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Neuroprotezione da xenon nell'ictus acuto. Il progetto MITICX

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE E SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA

NEUROPROTEZIONE DA XENON NELL’ICTUS ACUTO

RELATORE Chiar.mo Prof. Francesco Giunta CANDIDATA Valentina Tedeschi ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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S

OMMARIO

1 INTRODUZIONE ... 1

2 L’ICTUS ... 4

2.1 Epidemiologia: le dimensioni del problema ictus ... 4

2.2 Fattori di rischio e prevenzione ... 9

2.3 Fisiologia cerebrale e neuropatologia ... 11

2.4 Clinica ... 19

2.5 Le neuroimmagini ... 21

2.6 Trattamento ... 23

2.6.1 Trattamento in acuto e danno da riperfusione ... 23

2.6.2 Terapie in fase di studio ... 27

2.6.3 Il post-acuzie ... 29

3 LO XENON ... 31

3.1 Caratteristiche dei gas nobili ... 31

3.2 Impiego dei gas nobili in medicina ... 33

3.3 Xenon: uno straniero molto versatile ... 35

3.4 I primi studi: da elemento sconosciuto a promettente anestetico ... 36

3.5 La Neuroprotezione da xenon ... 40

3.5.1 Gli studi in vitro ... 41

3.5.2 Gli studi in vivo ... 44

3.5.3 Meccanismo d’azione ... 52

4 STUDIO CLINICO: IL PROGETTO MITICX ... 67

4.1 Disegno sperimentale ... 69 4.1.1 Obiettivi primari ... 71 4.1.2 Obiettivi secondari ... 72 4.1.3 Analisi statistica ... 72 4.2 Risultati ... 73 4.3 Discussione ... 82 5 CONCLUSIONI ... 89 BIBLIOGRAFIA ... 91

(3)

Alla mia famiglia,

che mi ha supportata

e sopportata in ogni momento

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1 INTRODUZIONE

In una società in cui l’età media è aumentata notevolmente, le malattie vascolari rivestono un ruolo preminente e l’ictus è una delle principali espressioni di questo problema, rappresentando la prima causa di invalidità e la terza di morte.

Se è vero che l’ictus interessa prevalentemente l’anziano, è anche vero che vi sono molti giovani esposti allo sviluppo di tale patologia, ma sia che si tratti di un giovane padre di famiglia o di un anziano di successo, le conseguenze, se non mortali, lasciano un segno indelebile che costringe queste persone a modificare inesorabilmente la loro vita, perdere la loro autonomia e gravare sulla famiglia.

Vista l’incidenza della malattia, oggi si cerca di prevenirla con lo stile di vita e con profilassi farmacologica nei pazienti che hanno fattori di rischio non modificabili. Un’associazione importante si ha con la fibrillazione atriale, ma vi sono molte altre condizioni, diabete, infarto, coagulopatie, ipertensione, malformazioni, iperlipidemia. Tra l’insorgenza dei sintomi e la chiamata d’aiuto può passare un tempo variabile, poiché mentre alcuni pazienti si spaventano e chiamano rapidamente i soccorsi, altri sottovalutano il disturbo e ritardano in maniera importante la diagnosi. Nel momento in cui viene posto il sospetto clinico di ictus, si procede rapidamente all’esecuzione di una TC del cranio, che consente di confermare o escludere un sanguinamento acuto, informazione necessaria per decidere quale iter terapeutico intraprendere. Se la TC risulta negativa per lesioni emorragiche, si pone diagnosi di ictus ischemico e si valuta la possibilità di attuare la terapia fibrinolitica, il cui utilizzo è indicato dalle linee guida, ma risulta applicabile solo in una bassa percentuale di pazienti, a causa di criteri rigidi, in particolare una finestra temporale che non deve superare le 4 ore e mezzo dall’esordio.

Per quanto si possa agire rapidamente, i neuroni interessati dall’ischemia non sono più recuperabili, e visto il SNC non è un tessuto dotato di capacità rigenerativa, come gli altri tessuti, è mandatorio ridurre la perdita al minimo possibile. La possibilità di contenere l’estensione del danno correla con l’esistenza di una zona danneggiata in maniera meno grave il cui destino può essere modificato da interventi tempestivi. Dove

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l’ischemia produce danni gravi, a carico di membrane e citoscheletro, le cellule muoiono nell’arco di pochi minuti, configurando il core ischemico che evolverà rapidamente in infarto.1 Nell’area circostante si realizza una condizione di oligoemia che produce danni moderati sulle cellule, le quali manifestano alterazioni dell’attività elettrica, ma sono ancora vitali e possono essere recuperate se si interviene entro poche dall’esordio. Questa particolare area di disfunzione reversibile è detta penombra ischemica2 ed è l’obiettivo di strategie di riperfusione e neuroprotezione.

L’eccitotossicità è un meccanismo chiave nella produzione del danno neuronale, motivo per cui sono stati studiati vari farmaci in grado di inibire il recettore NMDA.

Alla fine dell’‘800 viene scoperto un gas raro, lo xenon, dalle proprietà interessanti: viene usato come anestetico per la prima volta intorno al 1950 con risultato favorevole e, in seguito, gli studi ne hanno dimostrato la capacità di precondizionare organi, in particolare il cuore, in quanto si associa ad un profilo cardiovascolare migliore di molti farmaci anestetici.

L’anestesia con xenon3

permette di mantenere la pressione arteriosa relativamente costante e, in pazienti cardiochirurgici, si rilevano minori quantità di miociti persi rispetto ad anestesia con tutti gli altri farmaci anestetici.

La stabilità cardiocircolatoria, unita alla capacità di inibire il recettore NMDA, ha stimolato l’interesse circa l’efficacia protettiva dello xenon sul SNC e molti studi riportano esiti positivi. Da queste osservazioni nasce l’ipotesi di utilizzare lo xenon come neuroprotettore in pazienti con danno neurologico acuto, in particolare l’ictus. In questo contesto nasce il progetto di lavoro MITICX (Miglioramento Terapia Ictus con Xenon), il quale si propone di dimostrare se la somministrazione precoce di xenon e ossigeno, è in grado di produrre un vantaggio rispetto alla somministrazione di una

1 Kaufmann AM, Firlik AD,Fukui MB, et al., Ischemic Core and Penumbra in Human Stroke, Stroke.

1999;30:93-99

2

Astrup J, Siesjö BK, Symon L, Thresholds in cerebral ischemia - the ischemic penumbra, Stroke. 1981;12:723-725

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miscela di aria e ossigeno, in termini sia di recupero funzionale qualitativo sia di tempo, con possibile risparmio sulla degenza.

Sarà oggetto di questa tesi verificare se una breve somministrazione di xenon, entro poche ore dall’esordio dei sintomi, sia in grado di ridurre la disabilità correlata all’ictus nel medio-lungo termine.

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2 L’ICTUS

2.1 Epidemiologia: le dimensioni del problema ictus

La patologia cerebrovascolare occupa ad oggi una posizione molto importante nel panorama sociosanitario globale, rappresentando la seconda causa di morte nel mondo e la terza nei paesi industrializzati, preceduto solo da tumori e malattie cardiovascolari, e si conferma la prima causa di invalidità e la seconda di demenza.

I dati disponibili non permettono di affermare con certezza quale sia l’incidenza dell’ictus nel mondo, tuttavia sono sufficienti per richiamare l’attenzione dell’OMS. Secondo le statistiche dell’American Heart Association,4

negli USA 7.000.000 di persone sopra i 20 anni hanno avuto un ictus e si ritiene che la prevalenza sia destinata ad aumentare, raggiungendo nel 2030 una prevalenza con 4 milioni di casi in più rispetto al 2010 (circa il 25%).

L’ictus viene definito dall’OMS come «una sindrome caratterizzata dall’improvviso e rapido sviluppo di sintomi e segni riferibili a deficit focale delle funzioni cerebrali senza altra causa apparente se non quella vascolare; la perdita della funzionalità cerebrale può essere globale (pazienti in coma profondo). I sintomi durano più di 24 ore o determinano il decesso» (SPREAD 2007).5

L’incidenza negli USA è di 795.000 casi all’anno, di cui 610.000 nuovi eventi e 185.000 recidive. Sebbene non vi sia perfetta concordanza sul rischio legato al sesso, in genere le donne sono colpite da ictus ad un’età più avanzata rispetto all’uomo (75 anni la donna contro 71 anni per l’uomo). Nel 2008 i costi indiretti e diretti ammontavano a 34,3 miliardi di dollari.

