sali “di secondo ordine”, ossia le esigenze del soggetto che risultano indispensabili per conseguire un livello adeguato di salute fisica ed autonomia: tra di esse, si pale- sano i bisogni di abitare (alloggio adeguato), di svolgere delle attività/lavoro (sicu- rezza economica/ambiente di lavoro non a rischio) e di relazioni sociali (relazioni
primarie significative)1
.
La trattazione qui riportata si concentrerà appunto su queste tre sfere tematiche, ritenute centrali all’interno del lavoro che i servizi per la salute mentale, in partico- lar modo quelli residenziali, svolgono per/con il soggetto, al fine della sua riabilita- zione e reinserimento sociale.
La scelta di concentrarsi sulla tipologia residenziale deriva dalla matrice prevalen-
temente sociale caratterizza tali servizi2
, insieme al loro collegamento/permeabilità col territorio e le sue risorse.
Questo non significa che i servizi a maggiore impronta sanitaria non siano rilevanti per i bisogni (per lo più sanitari appunto), ma ciò che qui interessa è affrontare il tema della riabilitazione soprattutto da un punto di vista sociale, con l’accento sull’aspetto relazionale-inclusivo e quindi sul forte legame con la comunità di appar- tenenza.
L’abitare, il lavoro e le relazioni costituiscono tre aspetti fondamentali della vita di ogni persona, a prescindere da qualsiasi problematica, anche di natura mentale, possa riguardarla; oltre a rappresentare delle necessità e la base per lo svolgimento di ulteriori attività quotidiane, essi costituiscono anche dei diritti imprescindibili per lo sviluppo della persona umana.
1
Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria dei bisogni umani, Milano, Franco Angeli Editore, p. 196.
2
147 1. La “casa” ed il bisogno di abitare
Proprio al momento dell’effettiva chiusura degli ospedali psichiatrici (dopo ben vent’anni dalla L. 180), si è rianimato il dibattito a proposito di residenzialità, anche se è importante che tale tematica venga qui riconsiderata in un’ottica maggiormen- te articolata e complessa, quella dell’abitare.
Per negare l’istituzione, si è dovuto contrastare gli apparati scientifici, legislativi, ed amministrativi, i codici, i riferimenti culturali ed i rapporti che esistevano attorno al- la tematica della malattia mentale (a cui nel manicomio si sovrappose l’attributo della pericolosità). Così come, in quel caso, per superare determinati concetti è sta- to necessario considerare l’interrelazione tra varie componenti appartenenti a sfere diverse, oggi, per ripensare i servizi e la residenzialità, occorre tener conto sia delle correlazioni, al loro interno, tra risorse, operatori, modelli, sia delle storie degli u- tenti. Solo in questo modo la residenzialità riesce ad entrare nel più complesso am- bito dell’abitare.
Avere un’abitazione è un diritto/bisogno fondamentale di tutti i cittadini, e quindi anche di chi è portatore di un qualche disagio o fragilità; questi ultimi possono anzi riscontrare maggiori complicazioni nel soddisfare le loro esigenze, a causa di ostaco- li insiti nei funzionamenti sociali.
Parlare di residenzialità per la salute mentale non significa considerare semplice- mente le prestazioni che sono erogate dai servizi (residenziali appunto), ma implica interrogarsi sul senso che essa ricopre per il soggetto e sulle conseguenze anche in
termini di identità.Infatti, l’abitazione è un tratto ambientale importante nel vissuto
personale, a tal punto influenzare anche il comportamento; essa costituisce un ha- bitus, un modo di essere, nel senso dell’esistere ma anche nel rapporto con gli altri. Quindi, l’abitare non consiste semplicemente nell’“avere un tetto sulla testa”, un qualsiasi luogo in cui vivere, con l’unica condizione della presenza di determinati re-
quisiti strutturali a garanzia della qualità (criteri per l’accreditamento); il termine
“qualità” dovrebbe invece essere affiancato dalla specificazione “di vita”, divenendo l’obiettivo da conseguire e facilitandone il raggiungimento, a beneficio del soggetto.
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È auspicabile che l’ambiente abitativo sia caratterizzato da elementi personali, lega- ti all’identità dell’individuo, e riesca a garantire anche la possibilità di svolgere le funzioni vitali (mangiare, dormire), costituendo una base sicura, un punto stabile da cui partire ed a cui tornare (casa). Dovrebbe qui essere assicurata la presenza di un certo livello di sicurezza ed autonomia, in un nucleo che sia “proprio” ma anche all’interno del tessuto sociale: così, il soggetto è sia incluso nella società sia tutelato nella sua individualità.
