grado di purezza ed è stato caratterizzato mediante SDS-PAGE per valutarne l’integrità strutturale nonché evidenziare le proteine contaminanti e mediante Western-blotting per confermare l’identità della proteina.

La funzionalità della proteina è stata valutata mediante il dosaggio del cofattore, tuttora in fase di ottimizzazione, che permette di testare la sua funzione come cofattore del fattore I.

Le proteine contaminanti sono state identificate mediante analisi nefelometriche e mediante analisi proteomica.

Sebbene il processo sia ancora passibile di miglioramenti, il lavoro sperimentale ha condotto alla messa a punto di un metodo di purificazione del fattore H semplice, scalabile e idoneo all’ottenimento di un concentrato utilizzabile nel trattamento della Sindrome Emolitico Uremica atipica e della Glomerulonefrite Membranoproliferativa di tipo II.

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Indice

Abbreviazioni usate………

I Introduzione………...

1. Il sistema del complemento………...

1.1 La via classica………. 1.2 La via della lectina……….. 1.3 La via alternativa………. 1.4 La regolazione del sistema del complemento……….

2. Il fattore H……….

2.1 Caratteristiche strutturali………... 2.2 Funzioni svolte dal fH………... 3. Le Malattie Rare………... 3.1 Concetto di patologia rara………... 3.2 Definizione di farmaco orfano……….. 3.3 Le politiche dell’Unione Europea in termini di Malattie rare……….. 3.4 L’Italia e le malattie rare………... 3.5 Le malattie rare correlate ad anomalie del gene CFH………... 3.5.1 La Sindrome Emolitico Uremica atipica………..

3.5.1.1 Relazione tra la SEUa e le mutazioni a carico del gene CFH………….

3.5.1.2 Trattamenti terapeutici per la SEUa………... 3.5.2 La Glomerulonefrite Membranoproliferativa di tipo II………... 3.5.2.1 Mutazioni a carico del gene CFH correlate con la MPGN II………… 3.5.2.2 Trattamenti terapeutici………...

3.5.3 Altre malattie derivanti da difetti nel fH: la Degenerazione Maculare correlata all’età (AMD)………

4. La purificazione delle proteine plasmatiche………...

4.1 Il frazionamento del plasma……… 4.2 Stato dell’arte della purificazione del fH………

5 6 7 10 12 12 14 16 16 21 24 24 25 25 27 28 29 31 35 37 39 40 41 44 44 47

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Parte sperimentale……….

II Materiali e Metodi………...

Materiali……….. Strumentazione……… Metodi………...

1. Determinazione della concentrazione del fH………..

1.1 Metodo di immunodiffusione radiale (RID)………. 1.2 Determinazione della concentrazione del FH mediante test ELISA………. 2. Determinazione della concentrazione proteica………... 2.1 Metodo del Biureto……… 2.1.1 Preparazione del reattivo del Biureto……… 2.1.2 Esecuzione del metodo………... 2.2 Metodo di Bradford………... 2.2.1 Metodo di Bradford con standard di albumina……….. 2.2.2 Metodo di Bradford con standard di fH……… 3. 3. Determinazione della concentrazione delle proteine plasmatiche mediante

analisi nefelometrica nei concentrati di fH……….

4. Metodo di purificazione di un concentrato di fH………...

4.1 Tamponi utilizzati……….. 4.2 Estrazione del fH dalla frazione III………... 4. 4.3 Filtrazione sui filtri Mini Profile Capsule Filter e DURAPORE® OPTICAP® XL4…

4.4 Inattivazione virale con miscela solvente/ detergente………... 4.5 Step di cattura: cromatografia su resina Fractogel EMD DMAE………

4.6 Ultrafiltrazione………. 4.7 Step di polishing: cromatografia per affinità………. 4.8 Nanofiltrazione……….. 5. SDS-PAGE………. 5.1 Condizioni della corsa elettroforetica……….. 5.2 Preparazione dei campioni. ……….. 5.3 Colorazione del gel e acquisizione ………... 6. Western Blot……….. 6.1 Preparazione dei campioni……… 6.2 Elettroforesi in gel di poliacrilamide……….

52 53 54 56 57 57 57 57 58 58 58 58 58 58 59 60 60 61 62 63 63 63 64 64 65 66 66 66 67 67 67 67

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6.3 Trasferimento su nitrocellulosa………. 6.4 Rivelazione colorimetrica……… 7. Valutazione dell’attività di cofattore del fH……… 7.1 Principio del metodo………. 7.1.1 Valutazione dell’attività di cofattore nel surnatante III………. 7.1.2 Valutazione dell’attività di cofattore nell’eluato 2……… 8. Valutazione dell’integrità strutturale del fH………... 8.1 Purificazione del fH con colonna di immunoaffinità e per immunoprecipitazione….. 8.2 Digestione dei campioni di fH e dello standard con tripsina………... 9. Analisi proteomica del concentrato di fH……… 9.1 Preparazione del campione……… 9.2 Analisi nano-LC-ESI-MS/MS e processamento dei dati………...

III RISULTATI……….. 1. Materiale di partenza per la purificazione del fH………

2. Messa a punto di un metodo per la purificazione di un concentrato di fH da frazione III………

2.1 Modifica delle condizioni di estrazione del fH dalla frazione III………. 2.1.1 Valutazione dell’integrità strutturale del fH nel surnatante della frazione III con o senza aprotiina………... 2.2 Introduzione di uno step di filtrazione su filtro di profondità in sostituzione dello step di centrifugazione………

2.3 Introduzione di uno step di inattivazione virale………... 2.4 Verifica dello scalabilità del processo……… 2.4.1 Rese di step e di processo: dall’estrazione alla prima cromatografia………… 2.4.2 Rese di step e di processo: dall’ultrafiltrazione alla seconda cromatografia… 2.5 Introduzione di uno step di nanofiltrazione: prova di filtrabilità……….. 2.6 Ottimizzazione del primo step cromatografico………. 2.6.1 2.6.1 Distribuzione della molecola C3 nella prima cromatografia……….…… 2.6.2 2.6.2 Variazione delle condizioni di eluizione della prima cromatografia………….. 2.6.3 2.6.3 Variazione del supporto cromatografico………..

2.7 SDS-PAGE degli intermedi di purificazione del fH: valutazione del grado di purezza e dell’integrità strutturale nell’eluato 2……….. 2.8 Valutazione dell’integrità strutturale dell’eluato 2 in funzione della copertura di

aprotinina……….. 67 68 69 69 69 70 70 70 71 71 71 71 73 74 77 78 80 83 83 85 86 90 93 94 94 95 95 97 100

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2.9 Verifica dell’identità del fH negli intermedi di purificazione mediante western blot 2.10 Profilo delle proteine contaminanti determinate mediante analisi nefelometrica dei

concentrati di fH………. 2.11 Analisi proteomica dell’eluato 2……… 3. Analisi dell’attività di cofattore………... 3.1 Valutazione dell’attività di cofattore nel surnatante III………. 3.2 Valutazione dell’attività di cofattore nell’eluato 2………....

IV Discussione e conclusioni………. V Bibliografia e sitografia……… 102 104 105 109 109 111 114 123

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Abbreviazioni usate

Ag Antigene Alb Albumina Ctrl Controllo fH fattore H DTT Diitiotritolo Fib Fibrinogeno SCR Short consensus repeats

Snt Surnatante Tsf Trasferrina

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CAPITOLO I

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1. Il sistema del complemento

Il sistema del complemento è un’arma del Sistema Immunitario innato ed umorale che, con l’ausilio degli anticorpi, svolge un ruolo di primaria importanza nella difesa dell’organismo, ad esempio in seguito ad esposizione ad organismi patogeni ed agenti infettivi o in caso di apoptosi delle cellule ospiti.

E’ rappresentato da oltre 30 molecole, di cui numerosi recettori di superficie (presenti sia sulle cellule infiammatorie che su quelle del sistema immunitario), proteine plasmatiche e membranali, capaci di interagire con specifici recettori localizzati su diversi tipi cellulari.

