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Il bisogno di salute mentale. Tensioni e criticita' nella risposta dei servizi.

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Academic year: 2021

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I

INDICE

- INTRODUZIONE p. 1

PARTE PRIMA:

Come si presenta il problema della salute mentale e del suo trattamento - Capitolo I. LA REALTÀ MANICOMIALE

1. Aspetti legislativi p. 6

2. Focus: il manicomio di Volterra p. 11

- Capitolo II. LA LOGICA RIFORMISTA

1. Le innovazioni del 1968 p. 20

2. I cambiamenti a Volterra p. 25

- Capitolo III. IL MODELLO TERRITORIALE

1. Prima della Legge 180/1978 p. 31 2. Il pensiero di Basaglia p. 32 3. La riforma dell’assistenza psichiatrica p. 36 4. Punti di forza e criticità della L. 180 p. 40 - Capitolo IV. VERSO LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI 1. Dopo la L. 180: Leggi finanziarie e Progetti obiettivo p. 43

PARTE SECONDA: Il contesto attuale

- Capitolo V. LA REALTÀ TOSCANA: I SERVIZI SU TRE LIVELLI DI ANALISI

1. Il livello normativo – ideologico: la programmazione p. 55 2. Il livello descrittivo – applicativo:

l’organizzazione dei servizi ed i nodi critici p. 64 3. Il livello quantitativo – di verifica: dati generali p. 78

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II - Capitolo VI. LE STRUTTURE RESIDENZIALI

1. Introduzione: quali tipologie p. 85 2. Alcuni dati sull’offerta residenziale toscana p. 87 3. Cenni storici p. 89 4. Nodi critici p. 90 - Capitolo VII. I SERVIZI PER LA SALUTE MENTALE IN VAL DI CORNIA

1. Cenni sull’organizzazione dei servizi nella Zona p. 97 2. Il “percorso delle strutture” p. 98 3. Criticità nel ruolo dell’assistente sociale p. 115

PARTE TERZA:

In che cosa consiste il problema

- Capitolo VIII. DOYAL E GOUGH: UNA TEORIA DEI BISOGNI UMANI 1. Breve descrizione della teoria p. 121

2. La sopravvivenza fisica p. 124

3. L’autonomia p. 125

4. La misurazione dei bisogni p. 134

- Capitolo IX. IL LAVORO DEI SERVIZI CON IL SOGGETTO:

TRE BISOGNI INTERMEDI p. 146 1. La “casa” ed il bisogno di abitare p. 147 2. L’apprendimento di capacità ed il lavoro p. 156 3. Le relazioni sociali significative p. 173 - Capitolo X. IL LAVORO DEI SERVIZI CON IL TERRITORIO

1. La valorizzazione e l’inclusione delle risorse p. 211 2. La sensibilizzazione contro lo stigma p. 220

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III

- Capitolo XI. IL LIVELLO SUCCESSIVO: L’AUTONOMIA CRITICA

1. L’autonomia critica per Doyal e Gough p. 232 2. Le associazioni di utenti psichiatrici p. 235

- CONCLUSIONE p. 241

- SIGLARIO p. 247

- RIFERIMENTI NORMATIVI p. 249

- BIBLIOGRAFIA p. 252

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1

INTRODUZIONE

La tesi si divide in tre parti, che seguono delle diverse linee espositive: come si pre-senta il problema della salute mentale e del suo trattamento fin dai primi del ‘900, il contesto organizzativo attuale della Regione Toscana e della Zona Val di Cornia e, infine, una riflessione critica sui bisogni e le risposte offerte dai servizi in termini di lavoro col soggetto e col territorio.

La prima sezione mette in luce l’evoluzione storica delle risposte al problema della malattia mentale, descrivendo le modalità contenitive e le logiche oppressive dell’epoca manicomiale; dopo un breve accenno alla legislazione del periodo, si procede ad una descrizione dei funzionamenti interni di queste “istituzioni totali”, della loro espansione, del sovraffollamento e delle pratiche che vi venivano svolte. Si giunge al 1968 con le prime innovazioni normative in senso riformista, fino ad ar-rivare alla nota Legge Basaglia (L. 180/78) che segna una svolta nel panorama della salute mentale, soprattutto in direzione di una maggiore libertà personale; si fa strada la psichiatria di comunità, in un clima che comincia a dar spazio alla voce dei soggetti, ai loro diritti e volontà. Si impone la chiusura delle strutture manicomiali a favore di una territorializzazione dei servizi, che però non sarà effettivamente com-piuta finché non interverranno, negli anni ’90, le penalizzazioni introdotte dalle leggi finanziarie. Nel frattempo, si assiste allo sviluppo dei servizi territoriali per la salute mentale ed alla loro articolazione secondo quanto previsto dai Progetti obiettivo. Si entra così nella seconda parte della tesi, che intende presentare l’organizzazione regionale e locale dei servizi, a partire dai livelli legislativo e programmatorio, pas-sando poi per la descrizione dei compiti dei vari presìdi territoriali (Centro di Salute Mentale, Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Centro Diurno e Day Hospital, Strutture residenziali) e delle loro rispettive criticità, fino a giungere alle tensioni e-sistenti tra le risposte offerte e le esigenze dell’utenza, rilevate a livello quantitati-vo; l’attenzione sarà posta in particolare sulle strutture residenziali, in quanto evi-denziano una la loro propensione verso il “sociale”, garantendo delle risposte che vanno maggiormente verso il reinserimento ed il collegamento col territorio e le sue

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componenti. Dopo un breve approfondimento in materia, inerente anche all’evoluzione storica delle Strutture residenziali (SR), se ne descrive una particolare manifestazione nella Zona Val di Cornia – Ausl 6 (LI), denominata “percorso delle strutture”: si tratta di un’articolazione di servizi residenziali territoriali caratterizzati da livelli graduali di intensità assistenziale; le strutture sono idealmente collocabili su un continuum che progredisce verso obiettivi di maggiore autonomia (Centro re-sidenziale, appartamenti protetti, abitare supportato), in un percorso che invece, nella pratica, è raramente lineare perché può prevedere anche salti ed inversioni in base alle situazioni individuali. L’unica certezza sta nella garanzia di un progetto personalizzato per ogni utente e nell’impegno, da parte dei servizi, in direzione di un reale inserimento sociale.

Si apre così la terza parte, che intende analizzare la tematica su un piano più critico, a partire dalla riflessione sui bisogni umani di Doyal e Gough, i quali ne individuano i due fondamentali nella sopravvivenza fisica e nell’autonomia; la salute mentale è una delle componenti di questo secondo bisogno, per cui impegnarsi per favorirla significa incrementare l’autonomia della persona. Si prendono poi in considerazione tre dei bisogni intermedi (che conducono al soddisfacimento dei fondamentali), più facilmente rilevabili nella pratica ed ai quali i servizi intendono offrire risposte: il bi-sogno di abitare, di lavorare, di relazionarsi.

Il primo bisogno pone dei dilemmi per quanto concerne la differenza tra residenzia-lità ed abitare e per il riferimento al concetto di domiciliarità. Il secondo mette inve-ce in luinve-ce l’importanza per il soggetto di svolgere delle attività in base alle proprie capacità, all’interno di diversi contesti, anche di lavoro protetto, che possano poi condurre ad un’occupazione vera e propria (anche grazie al supporto della L. 68/99); esistono, in tale ambito, delle interessanti proposte, tra le quali una è il sala-rio d’ingresso progressivo.

Il terzo bisogno, che già si palesava nei due precedenti, è quello di relazioni sociali significative, che può essere soddisfatto a più livelli, sia dentro che fuori i servizi: re-lazione con gli operatori (in una logica paritaria e contrattuale), tra utenti (con la promozione di interventi di gruppo e dell’auto-mutuo aiuto), con le famiglie (il cui

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3

sostegno è importante anche quando non sia tratta di legami biologici, con riferi-mento agli inserimenti eterofamiliari), con il Terzo settore (bacino di risorse utilizza-bili sul fronte della riautilizza-bilitazione - laboratori-, ma anche del lavoro - cooperative so-ciali -, del “durante e dopo di noi” - associazioni di familiari e fondazioni - e del vo-lontariato), ed infine con la comunità (favorendo i contatti tra persone anche grazie ad iniziative svolte nel contesto di vita).

È fondamentale il lavoro dei servizi col soggetto per soddisfare i suoi bisogni, ma soprattutto per favorire lo sviluppo di capacità e l’attivazione di risorse, per riabili-tarlo, o meglio rinforzarlo, renderlo più autonomo, per un effettivo reinserimento sociale.