4

Roger VL, Go AS, Lloyd-Jones DM, et al., Heart Disease and Stroke Statistics--2012 Update: A Report From the American Heart Association, Circulation. 2012;125:e2-e220

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In Italia si verificano 200.000 ictus ogni anno, di cui l’80% è rappresentato da nuovi episodi. Nella popolazione anziana (65-84 anni) il tasso di prevalenza è del 6,5%, leggermente più alto nell’uomo (7,4%) rispetto alla donna (5,9%).6

L’ictus è responsabile del 10-12% di tutti i decessi dell’anno: la mortalità a 30 giorni da un ictus ischemico è del 20% e del 30% a 1 anno; nel caso di ictus emorragico la mortalità sale al 50%. I disturbi circolatori acuti dell’encefalo causano più morti dell’infarto del miocardio (7,28 contro 4,95 x 10.000 abitanti).

Dei pazienti sopravvissuti, solo il 25% guarisce completamente, mentre gli altri residuano deficit di vario grado che possono compromettere gravemente l’autosufficienza.

La prevalenza degli attacchi ischemici transitori, TIA, è stimata in 5 milioni di persone. Circa il 15% di tutti gli ictus sono preceduti da TIA, con un rischio del 10% di svilupparlo entro 2 giorni e del 17% entro 90 giorni. Vi sono dati che riportano l’associazione del TIA con l’aumento del rischio di morte a 10 anni per cause cardiovascolari o ictus che complessivamente ammontano al 43%. Entro 1 anno dal TIA muore il 12% dei pazienti, inoltre sembra che in un terzo dei TIA residui un infarto rilevabile alla RM di diffusione.

Dai dati 2005-2008 si rilevano ogni anno circa 130.000 DRG 14 (ictus) e circa 65.000 DRG 15 (TIA). Sommando i dati, il disturbo cerebrovascolare acuto si colloca al quarto posto come frequenza di dimissione. I dati raccolti fanno riferimento alle schede di dimissione ospedaliera (SDO) e si ritiene che siano una stima per difetto in quanto non sempre vi è una corretta compilazione, raccolta e trasmissione dei dati, inoltre non sono compresi i pazienti che non giungono in ospedale perché troppo lievi o troppo gravi ed evidentemente deceduti a domicilio, e non sono comprese le diagnosi di ictus (DRG 14) inserite nella scheda SDO come seconda o terza diagnosi.

Solo 750 pazienti con ictus ischemico possono esser trattati con terapia trombolitica, cioè lo 0,4% di tutti gli ictus e il 13% degli ictus teoricamente trattabili con la trombolisi.

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I 129.000 dimessi nell’anno 2005 hanno assorbito risorse per 1.576.411 giornate di degenza, cui si aggiungono i 61.991 dimessi con diagnosi di TIA, i quali hanno assorbito 438.896 giornate di degenza. Nel 2005 il DRG 14 è stato l’ottavo per frequenza di dimissione, che sommato al DRG 15 è responsabile di 191.194 ricoveri, collocando il disturbo cerebrovascolare acuto al quarto posto. I dati relativi al 2008 sono simili e, sebbene il DRG 14 scenda al sesto posto, la somma dei DRG 14 e 15 rimane al quarto posto.

La classificazione delle malattie cerebrovascolari si basa su criteri fisiopatologici, che individuano due grandi categorie: l’ictus ischemico, su base tromboembolica, che rappresenta l’80-85% dei casi, e l’ictus emorragico, suddiviso principalmente in emorragia intraparenchimale e subaracnoidea, nel restante 15-20%.

Ogni anno in Italia abbiamo circa 160.000 ictus ischemici, di cui il 20% (32.000) sono recidive. Escludendo i casi mortali entro 6 mesi e i casi con guarigione completa, si ipotizzano circa 80.000 ictus ischemici con deficit grave o gravissimo.

L’età è il fattore che più si correla all’incidenza dell’ictus, sebbene non sia l’unico. Si ritiene che entro il 2020 i casi di ictus siano destinati ad aumentare di pari passo con l’invecchiamento della popolazione. In Italia nella fascia compresa tra 0 e 44 anni l’incidenza è 13/100.000 e la prevalenza di 65/100.000, tra 45 e 54 anni l’incidenza sale a 82/100.000 e la prevalenza a 410/100.000, mentre tra 75 e 84 anni raggiungono rispettivamente 2224 e 8796/100.000. In particolare si rileva che la prevalenza passa da 5.000 in soggetti con età inferiore a 75 anni a oltre 10.000/100.000 abitanti negli ultraottantenni: dunque ¾ degli ictus avvengono dopo i 65 anni e di questi più della metà oltre 75 anni, con un interessamento maggiore del sesso maschile, circa 20% in più rispetto alla donna. L’uso di cocaina, oggi non così raro, aumenta la probabilità di ictus di circa 14 volte rispetto a chi non fa uso di droghe.

La mortalità acuta per ictus ischemico si valuta a 28 giorni dall’esordio ed è del 20%. La mortalità a distanza, valutata a 12 mesi, è legata agli esiti dell’ictus e l’invalidità che ne deriva si misura con scale dedicate, come la National Institutes of Health Stroke Scale (NHISS). I pazienti con quadro clinico lieve senza compromissione dell’autonomia funzionale hanno una mortalità a 12 mesi del 14,6%, che diventa 19,9% se il quadro clinico è medio e 35% se è grave.

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La mortalità nella prima settimana in genere è dovuta a cause cerebrali, più frequentemente un’ernia transtentoriale per edema massivo della zona infartuale. Nella seconda settimana la morte si deve a problematiche cardiache (scompenso, infarto) o complicanze internistiche (infezioni polmonari e urinarie). Le complicanze cardiache sono più frequenti negli ictus ischemici dell’emisfero destro, soprattutto se coinvolgono le regioni dell’insula. Dopo tre settimane dall’esordio la causa di morte è da riferire in genere a cause infettive, anziché vascolare, come infezioni urinarie e polmonari.

Il 35% dei pazienti con ictus ischemico mostra demenza vascolare dopo 12 mesi. Nei prossimi anni si prospetta un aumento della mortalità per ictus, stimando un raddoppio nel 2020. La mortalità acuta (30 giorni) dopo ictus è circa 20-25%, mentre quella a un anno ammonta al 30-40%; le emorragie hanno tassi di mortalità precoce più alta (30-40% circa dopo la prima settimana; 45-50% ad un mese).

Nel trattamento dell’ictus ischemico, l’unico farmaco approvato per la trombolisi sistemica è l’alteplase, ma richiede criteri piuttosto stringenti e non è privo di complicanze: complessivamente rispetto agli importanti numeri dell’ictus ischemico, nel 2008 e 2009 sono stati trattati solo 1200 pazienti per anno, dunque meno dell’1% degli ictus ischemici hanno ricevuto il trattamento.

Il 10-15% dei pazienti con TIA ha un nuovo evento ischemico entro 90 giorni, nel 10% dei casi fatale o disabilitante. Il rischio di ricorrenza è maggiore nei primi 4 giorni, nel 50% si verifica nelle prime 48 ore.

Da non sottovalutare l’aspetto economico: nel 2005 la degenza media dell’ictus è di 12,2 giorni (129.203 ricoveri che hanno assorbito 1.576.411 giornate di degenza), mentre per il TIA è di 7,08 giorni (61.991 ricoveri con 438.896 giornate di degenza). I ricoveri per ictus consumano oltre un milione di giornate di degenza l’anno e il 50% riporta esiti per i quali si prevedono almeno quattro milioni di giornate di degenza in riabilitazione. A queste si aggiungono, in molti casi, spese socio-assistenziali per tutta la vita. Ad un anno dall’evento, sia ischemico o emorragico, un paziente su tre residua un grado di disabilità elevato, che lo rende totalmente dipendente.

Il costo medio dell’assistenza in Italia è circa 6.000 euro a testa per i primi tre mesi dopo l’evento e arriva a circa 10.000 euro nei primi sei mesi.

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Solo in Toscana7 si stima una spesa di 45 milioni di euro all’anno, considerando 250 nuovi casi/100.000/anno. A queste spese si devono sommare quelle che dureranno per il resto della vita del paziente, poiché circa il 35% degli ictus esita in disabilità gravi e l’assistenza di cui hanno bisogno è onerosa per il singolo e per la comunità, senza dimenticare il ruolo dei caregivers.

Oltre al trattamento dell’evento, si deve lavorare sulla prevenzione dell’ictus, che passa sicuramente per lo stile di vita e il buon controllo delle patologie già presenti, ma si deve intervenire nell’ambito dell’informazione, estendendo quanto più possibile le conoscenze basilari dell’ictus. I dati infatti dimostrano che nella popolazione i sintomi della malattia sono poco conosciuti, soprattutto all’aumentare dell’età. Non è raro che i pazienti si presentino in Pronto Soccorso a distanza di qualche giorno dall’evento, precludendo le possibilità di trattamento, già limitate. Il ritardo nella presentazione si deve al mancato riconoscimento di segni e sintomi da parte del paziente o dei suoi familiari, oppure al tempo perso a chiamare il medico di famiglia per un consulto o ancora si aspetta che l’anomalia passi da sola. Le associazioni attive nella prevenzione dell’ictus si mobilitano per diffondere queste conoscenze, ma il risultato ancora non è soddisfacente.