La cooperazione delle diverse molecole del complemento media le seguenti funzioni:

induzione della lisi delle cellule bersaglio mediante opsonizzazione, dopo aver rivestito la loro superficie;

generazione dei mediatori dell’infiammazione ed innesco della fagocitosi da parte delle cellule del sistema immunitario che possiedono i recettori per il complemento;

modulazione della risposta adattativa, che si acquisisce in seguito all’esposizione ad uno specifico Ag ed include cellule presentanti l’antigene (APC) quali macrofagi e cellule dendritiche, proliferazione di linfociti B Ag-specifici e di linfociti T Ag-specifici, produzione di anticorpi, linfociti T citotossici (CTLs) e citochine.

Alcune proteine del complemento sono prodotte come zimogeni (precursori enzimatici) che si attivano solo in seguito ad uno stimolo efficace al fine di evitare reazioni indesiderate nell’ospite; a

ciò seguono una serie di eventi a cascata che terminano con la lisi della cellula bersaglio. Fin dal 1800 molti studiosi hanno mostrato interesse per i meccanismi coinvolti nella protezione nei

confronti di patogeni e agenti infettivi: Butchner e Pfeiffer dimostrarono per primi che il siero di animali infettati da Vibrio Cholereae, a differenza di quello sano, era in grado di indurre la lisi del microrganismo in questione.

Nel 1889 Hans Ernst Buchner (1850-1902) e coll. attestarono la presenza di una componente labile al calore nel siero fresco e privato di cellule, capace di uccidere i microrganismi, che definirono “alexin”, dal greco “senza nome”.

Nel 1894 Jules Bordet (1870-1961), che stava lavorando presso l'Istituto Pasteur, testò la potenzialità battericida del siero di animali immunizzati su Bacillus Anthracis, scoprendo che tale attività veniva persa dopo esposizione alla temperatura di 55°C per 30 minuti, ma poteva essere ripristinata addizionando siero non immune. Egli concluse che questa proprietà era dovuta alla

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presenza di due componenti nel siero, di cui una stabile e l’altra labile al calore: la prima conferiva l’immunità contro diverse specie microbiche, la seconda era responsabile di un’attività antimicrobica non specifica ed era coinvolta anche nella lisi dei globuli rossi.

Paul Ehrlich (1854-1915) portò avanti il lavoro e confermò la presenza di questi due fattori nel siero immune: egli definì la forma termostabile “amborecettori” o “ corpi immuni”, oggi noti come anticorpi e nominò la forma termolabile complemento.

Dopo numerosi studi Bordet giunse alla conclusione che la componente battericida presente nel

siero normale, definito “alexin” da Buchner, coincideva con il complemento descritto da Ehrlich [1].

Nel 1920 vennero identificate quattro molecole: C1, C2, C3 e C4 e ad ognuna fu assegnato un numero relativo all’ordine con cui era stata scoperta, sebbene ciò non rappresenti la sequenza di attivazione. Tra gli anni 1950 e 1960 Nelson e Müller-Eberhard caratterizzarono la “via classica del

complemento”; nel 1954 Pillemer identificò una nuova proteina del siero, denominata Properdina,

in grado di attivare le molecole più tardive del complemento, legandosi alle cellule batteriche. Alla fine degli anni 1960-70 questo pathway venne definito “via alternativa del complemento” e parallelamente vennero caratterizzate altre undici proteine della cascata complementare.

Nel 1978 Kawasaki e coll. delinearono le basi per la definizione del terzo pathway o “via della

lectina”, in seguito alla purificazione della lectina legante il mannosio (mannose-binding lectin o

MBL) da fegato di coniglio. La sua funzione rimase indefinita fino al 1989, quando Super e coll. stabilirono una correlazione tra ridotti livelli della proteina e difetti di opsonizzazione riscontrati nei bambini.

In seguito Matsushita e coll. descrissero l’attività proteolitica delle serine proteasi associate alla

MBL, le MASP-1 e MASP-2, coinvolte nella generazione della C3-convertasi. Ad oggi si conoscono tre vie di attivazione del complemento: la via classica, la via della lectina e la

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La via classica si attiva in seguito all’interazione della proteina C1 del complemento con complessi immuni, ossia aggregati formati dagli anticorpi monomerici IgG o pentamerici IgM, e con la proteina C reattiva (PCR).

La via della lectina è innescata dall’interazione delle molecole C4 e C2 con la lectina legante il mannosio, proteina in grado di interagire con i polisaccaridi presenti sulla superficie microbica, come il mannosio, mentre la via alternativa è attivata in seguito all’idrolisi spontanea o al perturbamento della molecola C3 del complemento.

La molecola C3 rappresenta il punto di convergenza delle tre vie di attivazione del complemento. Si tratta di una proteina di 187 kDa che appartiene alla famiglia delle α2-macroglobuline ed è costituita da due subunità, α e β, rispettivamente di 991 e 645 residui amminoacidici.

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La degradazione della molecola C3, comune alle tre vie, conduce alla formazione della molecola C3b e ad una serie di eventi successivi che portano alla costituzione del complesso di attacco alla membrana (Membrane Attack Complex, MAC), C5b6789, che induce la lisi delle cellule bersaglio. In alcune circostanze i prodotti di attivazione del complemento possono legarsi sulla superficie delle cellule ospiti, creando danni di notevole entità. Da ciò la necessità di un appropriato controllo della cascata del complemento, svolto da numerosi regolatori presenti sia in fase fluida che legati alle membrane cellulari. I danni alle cellule ospiti possono essere causati da inappropriati tempi di attivazione del sistema del complemento, fenomeno definito “unsuitable delivery” degli effettori sulla superficie cellulare e da difetti delle molecole preposte alla regolazione dei meccanismi di attivazione del complemento.

1.1 La via classica

La via classica si attiva in seguito all’interazione della proteina C1 con il complesso antigene-anticorpo, determinando un legame tra la risposta umorale adattativa ed il sistema del

complemento. C1 è un complesso multiproteico composto da tre sub-componenti: C1q, C1r e C1s. La molecola C1q lega un tetramero costituito a sua volta da 2 molecole di C1r e C1s. La reazione

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inizia con il riconoscimento da parte di C1q del frammento cristallizzabile (Fc) delle IgG1, IgG3 o IgM, fissate ad un antigene multivalente. Nello specifico l’attivazione necessita del legame di due Fc contemporaneamente: per questo motivo le IgM, secrete sottoforma di pentameri (5 subunità e quindi 5 Fc) sono più efficaci nell’attivazione in confronto alle IgG monomeriche, dal momento che è sufficiente una singola molecola per avere due Fc vicini interagenti con un singolo C1q. Il cambio conformazionale nella molecola C1q, indotto dal legame con le immunoglobuline, attiva la subunità C1r dotata di attività serin-proteasica: essa innesca a sua volta l’attività proteolitica della molecola C1s, che scinde la seconda proteina della cascata complementare, la molecola C4, in due frammenti: C4a e C4b. Il primo frammento rimane in circolo nel plasma, mentre l’altro si lega covalentemente a proteine e carboidrati di membrana, garantendo il mantenimento dell'attività del complemento in un punto ben definito. C4b, in presenza di Mg2+, lega la molecola C2 e la rende suscettibile al clivaggio da parte della subunità C1s; in seguito all’idrolisi si ottengono i due frammenti C2a e C2b: il primo si lega a C4b dando luogo al complesso C4b2a, mentre l'altro va in circolo.

L’enzima C4b2a, meglio noto come C3 convertasi della via classica, rimane adesa sulla superficie del patogeno e idrolizza la molecola C3 determinando la formazione di C3a e C3b. La prima molecola (anafilotossina) inizia una risposta infiammatoria in circolo; l’altra, legandosi alla membrana batterica (opsonizzazione), ne induce la fagocitosi da parte di macrofagi e polimorfonucleati, ed interagendo con il complesso C4b2a, prende parte alla formazione della C5

convertasi della via classica (C4b2a3b).

