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Genotipizzazione di vitigni toscani con l’ausilio dei marcatori molecolari SSR e SNP’s.

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

D

IPARTIMENTO DI

S

CIENZE

A

GRARIE,

ALIMENTARI E AGRO-AMBIENTALI

Corso di laurea Magistrale in

Biotecnologie Vegetali e Microbiche

Tesi di laurea magistrale

Genotipizzazione di vitigni toscani con l’ausilio dei marcatori

molecolari SSR e SNPs

.

Relatore Dott. Claudio D’Onofrio Candidata Correlatore Paola Pilo Dott. Claudio Pugliesi

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Indice

1 INTRODUZIONE

1.1 La Pianta della Vite………...3

1.1.1 Cenni storici………...3

1.1.2 Domesticazione della vite……….………...4

1.2 Studio della Vite………...6

1.2.1 Ampelologia……….………..……...…....6

1.2.2 Genetica della vite……….………...…...8

1.3 I Marcatori Molecolari……….…...10

1.3.1 Importanza dei marcatori molecolari nella genotipizzazione..…..…...10

1.3.2 Marcatori molecolari SSR………...13

1.3.3 Marcatori molecolari SNP……….………...…...16

1.4 La vite e il vino in Toscana………...………...…...17

1.5 La Biodiversità………..…...19

1.5.1 Aspetti normativi e definizione……….…...19

1.5.2 La biodiversità viticola toscana………...21

1.5.3 Un Database Viticolo Italiano per la salvaguardia della biodiversità...22

2 SCOPO DEL LAVORO………...…...24

3 MATERIALI E METODI………...25

3.1 Materiale vegetale……….…...25

3.2 Estrazione del DNA e quantificazione………...27

3.2.1 Protocollo di estrazione………...…....27

3.2.2 Valutazione della quantità e della qualità del DNA estratto………..…...28

3.3 Genotipizzazione attraverso gli SSR………...30

3.3.1 Amplificazione dei loci SSR……….………...30

3.3.2 Amplificazione dei loci……….………...32

3.3.3 Elettroforesi……….………...…...33

3.3.4 Rilevamento dei frammenti marcati………...35

3.4 Genotipizzazione attraverso gli SNP……….………...36

3.5 Elaborazione dei dati...……….………...37

(3)

4.3 Analisi delle popolazioni………...48

4.3.1 Analisi STRUCTURE sui profili SSR e SNP…..……….….48

4.4 Analisi del grado di polimorfismo…...……….…...50

CONCLUSIONI……….………...53

Ringraziamenti...54

(4)

1

INTRODUZIONE

1.1

La Vite.

1.1.1 Cenni storici.

Le viti appartengono alla Famiglia delle Vitaceae o Ampelideae, comprendente il genere Vitis, suddiviso in due sottogeneri Muscadinia ed Euvitis (attualmente Vitis), questo ultimo sottogenere comprende quasi tutte le viti coltivate, appartenenti alla specie Vitis vinifera. E’ assai difficile stabilire con certezza quale sia la patria d’origine del genere Vitis, dato che le ricerche delle testimonianze fossili e dei reperti archeologici, che costituiscono le sole prove certe, non sono tuttora ultimate. L’unica certezza è che il genere Vitis ha tre grandi centri d’origine: uno nell’America Settentrionale con qualche estensione nell’America centrale e meridionale, il secondo nell’Asia orientale, comprendente Nepal, Cina e Giappone, con qualche estensione nella Malesia e in Australia; il terzo, e più importante dal punto di vista agricolo, è quello euroasiatico. La Vitis vinifera, originariamente diffusa con continuità dall'Europa all'Asia, durante le glaciazioni del Pleistocene si rifugiò nei territori del bacino del Mediterraneo e nei territori asiatici che oggi corrispondono all'Armenia, alla Georgia e

all'Iran.

La vitis vinifera comprende due sottospecie: Vitis vinifera L. subsp.

sylvestris (Gmelin) (Hegi) e la Vitis vinifera L. subsp. sativa (Hegi). I popoli

Caucasici, seguiti poi dai Mesopotamici, gli Egizi e gli Ebrei, hanno ingentilito la vite selvatica (Vitis vinifera subsp.

sylvestris), rifugiatasi nel rifugio Pontico

dopo l’ultima glaciazione, trasformandola

Figura 1.1.1: Scena di viticoltura. Particolare. Pittura parietale, Tomba tebana, secondo periodo

(5)

1.1.2 Domesticazione della vite

La domesticazione delle piante coltivate è intesa come un processo evolutivo regolato dall’uomo, durante il quale la struttura genetica di una popolazione vegetale viene modificata, nel corso delle generazioni, per pressione selettiva o per introgressione genica. Nel caso della vite, la riproduzione selettiva, prima per seme e poi per talea, è stata principalmente utilizzata con lo scopo di fissare nella popolazione alcune caratteristiche produttive d’interesse quali l’ermafroditismo, le dimensioni del frutto, il contenuto in zuccheri, l’uniformità di maturazione e una certa tolleranza alle condizioni ambientali e alle malattie. L’ingentilimento ha però ridotto la rusticità delle piante rendendole maggiormente suscettibili agli stress, sia biotici che abiotici. Ogni vitigno è quindi il risultato di una interazione tra uomo e ambiente, nella sua accezione più ampia, un vero e proprio prodotto culturale. Pertanto, il processo di domesticazione, ossia la selezione dei migliori vitigni selvatici e della loro coltivazione da parte dell’uomo, consisteva semplicemente nell’atto di prelevare e coltivare gli individui selvatici più produttivi e successivamente propagarli per via vegetativa. L’ermafroditismo e l’autofecondazione sono caratteri di grande interesse agronomico, questi sono stati selezionati nel processo di domesticazione a partire dal neolitico, al fine di garantire una produzione certa e abbondante. Gli studi relativi alla domesticazione della vite tendono a collocare questo avvenimento circa 8000 anni prima di Cristo, nella regione tra Caucaso ed Iran, a cavallo del 40° parallelo dell’emisfero settentrionale (Mc Govern, 2003).

La teoria classica considera il fenomeno della domesticazione come un momento ben preciso, localizzato nel tempo e nello spazio. Questo è un aspetto contrastante, perché in realtà basti pensare che ci si riferisce ad un’epoca in cui le fonti alimentari erano piuttosto scarse e in questo contesto appare difficile pensare che le diverse comunità umane del Mediterraneo non conoscessero e, quindi non utilizzassero, una risorsa alimentare come questa. Sarebbe molto più logico ipotizzare un’origine policentrica dei vitigni coltivati, anche perché il trasporto di vitigni da un’area all’altra ha contribuito notevolmente alla formazione di nuovi vitigni attraverso l’introgressione del patrimonio genetico del vitigno alloctono in quello autoctono. Infatti, se l’ipotesi dell’origine monocentrica della vite, con la sua diffusione verso ovest, fosse vera, tutte

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le varietà di vite sarebbero molto imparentate fra di loro e avrebbero un genitore (o pochi genitori) in comune. Gli studi di diverse equipe internazionali di ricercatori, che hanno analizzato i polimorfismi del DNA cloroplastico in vitigni coltivati nelle diverse aree del Mediterraneo e dell’Europa, confrontandoli inoltre con quelli delle viti selvatiche delle diverse aree, sembrano invece confermare proprio l’ipotesi di un’origine policentrica. Da questi dati si può dedurre che se da un punto di vista temporale la domesticazione della vite, e quindi l’origine della Vitis vinifera subsp.

sativa, è un fenomeno avvenuto prima nel Caucaso, anche in altre aree del Vecchio

Mondo si sono sicuramente verificati, più o meno parallelamente altri fenomeni simili di domesticazione (Arroyo-Garcia et al., 2006) (Bacilieri et al., 2013).

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1.2

Lo studio della vite.