Poiché l’abitare è il fulcro della riabilitazione sociale, nel caso in cui siano trascurate le implicazioni degli elementi sopracitati, c’è il rischio che le residenze dei servizi compromettano non solo la riabilitazione, ma anche la “qualità di vita”.
Abitare la residenzialità
Occorre adesso precisare meglio il significato dei concetti di “residenzialità” ed “abi- tare”, per capire se sia possibile avvicinarli o trovare addirittura un punto di contat- to. La residenzialità “si propone come un progetto terapeutico, riabilitativo, socio- assistenziale che viene posto in essere quando una persona, per una serie di motivi
diversi, non può procurarsi una abitazione o comunque viverci autonomamente”3
; invece l’abitare consiste nell’“avere il possesso del luogo dove si abita, o comunque esserne titolari, significa non dover sottostare a regole particolari, significa sceglie- re.”4
; elementi di discrimine tra i due concetti risultano quindi essere quelli della personalizzazione, dell’autonomia e della scelta.
Anche se, nella pratica, i due termini vengono spesso accostati e considerati simili, la loro distanza si rivela esplicitamente nel momento in cui gli stessi vengono coniu- gati con il tema della malattia mentale, intesa come orizzonte operativo; infatti, quando i servizi agiscono un intervento di tipo abitativo (cioè l’inserimento in strut-
ture con i relativi supporti), essi “solitamente (…) si muovono in modo separante”5
. In alcune situazioni, quest’atto si rivela necessario, ad esempio quando il soggetto,
3
Righi A. (1999), Abitare la residenzialità, dalla Rivista “Prospettive Sociali e Sanitarie”, n. 10/1999, …., p. 10.
4
Ibidem.
5
149
in seguito ad una crisi, non riesca ancora a prendersi autonomamente cura della
propria persona; ma, altre volte si può riscontrare una tendenza a scegliere sempli- cemente la soluzione meno “problematica”, invece di lavorare perché la persona vi- va presso la propria abitazione. Nonostante sia previsto di evitare tale tipo di inter- venti quando l’individuo è in grado di vivere da sé, può verificarsi anche che egli non venga stimolato/preparato abbastanza in direzione del reinserimento nel tessuto sociale; ciò anche a causa di un atteggiamento eccessivamente paternalistico da parte dei servizi, i quali, mantenendolo sotto la loro “ala protettiva”, ne ritardano
l’effettivaemancipazione.
È quindi auspicabile che il percorso delle strutture si attivi solo quando vi sia una re- ale esigenza e che venga offerta una vasta articolazione di servizi, così da rispondere
alle variegate domande dell’utenza. Affinché questi progetti residenziali non si tra-
sformino in una completa delega di soggetti ad un “qualche luogo psichiatrico”, in un’ottica di separazione, diventa necessario lavorare per una concreta integrazione dei presìdi della salute mentale all’interno del contesto sociale e per la collabora- zione con gli altri agenti presenti sul territorio.
Se si definisce “forte” un servizio centralizzato e concentrato su se stesso, è preferi- bile che i servizi attuali diventino “deboli”, cioè si decentrino, lascino uno spazio maggiore al contesto che li circonda, alla presenza degli altri enti, insieme alle risor- se della comunità. Il percorso dei servizi, pur restando di tipo residenziale, non do- vrebbe costituire l’unica risposta possibile, né tantomeno chiudersi su se stesso; questo perché, per andare verso la dimensione dell’abitare, è necessaria un’apertura al tessuto sociale, a partire dal collegamento effettivo con le risorse territoriali.
Ci si muove quindi in un’ottica di deistituzionalizzazione, o meglio di destrutturazio- ne, per evitare che si presentino nuove forme onnicomprensive di servizi; in tal caso può essere utile non dimenticare gli sforzi compiuti in passato per la chiusura dei “forti” istituti manicomiali. Il manicomio era una “dimora” fine a se stessa, che si au- to-manteneva; con essa si distingueva un dentro (i malati) ed un fuori (i sani), favo- rendo la perdita di un punto di contatto ed escludendo il rapporto con l’altro. Chi vi
150
era inserito restava chiuso tra quelle mura e quei funzionamenti e “con questo ta- glio veniva recisa la sua stessa esistenza, privata della possibilità di pro-gettarsi, di
essere-nel-mondo; che si traduceva quindi in un’esistenza mancata”6
. Qui i malati erano “corpi senza vissuto che occupavano solo uno spazio, non ‘abitavano’ lo spa- zio”7
.