La C5 convertasi scinde la molecola C5 in C5a e C5b; quest’ultima, legandosi a C6, forma un complesso idrofilico, che subisce un cambio conformazionale in seguito al legame con C7. Ciò favorisce l’esposizione di gruppi lipofilici con i quali prende contatto la subunità β della molecola C8, mentre la subunità α penetra nel doppio strato lipidico della membrana della cellula target, in seguito ai cambiamenti conformazionali del complesso. Infine il legame di C5b678 con C9 ne induce la polimerizzazione e quindi la formazione di canali porosi transmembranali stabili, di forma cilindrica, che promuovono uno squilibrio osmotico,ossia alterano il flusso di ioni ed il gradiente di molecole ed acqua, inducendo la lisi cellulare. I componenti finali del del sistema del complemento sono definiti come complesso di attacco alla membrana (MAC).

Studi recenti hanno messo in evidenza che la via classica può essere attivata, indipendentemente dalla presenza di anticorpi, da molecole segnale di danno come la Proteina C reattiva, le proteine virali, l’amiloide β e P, i polianioni (lipopolisaccaridi, DNA e RNA), i frammenti mitocondriali, le cellule necrotiche ed apoptotiche [2;3;4].

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1.2 La via della lectina

La via lectinica inizia con il legame della ficolina (H o L) o della lectina legante il mannosio (MBL) ai residui di mannosio e ad altri zuccheri localizzati sulla superficie cellulare dei microrganismi patogeni; tali proteine sono caratterizzate da omologie strutturali e funzionali con la subunità C1q della via classica.

Il legame con gli zuccheri promuove l’interazione della MBL con la serina proteasi MASP-1 (MBL-Associated Serine Protease), con la quale forma un potente complesso che attiva la MASP-2. Tali enzimi sono strettamente omologhi a C1r e C1s della via classica e una volta legata la MBL (o le ficoline), formano un tetramero responsabile della degradazione delle proteine C4 e C2, con la conseguente formazione della C3 convertasi della via della lectina o C4b2a. Tale enzima idrolizza la molecola C3 a C3a e C3b, il complesso C4b2a3b che ne deriva degrada C5 in C5a e C5b; le fasi successive sono analoghe a quelle della via classica [2].

Questo pathway sembra essere attivo soprattutto nel corso dell’infanzia e durante il periodo di transizione dall’immunità passiva, operata dagli anticorpi materni, a quella attiva [2;3].

1.3 La via alternativa

A differenza del pathway classico, la via alternativa è indipendente dai complessi antigene-anticorpo e può essere indotta direttamente da componenti della parete cellulare dei batteri

e da quelli presenti sulla superficie delle cellule ospiti danneggiate.

L’attivazione della via alternativa ha come bersaglio iniziale la componente C3 del complemento che rappresenta la proteina più abbondante del siero ed è costituita da due catene polipeptidiche, α e β, legate da un ponte disolfuro.

In normali condizioni fisiologiche la proteina C3 è soggetta ad un’attivazione basale, per idrolisi spontanea di un suo residuo tioesterico. Il prodotto derivante dalla reazione di idrolisi è la molecola C3(H2O), che se rimane in circolo viene inattivata rapidamente; se invece si lega alle superfici delle

cellule, per esempio batteriche, può associarsi ad una proteina plasmatica chiamata fattore B (fB). Appena legatosi al C3(H2O), fB perde un piccolo frammento (Ba) ad opera di una proteasi chiamata

fattore D (fD). Il frammento residuo, Bb, rimane legato al C3(H2O) costituendo il complesso

C3(H2O)Bb. Questo complesso enzimatico è in grado a sua volta di scindere il C3 in C3a e C3b,

che analogamente a C3(H2O), lega il fB su cui agisce il fD, determinando l’escissione del

frammento Ba e la formazione del complesso enzimatico C3bBb o convertasi della via

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La convertasi della via alternativa è capace di scindere grandi quantità di C3 con rapida amplificazione del meccanismo di attivazione del complemento, solo se il complesso C3bBb viene a formarsi sulle membrane batteriche e non su quelle delle cellule di mammifero, in quanto queste ultime posseggono delle proteine che degradano la C3 convertasi arrestandone la cascata.

La via alternativa è chiamata anche "via della properdina". La properdina (o fattore P) è una proteina plasmatica che lega il complesso C3bBb, aumentandone l’emivita di 10 volte.

La fase successiva di questo pathway è rappresentato dal legame della molecola C3b alla C3 convertasi; il risultato è la formazione dell’enzima C5 convertasi, che degrada la molecola C5 in C5a e C5b; quest'ultima legandosi alle molecole C6-9 partecipa alla formazione del MAC, analogamente a quanto accade negli altri due pathways.

C3b è un intermedio che reagisce con l’acqua, con i gruppi idrossilici presenti sui carboidrati, con le superfici cellulari, con i complessi del sistema immunitario e con le IgG libere, in un raggio di circa 60 nm dal punto della sua generazione. Grazie a queste interazioni, la molecola C3b assicura la propria protezione nei confronti dell’inattivazione da parte dei regolatori del complemento, quali il fattore H (fH) ed il fattore I(fI); viceversa, la forma libera, in fase fluida ha un’emivita inferiore ad 1 secondo.

E’ stato inoltre osservato che la molecola C3b reagisce preferenzialmente con le IgG, le seconde proteine più abbondanti presenti del plasma. Il complesso che ne deriva, (C3b)2-IgG, sembra essere

il precursore migliore nella formazione della C3convertasi della via alternativa essendo meno soggetto all'inattivazione da parte del fH. Il tutto si traduce in una maggiore efficacia nell’assemblamento dell’enzima convertasi, intensificato anche dal legame con la Properdina, che stabilizza il legame con il fB e riduce la dissociazione del frammento Bb. Lo step descritto crea un loop di amplificazione che teoricamente potrebbe protrarsi all’infinito, generando quantità crescenti della C3 convertasi e della molecola C3b. La regolazione di questo circuito a feedback positivo dipende dalla concentrazione del fB e della molecola C3b,che mantenendosi oltre una certa soglia persistono nella formazione dell’enzima della via alternativa, ma parallelamente possono andare incontro a catabolismo e degradazione da parte di proteine regolatrici [5].

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La via alternativa, oltre a svolgere il compito primario di ricoprire rapidamente la superficie batterica con elevate quantità del frammento opsonizzante del complemento, C3b, agisce sui tessuti alterati dell’ospite, caratterizzati da cellule che vanno incontro ad apoptosi oppure nei siti di ferite e di infezione.

1.4 La regolazione del sistema del complemento

L’attivazione del complemento è largamente localizzata e confinata sulla superficie su cui è innescata. La sua regolazione assicura che l’attivazione avvenga solo su organismi patogeni e sui tessuti malati dell’ospite: quando le cellule vanno incontro ad apoptosi, il complemento gioca un ruolo positivo, come dimostrato dalla via della Lectina. Alcune proteine simil collagen, quali la

ficolina-2 (L-ficolina) e la ficolina 3 (H-ficolina), oltre a legarsi ai residui di mannosio, fucosio, N-acetilglucosammina, maltosio e glucosio presenti sulla superficie cellulare dei microrganismi

bersaglio, prendono contatto anche con l’acido sialico localizzato sulle cellule apoptotiche, promuovendo la lisi o la fagocitosi delle stesse.

In alcune circostanze può però accadere che i complessi C5b67 si depositino sulle cellule ospiti vicine sane, determinandone la lisi: al fine di prevenire ciò, una molecola regolatrice della via classica del complemento, denominata Clusterina, legandosi al MAC, blocca l'inserimento del complesso nella membrana; un'altra proteina, CD59, limita l'incorporazione delle molecole C8 e C9

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e quindi la formazione dei pori. Inoltre tali complessi possono elicitare vari pathways metabolici e cellulari, l'attivazione dei quali può portare alla produzione di mediatori infiammatori, come prostaglandine e leucotrieni, inducendo uno stato infiammatorio diffuso.

Per assicurare un’efficiente regolazione del sistema del complemento, è necessario il mantenimento dell’integrità delle proteine regolatrici, poichè anomalie a carico delle stesse, possono condurre ad un’eccessiva attivazione del complemento e a stati patologici.