1.2.1 Ampelologia

L’ampelologia è un mezzo indispensabile per il riconoscimento varietale e clonale ma anche per far chiarezza in casi di omonimia e sinonimia dei vitigni; inoltre è utilizzata anche nel riconoscimento di vitigni autoctoni e tipici di una certa zona al fine di una loro protezione e valorizzazione. Per l’identificazione varietale e clonale della vite viene tradizionalmente utilizzata l’ampelografia, dal greco ampelos (vite) e grafo (scrivo) significa letteralmente “descrizione della vite”. In realtà il significato dato ad ampelografia è molto più ampio per questo motivo sarebbe stato più corretto utilizzare il neologismo “ampelologia” il quale esprime al meglio il significato dello studio, del confronto e della verifica di diverse varietà di vite e non semplicemente la loro descrizione. Infatti l’ampelologia utilizza diversi metodi d’indagine, alcuni che si basano sulla morfologia della vite, studiandone il fenotipo, altri si basano su indagini biochimiche e biomolecolari, che studiano il genotipo. Nonostante la grande importanza storica e culturale della vite, gli studi ampelografici sono “nati” solo a partire dal 1800, ovvero quando è risultato evidente che alcuni caratteri si manifestavano, in una stessa tipologia di vigneto a prescindere dall’annata e dal luogo in cui questi erano immessi. Dal 1870, con la ricostituzione post-fillosserica e la necessità di estirpare e reimpiantare la maggior parte dei vigneti in Europa, crebbe l’interesse per conoscere sia le attitudini agronomiche e produttive delle diverse cultivar, ed operare così scelte appropriate, sia i caratteri distintivi, in modo da essere in grado di riconoscerle in qualunque momento e verificare se quanto acquistato presso i vivaisti come barbatelle innestate corrispondeva a quanto richiesto (Galet, 1987). Cominciarono perciò ad essere redatti in tutti i Paesi viticoli cataloghi ampelografici che riportavano le descrizioni delle diverse cultivar e tutte le informazioni che le riguardavano. Nel 1983 l’O.I.V. (Office International de la Vigne et du Vin ) ha introdotto un nuovo sistema di codifica dei caratteri, che ne rende possibile la loro informatizzazione, utilizzato da organismi internazionali come l’International Board for Plant Genetic Resource (IBPGR) e l’Internatinal Union for the Protection of New Varieties of Plants (UPOV) per il censimento del germoplasma viticolo e la

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Gli scopi fondamentali dell’ampelografia possono essere così riassunti:

 permettere il riconoscimento varietale evidenziando quei caratteri per cui i vitigni e i cloni differiscono tra di loro; questo implica spesso studiare e risolvere problemi di sinonimia (nomi diversi per indicare uno stesso vitigno) o di omonimia (uno stesso nome per cultivar diverse).

 raccogliere ed ordinare tutte le informazioni di tipo storico e geografico, o sulle caratteristiche morfologiche, fenologiche, agronomiche di una determinata varietà o clone.

 giungere ad una classificazione, ovvero ad una sistemazione organica dei vitigni (e/o specie, e/o cloni), che rispetti le gerarchie e i rapporti reciproci.

Il riconoscimento e la classificazione possono essere raggiunte tramite vie diverse:  metodi descrittivi, che si basano sulla descrizione dell’ habitus morfologico della

pianta e sottolineano quei caratteri che la rendono diversa da quelle appartenenti ad un’altra cultivar, specie o clone;

 metodi ampelometrici, che si basano sulla misurazione dei parametri di alcuni organi della pianta, i quali rispetto ai precedenti risentono meno della soggettività dei giudizi del rilevatore;

 metodi biochimici e biomolecolari, che si basano sulla determinazione della presenza e della quantità di molecole specifiche, contenute in alcuni organi della pianta, la cui biosintesi dipende dal genotipo in esame, o sull’analisi di particolari porzioni di DNA che sono identificate da marcatori molecolari riconoscibili e ereditabili.

La scelta di un metodo di lavoro non esclude l’impiego degli altri; l’identificazione varietale e clonale può essere realizzata utilizzando contemporaneamente tutti e tre i tipi di metodi, anzi ciò spesso è auspicabile per compensare i limiti che ogni metodo comporta e per ottenere risultati più completi e precisi.

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hanno un’origine poliploide. Negli anni sono stati condotti svariati esperimenti per comprendere le conseguenze, che la domesticazione della vite ha avuto nella genetica della pianta. La vite è stata la prima specie frutticola ad essere sequenziata. Nel 2007, infatti, sono stati pubblicati i risultati del sequenziamento e dell’analisi dettagliata del genoma di Vitis vinifera L.(Jaillon et al., 2007; Velasco et al., 2007). Le iniziative, una italo-francese e l’altra italo-americana, hanno rivelato rispettivamente il genoma di un clone sperimentale di Pinot Nero PN40024, altamente omozigote, non coltivato e ottenuto mediante autofecondazione ripetuta., e il genoma del clone di Pinot Nero ENTAV 115, altamente eterozigote e largamente coltivato.

Con la condizione di omozigosi nell’individuo da sequenziale, risulta notevolmente semplificata la fase di assemblaggio del genoma, durante la quale viene ricostruito con strumenti computazionali l’ordine della sequenza del DNA lungo i cromosomi, la sequenza del genoma dell’individuo modello risulta molto accurata. Tuttavia l’omozigosi è una condizione inusuale in una specie come la vite, in cui la maggior parte delle varietà coltivate sono derivate dall’incrocio tra due differenti genitori che per ogni cromosoma possiedono due coppie sostanzialmente diverse, una ereditata dal genitore materno e l’altra dal genitore paterno. A questo proposito il secondo individuo di vite completamente sequenziato, il clone di Pinot nero ENTAV 115, è invece eterozigote. Un genoma di questo tipo presenta dei problemi computazionali più complessi per la ricostruzione della sequenza continua lungo i cromosomi e un assemblaggio finale più frammentato. Presenta tuttavia il pregio di fornire una fotografia della diversità tra le copie di cromosomi omologhi presenti all’interno di una varietà. Il merito scientifico più significativo del sequenziamento del genoma della vite è stato il confermare, anche dal punto di vista genetico, quello che gli studiosi della vite avevano ipotizzato già da decenni, ovvero tracce dell’antica esaploidizzazione avvenuta in un progenitore delle dicotiledoni, causata dalla fusione di tre genomi ancestrali e seguita dalla loro diploidizzazione (Jaillon et al 2007).

Il genoma di Vitis vinifera comprende circa 30.000 geni che corrispondono al 7% (Jaillon et al., 2007) e da almeno 140 regioni trascritte come microRNA (Mica et al., 2010); il 40% è costituito da elementi genetici mobili e il resto da sequenze intergeniche, il cui ruolo rimane attualmente sconosciuto.

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La sequenza di riferimento rappresenta il genoma di un individuo della specie ed è il punto di partenza per lo studio della variabilità tra gli individui all’interno della specie, e anche grazie alle tecnologie di sequenziamento di nuova generazione (NGS), è possibile risequenziare qualsiasi nuovo individuo a costi contenuti, di allineare la sua sequenza con quella di riferimento, identificando varianti nucleotidiche e strutturali utili alla comprensione della diversità genetica per i caratteri oggetto di studio, come le parentele, o di selezione. Due importanti esempi di applicazioni genomiche, basate sul progetto del risequenziamento, sono rispettivamente la genotipizzazione della collezione nazionale italiana di germoplasma di Vitis vinifera di Conegliano Veneto, utilizzando microsatelliti tri e tetra nucleotidici (Cipriani et al., 2010) e quella delle collezioni americane di Vitis spp di Davis e Geneva attraverso l’analisi dei polimorfismi a singolo nucleotide (Myles et al., 2011) definiti sulla base della sequenza genomica di vite. La comparazione tra più individui definirà quanta e quale parte del genoma è essenziale per specificare le funzioni biologiche di base condivise da tutti gli individui della specie, e quale parte non è indispensabile pur contenendo geni.

Grazie alle istituzioni del Vitis Microsatellite Consortium, che hanno individuato e caratterizzato più di 300 loci microsatelliti (Thomas, 2000), è stato possibile selezionare i 9 loci riconosciuti al livello internazionale (VVS2, VVMD5, VVMD7, VVM27, VrZAG62, VrZAG79 , VVMD25, VVMD32, VVMD28) che si presuppone siano quelli realmente essenziali per la distinzione varietale di base, gli altri possono essere utilizzati per avere un quadro più completo del profilo microsatellite, essi possono essere utilizzati ad esempio non solo per la genotipizzazione ma anche per la determinazione di parentele tra i vitigni, essendo comunque marcatori molecolari a eredità mendeliana e di natura codominante.

