• Non ci sono risultati.

Selfie e selfing. La costruzione identitaria nell’era della fotografia social

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Selfie e selfing. La costruzione identitaria nell’era della fotografia social"

Copied!
117
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE COGNITIVE XXXI CICLO

Selfie e selfing. La costruzione identitaria

nell’era della fotografia social

Dottoranda: Iole Dugo Coordinatore del Dottorato: Prof. Antonino Pennisi Tutor e Supervisore di tesi: Prof. Francesco Parisi Anno Accademico 2017-2018

(2)

2

(3)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 3

Sommario

INTRODUZIONE Broadcast Yourself. La fotografia come medium convergente ... 5 CAPITOLO PRIMO - Intersoggettività ed empatia. Il ruolo dello sguardo ... 15 1.1 Dal Sé all’Altro: neuroni specchio ed empatia ... 15 1.2 Lo sguardo e le emozioni come via di accesso al mondo ... 22 1.3 Cultura visuale e rimediazione: la centralità delle immagini ... 25 1.4 Intersoggettività e immagini come “atti iconici” ... 31 CAPITOLO SECONDO - La costruzione identitaria ... 36 2.1 Nascita e sviluppo del Sé ... 36 2.2 Storie, immagini e identità: il racconto come unica via di accesso al Sé .... 38 2.3 Introduzione all’autoritratto: il Sé esteso e la sua rappresentazione materiale ... 44 2.4 La rimediazione del racconto del Sé nel mondo delle reti digitali. ... 48 CAPITOLO TERZO - Selfie e selfing ... 53 3.1 La networked camera ... 53 3.2 Leggere una fotografia: modalità di fruizione delle immagini sui social ... 55 3.3 Cos’è il selfie: dal narcisismo dell’autoritratto del passato alla nuova estetica della tecnologia digitale ... 61 3.4 Il significato di un selfie. Fra mind reading, racconto del Sé e gesto fatico 71 3.5 Selfie vs Anti-Selfie ... 77 3.6 Il selfie come mediazione di una relazione empatica ... 80 CAPITOLO QUARTO - Un nuovo supporto al medium fotografia ... 84 4.1 Instagram: caratteristiche tecniche e diffusione globale ... 84 4.2 Casual, Professional e Designed: l’Instagramismo come nuova estetica visuale ... 90 4.3 Il racconto del Sé compresso nella bacheca di IG ... 102

(4)

4 Conclusioni ... 104 Bibliografia ... 109 Indice delle Figure ... 116

(5)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 5

INTRODUZIONE

Broadcast Yourself

1

. La fotografia come medium convergente

«L’anima non pensa mai senza immagini». Aritostele

La fotografia è un linguaggio visuale che ha subito e interpretato innumerevoli rivoluzioni tecnologiche e sociali configurandosi ora come causa ora come effetto dell’evoluzione del sentire umano. La fotografia, infatti, come medium è da considerarsi protesi delle facoltà fisiche e percettive dell’uomo. Essa assume, a seconda dell’occasione, il ruolo di estensione della memoria, degli affetti, dell’emozione, dell’identità del singolo individuo e possiede per sua natura la duplice capacità di essere emanazione diretta e allo stesso tempo rappresentazione della realtà. La possibilità del mezzo fotografico, dal punto di vista tecnico, di imprimere su un supporto materiale l’immagine del referente lo rende indice di tale referente. «Le fotografie [...] rassomigliano esattamente agli oggetti che rappresentano» (Peirce, 1931, p. 281). Ogni fotografia, in particolare, potenzia l’accesso visivo al mondo ma contemporaneamente ne fornisce anche una rappresentazione soggettiva, essendo il frutto della mano del fotografo che ritaglia, seleziona e poi scatta una parte di realtà. Le fotografie sono allo stesso tempo protesi visive e immagini rappresentative, rappresentazione e investigazione sulla realtà (Maynard, 1997). Lo sguardo contemporaneo influenza ma soprattutto è influenzato dal mezzo fotografico il quale rappresenta oggi quel potenziamento ottico ed empatico capace di soddisfare i nuovi bisogni dell’individuo singolo e della società attuale. Seppur in modo forse iperbolico, si vuole qui subito chiarire l’importanza del mezzo fotografico che oggi, innervato nel corpo umano attraverso lo smartphone, è probabilmente il medium più

1 Il titolo fa riferimento al primo claim di YouTube, social network di condivisione di video

che ha permesso ai produttori amatoriali di contenuti audiovisivi di diffonderli al pubblico sempre più vasto della rete. L’analogia, come si vedrà nel corso di questa introduzione, si riferisce alla possibilità, offerta dalla fotografia social, di condividere in rete contenuti creativi come materializzazioni di mini-me autobiografici.