Per ovviare a ciò, le cellule dell’ospite dispongono di sistemi di difesa tali da garantire la propria protezione, ovvero regolatori solubili nel plasma o legati sulla propria membrana cellulare. Alla prima categoria appartengono la serina proteasi C1INH (responsabile dell’inibizione della molecola C1) ed il fattore I, protagonista del clivaggio della catena α delle molecole C3b e C4b, mediato dal cofattore fattore H (fH). Tra le proteine di membrana si ricordano il Complement Receptor 1 (CR1), il Decay Accelerating Factor (DAF) e la Membrane Cofactor Protein (MCP), coinvolti nella degradazione delle C3 e C5 convertasi e nell’inibizione del complesso di attacco alla membrana. La superficie delle cellule ospiti è inoltre protetta dall'azione della C3 convertasi grazie a molecole polianioniche esposte sulla membrana come glicosamminoglicani, eparina e acido sialico, che legando il fH ne facilitano l’interazione con C3b, favorendone l’idrolisi da parte del fattore I. Le mutazioni a carico dei geni codificanti queste proteine, presenti anche in eterozigosi (aploinsufficienza), predispongono i soggetti a sviluppare differenti patologie, come ad esempio la Sindrome Emolitico Uremica atipica (SEUa), la Glomerulonefrite Membranoproliferativa di tipo II e la Degenerazione Maculare correlata all’età (ADM) [5].

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2. Il fattore H

2.1 Caratteristiche strutturali

Il fattore H, formalmente conosciuto come β1H globulina, è una glicoproteina plasmatica a singola

catena, descritta per la prima volta nel 1965 da Nilsson e Müeller-Eberhard come contaminante che co-purificava con le molecole C3 e C5 del complemento. Il nome β1H definiva la mobilità della

proteina nell’immunoelettroforesi effettuata su gel di agar, stratificato su lastra di vetro.

Nel 1976 Whaley e Ruddy dimostrarono il suo ruolo di regolatore della via alternativa del complemento, in fase fluida e sulla superficie delle cellule ed in particolar modo nella regolazione della molecola C3b[6].

Il fH ha una massa molecolare di 155 KDa, è costituita da 1213 amminoacidi ed è espressa costitutivamente nel fegato, ma può essere prodotta localmente da diversi tipi cellulari, quali ad esempio cellule epiteliali del pigmento della retina, endoteliali e staminali mesenchimali, linfociti periferici del sangue, mioblasti, fibroblasti, cellule endoteliali della vena ombelicale, cellule mesangiali glomerulari e neuroni. La produzione extraepatica della glicoproteina è stata interpretata come un meccanismo volto a incrementarne la concentrazione locale, che può condurre ad un vantaggio per la protezione delle cellule ospiti nei confronti dell’attivazione del complemento nei siti di infezione o di infiammazione.

La concentrazione media di fH nel siero di un adulto è di circa 500 μg/ml, sebbene possa variare in un intervallo compreso tra 116 e 800 μg/ml, in seguito a fattori genetici e ambientali. Nei neonati i suoi valori sono inclusi tra i 170 e i 397 μg/ml e la maggior parte dei bambini raggiunge i livelli degli adulti al compimento di un anno di età [7].

Il gene codificante la glicoproteina (CFH) consiste di 23 esoni, è localizzato sul braccio lungo del cromosoma 1, nella porzione 1q322 ed appartiene al cluster dei geni regolatori del complemento (regulators of complement activation gene cluster, RCA).

I geni compresi nell’RCA sono oltre 60 ed organizzati in tandem all’interno di due gruppi; essi codificano per proteine solubili e transmembranali, di cui fanno parte le cinque molecole appartenenti alla famiglia multigenica del fH (Factor H-related molecules, CFHR1-5 o CFHL1-5), sintetizzate prevalentemente nel fegato (Figura 4).

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Fig.4: rappresentazione schematica della collocazione del gene CFH nel cluster RCA.

I geni codificanti il fH e le cinque proteine ad esso correlate giacciono in un segmento centromerico di 360 kb: le analisi di sequenza di questa regione mostrano la presenza di numerose estese duplicazioni geniche, meglio note come ripetizioni a basso numero (low copy repeats o LCRs), che includono differenti esoni del gene CFH e dei geni CFHR1-5 e variano in lunghezza in un range di 1-38 kb, presentando un’omologia nucleotidica compresa tra l’85 e il 97%.

E’ stato ipotizzato che molti geni appartenenti all’RCA siano derivati da eventi di duplicazione genica delle LCR, determinando un elevato grado di identità tra di essi, come è riscontrabile a livello delle sequenze codificanti il fH e le CFHR1-5.

Tale similarità è rinvenibile anche nella loro composizione proteica: il fH e le cinque proteine CFHR1-5 sono infatti costituite da domini proteici globulari, accomunati da un motivo strutturale noto come complement control protein unit (CCP) o short consensus repeat (SCR), unità altamente conservate, costituite, in media, da 60 amminoacidi e separate l’una dall'altra da 3 ad 8 residui amminoacidici spaziatori; ogni unità è generalmente codificata da un singolo esone [8;9]. Nonostante i membri della famiglia del fH differiscano per il numero di SCR, l'elevato grado di identità e di conservazione riscontrato tra le SCR spiega la cross reattività immunologica tra le singole proteine e le comuni funzioni svolte, sebbene ciò possa aumentare la probabilità che si verifichino eventi di conversione genica e ricombinazione non omologa, spesso correlati all'insorgenza di malattie rare, quali ad esempio la SEUa [10].

Il fH è costituito da 20 SCR che gli conferiscono una struttura tipica a filo di perle, capace di ripiegarsi su se stessa; è stato inoltre evidenziato che la sua conformazione può essere influenzata dalla forza ionica e dal pH del microambiente circostante. Ogni dominio è codificato a partire da un singolo esone, ad eccezione della SCR 2 che deriva dagli esoni 3 e 4.

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Fig. 5: modello tridimensionale del fH.

Ogni SCR contiene quattro residui di cisteina che formano due ponti disolfuro Cys1-Cys3 e Cys 2-Cys4 [13].

Analisi di correlazione funzionale e strutturale hanno portato alla specificazione del ruolo svolto dalle differenti SCR e le molecole con cui interagiscono:

Fig.6: rappresentazione grafica delle short consensu repeats del fH.

 I quattro domini N-terminali (SCR 1-4) sono responsabili dell’attività di cofattore poiché legano la molecola C3b rendendola disponibile all’azione del fattore I, una serina proteasi costituita da due catene polipeptidiche collegate da un ponte disolfuro. Il legame del fH con C3b innesca l’attività di questo enzima che scinde la molecola in iC3b ed in altri prodotti di degradazione (C3c, C3dg e C3d).

Il fI esercita la stessa funzione anche su C4, scindendola in C4a e C4b.

Sono presenti altri siti di legame per C3b all'interno dei domini 12-15 e 19-20; gli ultimi due interagiscono anche con iC3b e con il frammento C3d.

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Tutte le SCR di legame al C3b promuovono anche la sua dissociazione dalla C3bBb convertasi.

Alcuni studi hanno dimostrato che le SCR19 e 20, a differenza delle altre considerate, sono le sole in grado di legare la molecola C3b quando essa sia immobilizzata sulla superficie delle cellule ospiti: utilizzando infatti un anticorpo che mostra affinità per le SCR C-terminali, l’intera glicoproteina perde la capacità di inattivare la molecola del complemento a livello delle membrane cellulari, pur mantenendo inalterata tale funzione in fase fluida.  Le SCR6-10 e 16-20 contengono siti di legame per i glicosaminoglicani (GAG), lunghe

catene polisaccaridiche, non ramificate, costituite da ripetizioni di disaccaridi con differenti gradi di solfatazione. Essi rappresentano i principali costituenti della matrice extracellulare e si ritrovano anche sulle cellule ospiti. Mutazioni e polimorfismi a carico di queste SCR sono strettamente correlati con l’insorgenza di patologie, quali la SEUa e la degenerazione maculare correlata all’età (ADM)[14].