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Queste approfondite analisi genetiche hanno permesso di riaffermare l’origine della

Vitis vinifera nel Vicino Oriente e di dimostrare sperimentalmente l’introgressione del

genoma della sub specie sylvestris in Vitis vinifera durante il suo trasferimento in Europa. La successiva millenaria propagazione vegetativa ha evitato quasi totalmente la riproduzione per via sessuale, per cui attualmente l’importante diversità genetica che esiste in Vitis vinifera è comunque contenuta all’interno di una complessa rete di strette relazioni di parentela generate attraverso incroci tra genotipi di pregio. Sorprendentemente, la maggior parte delle varietà studiate sono risultate strettamente imparentate, suggerendo l’esistenza di un'unica grande famiglia (Myles et al., 2011), a differenza di quanto ipotizzato da alcuni in passato.

1.3

I Marcatori Molecolari.

1.3.1 Importanza dei marcatori molecolari nella genotipizzazione

Un marcatore molecolare è una molecola facilmente analizzabile, dotata di polimorfismo, la cui eredità può essere monitorata da una generazione all’altra.

Un marcatore molecolare a DNA è una sequenza variabile che viene ereditata in modo mendeliano. Questa sequenza è situata, all’interno del menoma, in locus che sono rilevabili con sonde o primers specifici che contraddistinguono quel tratto cromosomico e le regioni che lo fiancheggiano. Negli ultimi venti anni, diversi tipi di marcatori molecolari sono stati utilizzati per lo studio di numerose specie vegetali, allo scopo di caratterizzare varietà e genotipi, di studiare la struttura genetica delle popolazioni, di analizzare ibridi, di favorire il trasferimento di geni utili tra varietà e specie diverse.

La dimensione minima del genoma cresce con la complessità dell’organismo ma in alcuni gruppi è presente una grande variabilità nel contenuto di DNA di specie simili tra loro (per esempio, anfibi e piante con i fiori). Tenendo conto della complessità e vastità del genoma eucariotico, l’utilizzo dei marcatori molecolari, che restringono lo studio su limitate regioni del DNA, ritenute particolarmente informative, facilita (non poco) la ricerca. Questo tipo di regioni, anche se relative ad una minima parte dell’intero

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genoma, si comportano come descrittori della composizione del DNA, costituendo efficienti estimatori delle parentele, filogenie ed eredità del materiale genetico.

I marcatori molecolari a DNA sono di notevole interesse per diverse ragioni:

 sono relativamente stabili, ovvero non subiscono interferenze da parte dell’ambiente, trattandosi di differenze al livello del DNA.

 coprono qualsiasi parte del genoma (trascritta e non, quindi anche introni e regioni di regolazione), permettendo così di rilevare differenze anche tra individui genotipicamente simili e fenotipicamente indistinguibili.

 non presentano effetti epistatici o pleiotropici e in molti casi hanno un espressione codominante, che permette ovvero di distinguere l’eterozigote dall’omozigote.

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Una suddivisione preliminare delle diverse tipologie di marcatori conosciuti si può effettuare tra il tipo di sequenze che andiamo ad analizzare e/o del tipo di tecnica utilizzata. Alcuni tipi di marcatori, come RFLP e VNTR (minisatelliti), sono basati sul procedimento di ibridazione tipo “Southern”(Southern Blot Hibridation, SBH); altri invece come RAPD, SSR (micro satelliti), AFLP o S-SAP, sono marcatori basati sulla “Reazione a Catena della Polimerasi” (Polimerase Chain Reaction,PCR).

In ogni caso, un marcatore molecolare costituisce un marcatore genetico il quale può essere descritto come un frammento di DNA cromosomico, compreso tra due regioni oligonucleotidiche note di circa 6-30 pb. Sono infatti le sequenze laterali ad essere riconosciute, dagli enzimi di restrizione in RFLP, da primers della DNA polimerasi in RAPD e SSR o da entrambe nel caso di AFLP e S-SAP. La sequenza centrale è, totalmente o parzialmente nota, nel caso di RFLP e coincide con la sequenza della sonda, oppure coincide con le ripetizioni nucleotidiche negli SSR, è invece sconosciuta nei casi di AFLP, RAPD etc.

Tra queste tecniche è possibile un ulteriore distinzione tra:

 marcatori multi-locus, basati sull’analisi simultanea di più loci genomici, con amplificazione casuale di tratti cromosomici riconosciuti arbitrariamente dai primers (RAPD, AFLP,…), questi sono marcatori di tipo dominante, ovvero ogni locus può evidenziare la presenza o l’assenza della banda ma non si può distinguere, per uno stesso allele, tra la condizione eterozigote e quella omozigote.  marcatori singolo-locus, prevedono l’ibridazione o l’amplificazione di tratti

cromosomici a sequenza nota con l’utilizzo di sonde o inneschi specifici per determinati loci genomici (RFLP, SSR…), sono marcatori di tipo co-dominante, ovvero permettono di distinguere i loci omozigoti da quelli eterozigoti (Barcaccia et al.,2000).

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1.3.2 Marcatori molecolari: SSR

I microsatelliti (Simple Sequence Repeat,SSR) sono costituiti da ripetizioni multiple di oligonucleotidi semplici dispersi in tutto il genoma, la cui frequenza delle sequenze ripetute conferisce variabilità genetica.

La presenza di motivi ripetuti nel DNA nucleare vegetale è stata dimostrata da Delsey

et al. nel 1983, dove il motivo -AT- sembra essere quello più abbondante nelle genoma

delle piante, mentre -AC/TG- sono rarissimi, contrariamente a quello che succede nel regno animale (Morgante e Olivieri, 1993). La tipica sequenza di un microsatellite consiste di 5-100 ripetizioni in tandem dei brevi e semplici motivi composti da 1-6 nucleotidi (es. (GA)n, (GATA)n) (Figura 1.3.2). Il meccanismo con cui si presuppone l’origine dei microsatelliti, attualmente non perfettamente chiarito, coinvolge molto probabilmente due fenomeni:

quello che viene definito DNA slippage o strand slippage durante la duplicazione del DNA (il filamento in fase di estensione scivola indietro o in avanti generando, rispettivamente, l’inserzione o la delezione di una unità di ripetizione aggiuntiva nel nuovo filamento sintetizzato);

crossing-over e scambio ineguale di cromatidi fratelli durante la meiosi (Levinson

and Gutman, 1987). In pratica, lo slittamento sembrerebbe dovuto alla complessità delle proteine che mediano la replicazione del DNA e si concretizzerebbe in un appaiamento impari (per una o, più raramente, due basi nucleotidiche) tra il filamento di DNA genomico originale e quello di nuova sintesi. La zona in cui si è verificato l’appaiamento errato è quindi indotta a generare un anello (loop) per ripristinare il corretto appaiamento. Se il loop è generato a carico del DNA, viene immediatamente rimosso dopo la replicazione da appositi enzimi, se invece si genera sul nuovo filamento si ottiene, in definitiva, l’aggiunta di una unità ripetuta.

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I polimorfismi a carico dei microsatelliti sono quindi il risultato di un processo di slittamento e riparazione dello stesso, operato dai meccanismi di controllo insiti nel DNA. I microsatelliti vengono classificati, in base a quanto proposto da Weber (1990) in, perfetti (se le ripetizioni non hanno interruzioni), imperfetti (con interruzioni) e composti (se accanto ad un motivo ripetuto ne è presente uno diverso e ripetuto).

Il polimorfismo di un microsatellite, può essere facilmente rilevato attraverso amplificazione per mezzo di PCR e successiva determinazione della lunghezza del frammento amplificato per mezzo di elettroforesi ad alta risoluzione (Figura 1.3.2). È stato dimostrato che la combinazione del polimorfismo dei loci microsatelliti (profilo microsatellite) permette di identificare univocamente il genotipo di una data varietà. Inoltre, i microsatelliti avendo un’eredità codominante permettono di discriminare tra omozigoti e eterozigoti, consentono l’analisi della paternità, la ricostruzione del pedigree e quindi studi filogenetici.

Figura 1.3.2: schematizzazione di un locus microsatellite e delle relative regioni fiancheggianti sulle

quali vengono costruiti i primers (in alto), esempio di visualizzazione dei vari frammenti, suddivisi in base alla grandezza in paia basi (in basso).