Nel ritardo di diagnosi complessivo si devono prendere in considerazione più componenti, che si possono schematizzare come segue:

1. tempo di consapevolezza: dall’insorgenza dei sintomi alla consapevolezza che qualcosa non va;

2. tempo di aiuto: entro il quale viene chiamato il medico; 3. tempo di accesso: impiegato per arrivare in ospedale.

Particolare attenzione deve essere rivolta al TIA, poiché è seguito entro 90 giorni da ictus in una percentuale che va dallo 0,6% al 20,6%. L’ampio intervallo si deve probabilmente alle differenze di reclutamento e disegni sperimentali. La rapida attuazione di una terapia farmacologica antiaggregante, l’impiego di anticoagulanti nella patogenesi presumibilmente cardioembolica, l’uso di statine in prevenzione

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secondaria e l’adeguata terapia antipertensiva sono verosimilmente efficaci nel ridurre il rischio di ictus ischemico dopo un TIA, addirittura dell’80% secondo alcuni studi.

2.2 Fattori di rischio e prevenzione

L’ictus è una patologia tipica dell’età adulta e anziana, in particolare il rischio aumenta dopo i 55 anni e raddoppia ad ogni decade. Vi sono molti fattori modificabili sui quali si deve soffermare l’attenzione, la regola generale è più o meno la stessa per tutti, cioè mantenere uno stile di vita sano, riducendo grassi, alcol, fumo, evitando stupefacenti e aumentando l’attività fisica. Per coloro che hanno già patologie di base si consiglia di mantenere un buon controllo delle stesse con le opportune terapie, in particolare si fa riferimento a cardiopatie, diabete mellito, ipertensione. Vi sono poi fattori per i quali non è stata documentata l’associazione certa con l’ictus, ma si pensa che possano in qualche modo favorirla. Infine si consideri che, sebbene non vi siano ancora risultati certi, è possibile che alcuni fattori di suscettibilità genetica possano essere ereditari. Il TIA costituisce un fattore di rischio al punto che è stata studiata una scala, l’ABCD2 score, con cui si stima il rischio di ictus a 2 giorni. Un punteggio medio-alto pone indicazione al ricovero e all’inizio della profilassi con terapia antiaggregante. Secondo alcuni dati, il 30% dei pazienti con infarto cerebrale ha avuto in precedenza un TIA e il 25% dei pazienti che hanno avuto un TIA avrà un infarto cerebrale nei successivi 5 anni, di questi il 10% lo avrà entro 3 mesi, di cui la metà entro 48 ore.

Si noti che le linee guida, anche quelle più recenti, non danno indicazione all’uso di farmaci neuroprotettori, ma nonostante i numerosi fallimenti riportati finora sull’uomo, la ricerca va avanti su nuovi fronti e lo xenon potrebbe essere uno di questi.

Nell’ictus ischemico il trattamento con rt-PA (attivatore tissutale ricombinante del plasminogeno) è una buona risorsa, ma non è sufficiente perché si è visto che solo una piccola percentuale ne può beneficiare, questo perché uno dei criteri più limitanti è il tempo intercorso dall’esordio dei sintomi, che non deve superare le 4 ore e mezzo. Il problema riguarda tutti i pazienti in cui l’esordio non è databile, in particolare coloro che al mattino si svegliano sintomatici, dunque il danno si è verificato di notte, ma non si sa quando. Una recente review ha messo in luce gli aspetti dell’ictus al risveglio,

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ponendo l’ipotesi che questo tipo di lesione insorga poco prima del risveglio e quindi potrebbe essere passibile di rivascolarizzazione.8 Infatti, in modo simile all’infarto del miocardio e alla morte improvvisa, anche l’ictus presenta un ritmo circadiano, con una maggior incidenza al mattino, senza differenza di tipo, anche se alcuni studi rilevano un andamento bimodale nell’ictus emorragico, che presenta un secondo picco nel pomeriggio. Sebbene i meccanismi non siano del tutto noti, sembra che il picco pressorio del mattino sia un fattore di rischio indipendente. La pressione arteriosa di notte è più bassa e subisce un brusco innalzamento al risveglio sotto la spinta adrenergica e vi sono soggetti che tendono ad avere una risposta esagerata. Questo può influire, ad esempio, su una placca aterosclerotica, aumentando la probabilità di rottura. La terapia antipertensiva può avere il suo peso, poiché se la somministrazione avviene la sera, la copertura si estende anche al mattino, attenuando il picco. Anche l’aggregazione piastrinica aumenta al mattino, probabilmente stimolata dall’aumento della conta o dell’adesione piastrinica o dall’emoconcentrazione, mentre altri studi ipotizzano alterazioni mattutine legate alla funzione endoteliale, alla concentrazione del fibrinogeno, all’esercizio fisico. Un fattore predisponente può essere, secondo alcuni studi, la sindrome delle apnee ostruttive del sonno (OSAS), poiché le apnee più o meno lunghe inducono uno stato di ipossia cerebrale cui fa seguito l’attivazione simpatica, con ripercussioni sul profilo cardiovascolare e possibile ictus al risveglio. Per trovare una soluzione al dilemma sono state indagate differenze e somiglianze nei quadri clinici e nelle neuroimmagini (TC o RM) di pazienti con ictus databile e pazienti con ictus presente al risveglio valutati entro 24 ore dall’ultima volta che sono stati visti normali. Molti studi concludono che i quadri sono simili e pertanto si può ipotizzare l’esordio poco prima del risveglio, sebbene vi siano dei risultati discordanti che non permettono di fare tale affermazione con assoluta certezza. Un’analisi del 20069

ha messo a confronto l’andamento circadiano degli eventi cerebrovascolari, disegnando curve specifiche per ictus ischemico, ictus emorragico, emorragia subaracnoidea, da cui deriva un generale andamento bimodale durante le ore diurne. L’ictus ischemico presenta un

8 Wouters A, Lemmens R, Dupont P, Thijs V, Wake-up stroke and stroke of unknown onset: a critical

review, Front Neurol. 2014 Aug 12;5:153

9

Omama S, Yoshida Y, Ogawa A, Onoda T, Okayama A, Differences in circadian variation of cerebral infarction, intracerebral haemorrhage and subarachnoid haemorrhage by situation at onset, J Neurol Neurosurg Psychiatry 2006;77:1345–1349

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picco al risveglio e un secondo picco meno marcato nel pomeriggio, mentre gli eventi emorragici disegnano due picchi più simili ed evidenti. Durante la notte apparentemente l’incidenza è bassa in ogni caso, ma se si includono i pazienti che presentano sintomi al risveglio, si trova una aumento del 10% per ictus emorragico ed ESA, che incide poco sulla curva, mentre gli eventi ischemici notturni aumentano del 20%, modificando la curva al punto di far scomparire il punto di nadir. I meccanismi che sottendono questo tipo di patologie probabilmente sono legati alla pressione arteriosa e alla funzione emostatica, ma anche ad altri fattori; la pressione si riduce di notte, proteggendo il SNC da rotture e sanguinamenti, ma diventa un fattore di rischio per l’ictus ischemico, visto che si riduce la perfusione cerebrale, soprattutto se si associa alle OSAS. Uno stato di ipercoagulabilità sembra esser più evidente al mattino, in linea con l’elevata incidenza dell’ischemia, mentre protegge dall’emorragia.

Il tempo che intercorre tra l’esordio e la richiesta di soccorso è più breve nell’ictus emorragico rispetto all’ischemico probabilmente perché la sintomatologia è più eclatante. La Cincinnati Prehospital Stroke Scale (CPSS) è uno strumento semplice ma efficace, poiché è sufficiente la positività di un solo criterio per porre il sospetto di ictus. La consapevolezza è un punto fondamentale su cui far leva per incrementare le possibilità terapeutiche per questi pazienti, che molto spesso non possono beneficiare del trattamento proprio perché si perde troppo tempo nella fase preospedaliera, per questo è importante l’attività di informazione e promozione della salute a partire dalle aziende sanitarie.

2.3 Fisiologia cerebrale e neuropatologia

Il circolo cerebrale arterioso si basa su due sistemi, carotideo e vertebrale, tra loro comunicanti in modo da garantire un migliore adattamento in caso di necessità. Nonostante l’encefalo costituisca il 2% del peso corporeo (1,5 kg in media), richiede il 15% della gittata cardiaca, ossia 775 ml/min, che corrispondono a circa 55 ml/min/100g, considerando che le richieste della sostanza grigia sono maggiori rispetto alla sostanza bianca e si aggirano sui 100 ml/min/100g.