 Le SCR 12-14 si legano alla molecola C3c, prodotto della degradazione di iC3b.

 A livello dei domini 7, 9-15 e 19-20 sono presenti i siti di legame per le molecole polianioniche, localizzate sulla superficie delle cellule ospiti, come l’eparina e l’acido sialico.

Il legame con l’eparina è stato dimostrato dagli studi di Blackmore e coll., i quali trasfettando cellule eucariotiche con vettori di espressione recanti sequenze mutate del gene CFH che interessavano i suddetti domini, hanno rilevato una consistente diminuzione della sua capacità di legare l’eparina.

Un’ulteriore conferma è stata ottenuta nel 1998 da Prodinger e coll. impiegando un anticorpo monoclonale, che legandosi ad un epitopo presente nelle SCR19 e 20, inibiva il riconoscimento della molecola di eparina da parte del fH [15].

L’interazione delle SCR 18-20 con le molecole polianioniche ed i frammenti C3b/C3d induce la formazione di multimeri della proteina, che assicurano la protezione di ampie regioni della superficie delle cellule ospiti, in particolar modo quelle renali e dell’occhio, grazie anche alla flessibilità e alla forma estensibile della proteina, limitando pertanto l’anomala deposizione di C3b, in seguito all’attivazione della via alternativa del complemento [7;10].

L’acido sialico, espresso sulla superficie delle cellule ospiti, è essenziale per lo svolgimento delle funzioni del fH. Numerosi studi si sono concentrati sull’importanza del mantenimento dell’integrità strutturale e funzionale delle SCR19-20, dal momento che rappresentano la chiave delle interazioni del fH con le cellule ospiti, di cui ne assicurano la protezione nei

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confronti di un’eccessiva attivazione della via alternativa del complemento.

Nel 2000 Panburg et coll., in seguito ad esperimenti di delezione della porzione C-terminale della proteina di fH, hanno evidenziato una riduzione di 50 volte della capacità di legame della stessa con cellule rivestite di C3b e polianioni.

Ferreira e Panburg nel 2007 hanno dimostrato che la forma ricombinante di queste SCR (rH19-20) compete con il fH wild-type nel legame con le molecole polianioniche, con conseguente incremento dell’attivazione del complemento sulle superfici cellulari. Analisi condotte da Pickering e coll. nel 2008 su topi transgenici per il gene CFH, deleto nei 4 domini C-terminali, hanno mostrato una netta riduzione della protezione dei tessuti renali da parte del fH nei confronti dell’attacco del complemento, senza tuttavia alterarne la regolazione in fase fluida. Queste osservazioni portano dunque a concludere che le mutazioni a carico dei domini C-terminali, sebbene non inducano modifiche nella struttura dell'intera proteina, comportano alterazioni nel riconoscimento della cellula ospite e in altre funzioni svolte, che possono correlare con l’insorgenza di alcune patologie, come la SEUa.

Nel plasma umano è possibile rinvenire un prodotto proteico secondario derivante dal gene CFH, il factor H- like 1 (FHL-1), ottenuto da un evento di splicing alternativo dell’mRNA. Tale proteina ha una dimensione di 43 kDa, è presente nel plasma ad una concentrazione di 10-15 μg/ml ed è stata rinominata reconectina, dal momento che svolge le funzioni di fattore di adesione (simil fibronectina). La proteina FHL-1 regola inoltre la via alternativa del complemento in fase fluida, analogamente a quanto svolto dal fH. Il processo di trascrizione che porta alla codifica del fH e di FHL-1 ha inizio nello stesso punto ed è regolata dal medesimo promotore, tuttavia, la proteina FHL-1 si ottiene in seguito allo splicing dell’esone 10, che non partecipa alla sintesi del fH intero. La sequenza risultante è dunque identica ai 7 domini N-terminali del fH ed include un’estensione di quattro aminoacidi nella porzione C-terminale [10].

In Figura 7 la struttura del fH e della proteina FHL-1 sono messe a confronto.

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2.2 Funzioni svolte dal fH

Il fH limita l’attivazione della via alternativa del complemento, sia in fase fluida che sulla superficie cellulare e la sua azione inibitoria ha come conseguenza la riduzione del numero di molecole di C3b funzionalmente attive, che si realizza secondo tre modalità:

previene la formazione della C3 convertasi della via alternativa (C3bBb) legandosi al frammento C3b e sfavorendo l’interazione tra questo e il fB;

accelera la dissociazione delle C3 convertasi (C3bBb);

agisce come cofattore del fI nella conversione proteolitica della molecola C3b.

In fase liquida il C3b inattivato (iC3b), privato di qualsiasi potenziale emolitico o di amplificazione, può essere ulteriormente degradato nei frammenti C3d e C3c ad opera del fI e con l’ausilio del Recettore 1 del complemento (CR1).

In Figura 8 si riportano le fasi della degradazione della molecola C3b.

Fig.8: Schema degli step di degradazione della molecola C3b.

La regolazione della via alternativa del complemento sulle cellule ospiti è garantita dalla possibilità di discriminare tra strutture “attivanti” e “non attivanti”. L’affinità del fH è relativamente alta per le molecole di C3b depositate sulle strutture ospiti, definite anche come “non attivanti”, viceversa manifesta un’affinità relativamente più bassa per il C3b presente sui target esogeni (strutture attivanti) e quindi interferisce meno con le fasi successive della cascata del complemento, che conducono all’opsonizzazione ed alla lisi della cellula bersaglio. L’inattivazione di C3b, sulla

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superficie cellulare delle cellule dell’ospite, è resa più efficace dalla presenza di molecole polianioniche come acido sialico, eparina e dai glicosamminoglicani, che interagendo con i domini 19 e 20 del fH, ne facilitano l’assemblamento in tetrameri,incrementano notevolmente la sua affinità per la molecola del complemento e potenziano le sue funzionalità. La mancanza di tali molecole sulla superficie microbica sfavorisce la tretamerizzazione del fH, incrementando l’attività della via alternativa del complemento.

Il riconoscimento di tali markers sulla superficie cellulare, oltre a rendere più efficace la regolazione del complemento durante la normale omeostasi, limita i danni derivanti dalla deposizione della molecola C3b su cellule e tessuti malati. Infatti, le cellule che vanno incontro ad apoptosi reclutano tale molecola del complemento per favorire un'efficiente opsonizzazione di loro stesse, al fine di essere rimosse mediante fagocitosi: l'intervento del fH diviene essenziale per inibire un'eccessiva attivazione del complemento, che potrebbe comportare il rilascio di autoantigeni dannosi per le cellule sane.

L’importanza del mantenimento dell’integrità del fH è stata dimostrata nello scenario di tutta una serie di malattie, come ad esempio l’encefalomielite autoimmune, l’aterosclerosi, l’insulina resistenza, la nefropatia da cisplatino, un farmaco utilizzato nel trattamento di carcinomi della vescica, delle ovaie, dei testicoli, della cervicale e del polmone. Un esempio di ciò è rappresentato dal successo derivante dall’utilizzo della molecola chimerica ricombinante fattore H-CR2 (fH-CR2) come agente terapeutico nel trattamento dell’artrite indotta da anticorpi contro il collagene, nella riperfusione da ischemia intestinale e nella neurovascolarizzazione coroidale in modelli animali. La molecola ricombinante ha dimostrato la sua efficacia anche nella riduzione dello stress ossidativo e dei danni mediati dal complemento nelle cellule epiteliali del pigmento della retina, in vitro.