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Si può affermare che i primers ottenuti in una specie sono spesso utilizzabili anche per ottenere il profilo di specie tassonomicamente vicine appartenenti allo stesso genere o a generi differenti nella stessa famiglia, come accade nella vite. I microsatelliti, fra i vari marcatori molecolari a DNA sperimentati in viticoltura, sono diventati in poco tempo i marcatori di elezione per il riconoscimento varietale, lo studio delle relazioni genetiche dei vitigni e la ricostruzione del pedigree, in virtù della loro natura codominante e dell’elevato polimorfismo.

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1.3.3 Marcatori molecolari: SNP

I polimorfismi a singolo nucleotide (Single Nucleotide Polymorphism, SNP) sono marcatori molecolari a DNA che possiedono la massima efficienza nel mappare e valutare la diversità genetica; possono essere utilizzati per una vasta gamma di scopi, tra cui la rapida identificazione delle cultivar, la costruzione di mappe genetiche e gli studi di associazione tra un genotipo dato e un tratto di interesse (Myles S. et al, 2010).

Gli SNPs sono mutazioni che avvengono naturalmente e che hanno effetto su di un singolo nucleotide (Figura 1.3.3). Essi costituiscono la stragrande maggioranza di tutti i polimorfismi di sequenza nella parte eucromatica di quasi tutti i genomi e sono classificati a seconda della natura del nucleotide coinvolto. Gli SNP non codificanti possono trovarsi nelle regioni non trascritte in 5’ o in 3’ (NTR), nelle regioni non tradotte in 5’ o in 3’(UTR), in un introne, oppure tra un gene ed un altro (SNP intergenici) mentre gli SNP codificanti possono essere polimorfismi di sostituzione (cioè che cambiano l’aminoacido codificato), oppure polimorfismi sinonimi. I polimorfismi di non sostituzione comprendono polimorfismi sinonimi e non codificanti, molti dei quali possono comunque influenzare le funzioni del gene attraverso effetti sulla regolazione trascrizionale e traduzionale, sullo splicing o sulla stabilità del RNA. Un’altra possibile classificazione degli SNP è in transizioni o trasversioni. Le transizioni trasformano una purina in un’altra purina, o una pirimidina in un’altra pirimidina (es. A→G, C→T e viceversa). Le trasversioni invece trasformano

Figura 1.3.3: Esempio di mutazione (C-G→T-A) a singolo nucleotide in due filamenti uguali di DNA.

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una purina in una pirimidina e viceversa A o G →C o T (Holliday and Grigg 1993). Per quanto riguarda applicazioni in analisi di diversità genetica, gli SNP offrono il vantaggio del loro elevato numero e della possibilità di automatizzare il processo di genotipizzazione. Gli SNP possono altresì venire usati per sviluppare test diagnostici di identificazione varietale dato che hanno il vantaggio di prestarsi in vari modi alla tecnica di PCR (Consolandi et al., 2007).

1.4

La vite e il vino in Toscana

La storia viticola Toscana ha radici molto antiche, la cultura del vino è insita nella tradizione regionale. Basti pensare che le prime prove di coltivazione della vite in Toscana si ritrovano a partire dal VIII secolo a.C.; furono infatti gli Etruschi, insediatisi in quei secoli nella costa tirrenica, i primi a coltivare la vite. Essi utilizzavano alberi vivi, generalmente aceri o frassini come tutori della vite, sui cui rami si arrampicavano i tralci della vite. Queste specie, in particolare, si "sposavano" alla perfezione con la vite perché non hanno un gran vigore vegetativo e sopportano bene le potature. Ancora oggi in alcune zone della Toscana si possono scorgere tracce di questa forma di allevamento aerea. È comunque con l’Impero Romano che i vini di questa regione iniziano ad acquisire quella fama che non li abbandonerà nei secoli successivi. Oggi i vini toscani sono conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, così come il territorio che li produce.

La viticoltura Toscana storicamente è stata caratterizzata da un elevato numero di vitigni coltivati. A cavallo dei secoli XVII e XVIII, alla corte dei Medici, il botanico Pietro Antonio Micheli ha catalogato nei suoi manoscritti circa 220 vitigni coltivati nella zona di Firenze. Dalle testimonianze dei vari ampelografi e tecnici dei secoli scorsi risultava la presenza di numerosissimi vitigni e biotipi nelle diverse zone di produzione. Una svolta, purtroppo in senso negativo, si è avuta nel corso del Novecento, con il notevole

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riduzione delle basi varietali. Si passò in quel periodo da una fase di estrema variabilità a un numero sempre più limitato di vitigni coltivati che, tra l’altro, dovevano in genere rispondere a criteri di elevate produzioni unitarie con conseguenti ripercussioni negative sulla qualità. Con l’espandersi dei commerci e l’imposizione di gusti internazionali che privilegiano pochi vitigni di qualità, il numero di varietà coltivate tende oggi a ridursi ulteriormente a vantaggio di un ristretto lotto di cultivar.

Tra i vitigni a bacca nera il Sangiovese si è collocato tra le varietà ”cult” della Toscana, non da meno sono il Canaiolo Nero, il Ciliegiolo e l'Aleatico , fra i vitigni autoctoni, in oltre sono molto diffusi anche Cabernet Franc, Sauvignon, Merlot e Syrah, fra i vitigni internazionali coltivati ormai da svariati decenni. Tra le varietà a bacca bianca sono da celebrare il Trebbiano Toscano, la Malvasia del Chianti, la Vernaccia di San Gimignano, l'Ansonica, il Canaiolo Bianco, il Greco e il Vermentino fra le varietà autoctone, nonché Chardonnay e Sauvignon fra quelle internazionali.

Il settore vitivinicolo attualmente costituisce un segmento fondamentale per l'economia agricola della regione (http://italian-flavor.com/). L'export toscano di vino, per la prima volta verso la quota di 750 milioni di euro. Con una spinta nelle vendite all'estero che ha registrato un aumento del 46% negli ultimi cinque anni. Sono le prime stime sul 2013 elaborate dall’agenzia regionale Toscana Promozione. La Toscana, con il 15% delle esportazioni vitivinicole nazionali anche nel 2013 si conferma al terzo posto in Italia, dopo Veneto e Piemonte. Mentre ha il primato in Italia sui rossi Dop, con oltre 352,2 milioni di euro di vini rossi a denominazione venduti nel mondo nei primi nove mesi del 2013.

Il successo dell'enologia toscana nel mondo è trainato dai vini Dop (a denominazione d'origine protetta) rossi e bianchi che rappresentano il 70,6% dell'export regionale di vini in valore e che nei primi nove mesi del 2013 hanno fatto registrare un incremento delle vendite all'estero del 4% in valore e dello 0,6% in quantità (ANSA, 16 febb. 2014). Dai dati rilevati si può notare la grande importanza che il settore vitivinicolo ha per la regione, e da questo ne scaturisce la necessità di caratterizzazione della biodiversità e di preservazione delle varietà autoctone della regione, importanti non solo dal punto di vista commerciale ma anche come patrimonio storico e culturale.

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1.5

La Biodiversità

1.5.1 Aspetti normativi e definizione

Negli ultimi decenni si è andata consolidando, prima negli ambiti scientifici e poi nell’opinione pubblica in generale, l’importanza della conservazione del patrimonio biologico del pianeta, sinteticamente espresso dal termine “biodiversità”. Tale consapevolezza è stata riconosciuta nell'ambito di trattati internazionali promossi dalle Nazioni Unite. La prima convenzione in ordine cronologico è stata quella sulla Diversità Biologica, o CBD, adottata a Nairobi, Kenya, il 22 maggio 1992, ad oggi ratificata da 188 paesi, che fu aperta alla firma dei paesi durante il Summit Mondiale dei Capi di Stato tenutosi a Rio de Janeiro (5 giugno 1992) insieme alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ed alla Convenzione contro la Desertificazione, denominate le tre Convenzioni di Rio. In tempi più recenti la tutela della diversità in campo agrario, zootecnico e forestale è stato oggetto del Trattato Internazionale sulle Risorse Fitogenetiche per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO, 2004). Nel marzo 2010 i leader europei hanno riconosciuto che l’obiettivo in materia di biodiversità che l’UE si era data per il 2010 non sarebbe stato raggiunto, nonostante alcune importanti realizzazioni come la creazione di Natura 2000, la più grande rete mondiale di zone protette. Hanno pertanto adottato la visione a lungo termine e l’ambizioso traguardo chiave di medio termine proposti dalla Commissione nella comunicazione Soluzioni per una visione e un obiettivo dell’UE in materia di biodiversità dopo il 2010. Al livello internazionale la decima conferenza delle parti (CoP10) della convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, tenutasi a Nagoya nel 2010, è sfociata nell’adozione dei seguenti atti: un piano strategico mondiale per la diversità 2011-2020, il protocollo di Nagoya per l’accesso alle risorse genetiche e alla giusta ed equa ripartizione dei benefici derivanti dal loro uso (ABS), e la strategia di finanziamento per la biodiversità a livello mondale. La strategia dell’UE a favore della biodiversità per il

