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IL MODELLO TERRITORIALE 1 Prima della Legge 180/

Negli anni Cinquanta, l’istituzione manicomiale ospita oltre 100 mila cittadini inter- nati e svolge un ruolo per lo più di contenitore sociale di problemi diversificati che spaziano dai disturbi mentali, alle disabilità gravi, dal disadattamento all’emarginazione. Il ricovero spesso dura sino alla morte dei soggetti ed i criteri per l’internamento sono quelli della pericolosità e del pubblico scandalo; le istituzioni suddette svolgono solo in minima parte le funzioni di cura in vista di un reinseri- mento del soggetto nella comunità.

Già a partire dalla metà degli anni ’50, inizia a diffondersi il movimento di de- istituzionalizzazione che mette in discussione l’efficacia del manicomio, e del potere istituzionale in genere, cercando di puntare su nuove modalità di presa in carico dei pazienti.

Anche per merito del movimento di lotta operaia e studentesca, viene disvelato il peso autoritario delle istituzioni e la loro funzione di stabilizzazione dei rapporti di

potere1

. In questo contesto possono essere collocate realtà come quella di Gorizia, la quale ha recepito i contributi derivanti dalle lotte ma, su di essi, ha anche “intera- gito col suo carattere di liberazione totale. Il fatto importante è che per la prima vol- ta si realizzava in Italia quel rovesciamento pratico-istituzionale che toglieva alla psi- chiatria i caratteri di scienza ideologica e poneva con forza l’esigenza di distruggere i centri della esclusione per restituire alla collettività le contraddizioni che essa aveva

allontanato da sé”2

.

In Italia il movimento anti- istituzionale si sviluppa soprattutto a Gorizia, nel cui o- spedale psichiatrico Basaglia lavorò come direttore.

1

Benigni B. (1972), La salute mentale: dalle strutture segreganti ad una organizzazione territoriale di sicurezza sociale, da “Fogli di Informazione”, p. 8.

2

32 2. Il pensiero di Basaglia

Negli anni ’60-’70, quando iniziano a filtrare le prime luci sulla realtà manicomiale, diviene evidente l’intollerabilità di tale istituzione e, conseguentemente, inizia ad affermarsi una pratica radicalmente alternativa.

Le idee di Basaglia riescono ad influenzare le tecniche di cura e riabilitazione dei ma- lati e ad ispirare la riforma dell’assistenza psichiatrica (del 1978), ma soprattutto cambiano il modo di concepire il disturbo mentale. Infatti, si sviluppa il concetto di “origine sociale” della malattia mentale, contrapposto alla teoria, finora dominante, dell’origine biologica: è presa in considerazione la possibilità che, quando non sia accertata una derivazione organica precisa, il disturbo derivi da altre situazioni di di- sagio, quali la povertà, l’emarginazione, l’influenza negativa dell’ambiente, le con-

traddizioni sociali3

.

Le conseguenze della malattia mentale risultano differenti a seconda del tipo di ap- proccio instaurato: “il problema non è la malattia mentale in sé (…), ma soltanto di

quale tipo sia il rapporto che viene ad instaurarsi col malato”4

. Effetti come la “di- struzione del ricoverato” non possono essere la diretta conseguenza della malattia, e diviene perciò indispensabile prestare attenzione alla relazione che esiste tra psi-

chiatra (che rappresenta la società) e paziente5

. Fra i vari tipi di rapporto, quello isti- tuzionale è caratterizzato proprio da un aumento del potere del medico, a discapito di quello del malato, il quale diviene automaticamente un cittadino senza diritti, ri- sulta assoggettato al potere dell’istituto e viene privato del suo potere contrattuale;

scompare, quindi, la reciprocità6

.

Come insegna Basaglia, è opportuno distinguere le due facce della “malattia”, pur- troppo confuse spesso all’interno delle strutture manicomiali: la parte organica, ine- rente alla pura problematica psicopatologica, e la parte sociale, legata all’esclusione ed alla stigmatizzazione del soggetto. Infatti, nella maggior parte dei casi, la malattia

3

Basaglia F. e F. (1969), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Torino, Einaudi.

4

Basaglia F. (1998), L’istituzione negata, Milano, Dalai Editore, p. 122.

5

Ivi, p. 120.