Una strategia elaborata contro il complemento ed analoga a quella delle cellule ospiti, viene messa in atto da cellule batteriche patogene e dai lieviti (Borrelia, Neisseria e Candida): esse esprimono sulla loro superficie molecole capaci di interagire con il fH ed acquisiscono in tal modo un'evidente resistenza nei confronti dell'ospite [10];

Sono state anche messe in evidenza altre funzioni del fH:

induce il rilascio del fI dai Linfociti B, in seguito alla stimolazione indotta dal legame con uno specifico recettore, localizzato sulla superficie cellulare [6];

studi recenti dimostrano che agisce come cofattore della proteasi ADAMTS-13: i domini 15-20 del fH sono coinvolti nella degradazione dei multimeri del fattore di Von Willebrand,

(protagonisti della cascata della coagulazione), ad opera della proteasi. Il legame del fH al fattore della coagulazione induce un cambiamento conformazionale, tale da rendere disponibile il sito di taglio alla proteasi. Mutazioni a carico dei residui C-terminali del fH

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riducono l’efficienza di degradazione del VWF ad opera di ADAMTS-13 e sembrano essere responsabili dell’insorgenza di microangiopatie trombotiche nei pazienti affetti da SEUa, attraverso un meccanismo indipendente dal sistema del complemento [16].

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3. Le Malattie Rare

3.1 Concetto di patologia rara

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che il numero delle malattie rare (MR) ammonta a circa 7000-8000; tuttavia negli Stati Uniti le patologie considerate tali sono 1.109, secondo il NORD (National Organization for Rare Disorders), 2.117 secondo l’ORD (Office for

Rare Diseases), mentre il database europeo Orphanet ne propone una lista di circa 5.000.

La mancanza di un criterio di definizione unanimemente condiviso a livello mondiale e di codici identificativi nei sistemi di classificazione, come ad esempio all’interno dell’International

Classification of Diseases, pongono dei problemi nella stima della frequenza di tali patologie.

Inizialmente non esisteva nemmeno una definizione uniforme di malattia rara: l’Unione Europea definiva tale una patologia con una prevalenza (numero di individui malati sulla popolazione totale in un dato momento temporale) non superiore ad 1 caso su 2000. Attualmente alcuni paesi europei mantengono opinioni difformi: il Regno Unito non identifica le MR, ma stabilisce strategie di intervento in base alla domanda ai servizi sanitari specialistici nella popolazione.

Complessivamente le MR sono caratterizzate da bassa prevalenza nella popolazione, elevata eterogeneità e grado di complessità, differenza nell’età di insorgenza ed eziopatogenesi. Esse infatti possono essere causate da infezioni (batteriche o virali), allergie, fattori degenerativi, neoproliferativi o teratogeni (sostanze chimiche, radiazioni,…). E’ stato però stimato che l’80% abbia un’origine genetica e tra queste si riscontrano forme tumorali rare, malattie autoimmuni e malformazioni congenite.

Nella maggior parte dei casi si tratta di patologie gravi o molto gravi, degenerative e letali e dunque complessivamente disabilitanti, che conducono i pazienti alla progressiva perdita di autonomia. Lo studio di tali malattie è reso difficoltoso dal numero ridotto di soggetti affetti e dalla limitata trattazione a livello scientifico, che rendono peraltro ostica la formulazione di una diagnosi esatta in tempi utili, spesso associata all’assegnazione di terapie sbagliate con conseguenti effetti iatrogeni o collaterali.

La mancanza di trattamenti idonei è strettamente correlata al ridotto mercato e allo scarso interesse commerciale da parte delle industrie farmaceutiche, essendo il numero di pazienti limitato ed i costi della ricerca e della produzione molto alti rispetto al guadagno finale. Il fatto poi che l’80% delle malattie rare sia di origine genetica, implica lo sviluppo di prodotti di alta tecnologia, i cui costi di sviluppo aumentano proporzionalmente alla complessità della patologia.

Tuttavia nel corso degli anni la sensibilizzazione nei confronti di tali problematiche è notevolmente aumentata fino ad arrivare alla realizzazione dei cosiddetti farmaci orfani o orphan drugs.

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3.2 Definizione di farmaco orfano

L’espressione “farmaco orfano” è stata introdotta per la prima volta nel 1983, per descrivere un trattamento terapeutico mirato a pazienti affetti da malattie rare e, nello stesso anno, negli Stati Uniti è entrata in vigore l' “Orphan Drug Act” o “Legge sui farmaci orfani”, che definiva il farmaco orfano in rapporto alla prevalenza della malattia per la quale era stato indicato, pari allo 0,01% della popolazione totale.

In Giappone sono state adottate politiche in materia a partire dal 1985 e la legislazione considerava rara una patologia se i soggetti colpiti erano meno di 10.000; nel 1993 è stato lanciato un nuovo programma di incentivi per lo sviluppo di farmaci orfani che ha innalzato la soglia a meno di 50.000 soggetti colpiti; considerando che questo stato conta circa 120 milioni di abitanti, ciò corrisponde ad una prevalenza inferiore a circa 4 casi su 10.000 abitanti.

In Australia la regolamentazione delle patologie rare è entrata in vigore a partire dal 1998, ed il criterio di prevalenza stimava che i soggetti colpiti non dovevano essere più di 2.000, valore corrispondente a 1.1 casi su 10.000, in una popolazione di 19 milioni di abitanti.

In Europa, con la Risoluzione del Parlamento europeo del 23 aprile 2009, è stato imposto un limite

di prevalenza non superiore a 5 casi per ogni 10.000 abitanti.

Il farmaco orfano è dunque quel prodotto potenzialmente utile per trattare una malattia rara, ma privo del mercato sufficiente per ripagare le spese del processo che hanno condotto al suo

sviluppo e pertanto è generalmente privo di uno sponsor, ovvero di un'industria pronta ad investire su un medicinale destinato a pochi pazienti.

Oltre ai prodotti destinati al trattamento delle MR, rientrano nella categoria di farmaco orfano tutti quei prodotti non sviluppati perchè non brevettabili o con ridotto mercato e quelli ritirati per ragioni economiche e terapeutiche, ma che si sono dimostrati efficaci nel trattamento di tali patologie. Perché un prodotto possa ottenere la designazione di farmaco orfano, la malattia per la quale è stato sviluppato deve essere non solo rara, ma il suo trattamento deve costituire una priorità per il sistema sanitario [17;18].

3.3 Le politiche dell’Unione Europea in termini di malattie rare

Nel 1999 la Comunità Europea ha iniziato a considerare le malattie rare come settore prioritario di un’azione comunitaria nell’ambito della sanità pubblica ed il 29 aprile dello stesso anno, il Parlamento ed il Consiglio Europeo hanno approvato la Decisione N.1295/1999/CE.

Lo scopo di tale progetto comunitario era quello di migliorare le conoscenze scientifiche (incentivando la creazione di una rete europea d’informazione per i pazienti e le loro famiglie), la

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formazione e l’aggiornamento degli operatori sanitari (facilitando la diagnosi precoce) e il monitoraggio delle malattie rare negli Stati Membri.

Nel 2000 il Parlamento ed il Consiglio Europeo hanno adottato il Regolamento [(CE) N.141/2000], con lo scopo di offrire incentivi per la ricerca, favorendo lo sviluppo el’immissione in commercio dei farmaci orfani e l’istituzione di una procedura comunitaria destinata all’assegnazione di una loro qualifica.

Tale regolamento definiva i parametri per poter considerare rara una malattia: una patologia è tale quando colpisce non più di 5 individui su 10000 appartenenti all’Unione Europea ed è inserita nell’elenco previsto dal regolamento di istituzione della Rete Nazionale ed in elenchi regionali stabiliti con parere del Comitato Nazionale per le malattie rare.

Nello stesso anno con il regolamento N° 847/2000 sono stati definiti i criteri per la designazione di farmaco orfano ovvero sono considerabili tali “tutti quei medicinali destinati alla diagnosi, profilassi e terapia di un’affezione rara per la quale non esistono metodi soddisfacenti di diagnosi, profilassi e terapia autorizzati dalla Comunità Europea”. L’art. 4 di questo regolamento prevedeva l’istituzione del comitato per i medicinali orfani o COMP (Committee on Orphan Medicinal

Products) all’interno dell’Agenzia Europea per i farmaci (EMA, European Medicines Agency, www.ema.europa.eu), con il compito di esaminare le domande di designazione dei farmaci ed

assistere la Commissione nelle relative discussioni.