Se il termine “dimora” richiama la stasi, l’irremovibilità, quello di “abitare” significa invece un’apertura ad una serie di spazi fruibili e possibili, all’esistere come avere e possedere, anche nelle piccole azioni della quotidianità.
Facendo riferimento all’etimologia della parola abitare, si possono rilevare degli spunti interessanti: essa “deriva dal latino habitare, frequentativo di habere ‘trovar- si, stare’, ‘avere’ come dimora, possedere; e da habeo ‘colui che ha’ qualità fisiche, psicologiche, culturali. E ‘abitare’ condivide anche la stessa radice con ‘abilità’: da habilitare(m), habilis ‘abile’: capacità e idoneità a compiere qualcosa in modo soddi-
sfacente, quindi avere le capacità al vivere sociale: essere: esistere”8
.Si tratta della
capacità di vivere nel sociale, di stabilire una relazione con l’Altro da sé; tra il Sé e l’Altro esiste un confine, che serve per la propria identificazione, ma allo stesso tempo tale confine non è invalicabile, perché consente lo scambio relazionale. Il su- peramento del manicomio è avvenuto grazie al collegamento, ad una restaurazione del dialogo con la società e della relazione con l’altro; da qui la necessità che l’abitazione del soggetto non possa essere separata da quella della comunità, ma debba situarsi in spazi più ampi e condivisi.
Grazie alle modalità sopra descritte, i due aspetti di risiedere ed abitare possono fi- nalmente avvicinarsi: “abitare una residenza (…) dovrebbe voler dire accedere ai servizi territoriali di riferimento, (ma anche) dipendere dai rapporti con l’esterno,
muoversi in termini di integrazione”9
. Si auspica, quindi, che il progetto dell’abitare
corrisponda alle effettive esigenze della persona (e non del paziente), portatrice di diritti di cittadinanza, e del suo contesto relazionale, invece di essere funzionale alla
6
Garofalo G. (1997), Oltre la “dimora” istituzionale. Riflessioni fenomenologiche sull’Abitare, dalla Rivista “Neopsichiatria”, vol. I/II, p. 119.
7
Ivi, p. 121.
8
Ivi, p. 120.
9
151
logica di chi eroga le prestazioni; è il soggetto a dover usufruire dei servizi messi a sua disposizione, e non viceversa.
Infine, ”abitare una residenza vuol dire entrare in una logica di rischio condiviso, con
l’utente per primo, fra i servizi, con il territorio, all’interno della residenza stessa”10
; la riuscita del progetto è in questi casi meno sicura, dal momento che si tratta di o- biettivi maggiormente ambiziosi e complessi, col coinvolgimento di numerosi sog- getti, il tutto all’interno di una contesto più aperto ed esteso. La situazione appare perciò meno controllabile da parte dei servizi ed anche le regole all’interno di tali processi divengono meno rigide, poiché soggette alle pressioni di più individui (compreso il cittadino-utente che vanta i suoi diritti), i quali possono intervenire per contrastarle, modificarle, negoziarle e personalizzarle, offrendo il proprio contribu- to.
La domiciliarità
Un altro concetto da prendere in considerazione è quello di domiciliarità. A tal pro- posito, è opportuno indagare i possibili significati del termine e domandarsi se sia possibile parlare di essa nei casi in cui il soggetto viene accolto all’interno delle strutture residenziali.
Per favorire il mantenimento della domiciliarità, intesa come permanenza nella propria abitazione, possono essere predisposte varie soluzioni, tra cui il servizio di assistenza domiciliare e l’erogazione di contributi economici a sostegno della cura del soggetto; ulteriori possibilità sono gli interventi di sollievo alla famiglia, l’utilizzo di centri diurni ed altri servizi semiresidenziali, gli strumenti del telesoccorso e tele- assistenza.
La casa possiede una sua storia, è popolata da elementi che appartengono al sog- getto, che ne mantengono viva la memoria e si collegano alla sua identità; essa for- nisce un senso di sicurezza che contribuisce senz’altro al benessere ed alla salute della persona. Doyal e Gough individuano, tra i bisogni intermedi necessari per il
10
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perseguimento dei bisogni fondamentali, proprio la componente abitativa, da loro
menzionata come “alloggio adeguato”11
.