(6)

6

rappresentativo dell’era convergente, proprio perché capace di sintetizzare in sé tutte le necessità dell’individuo social. La fotografia si caratterizza oggi per la sua capacità di autodefinirsi: per scattare una fotografia non serve grande abilità tecnica, non serve più qualcuno che sviluppi i negativi e non è necessario un supporto particolare per fruirle, basta avere una macchina fotografica, ormai inclusa in ogni telefono cellulare.

Il riconoscimento di questo potenziale interpretativo al mezzo fotografico non fu immediato quando la fotografia comparve nel panorama mediale dell’Ottocento. Essa, infatti, venne per lungo tempo considerata una mera riproduzione del reale capace di una funzione puramente documentaria e referenziale, mentre alla pittura veniva attribuita la ricerca formale e artistica. Non si percepiva come rilevante l’intervento diretto della mano dell’autore sulla foto e si considerava il processo chimico di impressione diretta della luce sul materiale sensibile un meccanismo esclusivamente tecnico sul quale il soggetto non poteva intervenire più di tanto. Oggi tale affermazione risulta evidentemente datata e l’immagine fotografica è ormai da lungo tempo riconosciuta quale potente strumento di trasformazione, di analisi e di interpretazione del reale. La fotografia è, come già accennato, un linguaggio che oggi più che mai diventa essenziale per le nuove generazioni che hanno identificato in essa il principale mezzo di comunicazione attraverso il quale tessere relazioni sociali. Le fotografie sono istantanee della mente che permettono di fermare un frammento di mondo, codificando la realtà in base alle intenzioni e alle emozioni del fotografo. Scattare una fotografia è un atto creativo e concettuale allo stesso tempo.

È interessante osservare, in apertura di questo lavoro che fa della fotografia il suo oggetto di studio, come questo medium si sia evoluto nel tempo, o “rimediato” volendo usare un termine ormai di uso comune nei Media Studies, mantenendo invariate alcune funzioni di base. Nel presente lavoro si parlerà di memoria, di identificazione del sé, di empatia, di pixelizzazione del tempo e congelamento di momenti ed emozioni su supporti digitali, ma tali usi contemporanei sono in realtà insiti nel mezzo fotografico fin dalle sue origini. La fotografia non è propriamente la stessa del 1839, sono cambiati i supporti e i dispositivi ma il medium fotografico soddisfa vecchi bisogni. Per questo motivo il lungo dibattito sull’ontologia della

(7)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 7

fotografia e sui cambiamenti dovuti alla tanto celebrata “perdita dell’aura” e dell’indicalità dovuta alla digitalizzazione, è ormai obsoleto e poco interessante. Analoga considerazione si può in parte fare per il concetto di dematerializzazione. L’avvento del digitale non ha significato la semplice sparizione dei supporti fisici bensì la loro “rimaterializzazione” (Minniti, 2016). Anche la fotografia digitale possiede, infatti, una dimensione materiale della quale fanno parte nuovi oggetti tecnologici, schermi in particolare, che stabiliscono rapporti tattili con gli individui e si sostituiscono alla vecchia pellicola. Le immagini fotografiche non vengono più archiviate nei vecchi e polverosi album di famiglia ma nuove forme di conservazione dei ricordi continuano ad essere applicate tramite archivi digitali spesso connessi in nuvole di dati condivisi e accessibili da molteplici dispositivi in ogni luogo.

Chiunque voglia indagare la fotografia oggi, dunque, non deve preoccuparsi della sua essenza e origine ma di come essa agisca sull’uomo e sulla società, delle azioni che “rimedia”, dei nuovi e vecchi bisogni che soddisfa e delle pratiche cognitivo/sensoriali che amplifica. Non serve descrivere la fotografia come impronta tecnicamente definita della realtà (considerando poi che il digitale ha messo in crisi questo assunto di base), perché sono le forme di questa impronta che ne fanno un oggetto di senso. E allora interessarsi di fotografia vuol dire interessarsi dei nuovi oggetti estetici, quali ad esempio il selfie, del loro ruolo nella società mediata e della loro influenza sull’evoluzione del sentire umano in generale.