6

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si collega ai fattori socio-ambientali, ai livelli di resistenza della società che non tie- ne conto dell’uomo e delle sue esigenze; ecco perché una soluzione per la “cura” può essere quella del “graduale reinserimento di questi elementi che non hanno

retto allo sforzo”7

nella società. Se la persona viene esclusa dal rapporto col mondo, come potrà recuperare tale rapporto?

Basaglia si chiede, inoltre, se la diagnosi clinica (quindi inerente al disturbo organi- co) sia realmente obiettiva o se non si tratti invece di un’etichetta che, sotto la par- venza di un giudizio tecnico-specialistico, nasconde “il suo più profondo significato

discriminante”8

. L’esclusione del malato costituisce, per la società, una liberazione dagli elementi critici presenti (che pur le appartengono) e permette di confermare la validità del concetto di norma da essa stabilita; è sotto il velo della necessità della terapia che si nasconde la violenza nei confronti del malato e, nel momento in cui la

diagnosi “codifica una passività data come se fosse irreversibile”9

, essa assume la funzione di etichettamento.

In risposta a tale situazione, Basaglia afferma questo: “la nostra azione attuale non può essere che una negazione che, nata come rovesciamento istituzionale e scienti-

fico, giunge al rifiuto dell’atto terapeutico come risolutivo dei conflitti sociali”10

. I primi passi nel rovesciamento del sistema istituzionale avvengono con la proposta di una nuova dimensione organizzativa: la comunità terapeutica.

Le prime esperienze psichiatriche a carattere comunitario risalgono al 1942 in In- ghilterra, dove il “pragmatismo anglosassone” riesce a liberarsi della visione del ma-

lato mentale come irrecuperabile e ad enfatizzare il problema

dell’istituzionalizzazione come prima causa del fallimento asilare11

; vengono quindi presi i provvedimenti necessari per l’inserimento del malato in un programma di ri- abilitazione all’esterno dell’ospedale, fuori da una situazione di esclusione.

Il concetto di “comunità terapeutica” è affermato pochi anni dopo, precisamente nel 1946, quando Main (in un numero speciale del “Bulletin of the Menninger

7

Basaglia F. (1998), L’istituzione negata,..., p. 131.

8 Ivi, p. 123. 9 Ivi, p. 124. 10 Ivi, p. 125. 11 Ivi, p. 126.

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Clinic”) lo usa per definire il Northfield Hospital. In questa sede, già nel ’43, Bion e Rickman avevano costituito un’organizzazione comunitaria di pazienti, con gruppi di

discussione e partecipazione al governo del reparto12

.

Inoltre, le inchieste di Stanton e Shwartz, Goffman, Berton (per citarne solo alcuni) avevano palesato gli effetti negativi dell’organizzazione manicomiale sulla vita dei soggetti e sul decorso della loro malattia. Tali prospettive, insieme alle esperienze richiamate, suggeriscono un rovesciamento dell’ideologia finora vigente.

Anche se in Italia la situazione istituzionale si muove lentamente rispetto a quella inglese13

, il modello anglosassone della comunità terapeutica (CT) viene scelto come punto di riferimento per giustificare i primi passi verso la negazione della realtà ma- nicomiale.

La definizione di CT si rivela ambigua se essa viene considerata come momento po- sitivo fine a se stesso, come modello risolutivo e definitivo, perché finirebbe per es- sere inglobata all’interno del sistema, perdendo la sua funzione di contestazione. Basaglia afferma invece che “la nostra comunità terapeutica è nata come rifiuto di

una situazione proposta”14

e si presuppone che tale funzione non sia dimenticata. L’intento è quello di provocare una rottura per far uscire la persona dai ruoli cristal- lizzati e creare una tensione in cui tutti sono coinvolti e responsabili verso uno sco- po comune. In tale tensione, vanno poggiate le basi di una nuova organizzazione che non parta dal vertice, da uno schema a cui la comunità deve aderire; al contra-

rio, è la vita comunitaria a creare un ordine che nasce dalle sue regole e necessità15

. L’organizzazione non è quindi imposta dall’alto, ma diviene essa stessa un atto te- rapeutico.

Si dovrà quindi partire dalla costruzione di un complesso ospedaliero retto comuni- tariamente e basato sulla distruzione del principio di autorità: la CT si regge proprio su tali presupposti, al fine di programmare una condizione “comunitariamente te- rapeutica”. Pur rappresentando una fase transitoria, essa costituisce un passo ne-

12

Basaglia F. (1998), L’istituzione negata,…, pp. 157-158.

