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DOYAL E GOUGH: UNA TEORIA DEI BISOGNI UMANI 1 Breve descrizione della teoria

Len Doyal, professore di Social Policy all’Università di Bath, e Ian Gough, professore al Medical College del London Hospital, sviluppano nel loro testo dal titolo “Una teoria dei bisogni umani” una tesi alquanto originale. Il loro intento è quello di so- stenere l’esistenza di bisogni fondamentali, di descriverli e di mostrare come essi possano essere oggettivamente rilevati e misurati, tutto ciò integrando riflessione teorica ed analisi empirica.

Su tale tematica, Doyal e Gough offrono un punto di vista ampio, che considera non soltanto i soggetti portatori di bisogni, ma anche il contesto sociale, fondamentale per la loro soddisfazione; nonostante questo, si evita comunque di cadere nel rela- tivismo, dal momento che la riflessione, che si pone come oggettiva ed universale, presenta uno schema logico e dei concetti validi all’interno di contesti sociali e cul- turali differenti.

Comunemente, la parola “bisogno” può essere usata con numerose accezioni diver- se, ad esempio col significato di “desiderio” o “meta”, ma l’analisi qui proposta va oltre le semplici classificazioni del linguaggio di uso quotidiano. Doyal e Gough rifiu- tano la definizione proposta da Thompson (1987) di bisogno come “un impulso o un qualche stato interno che scateni una pulsione (…), una forza motivazionale che si instaura in un organismo a causa di uno stato di disequilibrio o di una situazione di

carenza”1

. I bisogni umani hanno un sostrato biologico, ma ciò non implica che essi si ricalchino totalmente sugli impulsi dell’organismo; come sostengono gli autori, “resta il fatto che la scelta sia delle ragioni che delle azioni rimane di nostra perti-

nenza e non è determinata dalla biologia”2

.

La differenza tra bisogni e preferenze (o desideri) si situa quindi nel carattere di uni- versalità riguardante le mete che tutti gli individui cercano di conseguire, qualora intendano evitare dei danni seri; mentre i desideri non sono assimilabili ad interessi

1

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria dei bisogni umani, Milano, Franco Angeli Editore, pp. 68-69.

2

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universali, “le ragioni del bisogno sono essenzialmente pubbliche, nel senso che conducono ad una comprensione condivisa sul tipo di strategie che consentono di

evitare il danno”3

. Il termine “bisogno” è quindi utilizzato “per riferirsi a una partico- lare categoria di mete che sono ritenute universalizzabili – il bisogno di cibo, ad e-

sempio, oppure il bisogno di un alloggio adeguato”4

.

Viene ribadita, accanto alla caratteristica di universalità (la concezione di danno grave è la stessa per ogni uomo), quella di oggettività dei bisogni, visto che “la loro

specificazione teoretica e empirica è indipendente dalle preferenze individuali”5

. Tali indicazioni sollevano però degli interrogativi su come distinguere quali siano re- almente i bisogni che tutte le persone devono soddisfare, e lasciano dubbi sulla na- tura del danno serio da evitare. A tal proposito, si procede nel testo con un’ulteriore definizione: il danno serio “è concepito come imposizione di forti limitazioni all’attività volta al conseguimento delle mete cui gli individui attribuiscono valore”, il che significa “risultare radicalmente limitati nella ricerca della propria idea del be- ne”6

. Un’altra modalità per definire tale danno riguarda “le conseguenze di una in-

sufficiente soddisfazione dei bisogni sul successo nella partecipazione sociale”7

. In questo senso, la mancata soddisfazione dei bisogni fondamentali rappresenta una “deprivazione”, descritta da Townsend P. come una situazione in cui “gli individui non dispongono in quantità sufficiente delle condizioni (…) che permettano loro di assumere ruoli, prendere parte a relazioni e seguire il comportamento usuale che ci

si attende da loro in base al fatto di essere membri di una società”8

.

Si rammenta che i bisogni, secondo Doyal e Gough, non concernono i progetti di vi- ta individuali di ogni persona (i quali rientrano comunque nella sfera di libertà di scelta di ognuno), ma sono legati alla presenza di “precondizioni universalizzabili”

indispensabili per raggiungere “un livello minimo di partecipazione adeguata”9

. Ap- pare interessante anche l’affermazione di Harris sulle politiche sociali, le quali do-

3

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria dei bisogni umani, Milano, Franco Angeli Editore, p. 74.