Alla base di questo potenziale fotografico c’è l’assunto secondo il quale tutte le immagini hanno un effetto retroattivo sulla mente dell’essere umano in quanto plasmano il modo stesso in cui l’uomo immagina (Malafouris, 2007). Le immagini amplificano e perfezionano l’occhio umano e sono allo stesso tempo causa ed effetto del potenziamento cognitivo dell’homo sapiens. In particolare, le immagini fotografiche sono un mezzo per ottenere un potenziamento ottico e, come si vedrà meglio nel corso di questa introduzione, anche empatico dell’individuo che le crea e di colui che le fruisce.

Protagonista di questo cammino di studio sul mezzo fotografico è la svolta iconica della società contemporanea, segnata da alcune date che permettono di descrivere quelle che sono le tappe evolutive del mezzo fotografico che hanno portato allo

(8)

8

sviluppo della fotografia social, della quale si interessa nel particolare il presente lavoro di ricerca. Consapevole di non fornire un’esaustiva definizione dell’oggetto di studio o la descrizione di una teoria ad esso legata, questo lavoro intende piuttosto mostrare il profondo legame fra l’uomo e il mezzo fotografico, delineando un collegamento diretto fra i bisogni insiti nella natura umana e l’uso della fotografia

social, attraverso l’osservazione dei meccanismi cognitivi che ne guidano la

decodifica, alla luce dell’evidente invasività di tale medium nella società contemporanea nella quale la fotografia è letteralmente ovunque. Si intende qui mettere in relazione discipline che spesso non dialogano, scienze cognitive e studi sui media, ricercando nelle prime l’universalità dei bisogni che rendono i media protesi del corpo umano. Tante sono le difficoltà di coloro che decidono di adottare un approccio multidisciplinare alla propria materia ma, quasi sempre, guardare alle cose da punti di vista insoliti può risultare produttivo. L’assunto di base che guida ogni approccio di tipo cognitivo è che l’uomo condivide con i suoi simili le strutture biologiche e fisiologiche adibite alla decodifica dell’ambiente che lo circonda. Per questo motivo, alla base dell’utilizzo di un medium specifico, o ancora di un supporto particolare, ci sono meccanismi cognitivi e bisogni universali.

Era il 2002 quando la fotocamera viene stabilmente inserita nei telefoni cellulari. La fotografia, già digitalizzata e accessibile a tutti grazie a dispositivi economici e facili da usare, diventa parte del corpo umano che si abitua abbastanza rapidamente a fare del cellulare un prolungamento del braccio. Nei suoi primi anni di vita la macchina fotografica era appartenuta ad un élite selezionata, solo poche classi sociali potevano permettersi di acquistare un dispositivo tecnologico così costoso per uso familiare e anche quando potevano si parlava di una sola macchina fotografica per famiglia. Si può, quindi, ben comprendere l’enorme rivoluzione delle macchine Kodak prima e del digitale poi, su cui si tornerà più dettagliatamente nel corso del Capitolo Terzo.

Nel 2006, infine, l’arrivo del Wi-Fi, degli smartphone e dei social network completa il quadro evolutivo della società connessa e la fotografia più di altri media assume un ruolo importantissimo nella definizione del nuovo linguaggio della rete, presentandosi come elemento di media densità fra la complessità del testo scritto e la lunghezza/lentezza del video (Menduni, 2016). La democratizzazione del mezzo

(9)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 9

fotografico e la sua accessibilità rende chiunque un possibile fotografo e aumenta la capacità testimoniale del mezzo. La convergenza digitale permette una fluidità prima impensabile per le immagini fotografiche che iniziano a viaggiare in un non-tempo su nuovi supporti e dispositivi sempre a portata di mano. Cambiano, quindi, elementi tecnologici e aspetti sociali ma la fotografia quale strumento di riproduzione tecnica del reale rimane sostanzialmente la stessa. È quindi nell’elemento tecnologico e nella società che si devono rintracciare le differenze rispetto al passato, ammesso che siano esse interessanti al fine di definire la realtà contemporanea. A volte, come si spiegherà meglio nei capitoli successivi, la storia dei media è un’arbitraria ricostruzione dell’uomo e, inoltre, oggi alla luce della convergenza digitale (Jenkins, 2006) diventa sempre più complesso separare in modo netto quelli che in passato erano media differenti.