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In linea generale, per biodiversità si intende l'insieme di tutte le forme, animali o vegetali, geneticamente dissimili presenti sulla terra, e degli ecosistemi ad esse correlate. Quindi biodiversità implica variabilità genetica ed ecosistemica. Il termine biodiversità si è ormai consolidato e viene comunemente utilizzato nei diversi ambiti scientifici e culturali. La traduzione italiana del termine inglese “biodiversity” ne modifica leggermente, ma in modo determinante, il significato. In inglese “diverse” significa vario, molteplice, mentre in italiano diverso ha un significato restrittivo, una traduzione più fedele di “biodiversity” potrebbe essere biovarietà o varietà della vita presente sul pianeta. L'importanza della biovarietà è principalmente dovuta al fatto che la vita sul nostro pianeta, compresa quella della specie umana, è possibile principalmente grazie ai cosiddetti servizi forniti dagli ecosistemi, i quali devono conservare un certo livello di funzionalità. Questi servizi sono generalmente raggruppati in quattro categorie che sono: servizi di fornitura (di cibo, acqua, legno e fibre); servizi di regolazione (stabilizzazione del clima, assetto idrogeologico o riciclo dei rifiuti); servizi culturali (valori estetici ricreativi e spirituali); servizi di supporto (formazione suolo, fotosintesi, riciclo nutrienti).

La visione moderna del rapporto fra uomo e ambiente è quindi quella che riconosce la diversità biologica come elemento chiave del funzionamento dell'ecosistema Terra. I motivi per mantenere un'elevata variabilità sono molteplici. La perdita di specie, sottospecie o varietà comporta infatti un danno sia ecologico, perché causa un degrado della funzionalità degli ecosistemi, che culturale, in quanto si perdono le conoscenze umane legate alla biodiversità. La perdita provocata dall’erosione genetica è molto spesso anche di tipo economico, a causa dell’eliminazione di “capitali genetici” potenzialmente importanti. Pertanto, tutte le risorse biologiche, anche quelle minori, meritano di essere individuate, valorizzate e preservate nella logica di uno sviluppo rurale completo ed armonico e della salvaguardia ambientale. A tale proposito è opportuno sottolineare che le regioni mediterranee sono molto ricche in prodotti agricoli tipici e pregiati, per la cui valorizzazione è inoltre possibile ottenere riconoscimenti dall’unione europea (DOP, IGP e AS).

Il recupero e la valorizzazione delle risorse genetiche autoctone, oltre ad assolvere all’importantissimo compito della tutela della biodiversità, permette la valorizzazione

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le tradizioni a esse legate e la cultura rurale che le ha sviluppate e che ha permesso la conservazione di tante varietà e razze locali nel tempo.

1.5.2 La biodiversità viticola Toscana

Attualmente, a causa di alcuni fattori, quali le disponibilità vivaistiche, i disciplinari di produzione dei vini DOC e DOCG, la legislazione nazionale e comunitaria (Legge 1164/69 e Reg. CEE n. 1388 del 6 ottobre 1970, che istituisce il Catalogo nazionale delle varietà di vite autorizzate o raccomandate alla coltivazione in ogni provincia, sostituito ora dall’Elenco delle varietà di vite idonee alla coltivazione nella regione), pochi vitigni occupano la gran parte della superficie regionale, con il Sangiovese che arriva al 65,3% del totale e i primi 6 che occupano ben il 91% dei vigneti (Figura 1.5.2)

(ISTAT, 2010).

Tale andamento si denota anche a livello nazionale, dove le produzioni vivaistiche sono rivolte per circa il 45% a sole 5 varietà, che in ordine decrescente d’importanza sono: Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Pinot Grigio e Barbera.

Tale situazione è determinata, oltre che dalle cause precedentemente indicate, anche dall’identificazione della qualità con pochi vitigni nazionali o internazionali e dalla presenza di varietà locali scarsamente qualificate e con pessimo stato sanitario, con

Figura 1.5.2: Grafico a torta riportato dalle indagini ISTAT 2010,

rappresentante le percentuali della diffusione dei maggiori vitigni toscani per vigneto.

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possono ritenere autoctone della regione sono 33, 25 vitigni provengono da altre regioni e 20 sono di origine straniera, di cui ben 17 francesi.

In complesso le varie fasi evolutive delle basi ampelografiche da un lato hanno portato a una viticoltura più consona a soddisfare le esigenze tecniche, economiche, sociali e commerciali dei nostri tempi ma, dall’altro, hanno creato le condizioni per una grave riduzione e in certi casi perdita di una notevole parte del patrimonio genetico viticolo accumulatosi nel corso dei secoli.

La conservazione e la valorizzazione del patrimonio viticolo autoctono diventano, pertanto, necessarie per limitare il rischio evidente di erosione genetica e per offrire l’opportunità di ottenere, da alcuni vitigni, vini dotati di caratteristiche di tipicità esclusiva.

1.5.3 Un Database Viticolo Italiano per la salvaguardia della biodiversità

La presente ricerca si colloca all’interno di un progetto più ampio, il progetto Ager (Agroalimentare e Ricerca), il quale si inserisce nella tematica della salvaguardia e valorizzazione della “biodiversità” della vite (Vitis vinifera) ed ha come oggetto lo studio dei vitigni regionali. L’attività di tale progetto è finalizzata al completamento della caratterizzazione dei vitigni autoctoni italiani e all’inserimento delle informazioni nel Database Viticolo Italiano (http://www.vitisdb.it) (Figura 1.5.3), la cui piattaforma è stata realizzata dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali (D’Onofrio, 2004; D’Onofrio e Scalabrelli, 2010) con il supporto finanziario della ColleMassari S.p.A. e la Fondazione Socio-culturale Montecucco, e amministrato dal Dott. D’Onofrio. Il Database Viticolo Italiano è in grado di accogliere, gestire e confrontare in maniera integrata una vasta mole di dati: oltre ad accessioni di vite coltivata (Vitis vinifera subsp. Sativa) possono essere inserite anche accessioni di vite selvatica (Vitis vinifera subsp. Sylvestris), che alcune recenti indagini hanno evidenziato essere importanti dal punto di vista scientifico, sia per comprendere l’origine e l’evoluzione dei vitigni, sia come fonte di conservazione della biodiversità genetica del genere Vitis.

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Nel Database inoltre possono essere inserite anche altre accessioni appartenenti al genere Vitis e più in generale appartenenti alla famiglia delle Vitaceae.

Le principali classi di dati del Database Viticolo Italiano sono: il “vitigno”, le “caratteristiche ampelografiche”, riportate nella seconda edizione del codice di caratteri descrittivi OIV, e il “profilo dei loci microsatelliti”. A differenza degli altri database viticoli, l’applicazione del database permette ai singoli utenti (unità operative) di inserire e gestire direttamente i propri dati, senza poter intervenire su quelli inseriti dalle altre unità operative.

I dati presenti nel database hanno tre livelli di visualizzazione: livello “privato”, nel quale le accessioni sono visibili solo all’unità operativa che le ha inserite; livello “intermedio”, in cui le accessioni sono visibili a tutte le unità operative aderenti al progetto; livello “pubblico”, che rappresenta il livello di massima visualizzazione aperto a tutti gli utenti. I dati possono essere elevati nel livello pubblico solo dopo essere stati approvati da un comitato scientifico.

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L’inserimento delle accessioni nel database prevede una procedura di standardizzazione dei profili microsatelliti, sulla base del confronto con accessioni di riferimento dette “accessioni di sistema” (D’Onofrio C., 2004).