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La vascolarizzazione della corteccia cerebrale è di tipo terminale, con rami che penetrano perpendicolarmente nel tessuto senza anastomizzare tra loro. La densità capillare cerebrale è tra le più alte, insieme a quella del muscolo scheletrico e del miocardio, circa 3000 capillari/mm2 (3.000 – 4.000 capillari/mm2 per la sostanza grigia e 1.200-2.000 capillari/mm2 per la sostanza bianca).10 Le cellule endoteliali sono saldate da giunzioni serrate e i capillari, privi di fenestrazioni, sono circondati dai pedicelli terminali degli astrociti: l’insieme costituisce la barriera ematoencefalica (BEE), che regola gli scambi tra tessuto cerebrale e sangue. Il sangue refluo viene raccolto in un sistema venoso privo di valvole che confluisce nei seni venosi della dura madre. Il tono vascolare è regolato in parte dall’innervazioni estrinseca e in parte intrinseca. Un ruolo importante spetta al monossido d’azoto (NO), una molecola gassosa altamente diffusibile e a breve emivita prodotta a livello cerebrale sia dall’endotelio sia dalle terminazioni nervose che prendono contatto con arteriole e capillari. Si tratta di un potente vasodilatatore che agisce per stimolazione della guanilato ciclasi nelle cellule muscolari vasali: l’aumento del cGMP riduce la concentrazione di calcio e fa rilasciare le miofibrille, producendo vasodilatazione e aumento del flusso ematico. La produzione di NO da parte dell’endotelio è stimolata dagli estrogeni mentre è ridotta nell’ipertensione, nell’ipercolesterolemia, nel diabete mellito e in tutte le condizioni di disfunzione endoteliale. Esso è responsabile della vasodilatazione che accompagna l’ipercapnia e forse l’ipossia, ma non contribuisce alla risposta vasodilatatoria di natura autoregolatoria all’ipotensione sistemica; forse è coinvolto come mediatore nell’accoppiamento tra flusso ematico locale e attività neuronale. La sua inibizione determina riduzione significativa del flusso a riposo e maggiore suscettibilità all’ictus. La regolazione del circolo cerebrale ha lo scopo di adattare il flusso ematico cerebrale (CBF) alle necessità metaboliche del tessuto (accoppiamento flusso-metabolismo) sia di proteggere il cervello da insulti sistemici, quali fluttuazioni di pressione arteriosa, variazioni di pO2, pCO2, pH.

Nell’accoppiamento flusso-metabolismo, il consumo energetico cerebrale è stato posto in relazione con l’attività nei terminali sinaptici e con la spesa energetica necessaria per la ricaptazione del glutammato e per la sua conversione a glutamina da parte degli

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astrociti. In realtà sembra che la spesa energetica della sostanza grigia sia volta al ripristino dei gradienti ionici dissipati dagli eventi postsinaptici e dai potenziali d’azione. La pressione di perfusione cerebrale si calcola come differenza tra pressione sistemica e pressione intracranica (PIC). Quanto la PIC supera i 30 mmHg ne risulta un’ischemia che stimola l’area vasomotrice bulbare, con aumento delle resistenze periferiche e incremento della pressione arteriosa sistemica (riflesso di Cushing). L’autoregolazione nel distretto cerebrale è molto efficiente e garantisce l’indipendenza del CBF dalle variazioni di pressione arteriosa sistemica, purché questa resti entro un range che normalmente ha come limiti 50 e 150 mmHg: in questo modo se la pressione arteriosa aumenta, i vasi cerebrali si costringono, viceversa se la pressione si riduce, come in caso di emorragia, si dilatano, mantenendo costante il flusso cerebrale. Ciò è fondamentale perché bruschi picchi ipertensivi possono causare rottura della BEE e edema, mentre un’ipotensione importante causa ipoperfusione che si accompagna a segni di ischemia, sebbene vi sia l’aumento dell’estrazione di ossigeno. Il sistema simpatico può spostare a destra la curva, determinando un effetto protettivo anche per valori pressori superiori a 150 mmHg, ma alza anche il limite inferiore, esponendo a un maggior rischio di ipoperfusione; tale spostamento si osserva tipicamente nel soggetto iperteso. In condizioni di danno cerebrale si può osservare una perdita dell’autoregolazione, che significa esporre passivamente il SNC alle variazioni della pressione sistemica. La regolazione del flusso cerebrale è sensibile alla composizione chimica del sangue, principalmente CO2, O2 e pH. L’aumento di PaCO2 comporta la dilatazione dei vasi cerebrali, aumentando il CBF, così come l’ipossia e l’acidosi, sebbene in misura minore rispetto all’ipercapnia, al fine di mantenere invariato il metabolismo.

Nel tessuto cerebrale esiste una correlazione stretta tra densità capillare, flusso ematico e consumo di glucosio. Nella sostanza grigia l’attività metabolica è più elevata e, infatti, la densità capillare è maggiore, il che significa un maggior flusso ematico basale. In condizioni di attivazione non aumenta il numero di capillari perfusi, ma il numero di capillari perfusi da eritrociti. Si deve considerare che a livello cerebrale, in condizioni basali, i capillari sono tutti perfusi da plasma, mentre la perfusione eritrocitaria non è completa: in fase di attivazione metabolica, ma anche nell’ipossiemia acuta, aumenta il numero di capillari perfusi da eritrociti, in modo da incrementare la concentrazione arteriosa di ossigeno.

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La BEE mantiene costante l’ambiente interno del SNC, proteggendolo da tossine endogene ed esogene e impedendo il passaggio di neurotrasmettitori nel circolo sistemico. Il trasporto paracellulare e la transcitosi sono praticamente assenti, perciò le sostanze arrivano al liquido interstiziale mediante diffusione semplice o trasportatori specifici.

Una riduzione del flusso prolungata determina un infarto cerebrale soprattutto nelle aree di irrorazione a confine tra due arterie; nei casi gravi si realizza un’ipossia globale cui fanno seguito sintomi neurologici che configurano un quadro di encefalopatia ipossico-ischemica. Nell’80% dei casi la causa è un’ostruzione al flusso, dunque un ictus ischemico, mentre nel 20% si ha un sanguinamento intraparenchimale (10%) o subaracnoideo (5%).

L’ictus ischemico.

L’occlusione di un vaso intracranico determina una riduzione del flusso ematico nella regione cerebrale da esso irrorata, la cui entità è funzione della vascolarizzazione collaterale, che a sua volta dipende dall’anatomia vascolare individuale e dalla sede di occlusione:

 l’azzeramento del flusso causa morte cerebrale entro 4-10 minuti;

 flusso<16-18 ml/100g/min porta a infarto entro un’ora;

 flusso<20 ml/100g/min causa ischemia ma non infarto, a patto che l’ipoperfusione non si protragga per ore o giorni.

Se il flusso viene ristabilito prima che si verifichi una cospicua morte neuronale, il paziente può mostrare solo sintomi transitori, perciò si parla di TIA. Dove l’occlusione è prolungata, l’ischemia produce morte cellulare (infarto) e i sintomi permangono per più di 24 ore, fino a lasciare segni per tutta la vita.

L’occlusione di un vaso priva il tessuto a valle di ossigeno e glucosio, cui le cellule rispondono modificando il metabolismo cellulare in senso anaerobico, che non garantisce una produzione sufficiente di energia per il funzionamento delle pompe di membrana, di conseguenza queste si bloccano, causando una rapida alterazione dell’omeostasi ionica. In particolare viene colpito lo scambiatore Na/K, da cui dipende

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l’accumulo di sodio intracellulare, cui fa seguito l’ingresso di acqua, quindi sviluppo di edema citotossico in un contesto di acidosi metabolica. Tali modificazioni comportano l’accumulo di calcio intracellulare e un aumentato rilascio di neurotrasmettitori eccitatori che stimolano in maniera massiva i recettori postsinaptici, i quali incrementano a loro volta l’ingresso di calcio nella cellula, causando disfunzione mitocondriale che esita nella morte per necrosi o apoptosi. 11

Una componente fondamentale nello sviluppo del danno neuronale è l’eccitotossicità. Il principale neurotrasmettitore eccitatorio del SNC è il glutammato, il quale esercita il suo ruolo interagendo con recettori specifici, sia ionotropici che metabotropici. Il danno in questione fa riferimento ad un tipo particolare appartenente alla prima categoria, il recettore NMDA, un canale permeabile a sodio e calcio e necessario per la trasmissione del segnale. In condizioni fisiologiche il glutammato viene rilasciato dalla terminazione presinaptica, stimola il recettore sulla terminazione postsinaptica e viene rapidamente rimosso dal vallo sinaptico da parte degli astrociti, i quali lo convertono in glutamina: in questa forma può rientrare all’interno del neurone, pronta per essere di nuovo trasformata in glutammato. La rimozione del neurotrasmettitore dal vallo sinaptico è essenziale per garantire la giusta stimolazione cellulare. In condizioni patologiche, come può essere l’ischemia, il blocco delle pompe presenti sulla membrana neuronale determina la depolarizzazione della cellula, aprendo le porte al calcio che stimola l’esocitosi massiva di glutammato: questo evento, accompagnato dal ridotto reuptake da parte delle cellule gliali, comporta l’attivazione smisurata dei recettori NMDA, cui fa seguito l’ingresso di grandi quantità di calcio, elemento trigger per i meccanismi di apoptosi.