Ma non basta che i servizi si impegnino insieme all’utente, perché serve anche un lavoro degli stessi col territorio, sia per includere le forze presenti nel tessuto socia-le, sia per sensibilizzare la collettività. Coinvolgere le risorse non significa soltanto collaborare col Terzo settore per determinate iniziative dei servizi (es. laboratori), ma anche appoggiare la realizzazione di progetti proposti dalle organizzazioni stes-se, accettare le critiche ed il dissenso provenienti da parte territorio (es. le associa-zioni di familiari), prevedendo anche nuove forme di collaborazione (come le fonda-zioni di partecipazione miste pubblico-privato) e ricercando il potenziale a livello micro della comunità, da includere nella rete di intervento (il facilitatore all’interno delle reti sociali naturali). Un altro fronte di azione, da parte dei servizi sul territorio, è la sensibilizzazione per la lotta al pregiudizio ed allo stigma, i quali rappresentano una concausa dell’esclusione e dell’autoemarginazione del soggetto con problemi mentali; le iniziative vanno dalle campagne informative per la collettività ad inter-venti più mirati, ad esempio nelle scuole, cercando di favorire la conoscenza ed il contatto diretto, così che il territorio possa effettivamente aprirsi, senza timore, alla diversità.

Vi è un lavoro dei servizi per la riabilitazione sia del soggetto che del territorio e, so-lo quando il contesto sociale diviene maggiormente accogliente e partecipativo, l’individuo può reinserirvisi effettivamente, con un reale processo di inclusione.

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In ogni caso, dato che la persona non costituisce semplicemente un passivo oggetto di intervento, occorre mirare ad un ulteriore livello di consapevolezza ed azione, con riferimento all’autonomia critica (Doyal e Gough) come un grado successivo di autonomia: non si tratta solo di scegliere tra le possibilità esistenti, ma anche di proporre una nuova visione del mondo, alternativa e critica, che metta in dubbio l’ordinamento esistente. Ciò è valido sia in relazione ai servizi, che dovrebbero porsi come oggetto di valutazione da parte degli utenti, dando loro modo di contestare ed esprimere le proprie esigenze per poi offrire risposte più coerenti ed efficaci, sia alla società in generale, perché riesca ad accogliere dei punti di vista diversi ma non per questo insignificanti, favorendo la partecipazione critica dei diretti interessati, anche riuniti nella forma collettiva di associazioni di utenti. Tali soggetti sono acco-munati da un fine specifico, quello di far valere i loro diritti di cittadini, in un percor-so in cui vengano apprezzate le loro potenzialità e le possibilità che propongono, tenendo sempre presenti i progressi compiuti rispetto alle antiche chiusure del pas-sato manicomiale.

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PARTE PRIMA:

Come si presenta il problema della salute mentale

e del suo trattamento

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6 Capitolo I

LA REALTÀ MANICOMIALE

1. Aspetti legislativi

La questione della malattia mentale è stata a lungo affrontata e contenuta all’interno del manicomio, essendo questa la principale struttura adibita alla custo-dia dei soggetti con tale problematica.

A partire dal 1877 vennero sottoposti al Parlamento del Regno ben dieci progetti di legge col fine di regolare il settore della malattia mentale, ma soltanto dopo circa trent’anni, e precisamente il 14 febbraio del 1904, sarà approvata la legge intitolata “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. Si avverti-va, in quel periodo, la necessità di migliorare le condizioni di vita dei soggetti inter-nati con l’ausilio di garanzie maggiormente efficaci. Tuttavia, i buoni propositi la-sciarono spazio ad una concezione ancora ristretta della malattia mentale e del rap-porto individuo-società, visto che l’interesse restava ancora diretto verso la tutela dell’ordine e della sicurezza.

La legge n. 36/1904 è composta da otto articoli, all’interno dei quali si notano alcuni termini che pongono in risalto le questioni sopra affermate. In particolare, all’articolo 1, si fa riferimento alla necessità di “custodire e curare nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano perico-lose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano

esse-re convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi stessi”1

; sono questi i presupposti che portano all’ingresso dei soggetti all’interno di queste strutture. Si tratta, quindi, non soltanto di una cura, ma anche di custodia; pur parlando di cause di alienazione mentale di vario tipo, si riscontra nei manicomi un’ampia presenza di soggetti “emarginati” per motivi diversi dalla malattia mentale, che sono comunque considerati di pubblico scandalo o almeno una fonte di rischio.

1

Legge 14 febbraio 1904 n. 36 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alie-nati”, art. 1, dal sito internet http://www.oaser.it/wp-content/uploads/2008/07/l-14-febbraio-1904-n-36.pdf.

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7

L’articolo 2 della legge tratta le modalità di ammissione nel manicomio, sottoline-ando che essa “deve essere chiesta dai parenti, tutori o protutori, e può esserlo da

chiunque altro nell’interesse degli infermi e della società2

”, quindi ribadendo ancora le funzioni di sorveglianza sociale e di sicurezza come condizioni fondamentali, per garantire le quali la volontà del soggetto passa in secondo piano rispetto all’iniziativa di terzi. La richiesta di internamento deve essere autorizzata dal preto-re, in seguito alla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà; inoltre, in caso di urgenza, l’autorità di pubblica sicurezza può ordinare provviso-riamente un ricovero, sempre secondo certificato medico.

Anche all’articolo 3 viene dato peso alla volontà di persone diverse dall’interessato, questa volta per quanto riguarda le dimissioni: l’autorizzazione al licenziamento dal manicomio per soggetti guariti avviene con decreto del presidente del tribunale su richiesta del direttore del manicomio oppure, previo parere di quest’ultimo, delle persone menzionate nell’articolo precedente, o ancora della deputazione provincia-le; si nota quindi come il ruolo principale nel processo di dimissioni spetti al diretto-re del manicomio (il cui intediretto-resse potdiretto-rebbe però prospettarsi in didiretto-rezione del man-tenimento di un certo numero di internati). Egli ricopre peraltro funzioni di notevole rilievo (articolo 4) visto che possiede la piena autorità sul servizio sanitario interno al manicomio, svolge il compito di alta sorveglianza sull’ambito economico per il trattamento dei malati ed infine detiene la responsabilità sull’andamento del mani-comio e sull’esecuzione della corrente legge.

All’articolo 6 si conferma che l’obbligo di provvedere alle spese per gli alienati pove-ri ed a quella per il reinsepove-rimento in famiglia di questi ultimi spetta alle Province; i costi per il trasporto dei soggetti in manicomio è invece a carico dei Comuni (nei quali essi si trovano quando l’alienazione viene constatata), mentre le spese per gli alienati condannati o giudicabili riguardano lo Stato.

La rigidità che trapela dagli articoli riportati sembra esser percepita persino dai

legi-slatori del tempo, Giolitti compreso3

, i quali tentano di attenuarla all’interno del

2

Legge 14 febbraio 1904 n. 36…, art. 2.

3

Atti parlamentari, Senato del Regno, legislatura XXI, 2° sessione 1902, n. 147, disegno di legge pre-sentato dal ministro dell’Interno Giolitti.

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golamento previsto per l’attuazione della legge 36/1904, promulgato con Regio De-creto del 16 agosto 1909 n. 615 “Regolamento sui manicomi e sugli alienati”. Qui, all’articolo 1, si vuole precisare cosa si intende per “manicomio”, termine utiliz-zabile per definire gli istituti pubblici provinciali, le istituzioni pubbliche di benefi-cenza, ma anche gli stabilimenti privati che ricoverano alienati di ogni genere (col nome di ricoveri, case, ville di salute, asili,…); sotto questo concetto si trovano inol-tre le colonie agricole o familiari dipendenti dalle strutture sopraelencate, meninol-tre quelle autonome vanno considerate come manicomi esse stesse.

In seguito, agli articoli 2 e 3, si trova un riferimento ad elementi che sembrano in parte limitare la libertà di organizzazione della struttura per quanto concerne la ge-stione degli alienati, dal momento che si fissano dei requisiti (a voler quasi raziona-lizzare ed arginare la situazione presente): il numero dei ricoveri, onde evitare il so-vraffollamento, deve essere coerente con la capacità dei locali, i quali devono esse-re ripartiti per sesso e per tipologia dei soggetti ivi ospitati.

Si afferma inoltre la necessità di garantire, nei manicomi, un’adeguata igiene e di of-frire spazi diversificati: quelli per accogliere i ricoverati in osservazione, altri siti adi-biti al lavoro (preferibilmente agricolo), quelli di isolamento, ecc.

Agli articoli 13 e 14, viene prevista anche la possibilità di autorizzare la cura di non più di due soggetti con problemi di salute mentale all’interno di una casa privata (che non sia la casa dell’alienato o della sua famiglia); sono posti dei vincoli riguardo alla salubrità della casa, alla capacità di ricevervi adeguatamente l’alienato, alla di-sposizione degli ambienti ed all’ubicazione della stessa, che deve trovarsi preferi-bilmente fuori dai centri abitati e possedere un terreno annesso, a disposizione per lo svolgimento di un lavoro agricolo ad opera del soggetto; a quest’ultimo devono essere garantite cura ed assistenza adeguate, al fine di evitare sia pericoli per lui e gli altri, sia il rischio di pubblico scandalo.