2 Scopo del lavoro

La Vite è una pianta di grande interesse storico e commerciale e rientra sicuramente tra le tipologie di colture da preservare, per questo negli ultimi anni ci sono state numerose iniziative, sia a livello comunitario e nazionale che regionale, volte a preservare e valorizzare la biodiversità vitivinicola autoctona. In tale contesto si inserisce il progetto di tesi trattato nell’elaborato, rientrando nelle iniziative promosse da diversi enti, le quali mirano da una parte alla ricerca di base nel campo agroalimentare, ma anche al riconoscimento e alla genotipizzazione dei vitigni autoctoni della regione Toscana. In modo particolare, l’elaborato fa riferimento a due progetti: il progetto Ager, che è un’iniziativa di collaborazione tra Fondazioni per la ricerca scientifica nel campo agroalimentare e il progetto IMViTo, il quale ha dato luogo ad un’organizzazione che dal 2010 ha lo scopo di fornire risposte concrete per la sostenibilità dei sistemi di coltivazione e trasformazione, la valutazione della potenzialità dei vitigni autoctoni regionali e la tracciabilità nel settore viticolo. Nello specifico abbiamo analizzato i profili genetici di 60 varietà, attraverso l’analisi dei profili molecolari ottenuti tramite marcatori molecolari di tipo SSR e SNP. La genotipizzazione delle varietà in esame è stata effettuata tramite queste due tipologie di marcatori molecolari a DNA, al fine di verificare quale metodo di analisi dia risultati maggiormente attendibili per l’identificazione delle diverse famiglie geniche all’interno del set di campioni in esame.

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3

MATERIALI E METODI

3.1

Materiale vegetale

Il materiale vegetale utilizzato in questo lavoro proviene da vitigni toscani, i quali sono stati selezionati su base ampelografica ai fini della corretta genotipizzazione. Per l’estrazione del DNA nucleare il materiale vegetale è costituito da giovani foglioline apicali del diametro di circa 2 cm che è stato prelevato in campo nel periodo di attiva crescita del germoglio, oppure da germogli sviluppati, in laboratorio, utilizzando il materiale legnoso prelevato nel periodo invernale (Figura 3.1).

Il materiale per l’estrazione è stato da prima fissato in Azoto liquido e poi conservato a -80°C, fino al momento

dell’estrazione

Abbiamo analizzato, per questo elaborato, un totale di 60 varietà di vitigni toscani (Tabella 3.1), sottoposti a genotipizzazione con l’ausilio di marcatori molecolari a DNA,

Figura 3.1: Fotografia di un germoglio apicale di

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Di seguito in tabella 3.1 sono riportati i campioni con il loro codice di riferimento e il nome del vitigno appartenente. Nel dettaglio abbiamo analizzato un numero di 3 Vitis

vinifera subsp silvestris, 56 Vitis vinifera subsp sativa e 1 Vitis rupestris. di cui 34 a

bacca nera e 23 a bacca bianca.

Campione

Vitigno

Campione

Vitigno

1 Moscato di Alchi 31 Sanforte

2 Ciliegiolo 32 Tempranillo

3 San Lorenzo 33 Malvasia Bianca Lunga

4 Barsaglina 34 Canaiolo Nero

5 Carignano 35 Carraresa

6 Albarola 36 Mammolo

7 Grechetto Bianco 37 Marsanne

8 Malvasia Istriana 38 Moscato Violetto

9 Canina Nera 39 Viogner

10 Alicante Bouschet n. 40 Trebbiano Toscano

11 Cabernet Franc 41 Verdello

12 Vernaccia di S.Gimignano b. 42 Syrah

13 Chardonnay 43 Aleatico

14

Malvasia di Candia

Aromatica 44 Colorino Toscano

15 Gaglioppo 45 Petit Verdot

16 Sylvaner verde b. 46 Ancellotta

17 Garganega 47 Traminer

18 Teroldego 48 Montepulciano

19 Gamay 49 Mourvedre

20 Malvasia di Candia B 50 Corlaga

21 Raffayon 51 Sauvignon Bianco

22 Lugliesa toscana b. 52 Merlot

23 Syl_30 53 Moscato Bianco

24 Bonamico 54 Cabernet_S

25 Syl_01 55 Moscato nero di Aqui

26 Syl_03 56 Ansonica

27 Mazzese di Parlascio n. 57 Rupestris du Lot

28 Sauvignon Rosso 58 Durella Gentile

29 Lacrima 59 Pinot Nero

30 Sangiovese 60 Brachetto

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3.2

Estrazione del DNA e quantificazione

Per l’estrazione del DNA da giovani foglioline è stato utilizzato il protocollo riportato da Mulcahy et al. (1993) modificato da Vignani et al. (2002):

3.2.1 Protocollo di estrazione

Il protocollo di estrazione prevede l’utilizzo di foglioline apicali del diametro di circa 2 cm per un totale di 0,2-0,3 grammi. Il materiale è stato triturato in un mortaio sterile, di circa 8 centimetri di diametro, precedentemente refrigerato con l’azoto liquido, fino ad ottenere una polvere sottilissima. Una volta ottenuta, la polvere è stata trasferita in falcon da 15 ml, nelle quali sono stati aggiunti 3 ml di buffer di estrazione preriscaldato a 60°C (CTAB buffer 2%: NaCl 1,4 M a pH 8; Tris-HCl 100 mM a pH 8; CTAB 2% (p/v); 2-mercaptoetanolo 0,4% (p/v)).

Le falcon sono state ad incubarete in bagno termostatato a 60°C per 60 minuti, e dopodichè sono state fatte raffreddare a temperatura ambiente, è stato poi aggiunto un ugual volume di cloroformio/ottanolo (24:1, v/v), vortexati fino ad ottenere una fase omogenea a seguire sono stati centrifugati a 7000g per 10 minuti a 20°C. successivamente è stato recuperata la fase acquosa ed aggiunto un volume di isopropanolo freddo (20°C) dopodiché i campioni sono stati incubati per 30 minuti a -80°C, oppure a -20°C overnight. Terminato il periodo di incubazione sono stati centrifugati a 7000g per 10 minuti a 4°C, è stato eliminato il surnatante e il pellet ha subito un lavaggio con 1.5 ml di etanolo al 76%/acetato di sodio 0.2 M, i campioni sono stati poi trasferiti in tubini da 1,5 ml, è seguito un periodo di incubazione in ghiaccio di 30 minuti. Allo scadere del tempo è stata effettuata un’ulteriore centrifuga a 15000g per 10 minuti a 4°C, eliminato il surnatante e il pellet è stato ulteriormente lavato con 1.5ml di etanolo al 76%/acetato di ammonio 0.01 M e lasciato in incubazione in ghiaccio per altri 30 minuti. I campioni sono stati poi ricentrifugati a 15000g per 10 minuti a 4°C, e gli è stato eliminato il surnatante. A questo punto il pellet di ogni

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incubare a 37°C per 30 minuti, condizioni alle quali agisce l’enzima e la soluzione di “lavaggio”. Si procede ora alla fase di separazione delle molecole di DNA dalle altre di “scarto”, questo è stato effettuato aggiungendo ai campioni un ugual volume di fenolo/cloroformio (1:1 v/v), le due fasi sono state omogeneizzate con il vortex ed è stata effettuata una centrifuga a 15000rpm per 10 minuti a 4°C in modo da ottenere la separazione delle 3 fasi: la prima contenete il DNA, la seconda contenente residui cellulari, proteici e di RNA, e la terza contenente il fenolo/cloroformio; a questo punto è stata recuperata la fase acquosa (circa 450 µl), trasferita in nuovi tubi da 1,5 ml; sono stati aggiunti 1/10 di volume di NaCl 3 M e 2 volumi di etanolo assoluto freddo (-20°C) i tubi sono stati miscelati delicatamente per inversione e per far precipitare il DNA e sono stati messi per almeno 30 minuti a -80°C, oppure overnight a -20°C. Terminato il periodo di incubazione il DNA di ogni campione è stato pellettato tramite una centrifuga a 15000rpm per 10 minuti a 4°C. E’ stato poi eliminato i surnatante e il pellet ha subito un ulteriore lavaggio con etanolo al 70%, un altra centrifuga a 15000rpm per 10 minuti a 4°C scartando nuovamente il surnatante ottenuto, il pellet è stato da prima fatto asciugare allo speed-vacum e poi solubilizzato in un volume di acqua sterile pari a 100-200 μl.