Alterata omeostasi e eccitotossicità sono dunque alla base di un infarto cerebrale, tenendo presente che questo sviluppa in due fasi:

 nella fase immediata del danno, una certa quantità di cellule muore per necrosi, conseguenza delle gravissime lesioni a carico del citoscheletro e delle membrane, e vanno a costituire il core ischemico, non più recuperabile;

11

Namura S, Ooboshi H, Liu J, Yenari MA, Neuroprotection after cerebral ischemia, Ann N Y Acad Sci. 2013 March ; 1278: 25–32

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 nella fase tardiva le cellule che hanno riportano lesioni subletali sono ancora vitali e disfunzionali in modo reversibile: queste cellule costituiscono la zona di penombra ischemica, obiettivo primario della neuroprotezione. Si tratta di un’area di oligoemia che circonda il core ischemico, ma che può essere recuperata se il flusso viene ristabilito; tuttavia, se permane lo stato di ipoperfusione, le funzioni residue consentono l’attivazione dei programmi di morte cellulare, quindi l’apoptosi nell’arco di giorni o settimane. Gli effetti dell’ischemia sono drammaticamente peggiorati da iperpiressia e iperglicemia (>200 mg/dl) che bisogna pertanto prevenire il più possibile.

Le cellule alterate attivano la trascrizione di geni di risposta allo stress, che conducono alla produzione o iperespressione di fattori di sopravvivenza, quali Bcl-2, Akt, CREB (cAMP response element–binding protein), di immunomodulatori in situ, principalmente citokine, e al richiamo di cellule immunitarie nel tessuto cerebrale. Le cellule necrotiche rilasciano acidi nucleici e altro materiale, dando luogo a pattern associati al danno (DAMPs), che stimolano reazioni infiammatorie e immunitarie. Nel corso dell’infiammazione vi è l’attivazione di proteine come le metalloproteasi, che aggrediscono la BEE e la matrice extracellulare, peggiorando il danno con edema vasogenico ed emorragie. Tuttavia la riperfusione e l’attivazione delle cellule immunitarie portano all’elaborazione da parte degli astrociti di fattori di sopravvivenza cellulare, in preparazione al successivo stadio riparativo che coinvolge neurogenesi, vasogenesi e gliosi.12

Nella fase di danno secondario è possibile evidenziare i marcatori di apoptosi, la quale si attiva in due modi: attraverso i recettori di morte o la via mitocondriale. I recettori di morte vengono attivati da TNF (che lega TNFR) e Fas-ligando (che lega il recettore Fas), dai quali dipende l’attivazione della caspasi 8, che inizia il programma di apoptosi. Nella via mitocondriale gli agenti stimolanti (farmaci antitumorali, radiazioni, radicali dell’ossigeno) inducono il rilascio di citocromo c dai mitocondri, attivando la caspasi 9, iniziatrice della cascata. Le caspasi 8 e 9 determinano l’attivazione delle caspasi 3 e 7. I risultati ottenuti dal plasma di sette pazienti colpiti da ictus, senza altre patologie concomitanti, mostra l’innalzamento di TNF, sia nella forma solubile sia nella forma di

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membrana, rispetto ai controlli.13 Si è riscontrata una differenza statisticamente significativa nel rilascio di sTNF tra chi aveva lesioni della sostanza grigia e chi nella sostanza bianca, mentre mTNF non differiva in modo importante. Il rilascio di sTNF correla inoltre con l’aumentata attività delle caspasi 3 e 7, suggerendo un ruolo nella progressione dell’ischemia cerebrale, e il rilascio è maggiore nelle lesioni della sostanza grigia rispetto alla bianca, probabilmente perché la prima è più ricca di cellule.

La riperfusione si deve alle vie di supplenza oppure alla lisi o alla mobilizzazione del coagulo, soprattutto nell’ictus di origine embolica. Trattandosi di riduzione del flusso, si parla di infarti ischemici, ma si possono verificare infarcimenti emorragici in occasione della riperfusione delle aree circostanti l’area di necrosi, le quali hanno perso la capacità di autoregolazione e non riescono a bloccare il flusso mediante vasocostrizione, così il sangue inonda l’area necrotica, rendendo difficile la distinzione con l’emorragia. La trasformazione emorragica di un infarto può avvenire spontaneamente, sebbene alcuni fattori possano favorirla, quali terapie anticoagulanti, fibrinolisi, disostruzione carotidea o anastomosi temporo-silviane effettuate nella fase acuta dell’infarto.

Le cause più comuni di ischemia cerebrale sono da correlare alla patologia dei vasi carotidei e cerebrali, oppure a emboli di origine cardiaca, frequentemente associati al riscontro di fibrillazione atriale. Macroscopicamente non è visibile alcuna lesione nelle prime 6 ore. Tra 6 e 36 ore la zona lesa si rammollisce, diventa più pallida e il confine tra sostanza bianca e sostanza grigia diviene più sfumato. Nel corso dei giorni successivi si delineano i limiti dell’infarto. La presenza di edema è costante e la sua entità è legata all’estensione dell’infarto, potendo raggiungere livelli tali da determinare compressioni ed erniazioni che compromettono la prognosi. Dopo 1-2 settimane il rigonfiamento si riduce e dopo alcuni mesi il tessuto necrotico viene rimosso, così che la zona infartuta esita in residui cavitari cistici. Spesso più microinfarti danno luogo a queste microcisti, soprattutto in soggetti con vasculopatie cerebrali croniche in cui l’encefalo assume aspetto spongiotico.14

13 Lin CH, Chen M, Sun MC, Circulating apoptotic factors in patients with acute cerebral infarction,

Clin Biochem 2010 Jun;43(9):761-3

14

Kumar V, Abbas AK, Fausto N, Robbins e Cotran. Le basi patologiche delle malattie, 7°ed, Elsevier Masson, 2006

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All’esame microscopico le lesioni ischemiche si evidenziano con nuclei ipercromici e citoplasma retratto a carico dei neuroni e un aspetto congesto dei vasi. Nell’arco di 24 ore si fanno evidenti edema ed infiltrato infiammatorio costituito d neutrofili. La necrosi stimola i macrofagi, che in 2-3 giorni si caricano di frammenti mielinici e formano corpi granulograssosi. Entro una settimana compare la reazione gliale caratterizzata da astrociti reattivi e intensa proliferazione vascolare. Il tessuto necrotico viene completamente rimosso. Gli infarti da deficit cronico di flusso per patologia aterosclerotica dei piccoli vasi configurano infarti lacunari, che danno luogo a piccole lacune di 2-20 mm localizzate nel talamo, nuclei della base e tronco encefalico, associate a distorsione e necrosi fibrinoide delle arterie, oppure infarti incompleti in cui si ha sofferenza ischemica senza necrosi, ma il tessuto cerebrale è rarefatto, spongiotico, edematoso e con intensa proliferazione astrocitaria, ponendo le basi della demenza vascolare tipica dell’anziano.

La PET permette di valutare, all’interno del focolaio ischemico, la perfusione cerebrale, il consumo e il tasso di estrazione di O2 e ciò consente di riconoscere una zona centrale gravemente compromessa, in cui la necrosi è ormai inevitabile, e una zona periferica in cui persiste la “perfusione di miseria”, insufficiente a mantenere un’attività funzionale ma la cui evoluzione verso l’infarto può essere evitata, cioè la penombra ischemica.15

L’ictus emorragico.

I sanguinamenti più frequenti sono intraparenchimali e subaracnoidei. Nei primi la causa più frequente è da ricercare nell’ipertensione, il che spiega l’insorgenza dopo i 50 anni, ma giocano un ruolo importante anche l’angiopatia amiloide dell’anziano e le malformazioni vascolari nel giovane. Le sedi colpite nell’85% dei casi sono gli emisferi, seguiti nel 10% dal cervelletto e nel 5% dal tronco cerebrale. I vasi sottoposti a ipertensione cronica sviluppano alterazioni simili all’arteriosclerosi ma è più specifica per il microcircolo, soprattutto a livello dei nuclei della base. Quando l’emorragia invade i ventricoli diventa anche subaracnoidea.