Emerge quindi, ancora una volta, l’esigenza di tutelare il corpo sociale e la tendenza all’emarginazione del soggetto dalla vita del centro abitato; ma compare anche il ri-ferimento all’importanza dell’attività lavorativa (fisica, prevalentemente agricola) per i soggetti con problemi psichici.

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9

La domanda per l’autorizzazione alla cura degli alienati in casa propria è presentabi-le da parte degli interessati al Prefetto, il quapresentabi-le può accoglierla ed iscriverla in uno specifico elenco; a questo attingerà il direttore del manicomio che, sotto la sua re-sponsabilità, decidesse per l’affidamento di un soggetto alle cure in una casa privata (articolo 15). Ancora una volta, il potere di decisione spetta al direttore, e le sue al-tre funzioni sono ribadite all’articolo 28: provvedere all’ammissione ed al licenzia-mento dei malati, soprintendere alla cura fisica e morale dei ricoverati e regolarne i rapporti con le famiglie.

Si dà spazio poi al ruolo degli infermieri (articolo 34), addetti alla sorveglianza ed as-sistenza dei malati loro affidati, alla vigilanza che questi non nuocciano a sé e agli altri, ed alla risposta ai loro bisogni,… È degno di nota il divieto, posto agli infermieri, di utilizzare mezzi coercitivi, ad eccezione di casi particolari e col permesso del me-dico. Sappiamo però che i mezzi coercitivi e le contenzioni fisiche erano metodi spesso utilizzati all’interno dei manicomi, e per lo più a scopo punitivo; i trattamenti disumani riservati agli internati saranno poi denunciati da molte voci, tra cui quella basagliana.

Anche nel regolamento, ed in particolare all’articolo 36, sono precisati i soggetti che possono richiedere l’ammissione degli alienati in manicomio: si tratta dei parenti, ovvero dei tutori, protutori o curatori; la domanda deve essere presentata al Preto-re o all’autorità di pubblica sicuPreto-rezza, sempPreto-re insieme al certificato medico (articolo 37) attestante l’indole di infermità mentale (con indicazione della sua origine, dei sintomi e del decorso), i fatti specifici messi in atto dal soggetto che denotano la presenza di un pericolo o di pubblico scandalo ed infine la necessità di ricoverare il malato nel manicomio (articolo 38). Sembra qui imposto l’obbligo di dettagliare maggiormente l’evento critico, la patologia, le azioni del soggetto, che spingono alla decisione di richiederne l’inserimento in manicomio. Più sotto, all’articolo 42, si ri-conferma la possibilità da parte dell’autorità locale di pubblica sicurezza di provve-dere subito, in caso di urgenza e senza attenprovve-dere l’autorizzazione del Pretore, al ri-covero provvisorio dell’alienato, in base a certificato medico.

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Nel regolamento si stabilisce poi che sia ritagliato un periodo di tempo, il più breve possibile, dedicato all’osservazione del malato all’interno del manicomio (articolo 49), solo al termine del quale il direttore comunicherà la natura ed il grado della pa-tologia del soggetto al procuratore del re presso il tribunale del luogo dove ha sede il manicomio; si può decidere per il mantenimento del soggetto nella struttura, op-pure per il suo trasferimento in reparti speciali, o ancora per l’affidamento a perso-ne private. A questo punto, è il tribunale ad autorizzare, se perso-necessario, il definitivo ricovero (art. 50); eventualmente, in assenza della domanda dei parenti, il tribunale emanerà i provvedimenti circa la tutela e la cura della persona e dei beni (art. 51). Il licenziamento del soggetto ritenuto guarito avviene inizialmente in via di prova e sotto la responsabilità del direttore, ma tale azione non è ritenuta definitiva finché non intervenga il decreto del presidente del tribunale (art. 64); il soggetto può ades-so essere consegnato alla famiglia (art. 65) ma, se essa si rifiutasse di riaccoglierlo, ne verrebbe informato il procuratore del Re, il quale nominerebbe una persona in-caricata di prendersi cura dell’alienato in via di guarigione (art. 66).

Il decreto di licenziamento definitivo è emesso dal tribunale e provocato dal procu-ratore del Re, che agisce dopo essere stato informato dal direttore del manicomio che ritenga compiuta l’effettiva guarigione del soggetto.

È la Provincia ad avere l’obbligo di mantenere gli alienati poveri (art. 72), ed essa può optare per il ricovero in manicomi propri oppure esterni (pubblici e privati) at-traverso convenzioni (art. 72).

Nella normativa fin qui analizzata, possono scorgersi sia i cardini rigidi che regolava-no la struttura manicomiale, con le varie procedure e gli enti/soggetti coinvolti, sia la logica di fondo che finiva per generare l’emarginazione dei soggetti ed una man-canza di garanzia effettiva dei loro diritti di esseri umani. Benché in alcune parti del-la legge e del regodel-lamento si faccia riferimento ad elementi che potrebbero costitui-re una qualche garanzia (ad esempio definendo i costitui-requisiti delle struttucostitui-re, alcune modalità e responsabilità), non si riscontra effettivamente una tutela reale dei diritti dei soggetti in manicomio.

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L’attenzione resta rivolta alla contenzione-custodia dell’individuo “problematico”, soprattutto a tutela della società; il potere di decisione sulle sorti dell’internato è nella mani di diverse persone, ma non di colui nei confronti del quale si sceglie ed agisce.

2. Focus: il manicomio di Volterra

La storia del manicomio di Volterra si snoda nel corso del Novecento seguendo le tendenze al cambiamento dei vari periodi ed evolvendosi di pari passo con gli ele-menti culturali diffusi. Un ruolo fondamentale, in questo senso, è stato svolto dai direttori dell’istituto che si sono avvicendati negli anni, apportando la propria visio-ne e quindi stabilendo gli indirizzi di gestiovisio-ne dello stesso; “il moderno paradigma psichiatrico attribuisce infatti alla figura del medico direttore una centralità assolu-ta”4

. All’interno di tale paradigma, già nel 17985

, il medico Pierre Cebanis aveva teo-rizzato il diritto di decisione del direttore medico a proposito di ogni elemento ri-guardante la vita interna dell’ospedale. Tale centralità assoluta è sicuramente con-fermata all’interno della L. 36/1904.

Un notevole cambiamento nell’organizzazione del manicomio si ha con la direzione di Luigi Scabia, che giunge a Volterra come direttore nel 1900; egli propone l’avviamento di trattative al fine di stipulare convenzioni per far provenire, da altri istituti a Volterra, vere e proprie classi di ricoverati, passando quindi da una logica che, invece di concentrarsi sul singolo ingresso in istituto, predilige il trasferimento collettivo di interi gruppi di soggetti (talvolta accomunati solo dalla gravità della pa-tologia). Ovviamente questa impostazione ebbe degli effetti, perché “instaurò una logica di tipo industrialista nella gestione della malattia mentale”, diminuì “quell’attenzione alla relazione squisitamente personale tra medico e paziente che (…) era stata un cardine teorico del paradigma psichiatrico” ed ancora “fu abbando-nata (…) la relazione tra famiglie e manicomio fortemente improntata alla

4

Fiorino V. (2011), Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888- 1978), Pisa, Edizioni ETS, p. 28.

5

(15)

12

zione e, talvolta, alla condivisione della responsabilità nella gestione dei pazienti

propria dell’esperienza ottocentesca”6

.

In questa fase storica, si punta perciò all’ottenimento di quote sempre maggiori di malati mentali, anche provenienti da province lontane, allineandosi ad una logica di profitto; al contrario, si evita di prestare la dovuta attenzione alla singolarità e sog-gettività dei pazienti (oltretutto provenienti da contesti territoriali molto differenti) e si tende a trascurare i fini assistenziali e terapeutici. Nel ‘900 si instaura quindi una relazione ospedale-territorio caratterizzata dal bisogno di clientela: per poter acco-gliere un numero sempre maggiore di soggetti, oltre a lavorare per l’incremento delle dimensioni fisiche delle strutture, sono ideate nuove forme di attività e moda-lità di effettuare i ricoveri.