La tecnologia cui ci si riferisce in primis è l’istantanea di molto antecedente al digitale ma al tempo stesso sua parte integrante. Il più grande limite della prima fotografia, infatti, era il tempo di posa troppo lungo. La fotografia istantanea o snapshot introdusse, invece, già verso la fine del XIX secolo, la possibilità di cogliere le immagini in modo rapido. Questa nuova tecnologia produsse in tempi non poi così brevi il nascere di una nuova cultura legata al mezzo fotografico. Venne, infatti, superata la rivalità con la pittura e le mire artistiche del nuovo mezzo visuale virarono su una pratica che si caratterizza più come privata, amatoriale, familiare e autobiografica piuttosto che artistica. Tutto ciò avviene in concomitanza con il crescere di una società sempre più individualista e dominata da relazioni sempre meno stabili, liquide (Bauman, 2000) e più fugaci.

Il digitale, i social network, Instagram, il selfie sono solo risvolti contemporanei di una rimediazione del mezzo fotografico iniziata con l’avvento di tale “stile istantaneo”, potenziato poi sempre di più dalla tecnologia connessa in rete. Oggi si parla di

Ubiquitous Photography (Hand, 2012) perché le tecnologie visive hanno reso la

fotografia onnipresente. Essa non è una pratica sporadica e familiare volta alla sacralizzazione rituale delle pratiche sociali (Bordieu, 1972) ma un’abitudine comunicativa quotidiana, un linguaggio sempre più forte che si sostituisce spesso a quello verbale dal vivo. Istantaneo vuol dire libertà del creatore dell’immagine

(10)

10

fotografica ma anche spesso banalità dei soggetti, senso di immediatezza e di narrazione in tempo reale. Questi elementi vengono portati all’eccesso con il digitale e con l’avvento della networked camera, di cui si discuterà nel Capitolo Terzo. L’esperienza fotografica è entrata in una nuova era. Ciò non vuol dire che è scomparsa la funzione di cassetto dei ricordi della fotografia. Essa rimane ancora estensione della memoria umana ma dal “desiderio di memorizzare” gli istanti della vita più significativi attraverso la condivisione di una collezione di immagini fotografiche, si è giunti oggi al bisogno di “esperire” quegli istanti di vita “attraverso” la fotografia stessa e vivere costruendo un’identità con quelle stesse immagini (Muzzarelli, 2016). La fotografia non è parte della vita, essa è la vita di tutti i giorni che non può non essere immaginata, esperita e poi comunicata sotto forma di foto. Da materializzazione di memorie e ricordi che si desidera mantenere immortali, la fotografia è diventata esperienza quotidiana immediata, non un atto programmato ma istantaneo, quasi automatico.

Il digitale e la rete hanno dotato il singolo individuo della possibilità di essere allo stesso tempo fruitore e creatore di contenuti, ovvero un prosumer, con la possibilità aggiunta di condividere e diffondere in tempo reale e con semplicità tali contenuti. Jenkins, già nel 2006, affermava che ogni individuo grazie alle moderne tecnologie e alle condizioni sociali è diventato medium di sé stesso, autonomo nella produzione e anche nella diffusione (Jenkins, 2006). Siamo ben lontani dalle prime teorie della comunicazione top-down. I media sono gli individui stessi, da qui la scelta di un punto di vista che guarda al contenuto fotografico come ad un messaggio broadcast, da uno a molti, ma dove “uno” è il singolo individuo e non un sistema organizzato di produzione di contenuti di massa.