4 Ivi, p. 72. 5 Ivi, p. 81. 6 Ivi, p. 82. 7 Ibidem. 8

Townsend P. (1987), Deprivation, dal “Journal of Social Policy”, 16, 2.

9

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vrebbero “essere volte ad assicurare una gamma di possibilità di vita ai cittadini di una società (…), offrire opportunità materiali per partecipare alla forma di vita della società. I bisogni, conseguentemente, sono definiti come qualsiasi cosa necessaria per tale fine; (…) un individuo ha “bisogno” nella misura in cui è privo delle risorse

per partecipare come membro a pieno titolo alla vita della propria società”10

. Anco- ra una volta, sorge il problema di chiarire in cosa consistano effettivamente tali ri- sorse.

Nel testo di Doyal e Gough, per anticipare la presentazione dei due bisogni da loro ritenuti fondamentali (e che saranno il fuoco della loro teoria), si fa riferimento a Kant; egli “dimostrò che, affinché gli individui siano in condizione di agire e di essere ritenuti responsabili dei propri atti, essi devono essere tanto mentalmente che fisi- camente capaci di compiere azioni, cioè devono possedere un corpo vivente gover- nato da tutti i processi causali rilevanti, nonché la competenza mentale per delibera-

re e scegliere”11

.

Ragionando in questo modo, si corre però il rischio di imbattersi in un’osservazione circolare: dal momento che la sopravvivenza fisica e l’autonomia personale costitui- scono in ogni cultura le precondizioni di qualsiasi azione individuale, esse rappre-

sentano i bisogni umani più basilari12

(da soddisfare per poter partecipare alla pro- pria forma di vita); ma, allo stesso tempo, essi erano stati definiti come mete uni- versalizzabili. Gli stessi autori si domandano allora come sia possibile “ottenere

tramite un proprio atto ciò che è presupposto dell’azione stessa”13

. Però l’apparente circolarità è risolta se si considerala capacità di azione umana come un elemento che si sviluppa nel tempo, che cresce per gradi, dal momento che le per- sone agiscono concretamente per incrementare la soddisfazione dei due bisogni fondamentali. Doyal e Gough precisano che “sebbene tali bisogni debbano essere già garantiti in qualche misura affinché si possa parlare di azione in generale, le pos- sibilità di successo delle attività future dipenderanno dal loro grado di acquisizione

10

Harris D. (1987), Justifying State Welfare, Oxford, Blackwell.

11

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, p. 85.

12

Ivi, p. 86.

13

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da parte degli attori”14

; quindi definire queste mete come bisogni fondamentali non significa cadere in quel circolo vizioso.

Chiarita questa difficoltà preliminare, si può entrare nel merito dei contenuti dei due bisogni fondamentali che costituiscono il focus della teoria di Doyal e Gough: la sopravvivenza fisica e l’autonomia.

2. La sopravvivenza fisica

“È la salute fisica, piuttosto che la mera sopravvivenza, a costituire un bisogno uma- no fondamentale, ovvero qualcosa che è nell’interesse di tutti gli individui cercare di

soddisfare prima di rivolgersi a qualsiasi altro obiettivo”15

sostengono gli autori. Non è quindi sufficiente parlare generalmente di sopravvivenza, ma è preferibile consi- derare il grado di salute fisica; quest’ultima dovrebbe perciò essere definita. Doyal e Gough scartano il riferimento a salute quale concetto positivo, scelto invece dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) quando parla di “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità” (1948). Per gli autori sopra, risulta complicato stabilire cosa si intenda precisamente con tale descrizione, ed è per questo che essi predili- gono una definizione negativa del termine “salute fisica” (sottolineando l’attributo di fisica, e tralasciando quelli di mentale e sociale), che identifica l’assenza di limita- zioni fisiologiche e che è, a loro parere, universalizzabile, dal momento che si basa sulla spiegazione tecnica fornita dal modello biomedico (secondo lo schema diagno- si-terapia). “La salute fisica può essere concettualizzata trans-culturalmente in mo-

do negativo”16

, dal momento che, al di là delle variazioni culturali e territoriali ine- renti alle malattie, si ritiene che le conoscenze scientifiche disponibili siano suffi- cienti a definirne l’entità e quindi che tali classificazioni bastino ad identificare le pa- tologie gravi; tutto ciò risulta indispensabile per l’ottimizzazione dell’aspettativa di vita e per evitare le malattie fisiche gravi, così da veder garantita la soddisfazione del bisogno fondamentale di salute fisica (e quindi di sopravvivenza).