15

Cambier Jean, Masson Maurice, Henri Dehen, Masson Catherine, Neurologia, 11° ed. Elsevier Masson, 2008

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L’emorragia intraparenchimale spontanea si deve in genere alla rottura di un’arteriola perforante. Alcune sedi sono tipiche dei pazienti ipertesi e si attribuiscono a patologia dei piccoli vasi: putamen, globo pallido, talamo, capsula interna, sostanza bianca periventricolare, ponte, cervelletto.

L’emorragia intracranica comporta un aumento di volume e quindi di pressione che compromette il flusso ematico regionale (rCBF) tanto maggiore quanto più alta è la PIC. Nei casi gravissimi ciò si estende a tutto l’encefalo con alto rischio di morte per arresto del circolo. La formazione di ematomi, soprattutto cerebellari, possono indurre sviluppo di idrocefalo in conseguenza della compressione del IV ventricolo o dell’acquedotto di Silvio. Dall’ischemia peri-ematoma sviluppa un edema, prima citotossico, poi vasogenico, che è aggravato da ipertensione e ipossia.

Nell’emorragia subaracnoidea la causa scatenante solitamente è la rottura di un aneurisma. Gli aneurismi arteriosi cerebrali sacciformi non sono così rari, per la maggior parte sono lesioni acquisite presenti nel 2% della popolazione adulta. Si localizzano più frequentemente alla biforcazione carotidea e nel poligono di Willis, nell’85% dei casi nel circolo anteriore. La rottura può avvenire a un’età variabile, favorita da ipertensione, fumo e alcol. L’evoluzione è imprevedibile: nel 10-20% dei casi l’esordio iperacuto causa la morte prima dell’arrivo in ospedale. La mortalità globale è elevata, circa il 45%, con prognosi più grave per i pazienti sopra i 60 anni o che manifestano da subito deficit importanti. La mortalità è dell’11% nei soggetti vigili e del 71% nei pazienti in coma. Il rischio di recidiva resta molto alto nelle prime settimane e il 10% recidiva entro la prima settimana, il 12% nella seconda e l’11% nel corso del primo anno.

2.4 Clinica

La manifestazione più frequente dell’ictus è un disturbo neurologico focale, di varia gravità ed estensione. Nel caso dell’ischemia, i sintomi si presentano dopo pochi secondi dal deficit energetico, ma se il flusso viene rapidamente ripristinato i deficit sono transitori e si parla di TIA, mentre se l’interruzione dura più di 4-10 minuti, il tessuto a valle evolve in infarto e il deficit permane oltre le 24 ore. La riduzione generalizzata del flusso invece comporta di solito una sincope. Salvo casi eclatanti che

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fanno pensare subito ad un’emorragia cerebrale, non è possibile distinguere sulla base del solo quadro clinico se siamo di fronte a un ictus ischemico o emorragico.

I pazienti colpiti spesso tardano a presentarsi dal medico sia perché raramente accusano dolore sia perché possono perdere la consapevolezza di ciò che sta accadendo loro (anosognosia); l’85% dei pazienti con ictus ischemico presenta emiparesi, altri sintomi possono essere disturbi sensitivo-motori, della vista, del linguaggio, della deambulazione o una cefalea improvvisa e intensa.

Il riconoscimento rapido del disturbo è fondamentale per poterlo trattare quanto prima, ma è altrettanto importante fare diagnosi differenziale16 con le numerose patologie che simulano un ictus ma che richiedono trattamenti diversi:

 crisi epilettiche

 tumori intracranici: possono presentarsi con episodi emorragici, epilettici, idrocefalo

 emicrania: soprattutto forme con disturbi sensitivo-motori o in assenza di cefalea; può esser d’aiuto il tempo di estensione del disturbo dalla sede di origine, che nell’emicrania avviene nell’arco di minuti mentre nell’ictus di pochi secondi, così come la comparsa di sintomi che non rispettano il territorio di distribuzione vascolare

 encefalopatia metabolica: di solito si ha alterazione dello stato mentale senza disturbi focali

 pregressi ictus o lesioni cerebrali che vengono slatentizzate in condizioni di sepsi o iperpiressia, per cui si manifesta il disturbo focale ma regredisce con la guarigione del processo infettivo.

Il paziente che giunge in ospedale può trovarsi in fasi diverse del danno: 17

 ictus maggiore, cioè un quadro neurologico acuto caratterizzato da emiplegia o grave emiparesi associata o meno ad afasia;

16

Fauci AS, Braunwald E et al, Harrison. Principi di medicina interna, 17° ed, McGraw-Hill, 2008

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 ictus in evoluzione, cioè un deficit neurologico che nel giro di ore o giorni progredisce verso un deficit maggiore;

 TIA in crescendo, cioè il susseguirsi di attacchi ischemici transitori ricorrenti e focali nel territorio di irrorazione della carotide interna.

Una volta posta la diagnosi clinica di ictus, il paziente esegue la TC, la quale conferma o esclude la presenza di emorragia; nel caso sia negativa per sanguinamento, si pone diagnosi di ictus ischemico e, se possibile, si procede con la trombolisi.

Sebbene la clinica non permetta di distinguere l’evento ischemico dall’emorragico, vi sono segni che sono più suggestivi del secondo: l’improvvisa cefalea, intensa e diversa da ogni altra mai provata, descrivibile come la peggiore mai avuta, e il vomito, talvolta incoercibile, sono segni di allarme che portano rapidamente il paziente in ospedale e spesso la TC rileva un sanguinamento acuto. Si possono riscontrare anche disturbi di vigilanza, crisi epilettiche, oppure una sindrome meningea quando il sangue passa nello spazio subaracnoideo. L’ischemia si associa più frequentemente a paralisi facciale, deficit di forza in un emilato, disturbi del linguaggio e dello stato di coscienza, ma normalmente non provoca dolore e il soggetto, soprattutto quando i sintomi sono più lievi, non si accorge di nulla o lo fa in ritardo. Vi sono poi quadri atipici, in cui ad esempio la manifestazione è una depressione dell’umore o un rallentamento psicomotorio.

2.5 Le neuroimmagini

Il primo esame eseguito in PS è la TC senza mezzo di contrasto, la cui esecuzione consente di escludere o confermare un’emorragia, che si presenta come iperdensità spontanea, mentre l’ischemia può dare in acuto un risultato TC negativo o mostrare segni precoci: spianamento dei solchi, scomparsa del confine fra sostanza bianca e sostanza grigia, responsabile della scomparsa del nastro corticale e della perdita della visibilità del nucleo lenticolare. Talvolta il trombo intra-arterioso è visibile sotto forma di un’iperdensità spontanea dell’arteria occlusa; in seguito l’infarto diventa visibile sotto forma di ipodensità. La trasformazione emorragica dell’infarto si può evidenziare come un aspetto disomogeneo caratterizzato dall’alternanza di zone ipodense e

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iperdense. L’entità dell’edema può esser stimata dall’effetto massa più o meno pronunciato sul sistema ventricolare.

Nelle fasi successive, seconda-terza settimana, l’iniezione di mezzo di contrasto mette in risalto la lesione, che diventa iperdensa, individuando un’alterazione della BEE. Nell’ESA la sensibilità della TC al sanguinamento acuto dipende dalla tempestività di esecuzione: entro 12 ore si rileva l’iperdensità nel 98% dei casi, ma a 5 giorni è positiva solo nel 58% dei casi, a causa dei fenomeni di lisi che portano alla scomparsa di sangue dagli spazi meningei.

La RM convenzionale offre un quadro molto dettagliato del parenchima, ma non è un esame da eseguire in urgenza. Le sequenze RM pesate in diffusione e perfusione permettono un migliore inquadramento diagnostico e prognostico. L’infarto dà origine a un segnale iperintenso in T2, visibile dapprima nei giri corticali, rigonfi con cancellazione dei solchi, e poi si estende alla sostanza bianca. L’aumento di intensità del segnale in T1 si riscontra nel 20% e si associa alla componente emorragica.

Le immagini RM pesate in diffusione sono sensibili ai movimenti casuali delle molecole d’acqua: quando si instaura un evento ischemico, l’edema citotossico comporta una diminuzione della diffusione delle molecole di acqua con un aumento dell’intensità di segnale e una diminuzione del coefficiente apparente di diffusione. Queste anomalie compaiono nell’arco di pochi minuti, prima delle modificazioni della RM standard e sono indicatori di un’ischemia che evolverà in infarto. Le immagini FLAIR sono sensibili nella rilevazione dell’edema vasogenico che si instaura nelle ore successive all’evento e che riflette la perdita dell’integrità della BEE.18

La RM di perfusione permette di valutare il flusso sanguigno a livello capillare. Un’area con deficit di perfusione più estesa dell’immagine in diffusione identifica un quadro detto diffusion/perfusion mismatch (DWI/PWI mismatch), che corrisponde alla zona di penombra ischemica, la cui evoluzione non necessariamente va verso l’infarto, ma può essere modificata dalla terapia, soprattutto trombolitica.