È importante garantire la possibilità di continuare a vivere dove esiste la propria domiciliarità ma, nelle situazioni in cui la persona è meno autonoma, serve una rete concreta di sostegno, la quale non può essere costituita esclusivamente né dalla so- la famiglia né dai servizi pubblici; si deve invece prevedere la partecipazione com- plementare di risorse formali ed informali della comunità. In questi casi, si auspica quindi la realizzazione di progetti individuali che tengano conto di tutte le risorse del territorio. Le situazioni che rendono difficoltosa la permanenza del soggetto a domicilio possono essere la riduzione della sua autonomia, l’esistenza di problemi in casa o in famiglia, oppure la totale mancanza di una rete di sostegno; può quindi di- venire necessario fornire un supporto abitativo attraverso le strutture residenziali dei servizi. In questi casi, è come se la domiciliarità fosse messa tra parentesi, per- ché l’individuo smette temporaneamente di vivere nella sua abitazione (ovviamente se essa è presente) per sperimentare l’ospitalità all’interno di una struttura che ap- partiene ai servizi, quasi sempre condividendo quegli spazi con altri utenti ed opera- tori (sebbene con diversa intensità di assistenza a seconda del tipo di struttura). “Sradicare un qualunque soggetto, a maggior ragione fragile, dalla propria abitazio- ne, che costituisce per lui un orizzonte di riferimento pieno dei ricordi della sua sto- ria, significa non soltanto modificarne le abitudini, obbligandolo ad un riadattamen- to altrove, ma destabilizzarlo, rompere un equilibrio che può essere già precario per
altre motivazioni”12
; nei casi in cui tale azione sia necessaria, diviene fondamentale che la messa tra parentesi della domiciliarità sia solo temporanea e che, al termine del progetto residenziale, si programmi l’uscita del soggetto dal percorso delle strutture per un reinserimento effettivo nel tessuto sociale, o meglio in una sua abi- tazione (sia o meno di proprietà dello stesso).
Ma è proprio vero che la fruizione delle strutture residenziali dei servizi si scontra col concetto di domiciliarità? Si risponde positivamente alla domanda se per domici-
11
Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, p. 196.
12
Santini M. (A.A. 2009-2010), Il Progetto “Anziano Fragile” a Piombino. Quali bisogni, quali risposte, Tesi di Laurea triennale in Servizio Sociale, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Pisa, p. 12.
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liarità si intende esclusivamente il vivere all’interno della propria abitazione, ele- mento che di sicuro si lega all’identità personale, alla sicurezza ed all’autonomia; ma la persona vive anche all’interno di un “ambiente” di cui la casa è soltanto uno degli elementi caratterizzanti. Quindi, con domiciliarità, si deve poter richiamare anche l’appartenenza ad un determinato contesto sociale, fatto di relazioni e di reti, cioè un luogo “significativo per la persona che vive con la sua globalità, unicità e irripeti-
bilità, lo spazio dotato di senso, lo scenario entro cui si muove e vive la persona”13
. Se “domicilio” significa anche questo, unito ad una forte connotazione soggettiva, probabilmente i servizi possono non esserne considerati antagonisti; e, dato che la presenza di una comunità che accoglie è un’esigenza di tutti, i servizi stessi procede- ranno nel tentativo di creare, accanto a progetti individuali, un progetto globale di “qualità di vita” sul territorio, legato anche al diritto di abitare.
Più che ad una casa in senso specifico (appartamento), ci si riferisce quindi alla “ca- sa” con un’accezione più ampia, cioè come appartenenza al tessuto sociale (ricono- scersi in esso e riconoscerlo come proprio) ed alla relativa comunità, anch’essa lega- ta all’identità della persona.
La promozione della cultura di domiciliarità si traduce perciò nel “promuovere ap-
partenenza sociale, cultura di cittadinanza”14
; vengono valorizzati la relazione ed il senso che deriva dalla creazione di reti sociali. Persino i servizi partecipano alla promozione di una cultura di domiciliarità, ma riescono a farlo a patto di inserirsi organicamente nel territorio, facendo proprio il significato più ampio di “abitare” e condividendo lavoro/valori/regole/supporto con le risorse del tessuto sociale, il tut- to volto all’autorealizzazione del soggetto: non basta soltanto “abitare una casa” in senso stretto, cioè vivere autonomamente, ma “abitare la società”.