14

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, p. 87.

15

Ivi, p. 89.

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Si pone però qui una criticità, insita nel pensiero dei due autori: essi si distinguono per l’originale proposta di una definizione in negativo di salute fisica, legata cioè all’impedimento ad agire per l’attore, ma allo stesso tempo indicano, più nello spe- cifico, l’apporto calorico come un importante indicatore di salute. In pratica, per una maggiore aspettativa di vita, si fa riferimento da un’alimentazione che consideri una determinata quantità di calorie, a prescindere dalla tipologia del cibo scelto; ma è proprio vero che solo quell’apporto energetico consente oggettivamente la soddi- sfazione del bisogno di salute fisica? Esistono culture che sopravvivono con una quantità calorica molto inferiore rispetto alla proposta di Doyal e Gough (la quale rispecchia il modello occidentale), senza però che per tali società venga meno la ca- pacità di autonomia ed autodeterminazione, anche per quanto concerne la questio- ne alimentare.

Quindi, da una parte gli autori sostengono l’importanza di una definizione negativa, ma dall’altra rischiano di chiamare “oggettivi” degli indicatori che si rifanno ad un determinato modello, che è quello occidentale, trascurando quindi la variabile dell’autodeterminazione.

Alla luce del rischio di cadere nella suddetta contraddizione, si può notare come emerga all’interno della questione un elemento principe, che riesce a porre in se- condo piano il bisogno di salute fisica: si tratta dell’altro bisogno fondamentale, l’autonomia. Sebbene D. e G. non arrivino mai ad affermare esplicitamente ciò, tale primato si affermerà nel corso della loro riflessione.

3. L’autonomia

Adesso, veniamo appunto al secondo bisogno fondamentale identificato da Doyal e Gough, il quale risulta maggiormente attinente al tema trattato nella tesi: l’autonomia definita come “capacità di formulare propositi e strategie coerenti e nel

tentativo di metterli in pratica attraverso le attività cui si prende parte”17

. Le varia- bili che influenzano il grado di autonomia sono: per prima, la comprensione che una persona ha di se stessa, della propria cultura e delle altrui aspettative, in secondo

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luogo, la capacità psicologica di formulare opzioni per sé, ed infine le opportunità oggettive che consentono di agire.

La prima componente (la comprensione) è legata alle competenze che si acquisi- scono ed apprendono nel corso della vita, dal momento che, come affermano gli autori, “l’entità della nostra autonomia (…) dipenderà dal nostro livello di conoscen- za”18

. Quest’ultima è quindi fondamentale per la comprensione, e tale concetto può essere esportabile nell’ambito della salute mentale, sia in riferimento al soggetto che alla società. Infatti, per quanto concerne la persona con problemi di salute men- tale, una conoscenza (per quanto possibile) della propria malattia, può consentirgli di affrontarla con maggiore consapevolezza; “nelle relazioni mediche, ad esempio, i pazienti informati possono ottenere molto di più dai dottori che li hanno in cura;

hanno maggiori possibilità di scelta di quante ne avrebbero altrimenti”19

. Si suggeri- sce quindi di prediligere un rapporto aperto tra medici (ed altri professionisti del settore) e pazienti, in cui le informazioni circolano e le persone sono messe a cono- scenza delle caratteristiche della loro malattia, della cura e dei risultati attesi; seb- bene la cura medica non sia l’unico strumento di intervento nell’ambito della malat- tia mentale, essa rappresenta comunque un importante elemento di cui il paziente deve avere conoscenza e consapevolezza perché lo possa accogliere, comprendere e scegliere. La presenza di tale variabile incrementa il grado di autonomia della per- sona la quale, nonostante stia vivendo una situazione critica,non deve essere priva- ta di questo diritto e competenza.