13 Ivi, p. 127. 14 Ivi, p. 131. 15 Ibidem.

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cessario nel processo di evoluzione dell’Op, perché finalmente si attribuisce alla persona un ruolo non di malato, ma di soggetto.

La comunità terapeutica è “un luogo nel quale tutti i componenti – malati, infermie- ri e medici – sono uniti in un impegno totale dove le contraddizioni della realtà rap-

presentano l’humus dal quale scaturisce l’azione terapeutica reciproca”16

. È neces- sario vivere dialetticamente le contraddizioni del reale per incrinare i rapporti ormai cristallizzati e per far emergere l’aspetto terapeutico del lavoro. Un primo passo, in questo senso, riguarda il mutamento dei rapporti interpersonali: il medico non de- tiene più il potere assoluto, ma viene contestato dal paziente che esprime dei biso- gni, non ignorabili da parte del professionista.

È il tipo di rapporto che si instaura nella comunità a renderla terapeutica “nella mi- sura in cui riuscirà a mettere a fuoco le dinamiche di violenza e di esclusione pre- senti nell’istituto, così come nell’intera società, creando i presupposti per una gra- duale presa di coscienza (…), in modo che il malato, l’infermiere e il medico (…) ab- biano la possibilità di fronteggiarle, dialettizzarle e combatterle, riconoscendole strettamente legate ad una struttura sociale particolare e non come un dato di fatto

ineliminabile”17

.

Il superamento del manicomio è da intendere, quindi, non esclusivamente come chiusura della struttura fisica, ma anche come cambiamento nella modalità assi- stenziale, rispetto alla vecchia psichiatria. È necessario basarsi su principi innovativi che non isolano più la patologia, bensì la riconducono al normale contesto di vita, in un “clima” relazionale di ascolto e partecipazione, proprio a partire dal rapporto psichiatra-pazienti. La nuova pratica si basa su una fiducia reciproca, sul coinvolgi- mento del paziente nel lavoro terapeutico, sul rispetto della dignità della persona umana.

In questo terreno ideologico e pratico, si sviluppa la psichiatria di comunità, la quale pone al centro la persona sofferente ed insieme il suo territorio, visto che esso rap- presenta lo spazio entro cui si organizza la partecipazione dei cittadini rispetto alle scelte importanti, ma anche quotidiane; il territorio è il luogo dell’incontro,

16

Basaglia F. (1998), L’istituzione negata,…, p. 134.

17

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dell’agire comunicativo e della possibile guarigione. Si passa quindi da un contesto manicomiale ad una nuova psichiatria, basata sulla costruzione di una rete di servizi di salute mentale territoriali e su una forte connessione con le risorse della comuni- tà e con gli ambienti di vita delle persona18

. C’è l’intento di considerare maggior-

mente e coinvolgere nella cura degli aspetti ulteriori, dal momento che la dimensio- ne psicologica e quella sociale non possono essere ignorate di fronte all’intenzione di un cambiamento nelle condizioni di vita dell’utente.

Gli psichiatri iniziano a riconoscere, inoltre, che le forme psichiche in cui predomina l’aspetto biologico, con l’urgenza di intervenire con cure farmacologiche importan- ti, sono effettivamente poche rispetto alle forme più lievi di sofferenza che oggi so-

no dette “nevrotiche”19

, le quali chiamano in causa numerosi aspetti sociali.

La psichiatria di comunità si colloca, quindi, nella più ampia cornice della salute mentale, per la cui realizzazione essa stessa è chiamata a partecipare, senza però detenerne il monopolio; c’è adesso la consapevolezza della necessità di una presa in carico globale che non trascuri i vari ambiti della vita individuale di quel signolo sog- getto (lavoro, apprendimento, relazioni, ecc.) né il contesto in cui essa si svolge.

3. La riforma dell’assistenza psichiatrica

A livello formale, la riforma dell’assistenza psichiatrica prende il via dalla legge 13 maggio 1978 n. 180 recante “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbli- gatori” (meglio conosciuta come legge Basaglia), che fu approvata col consenso di tutte le forza politiche presenti in Parlamento, soprattutto per il timore di un vuoto normativo che si sarebbe creato se la Corte Costituzionale avesse approvato la pro- posta di referendum per abrogare la L. 36/1904.

18

Scotti F. (2009), Si può reimmaginare una psichiatria di comunità? Incidere sul degrado della prati- ca assistenziale psichiatrica, dalla Rivista “Animazione Sociale”, n. 5/2009.