“La comunità locale va sensibilizzata a costruire concretamente il percorso dai ‘non luoghi’ ai luoghi, contesti dotati di senso per i cittadini, nei quali si costruiscano
nuove relazioni e si consolidino quelle esistenti”15
, ed i servizi sono chiamati a par- tecipare anch’essi a questo processo ed a promuoverlo, sia che agiscano per la
13
Scassellati Sforzolini Galetti M. (2004), Un “manifesto” per la domiciliarità, dalla Rivista “Prospetti- ve Sociali e Sanitarie” n. 15/2004, p. 19.
14
Ivi, p. 20.
15
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permanenza del soggetto nella sua abitazione, sia che operino l’inserimento nelle strutture residenziali. Non deve mancare la relazione col territorio e le sue risorse poiché, per garantire il rispetto della domiciliarità in senso più ampio, è necessario che i servizi siano aperti, in una sorta di permeabilità col contesto sociale e le sue reti. Sarà in questo modo più semplice, alla conclusione del percorso delle strutture, agire per il reinserimento del soggetto-utente in un’abitazione autonoma, proprio perché non ha vissuto all’interno di un contesto chiuso ed isolato (come invece era- no precedentemente i manicomi) e non ha perduto affatto i rapporti e le relazioni presenti nel suo ambiente di vita.
Un intervento domiciliare, per essere efficace, deve quindi collocarsi all’interno di una larga rete di protezione sociale e sanitaria che sappia coniugare le varie risposte del cittadino in un contesto unitario ed organico. Promuovere la domiciliarità non significa cancellare gli interventi di tipo residenziale e semiresidenziale, ma collocarli in un percorso in cui il mantenimento della persona nella sua rete comunitaria costi- tuisca sempre la priorità; un mezzo per far ciò consiste nel prevedere, nel contesto sociale, momenti di raccordo tra i vari enti e soggetti, ma anche utilizzare progetti flessibili e plurali che colleghino le varie risposte, secondo esigenze che possono modificarsi. Riassumendo, domiciliarità va intesa come attivazione di tutti quei per- corsi assistenziali atti a tutelare la permanenza della persona nella sua comunità o- riginaria, elemento che costituisce una peculiarità del welfare community (per lo più caratterizzato dal principio di partecipazione attiva della comunità).
In realtà, già dall’affermarsi del principio di deistituzionalizzazione (grazie ai meriti di Basaglia), domiciliarità ha significato il riconoscimento della dignità della persona, la creazione di un sistema di risposte per salvaguardare il soggetto inteso in senso olistico, e quindi nel suo ambiente di vita, con le relazioni ed i riferimenti personali, a difesa del senso di appartenenza.
Concludendo, si può quindi ribadire che i servizi per la salute mentale devono poter continuare a sostenere la domiciliarità anche quando effettuano l’inserimento di un soggetto nelle proprie strutture residenziali; l’apparente contraddizione è neutraliz- zata grazie al loro impegno per il mantenimento/creazione di rapporti tra utente e
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suo contesto di vita e per la promozione/valorizzazione di significative reti sociali nel territorio.
Un nodo critico consiste nel movimento parallelo tra crescita dell’autonomia abita- tiva, che mira al raggiungimento della maggiore indipendenza possibile, e crescita della persona in senso riabilitativo, cioè della sua consapevolezza e capacità di ge- stirsi da sé; poiché si auspica che tale “competenza” aumenti nel tempo, sono previ- sti vari livelli di abitazione, con sempre minore presenza/supporto da parte servizi, a rappresentare la progressiva capacità del soggetto di prendersi cura della propria
persona e di riuscire quindi a vivere autonomamente16
. Così come il passaggio tra i diversi livelli di abitazione testimonia che il soggetto “sta crescendo”, allo stesso tempo, lo spostamento in “strutture meno strutturate” costituisce un elemento in- dispensabile all’incremento della fiducia nella propria persona. È come se il passag- gio ad un’abitazione con minori “vincoli” assistenziali, stesse a dimostrare che l’individuo “ce la sta facendo”, con un notevole effetto sulla sua autostima. Dal lato opposto, però, una regressione in senso abitativo, cioè il rientro in una struttura a maggiore intensità assistenziale (ad esempio, dalla Casa famiglia al Centro Residen-