Al fine di favorire lo sviluppo dei farmaci orfani, gli articoli 8 e 9 del (CE) n. 141/2000 definivano gli incentivi a cui hanno diritto le case farmaceutiche produttrici di tali medicinali:

assistenza da parte dell’EMEA nella redazione dei protocolli per dimostrare la qualità, la sicurezza e l’efficacia del medicinale prodotto;

facilitazioni economiche per l’ottenimento dell’autorizzazione all’immissione in commercio del prodotto e in caso non vi siano alternative terapeutiche valide, possibilità di effettuare una richiesta di autorizzazione temporanea all’uso del farmaco (ATU) o un Uso compassionevole dello stesso per un gruppo di pazienti, quando il farmaco abbia superato solo la fase II di sperimentazione clinica;

esclusiva di mercato per dieci anni al fine di recuperare parte degli investimenti necessari per lo sviluppo del prodotto;

diritto delle imprese a ricevere incentivi messi a disposizione dalla Comunità Europea e dagli Stati membri ai fini di promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’immissione in commercio di farmaci orfani.

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le politiche nazionali degli Stati Membri in ambito sanitario e contribuire all’incremento delle azioni solidaristiche tra questi.

Nel 2004 è stata istituita la Rare Disease Task Force (RDTF) presso la Direzione Generale Salute e Consumatori dell’Unione Europea (EU-DG Health and Consumer), con Decisione della Commissione 2004/192/EC del 25 febbraio 2004 sul programma “Community action in the field of

public health”. La RDTF, costituita dai responsabili dei progetti di ricerca e sanità pubblica sulle

MR finanziati dalla CE, da esperti provenienti dagli Stati Membri, rappresentanti dell’Agenzia Europea dei prodotti medicinali e delle Associazioni dei pazienti, ha il compito specifico di assistere la CE nella promozione delle strategie migliori per la prevenzione, diagnosi e trattamento delle patologie rare, coordinando le azioni su scala europea.

L’11 dicembre 2008, nell’ambito del Secondo Programma di azione Comunitaria (2008-2013), la Commissione Europea ha pubblicato la comunicazione COM (2008) 679: «Malattie rare: una sfida per l'Europa», con cui si definiva una strategia comunitaria di supporto agli Stati Membri permettendo loro di adottare azioni personali nella diagnosi, trattamento e cura dei pazienti, assicurando la codifica e la rintracciabilità delle MR in tutti i sistemi informativi sanitari, incentivando la partecipazione dei ricercatori nazionali a progetti finanziati e individuando i centri di riferimento per il trattamento delle MR nel territorio nazionale.

Nel 2010 con la Decisione della CE n.2009/872/EC, la Rare Disease Task Force è stata sostituita dal Comitato europeo di esperti sulle malattie rare (European Union Committee of Experts on Rare

Diseases) EUCERD, il cui obiettivo è attualmente quello di coadiuvare la Comunità Europea

nell’elaborazione ed attuazione delle azioni comunitarie, in collaborazione e consultazione con gli Stati Membri e le autorità competenti in materia di ricerca e azione di sanità pubblica [19].

3.4 L’Italia e le malattie rare

In Italia le direttive europee sulle MR sono state recepite con il Decreto legislativo del 29 aprile 1998 n.124, il cui scopo era quello di tutelare la salute dei cittadini, garantendo l’accesso ai servizi e definendo i criteri di esenzione dal pagamento delle prestazioni, in relazione alle condizioni economiche.

Con il Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 sono stati istituiti centri specialistici cooperanti per favorire una diagnosi appropriata e tempestiva delle malattie rare, al fine di promuovere le

attività di prevenzione, sostegno alla ricerca scientifica e accessibilità ai farmaci. Nell’ambito di tale progetto, il Decreto Ministeriale del 18 maggio 2001, n.279 (DM 279/2001) ha

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è costituita da Presidi regionali che assicurano lo scambio di informazioni, grazie al Registro Nazionale delle Malattie Rare (RNMR) ed ai registri locali o regionali.

La finalità dell’ RNMR era quella di consentire la programmazione nazionale e regionale degli interventi volti alla tutela ed alla sorveglianza dei pazienti, stimare l’incidenza e la prevalenza delle malattie rare, caratterizzandone la distribuzione sul territorio nazionale.

Negli anni successivi, i Piani di Salute Nazionale 2001-2003, 2003-2005 e 2006-2008 hanno condotto all’istituzione del Gruppo tecnico interregionale, con lo scopo di garantire il coordinamento e l’operatività ai Presidi regionali e ai percorsi diagnostico-terapeutici, invitando le Regioni a realizzare collaborazioni tra i Presidi per la diagnosi e cura, al fine di garantire ai pazienti un’assistenza omogenea su tutto il territorio nazionale.

L’Accordo del 2007 tra Governo, Regioni e le Province autonome “sul riconoscimento di Centri di coordinamento regionali e/o interregionali, di Presidi assistenziali sovraregionali delle malattie rare”, ha definito competenze e funzioni dei Centri di Coordinamento regionali/interregionali, riguardanti la gestione dei Registri, il coordinamento dei Presidi per la diagnosi, la terapia, l’assistenza, la consulenza a medici del SSN e l’informazione. L’obiettivo dell’accordo era anche quello di raccogliere un set di dati da parte di tutte le Regioni da inviare all’ISS, con lo scopo di attivare i registri regionali entro il 31 marzo 2008, garantendo il collegamento con l’RNMR e di redigere rapporti annuali.

Con il Decreto Ministeriale del 15 aprile 2008 sono stati individuati i Centri interregionali di riferimento e nello stesso anno è stato istituito il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) con il Decreto del Presidente dell’ISS con lo scopo di svolgere attività di ricerca, consulenza e documentazione sulle patologie rare e sui farmaci orfani; presso questo ente viene conservato il Registro Nazionale[19].

3.5 Le malattie rare correlate ad anomalie del gene CFH

Fin dal 1990 molti studi si sono concentrati sull’ identificazione di anomalie a carico del gene codificante il fH e di altri componenti della via alternativa del complemento, correlate all'insorgenza di diverse malattie rare.

Tra queste si evidenziano la Sindrome Emolitico Uremica atipica (SEUa o aHUS) e la Glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo II (MPGN II) che hanno come target preferenziale il rene e la Degenerazione maculare associata all'età (AMD), il cui bersaglio è la retina.

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3.5.1 La Sindrome Emolitico Uremica atipica

La Sindrome Emolitico Uremica è una malattia rara della quale si possono distinguere due tipologie:

- la SEU tipica o STX-SEU è associata ad infezioni sostenute da ceppi di E.Coli ed in particolare dal sierotipo 0157:H7, che producono tossine chiamate Shiga-like, per la similarità strutturale con quelle rilasciate dai ceppi batterici di Shigella.

L’infezione avviene generalmente attraverso l’ingestione di latte, carne e acqua contaminati e tramite il contatto diretto con animali e persone infette o con i loro escrementi. Le tossine raggiungono le pareti intestinali ed inducono colite emorragica e diarrea, spesso ematica; successivamente diffondono nel circolo sanguigno e danneggiano il rivestimento interno della parete dei vasi sanguigni (endotelio), inducendo l’aggregazione piastrinica con formazione di trombi ed ostruzione dei vasi. I globuli rossi vanno incontro ad emolisi urtando contro questi aggregati con conseguente insorgenza di anemia. I principali organi colpiti sono il cervello, i reni, il fegato, il cuore e l’intestino, ma è nei primi due che si realizzano i danni maggiori, dal momento che i vasi sanguigni hanno un calibro ridotto (microcircolo) e per tale motivo sono suscettibili all’occlusione da parte dei trombi con compromissione della circolazione sanguigna.

In Italia l’incidenza annua complessiva della STX-SEU è stimata intorno a 2,1 casi ogni 10000 persone. Questa forma colpisce soprattutto i bambini ed è tra le prime cause di insufficienza renale acuta nei primi 5 anni di vita; l’80% dei casi guarisce e tra questi il 50% senza alcuna conseguenza futura o riportando anomalie urinarie minori (proteinuria e/o microematuria) nel 20-25%. Il 15-20% può presentare un’insufficienza renale di grado variabile, che può regredire o condurre a morte nel 5% [21].