18

Wouters A, Lemmens R, Dupont P, Thijs V, Wake-up stroke and stroke of unknown onset: a critical review, op.citata

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In tempi recenti ha suscitato grande interesse la xenon-TC,19 che sfrutta la densità di questo gas come mezzo di contrasto per studiare quantitativamente il flusso ematico cerebrale, ma che trova impiego anche in altri distretti corporei. Latchaw20 ha messo in correlazione le alterazioni di flusso ematico cerebrale con i possibili quadri clinici, schematizzabili come segue:

 CBF 20 ml/100g/min rappresenta la soglia al di sotto della quale iniziano le disfunzioni neuronali nell’uomo (mentre altri tessuti tollerano bene un flusso di questa entità);

 CBF <10 ml/100g/min indica un’area che va rapidamente incontro a infarto;

 CBF 10-20 ml/100g/min: è una condizione di oligoemia associata a disfunzione neuronale, ma ancora reversibile e i risultati migliori si ottengono per flussi tra 15 e 20 ml/100g/min associati a trombolisi entro la finestra temporale. CBF<15 ml/100g/min sembrano correlare maggiormente con il rischio di edema ed emorragia.

La xenon-TC offre una buona stima del CBF, ma richiede macchinari appositi, sistemi per la somministrazione del gas e personale formato adeguatamente per la lettura delle immagini, dunque è una tecnica che ancora non è disponibile su larga scala.

2.6 Trattamento

2.6.1 Trattamento in acuto e danno da riperfusione

Il risultato TC è ciò che guida in primo luogo la scelta terapeutica.

Nell’ictus ischemico il problema è l’ostruzione, che generalmente origina dai vasi o dal cuore. L’obiettivo del trattamento in fase acuta è limitare al massimo l’evoluzione verso la necrosi della zona di penombra ischemica e prevenire le recidive precoci. Innanzitutto vengono attuati provvedimenti generali volti a garantire la correzione di tutti i fattori che potenzialmente aggravano le conseguenze dell’ischemia, quali l’ipossia,

19

Mullins ME, Stroke imaging with xenon-CT, Semin Ultrasound CT MR. 2006 Jun;27(3):219-20. Review

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l’iperglicemia, l’ipertermia. L’aumento della pressione arteriosa è frequente in fase acuta ed è meglio non intervenire a meno che non si raggiunga la soglia di pericolo, stabilita a 220 mmHg per la sistolica e 120 mmHg per la diastolica, questo poiché una terapia antipertensiva fuori luogo abbasserebbe la pressione di perfusione aggravando l’ischemia. Se si decide di intervenire con la fibrinolisi, la pressione non deve superare 185/110. La prevenzione di complicanze tromboemboliche è garantita dalla somministrazione di eparina e basso peso molecolare a dosi profilattiche. Più nello specifico, il trattamento antitrombotico si basa sulla somministrazione di ASA 160-300 mg/die, mentre l’uso sistematico di eparina è stato abbandonato e mantenuto solo per gli ictus di origine cardioembolica con elevato rischio di recidiva embolica (protesi valvolari meccaniche, infarto miocardico con trombo murale, trombosi dell’atrio sinistro) e le dissecazioni extracraniche. In caso di FA isolata, gli anticoagulanti possono essere iniziati dopo qualche giorno per timore di trasformazione emorragica. La terapia trombolitica basata sulla somministrazione di alteplase, attivatore tissutale del plasminogeno ricombinante, incide in modo importante sulla prognosi, ma i criteri di applicazione sono molto ristretti.

Entra poi in gioco la neuroprotezione, la cui efficacia non è ancora stata dimostrata sull’uomo.

Nell’ictus emorragico la terapia, di solito, è di tipo medico, assicurando la pervietà delle vie aeree, l’equilibrio idroelettrolitico, il controllo della pressione intracranica. Se l’emorragia avviene in corso di TAO, si somministrano vitamina k e fattori della coagulazione. Solo in alcuni casi, come le emorragie cerebellari con compressione del tronco cerebrale, è indicata l’evacuazione chirurgica.

Attualmente l’unico farmaco approvato per il trattamento dell’ictus ischemico è l’alteplase, un attivatore tissutale del plasminogeno ottenuto con la tecnologia del DNA ricombinante (rtPA).21 Tuttavia i requisiti per beneficiare del trattamento sono molto stringenti: innanzitutto è necessario che la TC risulti negativa per lesioni emorragiche e

21

National Institute for Health and Care Excellence, Alteplase for treating acute ischaemicstroke, sept. 2012

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che il paziente sia trattato entro 4 ore e 30 minuti dall’esordio dei sintomi.22 Fino a poco tempo fa la finestra era ancora più stretta poiché si limitava a tre ore dall’esordio, ma dal 2009 è stata estesa al quattro ore e mezzo poiché gli studi hanno riscontrato buona efficacia anche con un intervallo più lungo, oltre il quale però non si deve andare perché aumenta il rischio di effetti avversi. L’ampliamento della finestra terapeutica tuttavia non ha cambiato molto nella pratica clinica perché i pazienti che arrivano oltre il tempo massimo di quattro ore e mezzo sono ancora la maggior parte, a cui si sommano i pazienti che arrivano in tempo ma nei quali la trombolisi è controindicata.

I criteri di inclusione per la trombolisi:

 età 18-80 anni (età > 80 anni solo nell’ambito dei protocolli di ricerca)

 esordio < 3 ore

 esclusione di emorragia alle neuroimmagini

 NIHSS 5 – 25 o afasia di grado moderato-severo

 firma del consenso informato

I criteri di esclusione però sono molti, in particolare diatesi emorragica, presenza di crisi epilettiche all’esordio, ipertensione non controllata, uso di anticoagulanti, ictus negli ultimi tre mesi, ridotta conta piastrinica e naturalmente il limite temporale, che non deve superare le 4,5 ore dall’esordio.

Vi sono poi le tecniche endovascolari, per le quali sono richiesti centri di radiologia interventistica con provata esperienza. Si può intervenire con trombolisi endoarteriosa, loco-regionale, che consiste nell’introdurre un catetere attraverso l’arteria femorale fino al vaso trombizzato, dove si inietta il farmaco. In questo modo si utilizzano minori quantità di farmaco e in maniera più mirata, riducendo i rischi emorragici sistemici che vengono però controbilanciati dal rischio legato alla procedura. La trombolisi meccanica permette la rimozione del coagulo in modi diversi a seconda della tecnica usata: i risultati sembrano promettenti sebbene debbano essere ben valutati i rischi

22

Hacke W, Kaste M, Bluhmki E, Brozman M, Dávalos A, Guidetti D et al., Thrombolysis with alteplase 3 to 4.5 hours after acute ischemic stroke, N Engl J Med. 2008 Sep 25;359(13):1317-29

(29)

dell’intervento. Nel caso di ostruzione della carotide extracranica si può intervenire con endoarteriectomia o posizionamento di uno stent (angioplastica con stent).

In casi gravi si può sviluppare un edema cerebrale maligno, nel 1-10% dei pazienti con ischemia acuta del territorio dell’ACM, che si manifesta tra il secondo e il quinto giorno dall’esordio: in questi casi può rendersi necessaria l’emicraniectomia decompressiva. Infine si trovano i farmaci neuroprotettivi, ancora sperimentali sull’uomo, sebbene molti sono gli studi che hanno dimostrato la capacità di alcune sostanze di proteggere i neuroni dall’insulto ischemico.