Lo stesso Scabia cade però in contraddizione quando le sue scelte operative non si allineano affatto col pensiero da lui espresso nel “Trattato di terapia delle malattie mentali” sulla necessaria cura morale da rivolgere al paziente: essa dovrebbe tener conto della conoscenza di molte variabili della vita e del contesto del singolo sogget-to, lasciando intuire il bisogno di una certa reciprocità ed esclusività nella relazione medico-paziente. A tal proposito, Scabia afferma anche che sia impossibile prestare la dovuta attenzione all’individuo, se ci si trova all’interno di uno stabilimento con

800-1000 malati7

. La politica delle convezioni “ad ampio raggio” si scontra quindi con una modalità di lavoro attenta alla relazione tra medico e paziente.

Tuttavia, per favorire l’incremento delle convenzioni con le province, il manicomio di Volterra punta molto sull’offerta di costi della retta alquanto competitivi, e ciò ha gli effetti auspicati se si considera che, una tra tante, la provincia di Genova richiede nel 1906 l’internamento a Volterra di ben quattrocento alienati, “riconoscendo le

ottime condizioni proposte dall’istituto”8

. Per evitare il sovraffollamento e per acco-gliere in manicomio un numero sempre maggiore di persone, sono costruiti nuovi

6

Fiorino V. (2011), Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888- 1978), Pisa, Edizioni ETS, p. 49.

7

Scabia L. (1900), Trattato di terapia delle malattie mentali, Torino, Unione tipografico-editrice.

8

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13

reparti, e Scabia “si batte fortemente per accaparrarsi fette importanti di questo

o-riginale mercato”9

.

Conseguentemente all’aumento del potere decisionale degli psichiatri e ad una logi-ca industriale nella gestione dei malati, viene meno gran parte dei rapporti prece-dentemente (e soprattutto nel corso dell’Ottocento) esistenti tra struttura e fami-glie; questo anche a causa della distanza fisica dell’internato rispetto ai parenti, poi-ché erano frequenti le convenzioni del manicomio con province lontane.

Incrinandosi la relazione con le famiglie, si tende ad una “gestione totalmente me-dicalizzata” del soggetto: la psichiatria si concentra maggiormente su se stessa, chiudendosi al suo interno, e la direzione medica assume “una volontà gestionale sempre più autoreferenziale e meno aperta al confronto e alla mediazione con altri

soggetti”10

. Cresce la razionalizzazione dei programmi riferiti ai ricoverati così come la “gestione” delle persone, anche attraverso una più attenta organizzazione degli spazi e la previsione di determinate tecniche, come “mandare proficuamente l’agitato a scaricare le sue energie, a esaurire i suoi impulsi all’aria aperta guardato

dall’infermiere”11

.

Il modello culturale perseguito da Scabia è quello del manicomio-villaggio, autono-mo ed autosufficiente, basato sul contributo lavorativo di tutti ed addirittura con la circolazione di un proprio conio. I punti cardine della sua proposta sono la terapia del lavoro, la pratica dell’affidamento familiare dei pazienti e l’open door; con quest’ultimo termine, si intende un sistema in cui il malato non è costretto all’interno con la forza; infatti, il manicomio di Volterra non ha mai avuto una recin-zione per segnare il distacco tra “dentro” e “fuori”. Lo stesso Scabia scrive “nel mio ospedale non ci sono mura di cinta o limitazioni perimetrali con reti metalliche, le vie comunali e provinciali passano attraverso l’istituto, ci sono così rapporti e

con-tatti continui fra il ricoverato ed il mondo esterno”12

. Ma egli parla, in un altro testo,

9

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 53

10

Ivi, p.55.

11

Scabia L., Il frenocomio di San Girolamo in Volterra 1888-1910, p. 36.

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di “apparenza della completa libertà”13

, consapevole che essa non sia completa-mente autentica.

Il direttore riteneva che “la vita manicomiale dovesse in un certo senso mimare quella reale, che i malati non avrebbero dovuto ricevere l’idea di una separazione

netta dalla proprie abitudini e dalle proprie attività pregresse”14

. Il lavoro viene con-siderato parte integrante del progetto terapeutico ed è per questo che dentro l’ospedale sono creati laboratori, officine e botteghe per l’impiego dei soggetti. Infine, un ulteriore strumento utilizzato in quel periodo è l’affidamento familiare, meglio se eterofamiliare, scelto al fine di rompere la relazione (talvolta assai pro-blematica) del paziente con la famiglia d’origine; tale fenomeno non è affatto inno-vativo, poiché esiste una lunga storia della custodia domestica, risalente addirittura all’epoca medievale ed in particolare alla cittadina belga di Geel, dove le famiglie

ospitavano i malati mentali nelle proprie case, impiegandoli nei lavori agricoli15

. Molto più recentemente in Toscana, ed in particolare nel 1895, Pisa fu una delle

prime province italiane a mettere in atto tale pratica16

. A Volterra, anche se non si diffonde su larga scala, l’affidamento familiare viene adottato per contrastare il problema del sovraffollamento in manicomio e per consentire anche un risparmio economico per le province.

Infine, per quanto riguarda i mezzi di contenzione utilizzati nei manicomi, Scabia ne consente l’uso, vincolandolo però alla presenza condizioni di estrema necessità; in ogni caso, non si opta ancora per l’abolizione di questi mezzi e, in più, occorre tener conto della distanza che permane tra le concezioni teoriche e la prassi, tra le racco-mandazioni del direttore ed i problemi operativi che si verificano coi pazienti. Il primo conflitto mondiale apre la possibilità di un nuovo “mercato” per il manico-mio, composto dall’elevato numero di militari impazziti sul fronte (o che comunque tentavano tale via per sfuggire alla guerra); infatti tra il 1916-18 il numero dei

rico-verati a Volterra cresce da 1.125 a 1.866 unità17

, anche grazie alle convenzioni

13

Scabia L., Funzionamento dell’istituto durante gli anni 1888-1903, p.23.

14

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 83.

15

Per un ulteriore approfondimento, si veda il Cap. IX, p. 193.

16

Scabia L., Note di tecnica manicomiale. Custodia domestica familiare ed eterofamiliare, p. XIII.

17

(18)

15

late dal manicomio con vari ospedali militari. Si presenta quindi il rischio di un even-tuale sovraffollamento con problemi di gestione degli internati, anche a causa della diminuzione del personale chiamato alle armi.

Al termine della guerra e con il precipitare della situazione economica, si assiste ad una notevole riduzione del numero dei ricoverati e conseguentemente delle entrate finanziarie del manicomio. Per contrastare tali fenomeni, si cerca di stipulare nuovi accordi con le province e l’iniziativa mostra buoni risultati già dal 1922, quando so-praggiungono a Volterra nuovi gruppi di soggetti provenienti o dalle zone limitrofe o da altre più lontane che inviano i propri “esuberi” (come avveniva precedentemen-te).

Durante il periodo fascista, nei manicomi di tutta Italia, si ha poi un’ulteriore cresci-ta della domanda di internamento e vengono stipulate numerose convenzioni. Negli anni del regime, insieme alla crescita dello spazio di discrezionalità/autorità dei sin-daci e degli uomini di pubblica sicurezza, si punta sia all’aumento del numero dei ri-coverati in manicomio, visto come una fonte di guadagno, sia all’incremento della durata di permanenza degli stessi all’interno dell’istituto, favorendo il fenomeno della lungodegenza. Ma, stando alla valutazione del 1932 effettuata dalla Commis-sione di vigilanza sui manicomi, sono riscontrate notevoli criticità: il sovraffollamen-to, l’insufficiente numero di medici ed il deficit di personale, l’ingiustificata lungo-degenza, la difficile dimissione e la scarsa assistenza sanitaria dedicata ai pazienti

(poiché essi non sono abbastanza seguiti e studiati sul lato medico)18

.

A Luigi Scabia succede Giovanni De Nigris, che resta a Volterra, in veste di direttore, dal 1934 al 1940, noto anche per aver fondato nel 1935 la rivista “Neopsichiatria”. Egli, nella gestione dell’istituto, si pone in continuità con l’operato di Scabia, pur ri-volgendo i propri interessi scientifici soprattutto ai problemi neurologici. Durante la sua presenza, il manicomio raggiunge la maggiore capienza in assoluto: in sei anni si riscontra un aumento di mille unità, che tocca il suo apice nel 1940 con ben 4.547 ricoverati19

.

18

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 177.

19

(19)

16

Nel periodo fascista, inoltre, gli scopi del manicomio si allineano ai fini educativi e di civilizzazione previsti dal regime e si intende diffondere, anche all’interno di questi luoghi, un certo tipo di cultura, principi e rituali caratteristici del fascismo; si assiste “all’espansione dell’industria-manicomio”, con la previsione di un’“attività

lavorati-va ordinata e disciplinata” e dell’“assoggettamento al ritmo collettivo”20

.

Si persegue ancora la tendenza a non negoziare, con le famiglie, le dimissioni dei soggetti, mentre è facilitata la gestione dei ricoverati insieme ad un maggiore con-trollo del territorio, anche per merito dell’accrescimento delle strutture burocrati-che e poliziesburocrati-che. Nel manicomio di Volterra, la durata dei ricoveri cresce, di pari passo col numero dei soggetti ivi internati.