Lo stesso si può dire per la conoscenza della malattia mentale all’interno della socie- tà, dal momento che l’acquisizione di una qualche competenza a riguardo favori- rebbe la comprensione della patologia, degli atteggiamenti/comportamenti dei sog- getti che ne sono colpiti e degli effetti che la stigmatizzazione comporta nei loro confronti. La probabilità di comprensione della problematica da parte della gente aumenta se vi è conoscenza, ed è per questo che risulta indispensabile un’opera di sensibilizzazione sul tema, attraverso attività che diffondano informazioni, pareri di

18

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, p. 94.

19

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professionisti del settore, reali esperienze, anche attraverso il coinvolgimento diret- to dei soggetti “esperti” (che hanno vissuto o vivono tale situazione).

Concludendo con questa prima componente dell’autonomia (cioè la comprensione di sé, della propria cultura e delle altrui aspettative) si può affermare che l’entità di essa dipende in gran parte dal livello di conoscenza, declinabile ai due livelli di cui sopra (soggetto e società).

Si prosegue adesso con la seconda componente cruciale dell’autonomia che, per Doyal e Gough, è la salute mentale, cioè “la capacità cognitiva e emozionale degli individui (…); la razionalità è una componente importante in tutte le definizioni di

autonomia”20

.

Viene quindi spontaneo il riferimento alla perdita di autonomia come conseguenza della malattia mentale, la cui assenza è un elemento essenziale (ma davvero suffi- ciente?) perché vi sia salute mentale. La malattia mentale pone però dei problemi definitori, inerenti soprattutto alla sua eziologia ed alle distinzioni culturali che pos- sono essere riscontrate. In primo luogo, infatti, “la mancanza di eziologie specifiche ha generato un ampio dibattito sul fatto che tutti i disturbi mentali siano correlati a patologie fisiche nello stesso senso in cui ciò può esser detto degli altri tipi di malat- tie”21

; sono state cercate cause biologiche, mentre in tempi precedenti si parlava di possessioni demoniache. In secondo luogo, sorgono dubbi sulla possibilità reale di applicare categorie occidentali di malattia mentale a coloro che vivono in culture differenti dalla nostra (ad esempio parlare di “depressione” in una società in cui prevalga l’ideologia buddista, per cui la sofferenza è insita nell’esistenza), tentando di universalizzarle.

Si riscontrano posizioni ancora più critiche, come quella dello psichiatra Thomas S. Szasz (1920-2012), per il quale la psichiatria è definibile come una pseudo-scienza che ha tentato di tradurre in termini scientifici le tradizionali dispute di carattere

morale, religioso e politico22

. Secondo lui, la psichiatria ha preso in prestito due pa- role, vale a dire i termini “malattia” dal vocabolario medico e “mentale” da quello

20

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, pp. 94- 95.

21

Ivi, p. 95.

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psicologico, e li ha combinati insieme, generando un concetto incoerente dal punto di vista scientifico. Inoltre, la malattia mentale viene da lui apostrofata come “ma- lattia falsa”, poiché la sua entità non è misurabile né verificabile scientificamente, dato che non può essere rilevata sul tavolo dell’autopsia e non ha una precisa defi- nizione patologica; essa è spesso identificata col pensare in maniera disturbante e col tenere comportamenti disapprovati dalla società, ma, secondo Szasz, chi ha comportamenti o pensieri di questo tipo non ha necessariamente una malattia. Si tratta piuttosto di problemi “di vita” (di “natura spirituale”) dei soggetti, e gli psi- chiatri potrebbero essere meglio definiti “medici dell’anima”.

In realtà, il successo della psichiatria e del concetto di malattia mentale è stato legit- timato dal loro utilizzo allo scopo di controllare la devianza dalle norme sociali. Szasz è stato associato al movimento antipsichiatrico degli anni ‘60-’70, ma egli non ha mai sostenuto la sua aderenza ad esso e non è mai giunto a negare interamente la pratica psichiatrica, sebbene ne abbia contestato la definizione ed il suo operare coercitivo; essa, secondo lui, dovrebbe consistere in un servizio contrattuale tra a- dulti consenzienti, senza il coinvolgimento statale, né tantomeno la pratica dell’ospedalizzazione non volontaria o la presenza di altri metodi coercitivi (da lui definiti “crimini contro l’umanità”). È confermata invece la valenza del rapporto a- perto tra lo psichiatra ed il soggetto che a lui si relaziona, soprattutto orientato alla ricerca di una forma dialogica che possa favorire la soluzione dei propri problemi “di vita”.