Ad oggi la strategia neuroprotettiva più efficace è l’ipotermia. L’evoluzione del danno cerebrale in corso di ictus è molto complesso, perciò i farmaci studiati fino ad ora non si sono dimostrati sufficientemente potenti, probabilmente perché agiscono su singoli fattori o singole vie, mentre si richiede un intervento che agisca in su più target, in maniera più ampia. L’ipotermia risponde abbastanza a questi requisiti poiché rallenta il metabolismo cellulare e l’accumulo di acido lattico, mentre migliora l’utilizzo del glucosio e il flusso carotideo, aiutando l’eliminazione delle sostanze tossiche dalla zona ischemica. La tecnica si basa sulla somministrazione intracarotidea di soluzione salina fredda (ICSI), che può essere intermittente o continua. La ICSI continua richiede grandi quantità di soluzione salina fredda e può dare complicanze quale la diluizione dell’ematrocrito. Le tecnica intermittente offre il vantaggio di una adeguata ipotermia con quantità minori di soluzione, minimizzando gli effetti avversi, ma pone il problema del riscaldamento, determinando una fluttuazione della temperatura nel tessuto cerebrale, con possibili ripercussioni sull’effetto neuroprotettivo nell’ictus ischemico. Le due modalità di infusione sono state messe a confronto in uno studio, testando varie combinazioni e l’efficacia risulta comparabile, sia per ICSI intermittente (con 6 cicli di un’ora, 4 cicli da un’ora e mezzo, 3 cicli da 2 ore), sia continua, purché questa duri almeno 12 ore. Tuttavia lo studio23 si discosta dalla realtà clinica dell’ictus, poiché impiega cellule embrionali che hanno una tolleranza all’anaerobiosi maggiore rispetto ai neuroni dell’adulto, ma anche perché 90 minuti di deprivazione di ossigeno e glucosio

23

Xu SY, Hu YF, Li WP, Wu YM, Ji Z, Wang SN, Li K, Pan SY, Intermittent Hypothermia Is Neuroprotective in an in vitro Model of Ischemic Stroke, Int J Biol Sci2014; 10(8):873-881

(30)

(OGD) non rispecchiano il tempo che intercorre tra l’esordio dell’ischemia nel paziente reale e l’applicazione dell’ipotermia.

L’obiettivo della neuroprotezione è aumentare la tolleranza all’ischemia della penombra ischemica, riducendo la vulnerabilità del tessuto nervoso nei confronti di eccitotossicità, radicali liberi, infiammazione, apoptosi. Questo in teoria può aumentare le probabilità di successo della trombolisi e ridurre il rischio di complicanze. Non è sufficiente, infatti, disostruire il vaso per risolvere il problema, perché esiste il danno da riperfusione. Il ripristino del flusso riporta la concentrazione di ossigeno a livelli fisiologici, ma in un tessuto ischemico questo causa la morte di un parte delle cellule fino a quel momento vitali. La risposta paradossale si deve al fatto che nelle cellule esposte ad un periodo di ischemia, la disponibilità di ossigeno promuove la formazione di radicali liberi che contribuiscono alla distruzione cellulare. Sia nei neuroni che nelle cellule gliali si formano ioni superossido, perossinitriti e perossido d’idrogeno che aggrediscono i lipidi di membrana e ossidano componenti cellulari, causando alterazioni dell’omeostasi letali. A livello vascolare si verifica riduzione del rilascio di NO e la perdita dell’autoregolazione espone passivamente il tessuto cerebrale alle variazioni sistemiche. I neutrofili sono la maggiore componente cellulare della risposta infiammatoria che contribuisce al danno da riperfusione, vengono rallentati dalle cellule endoteliali in modo da farli aderire e migrare nel tessuto nervoso, dove si attivano e producono radicali, enzimi proteolitici e citochine proinfiammatorie.

La complessità del danno in corso di ictus suggerisce di intervenire in maniera più ampia, non su meccanismi singoli, ma sull’unità neurovascolare, costituita da neuroni, glia e cellule endoteliali.24

2.6.2 Terapie in fase di studio

Cercando di comprendere meglio l’evoluzione del danno ischemico cerebrale, alcuni autori hanno studiato le vie di segnalazione cellulare che si realizzano in questo contesto e come si può intervenire per favorire la sopravvivenza. Uno studio condotto sul fattore

24

Posada-Duque RA, Barreto GE, Cardona-Gomez GP, Protection after stroke: cellular effectors of neurovascular unit integrity, Front Cell Neurosci. 2014 Aug 14;8:231

(31)

SIK2, iperespresso nel citoplasma dei neuroni a riposo, nei quali sequestra CRTC1, ha mostrato che in condizioni ischemiche SIK2 viene fosforilato da CaMK (isoforme I/IV) e degradato, lasciando libero CRTC1, defosforilato, il quale trasloca nel nucleo e si lega al promotore di CREB, attivano l’espressione di geni di sopravvivenza quali BDNF, PGC-1α e Bcl2. E’ interessante notare che la via CaMK-SIK2-CRTC1-CREB sembra esser dipendente dall’attivazione del recettore NMDA contenente la subunità NR2A, ma non dagli altri recettori del glutammato. Questa osservazione è supportata dall’evidenza che in vivo topi knockout per SIK2 hanno una tolleranza maggiore verso l’ischemia.25 Altri studi si sono concentrati sulle alterazioni metaboliche che si verificano in patologie predisponenti all’ictus, in particolare diabete e patologie cardiovascolari. È noto che l’iperglicemia peggiora il danno ischemico, associato all’aumento dell’estensione dell’infarto e alla degenerazione vascolare.

Sono molti i fattori che concorrono al danno vascolare del paziente diabetico ed è ampiamente accettato il ruolo del metilgliossale (MGO), derivato dall’eliminazione non enzimatica di fosfato dagli intermedi della glicolisi, il quale è altamente tossico per le cellule e viene normalmente eliminato per reazione con il glutatione. Il metilgliossale è coinvolto nella formazione degli AGEs, prodotti di glicosilazione avanzata, responsabili della degenerazione vascolare tipica del diabetico. MGO è coinvolto in molti processi soprattutto in condizioni di iperglicemia: aumenta la glicosilazione di proteine mitocondriali che è responsabile della maggiore produzione di ROS e del danno a carico di tutte le proteine all’interno della cellula da parte di processi ossidativi e nitrosativi. Edaravone, un farmaco scavenger, ha riportato effetti protettivi nei confronti dello stress ossidativo che si crea nell’ictus ischemico sia nell’uomo che in modelli animali. Sembra che il meccanismo di azione del farmaco sia basato sul legame con i recettori degli AGEs, quali RAGE e galectina 3. L’integrità dei vasi cerebrali è alla base della prevenzione dell’ictus, in particolare nel paziente diabetico.26

25 Sasaki T, Takemori H, Yagita Y, Terasaki Y, Uebi T, Horike N, et al., SIK2 is a key regulator for

neuronal survival after ischemia via TORC1-CREB, Neuron. 2011 Jan 13;69(1):106-19

26

Li W, Xu H, Hu Y, He P, Ni Z, Xu H, Zhang Z, Dai H, Edaravone protected human brain microvascular endothelial cells from methylglyoxal-induced injury by inhibiting AGEs/RAGE/oxidative stress, PLoS One. 2013 Sep 30;8(9):e76025

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Le potenzialità di edaravone sono state valutate dopo somministrazione di tPA (0,6 mg/kg) eseguita entro tre ore dall’esordio. In Giappone edaravone è stato approvato nel 2001 come trattamento per l’ictus ischemico acuto. I pazienti che lo hanno ricevuto hanno mostrato una maggiore ricanalizzazione rispetto ai controlli, si noti però che si trattava di pazienti che avevano un ictus di origine cardioembolica con un NIH all’ammissione tendenzialmente più basso.27

Il ruolo dei mitocondri endoteliali è stato analizzato in relazione all’attivazione dei canali del potassio ATP-dipendenti e alla produzione di ROS ed è risultato che la transitoria attivazione di questi canali, presenti nella membrana interna dei mitocondri, induce protezione immediata e a lungo termine dell’endotelio cerebrale nei confronti dello stress. Tale protezione viene correlata alla riduzione del calcio intracellulare e delle specie reattive dell’ossigeno indotte dallo stress cellulare. L’influenza del canale del potassio ATP-dipendente sul tono vascolare ha evidenziato l’impatto negativo che le comorbidità correlate alle anomalie nel metabolismo di glucosio e lipidi hanno nei pazienti con ictus.28

Ulteriori campi di interesse sono la risposta immunitaria nell’ictus e l’impiego di cellule staminali.29

2.6.3 Il post-acuzie

Dopo il consistente assorbimento di risorse della fase acuta, il costo dell’ictus continua nelle fasi successive. Secondo l’OMS, a fronte di 5-7 milioni di morti per ictus, ci sono circa 62 milioni di “stroke survivors”, la maggior parte con disabilità a lungo termine. Nei Paesi industrializzati l’ictus rappresenta il 3% circa della spesa sanitaria annuale e buona parte dei costi si devono alla riabilitazione e lungodegenza. Per questo è essenziale non abbandonare il paziente una volta superata la fase acuta, ma è necessario

27

Namura S, Ooboshi H, Liu J, Yenari MA, Neuroprotection after cerebral ischemia, op. citata

28 Katakam PV, Domoki F, Snipes JA, Busija AR, Jarajapu YP, Busija DW, Impaired

mitochondria-dependent vasodilation in cerebral arteries of Zucker obese ratswith insulin resistance, Am J Physiol Regul Integr Comp Physiol. 2009 Feb;296(2):R289-98

29

Aswendt M, Adamczak J, Tennstaedt A, A review of novel optical imaging strategies of the stroke pathology and stem cell therapyin stroke, Front Cell Neurosci. 2014 Aug 14;8:226

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