Questa democratizzazione dei mezzi coincide con la democratizzazione della creatività che diventa qualcosa di sempre più diffuso e a portata di tutti, non solo di artisti e aspiranti tali. Ogni individuo è diventato, nel caso specifico della fotografia, produttore di frammenti visivi, più o meno esteticamente qualificati, che hanno come oggetto la sua vita privata, le sue emozioni. Sull’estetica di tali immagini si discuterà nel Capitolo Terzo e nel Capitolo Quarto, qui basta introdurre il concetto avendo chiara l’essenza di questo stile istantaneo dal quale prende forma la fotografia social

(11)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 11

di cui ci si occuperà più dettagliatamente in seguito. Queste immagini istantanee costituiscono un flusso infinito di frammenti visivi incontrollati, più o meno effimeri, più o meno curati. Ma lungi dall’essere priva di senso tale attività incarna l’essenza della vita contemporanea e la necessità di utilizzare un mezzo di comunicazione istantaneo, immediato e allo stesso tempo fortemente emozionale.

«In questo deprimente deserto, tutt'a un tratto la tale foto mi avviene; essa mi anima e io la animo. Ecco dunque come devo chiamare l'attrattiva che la fa esistere: una animazione. In sé, la foto non è affatto animata (io non credo alle foto “vive”), però essa mi anima: e questo è appunto ciò che fa ogni avventura ». (Barthes, 1980, p. 21)

Questo è ciò che Barthes scrive ne La camera chiara nel 1980, introducendo la necessità di un nuovo approccio allo studio della fotografia che mettesse da parte le discussioni ontologiche sulla sua essenza per concentrarsi sulla fruizione e sull’effetto che essa esercita su chi la crea e su chi la fruisce, descrivendo questo nuovo concetto di avventura.

Le fotografie sono un messaggio senza codice che comunica, secondo le parole di Barthes, un’attrazione che stordisce (1980). Le foto, quindi, comunicano in una dimensione affettiva ed emozionale ed è a partire da questa che bisogna indagare il senso del loro contenuto. Da qui la scelta di concentrarsi sulle immagini fotografiche da una prospettiva fenomenologica, ma si potrebbe dire anche neuroestetica, che punta ad indagare le reazioni emotive che il soggetto prova dinanzi ad una fotografia. Questo punto di vista è lo stesso che si intende qui attuare con l’intervento delle scienze cognitive che permettono di collegare l’esperienza soggettiva e “affettiva” del singolo fruitore di una immagine fotografica, all’universalità dei meccanismi empatici che ne descrivono l’effetto somatosensoriale nella mente umana.

L’analisi di Barthes (1980) si concentra sull’esperienza di fruizione di una serie di immagini che l’autore non mostra ma delle quali si descrivono gli elementi che colpiscono lo spectator. L’avventura, come l’autore definisce l’esperienza di fruizione delle immagini fotografiche, avviene su due livelli: il primo è quello della coscienza

(12)

12

culturale, il secondo è quello del mondo degli affetti. Ci sono elementi di interesse generale all’interno di ogni immagine fotografica, elementi che materialmente incarnano la volontà dell’autore di veicolare un messaggio culturalmente definito. Tale livello di decodifica interessa lo studium della fotografia, che Barthes definisce come essenzialmente cognitivo, un interessamento che sollecita il corpo ma in modo non particolarmente intenso.

Ci sono poi dei dettagli, degli elementi spesso casuali che non partecipano alla costruzione estetica della foto ma che attirano lo sguardo dello spectator perché legati alla sua soggettività. Tali elementi rappresentano il punctum della fotografia, quella fatalità che fa sì che la foto si animi fino a produrre un godimento sensoriale in chi la osserva. Si tratta della dimensione affettiva e passionale, di quel “potere” (Freedberg, 1989) proprio delle immagini di colpire emotivamente il soggetto. In tal modo Barthes anticipa, dunque, la necessità di ricondurre al corpo la cognizione delle immagini ma rimane legato ancora ad un modello diviso: studium vs punctum.

L’Embodied Cognition, di cui si discuterà nel Capitolo Primo, permette oggi di superare questo dualismo e parlare di mente e corpo come di un’unica cosa. Dalla descrizione della scoperta dei neuroni specchio si introdurrà la questione dell’empatia, il suo sviluppo nel singolo individuo e il suo effettivo funzionamento innescato da imput esterni. Si passerà quindi a descrivere la differenza fra reazioni emotive “dal vivo” e reazioni “mediate”, mettendo in evidenza come tale differenza sia semplicemente una differenza di natura dimensionale. Sempre nel Capitolo Primo, si introdurrà la storia della cultura visuale e si discuterà, ancora prima della fotografia in particolare, della centralità di ogni tipo di immagine nella relazione fra il mondo, l’uomo e l’intersoggettività. Il concetto di rimediazione, introdotto da Bolter e Grusin (1999) permetterà di creare un ponte fra l’utilizzo delle immagini e i bisogni che esse soddisfano.