Con il secondo conflitto mondiale, la quantità di ospiti torna a scendere, dal mo-mento che le province, data la scarsità di risorse economiche, si vedono costrette a contrarre le loro politiche di ricovero; diminuiscono così anche le entrate del mani-comio, e conseguentemente il tipo di assistenza offerta: “l’aspetto più grave riguar-dava la percentuale della mortalità che si era notevolmente elevata a partire dal 1940 per diventare massima nel 1942, decrescere nel 1943 e aumentare nuova-mente nel 1944. (…) Le cause furono essenzialnuova-mente due: l’alimentazione

insuffi-ciente ed il freddo intenso”21

.

Dopo la guerra, si tenta ancora di far salire il numero delle presenze in manicomio, attraverso delle scelte strategiche, come l’ampliamento del reparto neurologico e l’istituzione di uno specifico istituto per minori.

Nei primi decenni seguenti alla proclamazione della Repubblica, l’istituto porta a-vanti la scelta di impiegare i ricoverati nelle mansioni lavorative, così come conti-nuerà ad essere praticata la terapia convulsiva (meglio nota come elettro-shock), introdotta nelle pratiche terapeutiche psichiatriche già dal 1938 ad opera del clinico di neurologia Ugo Cerletti. Spesso però tali metodi sono stati usati senza le dovute attenzioni e si sono perciò trasformati nel simbolo della violenza psichia-trica sui soggetti affetti dalla malattia mentale. Gli studi successivi, compresi quelli

20

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 191.

21

(20)

17

di Basaglia22

, hanno dimostrato i gravi danni prodotti da tali pratiche sulla persona: incapacità di apprendere, amnesia, apatia, perdita di creatività, fobie, danni cere-brali irreversibili, che rendevano più semplice il controllo della personalità dei sog-getti sottoposti.

Ma allo stesso tempo, negli anni Cinquanta, compaiono anche alcune novità: sono istituiti dei laboratori scientifici per la ricerca anatomo-patologica ed introdotte le terapie farmaceutiche a base di psicofarmaci. In questo periodo, si diffonde l’idea di poter giungere ad una rapida guarigione clinica, impossibile precedentemente, pro-prio grazie all’introduzione sistematica di terapie neurolettiche. Però, Raimondi e Borghesi, due psichiatri di Volterra, riconoscono dei limiti nelle convinzioni del peri-odo in corso, arrivando ad affermare che “l’ideologia psichiatrica si impossessa delle capacità produttive ed espressive autonome dell’individuo e le trasforma in entità psicopatologiche, in strumenti di cura impositiva accanto agli shocks e agli

psico-farmaci”23

.

In questi anni, persino l’ergoterapia subisce un declassamento, perché viene prati-cata per lo più nella fase di dimissione del soggetto, perdendo quindi la sua valenza terapeutica per acquistarne una più riabilitativa; le “vere” terapie restano quelle da shock, del sonno e le nuove farmaceutiche, anche se la loro brutalità e gli effetti dannosi non sono affatto sconosciuti (convulsioni, fratture, infezioni, recidive ne sono alcuni esempi). Inoltre, non viene tenuto in considerazione il rispetto individu-ale dei soggetti né la loro privacy, dato che tali terapie sono spesso praticate contro

la volontà della persona ed alla vista degli altri ricoverati24

.

Lo scopo esplicitato dal manicomio dovrebbe essere quello del recupero di un rapi-do equilibrio mentale dei soggetti ospitati, reso più efficiente dalla spinta medicaliz-zante di cui sopra; ma si riscontra invece che i tempi di permanenza nella struttura restano lunghi e le modalità di azione alquanto repressive.

22

Basaglia F. e F. (1969), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Torino, Einaudi.

23

Raimondi R. e Borghesi A. (1976), Potere e cultura in O.P.. Esperienze del comitato di gestione per le attività socio-culturali dell’O.P. di Volterra, in “Neopsichiatria”, XLII, p. 11.

24

Riferimento all’intervista rilasciata da Lippi A. a Fiorino V. il 25 agosto 2011 presso Volterra, Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 222.

(21)

18

La direzione dell’ospedale psichiatrico passa da Giovanni De Nigris a Umberto Sarte-schi e da quest’ultimo, nel 1955, a Gino Simonini; negli anni ’50 si assiste ancora ad una progressiva diminuzione delle presenze di ricoverati, che si tenta di arginare puntando sulla competitività delle rette.

Nonostante le parole di Sarteschi affermanti che “la vita dell’istituto è poi ormai la vita della città”25

, si nota la tendenza verso un crescente rigore, mirante soprattutto di arginare le fughe dei pazienti dall’ospedale; si pensa che tale meta sia perseguibi-le attraverso l’incremento delperseguibi-le misure di sicurezza, l’apposizione di serrature, la co-struzione di cancelli (soprattutto presso il padiglione Ferri), e l’aumento di controlli sul personale infermieristico affinché esso operi una maggiore vigilanza sui soggetti. Inoltre, resta rilevante “il ruolo di addomesticamento, educazione alla docilità e al

comportamento conforme ai canoni culturali”26

, secondo un modello di moderniz-zazione-normalizzazione; l’ospedale psichiatrico continua ancora “attraverso l’addestramento al lavoro ripetitivo e, soprattutto, attraverso la somministrazione

di psicofarmaci, ad ammansire i propri ricoverati”27

, con la conseguenza, però, che il soggetto si trasforma in “un simulacro di se stesso: assopito ogni istinto vitale, non è più in grado di opporre resistenza ai voleri altrui cui è continuamente sottopo-sto”28

. Siamo quindi di fronte all’annientamento dell’uomo e dei suoi diritti.

Negli anni a venire, sono due gli episodi che segnano una svolta decisiva nel pano-rama istituzionale: la legge 431/1968 prima e la graduale chiusura dell’ospedale psi-chiatrico poi, quest’ultima ufficialmente sancita dalla L.180/1978, ma anticipata da precedenti esperienze a Volterra, grazie alle idee innovative ed alle sperimentazioni introdotte da psichiatri, amministratori e professionisti del tempo. Un peso in tal senso ce l’hanno anche le personalità e le idee dei vari direttori dell’ospedale psi-chiatrico che si sono succeduti, primo tra tutti Simonini (direttore dal 1955 al 1971), il quale, pur garantendo una certa “continuità istituzionale” rispetto al passato, sot-tolinea alcune criticità insite nella L. 36/1904, come si legge all’interno di un articolo

25

Sarteschi U. (1952), 50° anniversario della creazione in Ente Morale dell’ospedale Neuropsichiatrico di Volterra, in “Neopsichiatria”, XVIII, p.175.

26

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 238.

27

Ivi, p. 241.

28

(22)

19

di denuncia da lui sottoscritto29

; quella legge, infatti, rende difficoltose, se non tal-volta impossibili, le dimissioni dei pazienti, complicate inoltre dalla mancanza di luoghi intermedi che ne faciliterebbero la realizzazione. Potrebbe risultare impor-tante, a tal proposito, creare delle strutture di passaggio, collocabili tra istituzione e famiglia, che potrebbero ospitare i soggetti “in esperimento” di dimissione.

Pur restando all’interno del panorama esistente senza sovvertirlo, si aprono quindi delle brecce nella direzione i un effettivo reinserimento sociale dei pazienti. Va ag-giunto che nel frattempo, precisamente nel 1959, viene aperto il Servizio di Igiene e Profilassi Mentale ad opera dell’Ente provinciale di Pisa, con lo scopo di realizzare “attività nel campo del controllo clinico dei malati psichici mediante visita

ambula-toriale, ed eventualmente anche domiciliare”30

; esso dal 1961, presta anche assi-stenza terapeutica con la somministrazione di psicofarmaci.

L’attività nei confronti dei malati mentali subisce così un’importante modifica, dal momento che il centro di erogazione di servizi non è più uno soltanto, consistente nell’ospedale psichiatrico, ma inizia frammentarsi in alcuni (seppur ancora modesti)

poli decentrati sul territorio ed esterni all’”istituzione totale”31

.

29

Simonini G. e Favilli G. (1961), Per un’organizzazione extraospedaliera che faciliti il reinserimento produttivo nella società dei malati di mente dimissibili dagli Ospedali Psichiatrici, in “Neopsichiatria”, XXVII, n. 1.

30

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 264.

31

Goffman E. (1968), Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Tori-no, Einaudi.

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20 Capitolo II

LA LOGICA RIFORMISTA

1. Le innovazioni del 1968

Nel secondo dopoguerra in Italia, come già affermato, si assiste ad un progressivo aumento del numero degli internati nei manicomi, che tocca l’apice nei primi anni Sessanta ponendo persino problematiche di sovraffollamento.