Concludendo, si può affermare che l’importanza del pensiero di Szasz risiede so- prattutto nel tentativo di mettere in crisi il concetto di diagnosi e la natura scientifi- ca della psichiatria, puntando invece l’attenzione sui comportamenti umani in rela- zione alle regole ed ai fattori sociali esistenti.

Al di là del riferimento a questo autore, esistono molte altre posizioni interessanti che tentano di definire le malattie mentali; nel testo di Doyal e Gough, si legge la proposta di Edwards (1982), per il quale esse sono “quelle deviazioni comportamen- tali indesiderabili che implichino in primo luogo una estrema e prolungata incapaci- tà di rapportarsi in modo razionale e autonomo con se stessi e con il proprio am-

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biente fisico e sociale. In altre parole, la pazzia è una forma estrema e prolungata di

irrazionalità pratica e irresponsabilità”23

. Se la malattia mentale è questo, la salute mentale può essere descritta come il suo opposto, cioè caratterizzata dalla raziona- lità pratica e dalla responsabilità. Ma il limite tra razionale ed irrazionale è davvero identificabile? E non vi sono differenze culturali nella definizione di tali concetti? Nel testo di Doyal e Gough, si propone un elenco delle condizioni minime che le a- zioni umane devono possedere per essere considerate razionali e responsabili, le quali contraddistinguono l’individuo autonomo: si tratta della capacità intellettuale di formulare scopi/credenze (relativamente alla cultura di appartenenza) e della presenza della fiducia indispensabile per agire e partecipare ad una certa forma di vita, ma anche di un agire reale nel mondo (formulando propositi coerenti), della percezione delle proprie azioni come compiute personalmente, della comprensione dei vincoli che possono condizionarne l’esito, ed infine della capacità di assumersi le

responsabilità delle azioni stesse24

. Gli autori aggiungono che “come già per la salu- te fisica, l’autonomia al suo livello più basilare dovrebbe essere intesa negativamen- te, ossia con riferimento alla seria incapacità oggettiva che risulterà quando una o

più di queste caratteristiche siano assenti”25

. Nel caso in cui, per determinati sog- getti, l’autonomia (intesa in quei termini) venga meno o subisca una riduzione, ciò inciderà negativamente sulle loro interazioni sociali, costituendo un danno di note- vole rilevanza.

Il punto di vista di Doyal e Gough non si basa quindi su una definizione medica di sa- lute/malattia mentale, ma piuttosto sulla mancanza (anche temporanea) di quei li- velli minimi di razionalità/responsabilità che permettono all’individuo di essere de- finito “autonomo”, con i conseguenti danni nella sfera della sue relazioni e parteci- pazione. Esiste però la possibilità di colmare tali carenze attraverso i servizi preposti all’attivazione-riabilitazione delle capacità di questi soggetti, così da “accompagnar- li” nella riduzione del proprio grado di disabilità e quindi nella crescita del loro livel- lo di autonomia (con consapevolezza dei limiti presenti).

23

Doyal L. e Gough I. (1991), Una teoria…, p. 95.

24

Ivi, p. 96.

25

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Nel testo, D. e G. elencano alcuni sintomi che comunemente sono ritenuti sufficienti a testimoniare l’assenza di razionalità: allucinazioni, illusioni, manie, incoerenze di pensiero, perdita del controllo sulla propria vita,…, tutti identificabili come assolu- tamente carenti livelli di autonomia; si può però dire che tali sintomi, sebbene diffe- renti tra loro, producano una perdita di capacità simile in ogni cultura. Infatti, non si ritiene necessario soffermare l’attenzione tanto sull’origine del disagio o sulla sua classificazione, quanto sul fatto che tali fenomeni conducano agli stessi tipi di inca- pacità e danno sul livello di autonomia. È qui che si situa l’oggettività: indipenden- temente dal tipo di disturbo, si fa riferimento agli impedimenti che la persona espe- risce a causa del disturbo stesso.

La concezione di autonomia in senso positivo, invece, risulta essere l’opposto della descrizione sintomatologica sopra accennata (allucinazioni, illusioni,…) ed in questo senso appare interessante la definizione di Jahoda (1958), il quale, parlando di salu- te mentale, fa riferimento a talune componenti: “la crescita del senso di sé, l’autoaccettazione, il senso di identità, l’unificazione delle mete di vita, la tolleranza