19

Camerlinghi R. (2001), Dove va la psichiatria? Intervista a Eugenio Borgna, da “Animazione Sociale” n. 12/2001, p. 3.

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La legge 18020

si snoda in undici articoli che fissano dei punti innovativi nel campo dell’assistenza per la salute mentale.

L’articolo 1 afferma che gli accertamenti e i trattamenti sanitari devono essere di norma volontari, anche se l’autorità sanitaria può disporre accertamenti e tratta- menti sanitari obbligatori nei casi previsti dalla legge, sempre nel rispetto della di- gnità della persona e dei diritti civili e politici sanciti dalla Costituzione (compreso il diritto di scelta del medico e del luogo di cura). Gli accertamenti ed i TSO sono a ca- rico dello Stato o di enti ed istituzioni pubbliche, sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, nei casi in cui sia necessaria la degenza, nelle strutture ospeda- liere pubbliche o convenzionate; i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con un provvedimento del sindaco, in veste di autorità sanitaria locale, in seguito alla proposta motivata di un medico. Si nota qui un elemento di novità: visto che il trat- tamento è definito come provvedimento di tipo sanitario sembra che sia definiti- vamente abbandonato l’approccio “poliziesco” e punitivo, nei confronti della perso- na, e protettivo per la collettività. Ma, in realtà, tale indirizzo non viene del tutto abbandonato, dal momento che il sindaco, sebbene in veste di autorità sanitaria, continua ad agire anche per la tutela dell’ordine pubblico; la valutazione della salute del soggetto, e quindi anche della necessità di compiere o meno il TSO, è ancora di competenza del medico.

Tuttavia, in ambito psichiatrico, porre l’accento sul ruolo del sindaco come autorità sanitaria locale (pur non esente da criticità) rappresenta una parificazione, almeno sul piano formale, di tale disciplina rispetto agli altri settori della sanità.

La legge 180 sottolinea la necessità di mettere in atto delle azioni che assicurino il consenso e la partecipazione dei soggetti che vi sono sottoposti, e di assicurare loro il diritto, nel corso del trattamento, di comunicare con chi ritengono opportuno. Nel caso di TSO, però, anche se si ricerca il consenso del paziente, l’approccio resta di un certo tipo: si tratta di un intervento obbligatorio, quindi imposto. Il fatto di cer- care di rendere volontario qualcosa che effettivamente non lo è, evidenzia una cer-

20

Legge 13 maggio 1978, n. 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” dal sito internet http://www.tutori.it/L180_78.html.

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ta problematicità; alcuni passaggi della stessa L. 180 rischiano infatti di apparire in contraddizione tra loro.

L’art. 2 elenca poi i requisiti che conducono alla previsione di cure in condizione di degenza ospedaliera: la presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere interventi terapeutici urgenti, il caso in cui tali iniziative non vengano accettate dall’infermo, oppure l’assenza di circostanze che permettano l’adozione di misure sanitarie e- xtraospedaliere. A garanzia del soggetto, si afferma che il provvedimento che di- spone un TSO in condizione di degenza ospedaliera debba essere comunque prece- duto dalla convalida della proposta di un medico della struttura sanitaria pubblica e motivato in relazione alle condizioni di cui sopra.

Il provvedimento disposto dal sindaco, corredato dalla proposta medica motivata, deve essere notificato entro 48 ore dal ricovero al giudice tutelare, che procede a convalidare (o meno) il provvedimento, dandone poi comunicazione al sindaco. Se il trattamento sanitario obbligatorio dovesse protrarsi oltre i sette giorni previsti co- me normale limite, il responsabile sanitario del servizio psichiatrico è tenuto a pro- porlo, con adeguata motivazione, al sindaco, il quale provvede a comunicarlo al giu- dice tutelare. Riguardo al patrimonio dell’infermo, il giudice può anche disporre dei provvedimenti urgenti per la sua amministrazione (art. 3). Tali elementi si pongono a garanzia della tutela del soggetto sottoposto ad un TSO.

Degno di nota è l’articolo 6 e l’attenzione che riserva ai servizi ed ai presìdi psichia- trici extraospedalieri che sono chiamati di norma ad attuare gli interventi di preven- zione, cura e riabilitazione. Per presìdi extra ospedalieri, si possono intendere oggi, come allora, adottando una visione più ampia, anche i luoghi di lavoro, la scuola, le relazioni interpersonali, la famiglia, la vita di quartiere; essi costituiscono dei conte- sti da prendere in considerazione quando si agisce per la prevenzione, la cura e la riabilitazione in ambito di salute mentale.