Inoltre, nella rappresentazione della malattia mentale, si cominciano a notare signi-ficativi elementi di flessione ideologica, grazie anche allo sviluppo di innovativi o-rientamenti psichiatrici sui temi della diagnosi e del trattamento dei disturbi menta-li.

Il problema del sovraffollamento dei manicomi, unito ai nuovi stimoli culturali e scientifici, favorisce la nascita di una legge che segnerà una prima svolta nel pano-rama finora trattato, rompendo quel silenzio normativo che aveva luogo dai primi anni del ‘900 ma che aveva nel frattempo lasciato trasparire le sue disfunzioni. Il 18 marzo 1968 viene infatti promulgata la legge 431 “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica”, nata a partire da un progetto di riforma presentato nel 1967 dall’allora Ministro della Sanità Mariotti. Essa infrange il presupposto della pericolosità del soggetto quale causa del suo internamento in manicomio, spostando l’accento su un percorso di cura che preveda come scopo il reinserimento nella società dello stesso.

Più analiticamente, a partire dall’articolo 11

, si nota un primo appunto terminologi-co: si parla di ospedali psichiatrici, e non più di manicomi, dipendenti dalla provincia e da altri enti pubblici, e che adesso devono essere caratterizzati dalla presenza di un numero di divisioni compreso tra due e cinque, ospitante ciascuna non più di 125 posti letto; si fissano quindi dei limiti (che prima erano solo accennati ma non preci-sati) alle dimensioni delle strutture, onde evitare un iper-affollamento che non con-sentirebbe un’adeguata attenzione ai soggetti.

1

L. 431/68 “Provvidenze per l’assistenza psichiatrica”, dal sito internet: http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1968-03-18;431.

(24)

21

Un particolare rilievo è dato alla questione del personale, poiché anche su questo piano vengono fissati alcuni requisiti e condizioni: è prevista (art. 2), per ogni ospe-dale psichiatrico, la presenza di un direttore psichiatra, un igienista ed uno psicolo-go e, per ogni divisione, un primario, un aiuto ed almeno un assistente; tale perso-nale deve essere idoneo a garantire la necessaria assistenza sanitaria, specializzata e sociale, e va assicurata la presenza di un infermiere ogni tre posti letto e di un as-sistente sociale/sanitario ogni 100 posti letto.

All’art. 3 si trova ancora un riferimento al personale, in questo caso relativo ai Centri di Igiene Mentale (CIM) i quali devono essere istituiti in ogni provincia per garantire un’assistenza ambulatoriale territoriale (quindi extraospedaliera) che offra un sup-porto soprattutto nella fase di dimissione dei soggetti dall’ospedale psichiatrico, allo scopo di favorire un reinserimento sociale efficace; anche in questi servizi sono as-segnate delle professionalità, la cui necessità è sancita dalla legge: un direttore psi-chiatra, un pedo-psicologo, uno psicologo, medici psichiatri, assistenti sociali, assi-stenti sanitarie, personale infermieristico ed ausiliario.

I Centri di igiene mentale sorgono in alcune province italiane già nel corso degli anni Cinquanta, ma si diffondono sul territorio nazionale soprattutto dagli anni Settanta (quindi dopo la L. 431) con obiettivi sia di “prevenzione delle psicopatie prodromi-che, iniziali, reattive, marginali, mediante visite e cure in ambulatori” sia di

“riabili-tazione sociale del malato di mente dimesso dall’ospedale psichiatrico”2

; gli scopi sembrano quelli di evitare per tempo i ricoveri, di curare il soggetto sul territorio e, nelle situazioni che richiedono interventi maggiormente complessi, accompagnarlo nel reingresso nella società. Si accenna qui a due elementi-cardine che saranno resi espliciti negli anni a venire, insieme all’aspetto della cura: la prevenzione e la riabili-tazione.

Nell’ambito della salute mentale e delle strutture di cui sopra, la figura dell’assistente sociale ha quindi un riconoscimento ufficiale con la legge 431/68, ma “la sua presenza all’interno delle istituzioni psichiatriche è, in quegli anni, ancora modesta. Un’indagine condotta nei primi anni Sessanta su una novantina di

2

La Porta C. (1963), Il Servizio Sociale nei Centri di Igiene Mentale in “Igiene Mentale”, 4, pp. 935-936.

(25)

22

re (ospedaliere ed extraospedaliere) e riportata da Gilberti e Renzi mostra infatti che il servizio sociale esiste solo in 31 istituti sui 58 che avevano risposto al

questio-nario di rilevazione”3

e che, data “la mancata risposta (che) potrebbe ritenersi indi-ce assai probabile dell’assenza di un servizio sociale, si può ipotizzare che circa 2/3

delle organizzazioni psichiatriche pubbliche in Italia sono prive di assistenti sociali”4

. Fa eccezione però Volterra, che fu uno dei primi luoghi a rispettare la previsione di legge del rapporto di un assistente sociale o sanitario ogni cento posti letto, ospi-tando ben undici di questi professionisti; ogni nucleo dell’ospedale psichiatrico ave-va il suo servizio sociale e si può affermare che anche questo fattore abbia contri-buito a produrre dei cambiamenti di relazione al loro interno.

Con la legge 431/1968, la presenza di tali professionisti nella salute mentale diviene un requisito legislativamente fissato e, mentre in precedenza l’operato degli assi-stenti sociali negli ospedali psichiatrici era spesso considerato intercambiabile con quello delle assistenti sanitarie oppure consisteva in interventi per lo più burocrati-ci, adesso i tratti del loro lavoro vengono maggiormente definiti: “in quegli anni co-mincia (…) a farsi strada la concezione del manicomio come struttura caratterizzata da ricoveri e dimissioni. Questa concezione (…) richiedeva che alcuni operatori della struttura ospedaliera si facessero garanti nel rimuovere quegli ostacoli di natura

so-ciale ed economica che impedivano la realizzazione di tale progetto”5

. Si fa qui rife-rimento agli impedimenti esterni al soggetto, i quali vanno a complicare il suo rein-gresso in società, e quindi non più soltanto alla natura problematica della patologia individuale. L’attenzione si sposta adesso sullo scopo del reinserimento sociale e perciò anche sul trattamento del disturbo mentale fuori dal manicomio, per lo svol-gimento dei quali è prevista la collaborazione dei Centri di igiene mentale; per leg-ge, si dilatano gli spazi operativi della figura dell’assistente sociale, che assume ora un ruolo dai contorni più chiari, anche se complessi, comprendente un intervento sul territorio volto all’inclusione di più soggetti sociali.

3

Civenti G. e Cocchi A. (1994), L’assistente sociale nei servizi psichiatrici, Roma, La Nuova Italia Scien-tifica, p. 49.

4

Giberti F. e Renzi Guastalla B. (1966), Aspetti generali e problemi pratici del Servizio Sociale Psichia-trico, in “Edizioni Minerva Medica”, p. 2.

5

(26)

23

Tornando agli articoli della legge 431/68, una grande novità è riscontrabile per quanto concerne le ammissioni e le dimissioni dall’ospedale psichiatrico, poiché si ammette per la prima volta la volontarietà del soggetto (segno del riconoscimento di uno spazio di soggettività e di scelta dello stesso); pur non abrogando la legge 36/1904, si accenna finalmente alla capacità di autodeterminazione della persona. Si riscontra la necessità che avvenga, anche per l’ospedale psichiatrico, quello che già era in vigore per il ricovero negli ospedali generali, cioè la scelta da parte del ma-lato di farsi ricoverare e/o dimettere liberamente. Questa nuova attenzione alla vo-lontà del soggetto, oltre a dar peso alle sue decisioni, sposta su di lui il focus dell’azione: egli non è più soltanto il malato gestito all’interno di una struttura, che vi entra/esce esclusivamente per volontà altrui, ma diviene sempre più un fruitore di servizi, con possibilità di una scelta propria, essendogli consentito di usufruire di interventi non solo ospedalieri ma anche territoriali. Il fine dell’assistenza psichiatri-ca inizia a traslare dall’esclusiva tutela della sicurezza sociale verso azioni di preven-zione e cura che pongano al centro il soggetto ed i suoi diritti.

Questa svolta è confermata anche dall’articolo 11 della stessa legge 431 che abroga l’articolo 604 n. 2 del Codice di procedura penale, cioè l’obbligo di annotazione dei provvedimenti di ricovero degli infermi mentali nel casellario giudiziario, spezzando così il legame formale tra malattia mentale e pericolosità sociale. Almeno per la leg-ge, il soggetto smette di essere trattato alla stregua di criminale, come colpevole della sua malattia.