Purificazione del DNA: Il DNA estratto dalle giovani foglioline è stato poi ulteriormente

purificato utilizzando il DNeasy Plant Mini Kit (Qiagen) con relativo protocollo

3.2.2 Valutazione della quantità e della qualità del DNA estratto

La valutazione della quantità, della qualità e dell’integrità del DNA estratto è stata effettuata sia attraverso una corsa elettroforetica che con la lettura allo spettrofotometro. Nello specifico per la corsa elettroforetica è stato preparato un gel sciogliendo polvere di agarosio in acqua distillata (1% p/v); alla miscela è stato poi aggiunto TAE alla concentrazione finale di 1x e Bromuro di Etidio alla concentrazione finale di 1 μg/ml. Nei pozzetti del gel sono stati caricati 2μl di ogni DNA estratto, ad ognuno dei quali sono stati aggiunti 2μl del tampone di caricamento (ORANGE). Assieme ai DNA estratti inoltre, sono state caricate quantità scalari di DNA marker

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(DNA del fago λ da 50ng/µl e da 100ng/µl) a concentrazione nota.

La corsa è stata effettuata a 50V per circa 15 minuti, sufficienti per far entrare il DNA in esame nel gel di agarosio (Figura 3.2.2). Alla fine della corsa il gel è stato visualizzato su un transilluminatore ai raggi UV (302nm) ed `e stata confrontata l’intensità delle bande date dai campioni con quelle date dai markers a concentrazione nota: in base a tale paragone, abbiamo potuto

stabilire la concentrazione dei campioni. Per valutare la qualità del DNA estratto e l’eventuale presenza residua di fenolo e proteine, è stata invece effettuata una misurazione dell’assorbanza allo spettrofotometro. Il DNA

genomico di ogni campione è stato analizzato valutando l’andamento della curva corrispondente ai valori di assorbanza del DNA nell’ultravioletto (Figura 3.2.3). In particolare si è valutato il valore corrispondete alla lunghezza d’onda dei 260nm

Figura 3.2.2 : foto del gel, visualizzato al transilluminatore, utilizzato per la quantificazione del DNA

gnomico.

Figura 3.2.3: grafico della curva di assorbanza formata dal

(31)

I DNA estratti sono stati infine diluiti con acqua sterile in modo da ottenere per tutti i campioni concentrazioni finali simili.

3.3

Genotipizzazione attraverso gli SSR

Per le accessioni in esame è stato analizzato il polimorfismo di 24 loci microsatelliti o SSR (Single Sequence Repeat). La tecnica prevede una reazione di PCR (Polymerase Chain Reaction) su DNA genomico, utilizzando dei primer marcati con fluorescenza, una corsa dei prodotti di amplificazione su un gel di agarosio per verificare l’avvenuta amplificazione dei loci ed una seconda corsa con sequenziatore a capillare per rilevare la lunghezza dei frammenti di PCR, quest’ultima è stata fatta poiché il sequenziatore ha una maggiore precisione in quanto ha un errore standard che va da +1 a -1 paia basi, a differenza del controllo delle bande sul gel che può avere un errore di +/- 20 paia basi. L’analisi è stata effettuata seguendo il procedimento descritto in seguito.

3.3.1 Amplificazione dei loci SSR

In particolare la reazione di PCR è stata ottenuta utilizzando dei primer (forward e reverse) costruiti sulle regioni fiancheggianti il locus di un noto SSR di vite ed una Taq non ricombinante (Promega).

La fluorescenza è stata introdotta all’estremità 5’ dei primer forward, mentre ai primer reverse in posizione 5’ è stata aggiunta la sequenza nucleotidica -GTTT- oppure -GTT- se T è la prima base azotata, come suggerito da Rampling et al. (2001). Il fluorocromo utilizzato per ciascun primer è specificato di seguito (Tabelle 3.3.1, 3.3.2)

Un totale di 24 loci sono stati analizzati in questo lavoro, i primi 14 utilizzati nel Laboratorio di Ricerche Viticole ed Enologiche per analisi sull’identificazione varietale generale solocce comprendono i 9 loci riconosciuti a livello internazionale che sono: VVS2, ssrVrZag79, ssrVrZag62, VVMD7, VVMD27, VVMD5, VMC1B11, VVMD6, VVMD21, VVMD17, VVMD25, VVMD24, VVMD32,VVMD28.

(32)

Questi locus sono stati suddivisi in 2 corse sul sequenziatore denominate Corsa A e Corsa B, ciascuna delle quali contiene 7 loci microsatellite, il criterio, con il quale sono stati suddivisi i loci, si basa sul valutare il range di lunghezza di ogni locus e associarlo ad un secondo con diversa lunghezza in modo da poter utilizzare il medesimo fluorocromo più volte in un unica corsa:

Corsa A min basi max basi MARC.(5’) Corsa B min basi max basi MARC.(5’) VVS2 120 165 6-FAM VVMD6 180 250 6-FAM

ssrVrZAG79 230 270 6-FAM VVMD21 218 267 6-FAM

ssrVrZAG62 181 220 HEX VVMD17 212 236 HEX

VVMD7 231 268 HEX VVMD25 234 272 HEX

VVMD27 172 218 NED VVMD24 178 223 NED

VVMD5 216 287 NED VVMD32 236 275 NED

VMC1B11 165 208 PET VVMD28 214 282 PET

Tabella 3.3.1: Locus microsatelliti dei primi 14 loci suddivisi in base alla lunghezza attesa in paia basi e

per fluorocromo.

I restanti 10 loci aggiuntivi li abbiamo inseriti al fine di ottenere un’analisi statistica maggiormente significativa, questi comprendono: VVIq52, VMC4f3, VVIp60, VVIh54, VVIb01, VVIn16, VVIv67, VVIv37, VVIn73, VVIp31.

Anch’essi come i primi sono stati suddivisi in due corse, Corsa D e Corsa E, mediante gli stessi criteri:

Corsa D

min basi

max

basi MARC. Corsa E

min basi max basi MARC. VVIq52 71 89 6_FAM VVIn16 141 175 6_FAM

VMC4f3 156 230 6_FAM VVIv67 305 388 6_FAM

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3.3.2 Amplificazione dei loci

L’amplificazione dei loci SSR in esame tramite la reazione a catena della polimerasi (PCR), è stata eseguita secondo il protocollo riportato da D’Onofrio et al.,2010.

La mix di reazione utilizzata per l’amplificazione consiste in 1x Taq polimerasi Mg free Buffer, 1.8 mM MgCl2, 100 µM di ciascun dNTPs,

0.5µM di ciascun primer (Forward e Reverse), 0.5 U Taq polimerasi (Promega) e 10 ng di DNA stampo. Le dosi utilizzate per la reazione di amplificazione dei loci microsatellitari sono riportare in tabella 3.3.3.

La reazione di PCR in questione è costituita da 35 cicli, preceduti da una fase di denaturazione del DNA a 94 °C di 2 minuti e seguiti nella fase finale da un intervallo di 5 minuti a 72 °C. Ogni ciclo è composto da tre steps: un primo passaggio di denaturazione della doppia elica a 94°C della durata di 30 secondi, un secondo di appaiamento degli oligonucleotidi a 52 °C per 30 secondi, ed infine un terzo di polimerizzazione del DNA a 72 °C della durata di 1 minuto (Figura 3.3.2)

Figura 3.3.2: schematizzazione del protocollo di PCR utilizzato per l’estensione dei loci microsatelliti.

REAGENTI VOLUMI(µl)

DNA genomico (2.5 ng /µl)

Taq polimerasi Mg free Buffer (5 x)

MgCl 2 ( 25 mM )

Mix nucleotidica (conc. dNTP 10 mM)

primer forward ( 10 pmol/µl) primer reverse ( 10 pmol/ µl) Taq polimerasi (Promega, 5U/ µl)

H2O sterile DNAsy-free Volume Totale 4 4 1.5 0.2 1 1 0.1 8.4 20

Tabella 3.3.3: Reagenti alla concentrazione finale e

(34)

3.3.3 Elettroforesi

Per avere un responso immediato dell’avvenuta reazione di PCR, al termine di ogni fase di amplificazione sono stati prelevati 6μl da ogni campione, a cui sono stati aggiunti 2μl di tampone di caricamento (ORANGE). Sono stati caricati su un gel al 2% p/v di agarosio, costituito da TAE alla concentrazione finale di 1x e acqua de-ionizzata, al quale è stato aggiunto bromuro di etidio, alla concentrazione finale di 1 μg/ml, il quale essendo un intercalante del DNA, ci permette di identificare visivamente la diversa concentrazione dell’amplificato nei campioni, grazie alla sua reazione di risposta luminosa durante l’esposizione ai raggi UV del transilluminatore. Come indicatore di corsa invece, per determinare la grandezza preliminare dei frammenti, è stato inserito, nel primo pozzetto di ciascun gel, il marker kilobase (Promega)

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della corsa il gel, come accennato prima, è stato visualizzato su un transilluminatore ai raggi UV (302nm) per verificare il successo dell’amplificazione del frammento. Il risultato finale della corsa elettroforetica, che visualizziamo nel gel, sono due bande distinte, quella in alto è la banda del locus amplificato mentre la banda in basso sono i prodotti di “scarto” della PCR (residui di primers, piccoli frammenti, dNTP’s...). I campioni visualizzati nel gel, vengono opportunamente portati a concentrazioni uguali, a seconda della loro “luminosità” e spessore della banda gli si assegna un valore, in base al quale viene calcolata la diluizione più consona per ogni caso, effettuata con l’aggiunta della giusta quantità di acqua per biologia molecolare.