Per quanto riguarda invece i trattamenti sanitari che necessitano di degenza ospe- daliera, la legge richiama i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), che dovran- no essere individuati all’interno degli ospedali generali e prevedere un numero maggiore di 15 posti letto; tale azione contrasta con la considerazione della psichia-

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tria come un elemento a sé stante e con l’emarginazione della stessa, poiché adesso anch’essa è situata all’interno degli ospedali generali.

La forma organizzativa assunta da tali servizi sarà quella dipartimentale, all’interno di una logica di continuità dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale, per la quale sarà necessario un collegamento funzionale con gli altri servizi territoriali. Le funzioni amministrative per l’assistenza psichiatrica in condizione di degenza o- spedaliera, esercitate finora dalle province, sono trasferite (art. 7) al servizio sanita- rio regionale, chiamato adesso a programmare e coordinare l’organizzazione dei presìdi e dei servizi psichiatrici e di igiene mentale con le altre strutture sanitarie operanti sul territorio. Tutto ciò in funzione del graduale superamento degli ospeda- li psichiatrici, utilizzando diversamente le strutture esistenti e quelle in via di com- pletamento: si vieta sia la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici sia l’utilizzo di quelli già esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche degli ospedali generali; negli Op non possono essere istituite divisioni psichiatriche né essi possono essere utilizzati come sedi per sezioni neurologiche o neuropsichiatriche. Lo scopo è quello di evitare la separazione della psichiatria dalle altre branche sanitarie e l’emarginazione dei pazienti.

L’articolo 8 precisa che tutte le norme della suddetta legge devono essere applicate anche nei confronti dei ricoverati negli ospedali psichiatrici ancora esistenti, nei quali il primario responsabile deve comunicare al sindaco il nome dei degenti per cui si prevede un TSO, attivando così la procedura già descritta.

Infine (art. 11) sono abrogati gli articoli 1, 2, 3, 3-bis della L. 36/1904 e l’articolo 420 del codice civile sull’internamento definitivo in manicomio.

La L. 180/78 viene recepita nella Riforma Sanitaria, cioè all’interno della legge 23 di-

cembre 1978 n. 83321

(che istituisce il Servizio sanitario nazionale), in particolare negli articoli 33, 34, 35 e 64. Questi riportano fedelmente i punti previsti dalla legge di cui sopra, ma affermano anche altri elementi degni di nota, in direzione di una maggiore tutela del soggetto: l’articolo 33 aggiunge che l’Unità sanitaria locale (USL) è chiamata ad operare per la riduzione del numero dei TSO attraverso azioni di pre-

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venzione ed educazione sanitaria e sviluppando rapporti organici tra servizi e co- munità. All’articolo successivo (art. 34) si precisa che sono le Regioni a dover disci- plinare, con propria legge, l’istituzione dei servizi in forma dipartimentale, dedicati allo svolgimento delle funzioni di prevenzione, cura e riabilitazione; a tali scopi, si deve operare preferibilmente nei presìdi territoriali extraospedialieri, evitando il più possibile il ricorso alla degenza ospedaliera. Solo nei casi in cui il ricovero in ospeda- le sia inevitabile, esso deve avvenire all’interno di specifiche sedi denominate Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) che, per garantire la continuità terapeutica, so- no anch’essi situati nella stessa struttura dipartimentale per la salute mentale com- prendente gli altri servizi territoriali (di cui sopra).

Secondo l’articolo 64, le Regioni, nell’ambito del Piano sanitario regionale, si occu- peranno di disciplinare il superamento graduale degli ospedali psichiatrici e la diver- sa utilizzazione delle strutture esistenti; sempre tali enti sono chiamati a definire il termine ultimo entro cui far cessare la deroga per il ricovero in Op di coloro che, an- che se su propria richiesta, vi sono stati ricoverati prima del 16 maggio 1978 e che necessitano di degenza ospedaliera (la deroga non può essere prorogata oltre il 31 dicembre 1980). Sino all’adozione dei PSR, i servizi descritti negli articoli della L. 180

sono ordinati secondo il DPR 128/196922

, così da garantire una certa continuità dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale.

4. Punti di forza e criticità della L. 180

Riepilogando, con la L. 180 si intende soprattutto attivare il processo di superamen- to degli ospedali psichiatrici e questo costituisce infatti il tema centrale della rifor-