Tutti i punti affrontati sinora mettono in luce alcune innovazioni di rilievo: un mo-dello terapeutico ed in parte riabilitativo che prevede anche l’ausilio di servizi terri-toriali, il tentativo di migliorare l’integrazione del malato nel tessuto sociale, di favo-rire la prevenzione delle crisi ed il reinserimento nella società; vengono inoltre fissa-ti dei limifissa-ti alle dimensioni degli ospedali psichiatrici, i quali restano però ancora at-tivi, e la necessaria presenza all’interno di essi di diverse professionalità, elemento che sembra alludere ad un futuro lavoro di équipe.

È riconosciuto ufficialmente il ruolo dell’assistente sociale (come già affermato pra), che sembra allinearsi con quelle che saranno le nuove direzioni del servizio

(27)

so-24

ciale, delineate dagli assistenti sociali Ferranti e Zampighi nel 30° Congresso della

Società italiana di psichiatria6

nell’ottobre 1968:

“a) sensibilizzazione dell’opinione pubblica alla malattia di mente ed ai problemi so-ciali connessi, con programmi formativi ed informativi ad ampia diffusione;

b) creazione di adeguate strutture sociali là dove mancano, ad esempio laboratori protetti, focolari, centri di cultura, club ecc.;

c) influenza sulle attuali strutture sociali e situazioni di vita, quali la famiglia, la scuo-la, il lavoro e l’ambiente di lavoro, le organizzazioni per l’occupazione del tempo

li-bero, i rapporti umani ecc.”7

Va sottolineato come questi punti siano ancora oggi fondamentali per la costruzio-ne di un intervento efficace costruzio-nel territorio, che si riferisca al tessuto sociale, alle sue strutture e risorse, non trascurando gli effetti positivi di un’opera di sensibilizzazio-ne8

della collettività sul problema della salute mentale.

La legge 431/68 apre chiaramente delle brecce in un panorama legislativo rimasto fermo per molti anni, cogliendo il clima riformista del periodo. Comunque, si deve dire che tale normativa, pur presentando notevoli innovazioni, non riesce da sola a scardinare il centro reale dell’assistenza psichiatrica, che resta ancora l’ospedale psichiatrico; e non è in grado neppure di stare completamente al passo con un cambiamento culturale e scientifico già in atto, che volge sempre più rapidamente verso un modello davvero territoriale.

Per una decisiva scossa normativa in questa direzione, bisognerà attendere la Legge Basaglia.

6

La Società Italiana di Psichiatria (SIP) discende dalla Società Freniatrica Italiana, fondata nel 1873 dal neuroanatomo neuropsichiatra Andrea Verga; solo nel 1932 essa assumerà il nome attuale, con membri con De Sanctis, Cerletti, Donaggio, Mingazzini e Cesare Ferrari (dal sito internet http://www.psichiatria.it)

7

Civenti G. e Cocchi A. (1994), L’assistente sociale nei servizi psichiatrici, Roma, La Nuova Italia Scien-tifica, p. 36.

8

(28)

25 2. I cambiamenti a Volterra

La legge del 1968 è stata definita incompleta perché carente di spiegazioni soprat-tutto riguardo alle modalità di realizzazione del passaggio dal ricovero coatto a quel-lo voquel-lontario; ad essa resta però il merito di aver riconosciuto ai ricoverati “una lar-vata forma di coscienza del proprio stato tanto da prevederne una qualche

autode-terminazione”9

. L’accento si sposta, in parte, dal generale problema dell’ordine pubblico ai diritti del singolo individuo ed alla sua volontà.

La legge intende rendere più semplici le procedure di dimissione ed infatti si registra un incremento del numero di esse; allo stesso tempo, si modificano anche il rappor-to ed il contatrappor-to tra istiturappor-to e famiglie, le quali vengono maggiormente coinvolte nei processi che riguardano i pazienti (soprattutto in funzione delle dimissioni).

Dopo Simonini, ed in particolare dal 1971 al 1974, il nuovo direttore dell’ospedale psichiatrico di Volterra è Ferdinando Pariante, sotto il quale si riscontrano alcune innovazioni. Il paradigma psichiatrico, pur restando abbastanza integro, inizia ad es-sere attaccato su alcuni fronti; Pariante tenta infatti di contrastare le tendenze, pre-valenti nel contesto degli anni ’50-’60, che miravano all’omologazione, alla norma-lizzazione e persino all’annientamento del soggetto problematico. Egli è autore, in-sieme al futuro direttore Pellicanò, di un articolo a favore della chiusura del

mani-comio dal titolo “Istituzione o ospedale?”, pubblicato nella rivista “Neopsichiatria”10

. Negli anni Settanta, si diffonde la voglia di sperimentare dei percorsi alternativi ri-spetto a quelli in atto finora e tale intento si concretizza in azioni volte ad incrinare definitivamente il paradigma psichiatrico ancora vigente. L’interesse vira dalla ma-lattia in sé, alla situazione dei singoli malati, quindi anche alla loro storia, con la comprensione di dinamiche familiari e col coinvolgimento dei parenti stessi. Tra le sperimentazioni del periodo, c’è anche quella mirante ad arginare l’impatto dege-nerativo della cronicità: si è infatti diffusa una maggiore consapevolezza del tentati-vo, da parte delle istituzioni manicomiali, di controllare i soggetti, di destrutturarne la personalità e di produrre degli individui adattati ad esse, azioni che hanno come

9

Fiorino V. (2011), Le officine della follia. Il frenocomio di Volterra (1888- 1978), Pisa, Edizioni ETS, p. 266.

10

(29)

26

conseguenza l’amplificazione del disagio della persona. Invece di riscontrare uno sviluppo dell’autonomia e della capacità di relazione del soggetto, le condizioni di quest’ultimo si aggravano; l’internamento manicomiale era ancora uno strumento per lo più di controllo sociale dei comportamenti devianti e “inaccettabili”.

Con la consapevolezza di ciò e con la nuova volontà di prevenire ed arginare il fe-nomeno della cronicità, oltre ad aumentare il numero delle dimissioni, l’attenzione viene spostata dalla malattia al soggetto, ma anche dal manicomio alle strutture che siano in grado di accogliere i dimissibili.

Negli anni ’70, cambia la concezione del malato e, insieme ad essa, la gestione del paziente, il quale non subisce più passivamente il quadro diagnostico riferito alla sua malattia, ma vede l’ingresso di indagini psicologiche, sulle relazioni familiari, sul-le condizioni economiche e sociali. A tal proposito, Angelo Lippi scrive che “l’internamento è sostituito dai servizi territoriali non solo perché ci si oppone a qualsiasi intervento punitivo, ma perché si tenta di liberarsi dall’ ‘iperdiagnostici-smo’, ossia dalla netta tendenza a leggere tutti i comportamenti in modo superficia-le, frammentando le singole espressioni per proporle come prove di patologie a

di-scapito dell’intera e complessiva vicenda esistenziale”11

.

I ricoverati non appartengono più, come invece avveniva in passato, ad una classe omogenea di elementi indistinti, ma iniziano ad essere considerati maggiormente nella loro individualità, osservandone le esperienze soggettive ed i loro contesti e realtà; “porsi degli interrogativi sui comportamenti dei ricoverati, pensare i ricove-rati come soggetti di relazioni sociali e di bisogni – e non oggetti di controllo – ha

si-gnificato sovvertire lo spazio manicomiale”12

.

Riepilogando, il nuovo approccio mira ad indagare anche i contesti materiali ed af-fettivi dei ricoverati (ed a tenerli in considerazione), ad osservare il disagio da un punto di vista innovativo che non sia soltanto quello della malattia, ed infine a resti-tuire il paziente al tessuto suo sociale, facendo attenzione ai legami personali dello stesso.

11

Cirincione E. e Lippi A. (1971), Famiglia, ambiente e interventi assistenziali nella storia di Silvano, in “Neopsichiatria”, XXXVII, n. 1, pp. 91-112.

12

(30)

27

I servizi sociali intervengono non solo nella raccolta di informazioni, ma anche nelle procedure di ricovero, seguendo l’evoluzione della situazione del soggetto, fino alle sue dimissioni.

Un episodio merita di essere rammentato: all’inizio della sua carriera di assistente sociale, Lippi presentò un suo piano di proposte miranti alla riattivazione dei legami tra ricoverati ed i loro familiari, con l’intento di “deistituzionalizzare la sofferenza”,

ma egli ricevette come risposta un “Chi te l’ha chiesto?”13

. Le modifiche che avver-ranno seguito, confermeavver-ranno però il valore della sua proposta, in quanto quelle a-zioni si rivelano propedeutiche e necessarie al reinserimento nel territorio del sog-getto dimesso.