Una volta ottenuti i campioni con le giuste concentrazioni, si può procedere al raggruppamento degli amplificati di ogni campione in un unico tubino, questo è stato effettuato tenendo conto delle suddivisioni dei locus per ogni corsa (A, B, D, E), raggruppandoli in base ad esse e ottenendo così per ogni campione 4 tubini contenenti ognuno una corsa.

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3.3.4 Rilevamento dei frammenti marcati

I campioni sono stati spediti per l’analisi della lunghezza dei frammenti di PCR marcati con fluorescenza presso i laboratori del C.I.B.I.A.C.I. dell’Università di Firenze.

In ogni corsa è stata aggiunta della formammide ed un marcatore di corsa interno di lunghezza nota (Genescan 350-ROX) nel rapporto di 1:12:0.5, in seguito la soluzione è stata denaturata a 95°C per 5 minuti ed analizzata sul sequenziatore automatico a singolo capillare ABI 310 (PE Biosystems). L’elaborazione dei dati è stata effettuata con il programma GeneScan 3.7. (Figura 3.3.4).

Figura 3.3.4: Schermata del programma GeneScan nell’analisi dei

Frammenti SSR

I dati ottenuti dall’elaborazione sono stati poi confrontati con il database per la corretta identificazione della varietà.

(37)

3.4

Genotipizzazione attraverso gli SNP

Recentemente, in seguito al risequenziamento di alcune varietà di Vitis sp. Nell’ambito del GrapeReSeq Consortium, sono stati selezionati circa 15000 SNPs significativi per

Vitis vinifera e circa altri 5000 SNPs per Vitis non-vinifera, i quali sono stati utilizzati da

Illumina per la costruzione dell’array “Vitis vinifera Illumina Infinium 20K chip”. Più di 500 chips sono stati acquistati nell’ambito dei progetti Ager e IMVITO, 184 dei quali sono stati utilizzati dall’UNIPI al fine di caratterizzare il genotipo delle principali varietà toscane. In particolare UNIPI ha scelto scelte 95 accessioni Vitis vinifera subsp. sativa, 40 di Vitis vinifera subsp. sylvestris, 42 cloni di Sangiovese, 4 Vitis sp. e 3 specie di no

Vitis appartenenti alla famiglia delle Vitacee.

Ai fini dell’analisi sono stati inseriti 20 µl di DNA genomico alla concentrazione di 50 ng/µl in delle piastre multipozzetto secondo lo schema prefissato da Illumina e tenendo conto dei pozzetti di controllo (Figura 3.4). Il DNA genomico dei campioni è stato portato alla concentrazione richiesta tramite diluizione con acqua per biologia molecolare Dnasy-free

Figura 3.4:Schema inviato da Illumina per la disposizione dei campioni nelle piastre.

Dopodiché i campioni sono stati spediti in Germania, presso un laboratorio esterno (TraitGenetics), ai fini dell’ ibridazione dell’array a scansione (array VitisSNP).

Dai 184 campioni analizzati per il progetto Ager e IMVITO, ai fini del presente lavoro, sono state selezionate 60 accessioni, 56 di Vitis vinifera subsp sativa, 3 Vistis vinifera subsp. silvestris e 1 Vitis rupestris, sulle quali abbiamo effettuato anche l’estensione del profilo microsatellite a 24 loci.

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3.5

Elaborazione dei dati

L’identificazione varietale di ciascun campione è stata effettuata, a partire dai dati ottenuti dai profili microsatelliti, attraverso il confronto con il Database Viticolo Italiano ed europeo, secondo le procedure implementate in ciascun datebase, e tramite il software “CERVUS 3.0.3” al fine di confermare l’identificazione e di eliminare i casi di sinonimia ed omonimia all’interno del set di campioni.

Per una corretta elaborazione dei dati derivati dall’analisi dei profili SSR e SNPs, abbiamo utilizzato vari strumenti di indagine statistica.

Per visualizzare le distanze genetiche tra i 60 campioni in esame sono stati elaborati degli alberi filogenetici (o dendogrammi) di tipo UPGMA per mezzo del software MEGA 5.0. Questo software ha elaborato i dendogrammi utilizzando le matrici delle distanze di Nei elaborate attraverso i software Population per gli SSR e PEAS per gli SNPs.

Abbiamo, inoltre, generato un ulteriore dendogramma con il software DarWin, basato sulla matrice di corrispondenza delle dissimilarità calcolata sui dataset dei 24 SSR e dei circa 13000 SNPs dei 60 genotipi in esame, attraverso l’analisi bootstrap (10'000) della struttura gerarchica: questo tipo di analisi permette di visualizzare la percentuale dei 10'000 bootstrap che una data sezione del dendogramma risulta nella stessa posizione. L’analisi che permette di ottenere l’effettivo numero di popolazioni di appartenenza delle accessioni è stata effettuata con il software Structure v. 2.1, settando il programma con un “Burn in period” di 50000 e 100000 ripetizioni con un K (numero di popolazioni da poter differenziare) variabile da 1 a 15.

L’analisi statistica per valutare il grado di polimorfismo invece è stata effettuata con il sofware GenAlEx 6.5b1 il quale ha permesso di calcolare diversi parametri.

(39)

4

RISULTATI e DISCUSSIONE

4.1

Genotipizzazione tramite SSR e SNPs

I profili ottenuti dai marcatori molecolari SSR, al fine di una corretta genotipizzazione, sono stati confrontati con il Database Viticolo Italiano ed europeo e tramite il software CERVUS 3.0.3. Queste analisi hanno confermato che, nel set delle 60 accessioni, ogni DNA esaminato corrisponde effettivamente alla varietà ipotizzata al momento del prelievo. L’identificazione varietale è stata confermata anche dall’analisi effettuata sui profili ottenuti con i marcatori molecolari SNPs sebbene ci siano stati alcuni casi di fallimento.

Dall’analisi dei 18071 SNPs è risultato che il 3.46% (625 SNP) sono falliti in tutte le varietà in esame (Figura 4.1), probabilmente per un difetto dell’array. per alcune specie no Vitis la percentuale di fallimento varia dal 20% all’80% (Leea 78,54%, Cayratia 69,42%, Cissus 54,80, Muscadinia 20,60%), questo risultato fallimentare è risultato abbastanza normale poiché queste sono più distanti filogeneticamente dalle specie Vitis, mentre si aggira intorno al 10% nelle specie di Vitis no vinifera e all’1% nelle Vitis vinifera (Tabella 4.1, Figura 4.2). Il fallimento degli SNPs dipende sia dalla qualità del DNA utilizzato che dal genotipo della varietà

−SNPs 18071 −completely failed SNPs 625 (3.46%) −standard 1 152-167 failed −standard 2 107-108 failed −standard 3 146-158 failed −Leea 78.54% failed −Cayratia 69.42% failed −Cissus 54.80% failed −Muscadinia 20.60% failed

−Vitis no vinifera 5-8% failed

−Vitis vinifera subsp. sativa and sylvestris 1.17% failed Tabella 4.1: Percentuali di fallimento degli SNPs.

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% SNPs Totali

97% 3%

SNPs riusciti SNPs falliti

Figura 4.1: Grafico a torta degli SNPs falliti in tutte le varietà esaminate.

% SNPs falliti 80% 10% 1% no vitis vitis no vinifera vitis vinifera

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