- La SEU atipica è la forma più rara, ma contemporaneamente più severa, che rende conto di circa il 5-10% di tutti i casi. Negli Stai Uniti ha un’incidenza annuale di circa 2 casi per 1.000.000 di persone, in Europa 1/10000 e colpisce prevalentemente individui con età compresa tra 0 e 18 anni.

L’EMA (European Medicines Agency) ha stimato approssimativamente a 3.3 milioni il numero di individui colpiti con età inferiore ai 18 anni. La malattia interessa dunque prevalentemente i bambini ed i giovani adulti, come dimostrato da uno studio condotto da Sellier-Leclerc e coll. su una coorte di 46 pazienti: il 70% di questi manifestava i primi sintomi prima del compimento del 2° anno di età, mentre il 17% prima del 3° mese di vita, senza distinzione di sesso; viceversa nell’età adulta la patologia si manifesta soprattutto

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nelle donne [4].

La SEUa è definita familiare quando viene diagnosticata in almeno due soggetti appartenenti al medesimo nucleo familiare; sporadica quando uno o più episodi della malattia si presentano in un individuo di cui non è nota alcuna storia familiare [21;22]. Studi biochimici e genetici hanno recentemente documentato che nel 60-70% dei casi le forme familiari sono associate ad anomalie a carico di geni codificanti le proteine della via alternativa del complemento, quali ad esempio la molecola C3 o regolatori di questo pathway, come i fattori B ed I, le proteine CFHR e nel 23-27% dei casi sono state

identificate mutazioni nella porzione C-terminale del gene CFH [23]. In tali condizioni i livelli della molecola C3b non possono essere mantenuti bassi e quando il

sistema del complemento viene attivato eccessivamente, la deposizione di C3b sulle superfici cellulari, ed in modo specifico su quelle renali, non può essere efficacemente contrastata.

La malattia è caratterizzata dall’insorgenza di anemia emolitica microangiopatica, trombocitopenia e insufficienza renale acuta.

I capillari e le arteriole glomerulari, ricche in polianioni, rappresentano il principale bersaglio della patologia e divengono oggetto di lesioni profonde, che vanno sotto il nome di “microangiopatia trombotica” e si manifestano sottoforma di ispessimento, infiammazione e contrattura della parete vascolare, come confermato dai livelli elevati dell’enzima lattato deidrogenasi (LDH), ostruzione del lume vasale, accumulo di proteine, detriti cellulari e materiale amorfo nel sottoendotelio a causa del rigonfiamento e del distacco delle cellule endoteliali dalla membrana basale. La presenza di piastrine degranulate e morfologicamente alterate contribuisce all’occlusione del lume vasale a livello del microcircolo, oltre a ridurre il numero di quelle circolanti (trombocitopenia). I trombi piastrinici che ne derivano partecipano alla distruzione meccanica degli eritrociti e sono i principali responsabili dell’insorgenza di anemia, che comporta l’aumento di emoglobina libera circolante e contribuisce alla presenza di reticolociti. L’analisi dello striscio di sangue periferico rende conto del quadro emolitico in quanto gli eritrociti risultano danneggiati e frammentati (schistociti) [21,22,24]. Le molecole polianioniche a livello dell’endotelio fenestrato del glomerulo e della membrana basale renale, in condizioni normali, conferiscono protezione nei confronti di un’incontrollata deposizione della molecola C3b, poiché legano il fH che protegge tali tessuti dall’azione dei prodotti attivati del complemento, invece incrementata in caso di anomalie funzionali a carico del gene CFH [21].

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(end- stage renal disease o ESRD) e sebbene i vasi sanguigni a livello renale risultino i più colpiti, la microangiopatia trombotica si estende anche a livello del microcircolo di altri organi, quali cervello, cuore, intestino, pancreas e polmoni, determinando l’insorgenza di una sintomatologia extrarenale. I sintomi più frequenti sono di tipo neurologico nel 48% dei casi ed includono irritabilità, sonnolenza, confusione, convulsioni, encefalopatia, emiparesi e coma; nel 25 % dei casi i soggetti vanno incontro a morte durante la fase acuta della malattia [25]. Sono stati anche descritti casi di infarto del miocardio, cardiomiopatie, coliti, nausea, dolori addominali.

3.5.1.1 Relazione tra la SEUa e le mutazioni a carico del gene CFH

Le prime evidenze sperimentali che hanno dimostrato un consistente coinvolgimento del gene CFH nell’insorgenza della SEUa, sono derivate dal lavoro di Warwicker e coll. nel 1998, studiando la segregazione genica in tre famiglie affette da tale patologia. Essi osservarono una correlazione tra la comparsa della malattia e i disordini a carico della regione cromosomica 1q32, dove mappa il gene in questione.

Nel 2004 è stato istituito il database interattivo delle mutazioni a carico del gene CFH correlate all’insorgenza della SEUa, una risorsa centrale di informazione per la comprensione delle possibili ragioni che stanno alla base dell’elevata eterogeneità della patologia.

Nel 2006 erano note complessivamente 54 alterazioni geniche; successivamente ne sono state identificate altre 16, 11 delle quali da parte di laboratori in reciproca collaborazione. In Spagna, con l’impiego della tecnica del sequenziamento automatico del DNA, Pérez-Caballero e coll. sono giunti all’individuazione di 4 nuove mutazioni negli esoni del gene del fH di soggetti affetti dalla patologia. Nel 2010 le tecniche di sequenziamento diretto del DNA impiegate da Caprioli e coll. hanno permesso di rinvenire 2 nuove alterazioni in pazienti italiani.

Attualmente sono note più di 100 varianti genetiche derivanti dall’analisi di oltre 400 pazienti affetti da SEUa familiare e sporadica. Il database è disponibile all’indirizzo www.FH-HUS.com e viene mantenuto ed aggiornato dal Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare dell’University College of London [26].

In alcuni soggetti sono state anche riscontrate anomalie a carico del Sistema Immunitario che portano alla formazione di autoanticorpi contro il fH.

La trasmissione della patologia è di tipo autosomica dominante ed i pazienti sono generalmente eterozigoti, ovvero portatori di un singolo allele mutato del gene CFH, ma complessivamente la malattia si esprime nel 30% dei soggetti ed è quindi caratterizzata da una bassa penetranza. Sebbene

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il picco di espressione sia generalmente rinvenuto nei bambini o nei giovani adolescenti, sono stati resi noti casi di soggetti che hanno manifestato i sintomi della SEUa soltanto in età adulta, presentando solo occasionalmente lunghe remissioni della malattia. In altri casi le persone portatrici di mutazioni non hanno mai sviluppato la patologia, pertanto è stato ipotizzato che alterazioni nei meccanismi di regolazione del complemento possano predisporre ad essa, ma l'evento acuto possa essere scatenato direttamente da infezioni virali o batteriche ed indirettamente da farmaci, gravidanza o malattie autoimmuni. Sebbene le mutazioni possano insorgere in tutte le 20 SCR del fH, le porzioni C-terminali rappresentano siti hotspot, ovvero altamente suscettibili all’insorgenza di alterazioni genetiche.

Fig.9: Mutazioni nel gene CFH correlate allo sviluppo della SEUa.

In particolare il 75% di tali mutazioni è stato rinvenuto nei domini 19 e 20, regioni critiche per la regolazione del complemento sulla superficie delle cellule ospiti e per limitare la deposizione della molecola C3b sulle cellule endoteliali vascolari.

Le mutazioni del gene del fH correlate con la SEUa possono essere suddivise in tre tipologie:

1) mutazioni missenso, determinate dalla sostituzione di un amminoacido con un altro dotato di caratteristiche diverse. Esse non comportano variazioni nei livelli della proteina circolante, ma ne riducono l'attività di cofattore e la capacità di interazione con le cellule, dal momento che essendo ridotta l’affinità di legame per le molecole polianioniche (eparina e acido sialico) e per il C3b, limitano il suo ruolo di regolatore della via alternativa del complemento sulle superfici cellulari. Come detto precedentemente al paragrafo 1.2.1, tali

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