I cambiamenti culturali in auge nel periodo ed il modello proposto da Basaglia, con la successiva promulgazione della legge 180/78, porteranno alla definitiva, anche se lenta, chiusura degli ospedali psichiatrici; ciò accadrà anche in seguito alla scelta di abbandonare i quadri culturali e scientifici che finora hanno giustificato l’esistenza di tali strutture.

Nel frattempo a Volterra (e quindi prima che la L. 180 vedesse la luce), alcune misu-re in dimisu-rezione della deistituzionalizzazione erano già state avviate e, a sostegno di quanto affermato, merita di essere rammentato il Convegno ivi tenutosi

nell’ottobre del 197414

, durante il quale vengono offerte delle proposte alternative al modello esistente, che confermano le riflessioni già in circolo da tempo: il ruolo ed il potere degli psichiatri è messo in discussione, e si riconosce la necessità di tra-sferire in strutture apposite oppure di far rientrare in famiglia quei soggetti che non hanno affatto bisogno di una struttura come l’ospedale psichiatrico. Si suggerisce una riorganizzazione dell’ospedale secondo regole democratiche ed adottando una concezione “orizzontale”, caratterizzata dalla compartecipazione degli operatori alla programmazione ed attuazione degli interventi; ulteriori innovazioni promosse sono

13

Riferimento all’intervista rilasciata da Lippi A. a Fiorino V. il 25 agosto 2011 presso Volterra, Fiorino V. (2011), Il frenocomio di Volterra (1888- 1978), Pisa, Edizioni ETS, p. 277.

14

Fiaschi G. (a cura di) (1975), Atti del Convegno di studio “Dalla realtà attuale dell'ospedale psichia-trico ad una assistenza alternativa nel territorio e ad un superamento della legislazione vigente”, Vol-terra 20-21 aprile 1974, Pisa, Pacini Editore.

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28

la multidimensionalità della diagnosi, che deve quindi tener conto di vari aspetti e bisogni del soggetto ricoverato, e la partecipazione diretta di quest’ultimo alla vita dell’ospedale ed alla definizione della propria terapia individuale. Inoltre, è messo in discussione il valore dell’ergoterapia, vista adesso come sfruttamento di un lavoro, peraltro non finalizzato all’acquisizione di definite capacità, e quindi un metodo di scarsa efficacia terapeutico-riabilitativa.

Significativa è anche l’apertura del reparto Villa Caggio nel 1971, adibito ad alloggio per i pazienti dediti al lavoro protetto e “pensato per un intervento ‘risocializzante’

per pazienti ‘dimissibili’ ”15

; il lavoro, in questo caso, prevede una retribuzione coe-rente alla mansione svolta ed alla produzione, quindi anche una responsabilizzazio-ne del soggetto ed un riconoscimento dei suoi diritti. In tale sede, l’intervento me-dico è ridotto al minimo per favorire l’assunzione di responsabilità da parte del pa-ziente, per una sua presa di coscienza ed autodeterminazione.

Al fine di abolire il manicomio, si doveva rovesciare la sua rigida gerarchia interna ed i rapporti di potere, e per far questo, nel 1973, si tenta di trasformare tale strut-tura in comunità terapeutica, con il riconoscimento dell’autonomia individuale di ogni paziente e con la previsione di momenti assembleari col coinvolgimento parite-tico di tutti i soggetti. Tale avvenimento “fu uno dei passaggi più significativi della vicenda volterrana, che, sebbene già approvata fin dalla fine del 1973, nei fatti sarà realizzata nel 1975. (…) La lotta contro tutte le forme di violenza perpetuate nelle istituzioni totali, il rispetto verso tutti gli esseri umani, la condivisione democratica delle responsabilità collettive erano gli obiettivi principali che avevano legittimato la

graduale trasformazione dell’ospedale in comunità”16

.

Già nel 1970 erano state avanzate alcune proposte innovative in direzione del supe-ramento dell’istituzione totale volterrana, come l’umanizzazione dei reparti, la ri-qualificazione del personale e la diffusione di interventi extraospedalieri decentrati; si mira quindi al potenziamento delle strutture territoriali rivolte non solo alla cura, ma anche alla prevenzione e riabilitazione dei malati mentali. Un esempio è costitui-to dall’istituzione, sempre a Volterra, di un temporaneo servizio diurno e notturno

15

Fiorino V. (2011), Le officine della follia…, p. 279.

16

(32)

29

di ospitalità per i soggetti dimessi17

, visto come passaggio intermedio e di accompa-gnamento all’effettivo rientro sul territorio; tale servizio era maggiormente rivolto al sostegno delle persone con problemi economici e di alloggio, ma senza necessità di assistenza ospedaliera.

Un peso notevole nell’opera di smantellamento dei manicomi lo ha avuto anche il costo per il mantenimento di tali istituti, sempre più insostenibile a causa della di-minuzione del numero dei ricoverati.

Nel 1975, Carmelo Pellicanò diviene il nuovo direttore e, negli anni, dimostra un no-tevole impegno nel processo di dismissione e di trasformazione dell’ospedale psi-chiatrico in comunità terapeutica; quest’ultima è volta finalmente ad evidenziare le esigenze individuali delle persone ospitate, a soddisfare i loro bisogni ed a verificare l’operato della struttura stessa, il tutto coadiuvato da un’organizzazione interna di tipo orizzontale.

Uno dei primi interventi, a partire dal 1974 e completato nel 1976, consiste nell’attuazione della zonizzazione; “essa (…) intendeva l’intervento come atto al tempo stesso preventivo, curativo e riabilitativo da esplicare in un territorio che

a-veva già un rapporto strutturato e integrato con gli altri servizi”18

, ed i soggetti era-no adesso “raggruppati sulla base dell’area geografica di provenienza (per zone, per l’appunto), non per quadri nosologici. Ciò ha attribuito importanza alle nuove strut-ture territoriali, creando uno scambio col territorio fondamentale per la chiusura

del manicomio”19

.

Le modifiche operate nell’organizzazione dei servizi non sono sufficienti a mettere completamente al riparo dal rischio di riproduzione di dinamiche di controllo, se-gregazione e gestione dei soggetti, e dal pericolo di riservare una scarsa attenzione alla loro soggettività e capacità di autodeterminarsi.

Resta da affermare che, nonostante i pareri della comunità volterrana rispetto alla chiusura del manicomio fossero divisi (dal momento che esso rappresentava una delle risorse maggiormente certe della città, offrendo peraltro un vasto numero di

17

Fiaschi G. (1975), Esperienze alternative alla prassi tradizionale psichiatrica nell’Ospedale Psichia-trico di Volterra, Pisa, Edizione Cursi.

18

Fiorino V. (2011), Il frenocomio di Volterra (1888- 1978), Pisa, Edizioni ETS, p.284.

19

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posti di lavoro), le forze politiche del periodo espressero un ampio consenso al nuo-vo progetto.

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31 Capitolo III

IL MODELLO TERRITORIALE

1. Prima della Legge 180/1978

Negli anni Cinquanta, l’istituzione manicomiale ospita oltre 100 mila cittadini inter-nati e svolge un ruolo per lo più di contenitore sociale di problemi diversificati che spaziano dai disturbi mentali, alle disabilità gravi, dal disadattamento all’emarginazione. Il ricovero spesso dura sino alla morte dei soggetti ed i criteri per l’internamento sono quelli della pericolosità e del pubblico scandalo; le istituzioni suddette svolgono solo in minima parte le funzioni di cura in vista di un reinseri-mento del soggetto nella comunità.

Già a partire dalla metà degli anni ’50, inizia a diffondersi il movimento di de-istituzionalizzazione che mette in discussione l’efficacia del manicomio, e del potere istituzionale in genere, cercando di puntare su nuove modalità di presa in carico dei pazienti.

Anche per merito del movimento di lotta operaia e studentesca, viene disvelato il peso autoritario delle istituzioni e la loro funzione di stabilizzazione dei rapporti di

potere1

. In questo contesto possono essere collocate realtà come quella di Gorizia, la quale ha recepito i contributi derivanti dalle lotte ma, su di essi, ha anche “intera-gito col suo carattere di liberazione totale. Il fatto importante è che per la prima vol-ta si realizzava in Ivol-talia quel rovesciamento pratico-istituzionale che toglieva alla psi-chiatria i caratteri di scienza ideologica e poneva con forza l’esigenza di distruggere i centri della esclusione per restituire alla collettività le contraddizioni che essa aveva

allontanato da sé”2

.

In Italia il movimento anti- istituzionale si sviluppa soprattutto a Gorizia, nel cui o-spedale psichiatrico Basaglia lavorò come direttore.

1

Benigni B. (1972), La salute mentale: dalle strutture segreganti ad una organizzazione territoriale di sicurezza sociale, da “Fogli di Informazione”, p. 8.

2

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