Nel Capitolo Secondo si introduce, come elemento opposto e complementare allo sviluppo dell’intersoggettività, il Sé e la costruzione identitaria. Si passerà, quindi, dalla descrizione della dimensione narrativa di questo Sé, che non può che essere comunicato sotto forma di narrazione, ad una breve rassegna della storia dell’autoritratto come esternazione del racconto del Sé. Si mostrerà come le storie, e

(13)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 13

in particolare le storie che l’uomo racconta e si racconta su se stesso, siano parte integrante della vita dell’individuo singolo che è narratore per natura. Si passerà, quindi, alla rimediazione fotografica del racconto del Sé innescata dall’avvento del digitale e dalle trasformazioni sociali cui si è già accennato in questa introduzione. Il Capitolo Terzo è dedicato al vero oggetto di studio di tutto il progetto di ricerca, la fotografia social e, in particolare, al tipo di immagine fotografica social più diffusa, il

selfie. Questo nuovo genere visuale permette di collegare, senza possibilità di errore,

la fruizione dell’immagine fotografica all’empatia che scaturisce dal suo contenuto che altro non è che un pezzetto dell’identità del suo creatore. Rappresentazione, arte, realtà e identità si ridefiniscono in una materializzazione fotografica che si offre al singolo individuo come rimediazione di quel racconto del Sé che è sempre esistito e che oggi necessita di nuovi canali comunicativi. L’ingrandimento del primo piano, insieme ad altre caratteristiche che verranno ampiamente descritte, è ciò che permette di individuare nel selfie una maggiore affettività rispetto ad altri tipi di immagini fotografiche social.

Immediatezza, flessibilità, emozionalità sono gli elementi che caratterizzano questo nuovo selfie storytelling e lo collocano fra le pratiche di uso quotidiano di cui l’individuo moderno sembra non poter fare a meno. Attraverso l’immagine fotografica che incarna un gesto fatico, più o meno effimero e più o meno istantaneo ma certamente carico di emozione, si crea una relazione empatica con l’altro. Il selfie incarna questa nuova necessità di comunicazione immediata, trasparente e allo stesso tempo ipermediata che colpisce il fruitore attraverso lo schermo di uno smartphone. Ogni individuo ha la possibilità di comunicarsi broadcast, ad un pubblico online sempre più vasto, attraverso immagini fotografiche che rappresentano le sue esperienze ed emozioni. Tale possibilità è oggi un’abilità sociale di base che nasce dal bisogno di immediatezza, di trasparenza e di pubblicità tipici della società contemporanea.

Infine, il Capitolo Quarto introduce ad uno specifico supporto di cui oggi si giova la fotografia social, Instagram. Dalla descrizione dettagliata di questo diffusissimo social network, si passerà ad un’analisi estetica a partire dalle tipologie di foto che è possibile trovare su Instagram, fino a definire la nuova estetica visuale

(14)

14

dell’Instagramismo a partire sempre dalle modalità di creazione e di fruizione delle immagini fotografiche, inquadrate nel nuovo flusso iconico che invade oggi la società. Le immagini fotografiche hanno assunto il ruolo di nuovo linguaggio del Sé configurandosi come naturale canale comunicativo dell’identità di ogni singolo utente. La scrittura di questo incessante selfie storytelling fotografico quotidiano trova nella bacheca del profilo Instagram una sua particolare esplicitazione, semplice, trasparente e ipermediata, proprio come la fotografia istantanea che la compone, che si presenta in modo chiaro come vera e propria rimediazione digitale del racconto del Sé.

(15)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 15

CAPITOLO PRIMO - Intersoggettività ed empatia. Il ruolo dello

sguardo

1.1 Dal Sé all’Altro: neuroni specchio ed empatia

«...è come se l'intenzione dell'altro abitasse il mio corpo, e la mia il suo». Merleau-Ponty Ogni giorno le persone si scambiano infinite espressioni facciali e le collegano in un modo che si potrebbe definire immediato, naturale e quasi inconscio, a determinate emozioni: un sorriso è indice di allegria, una fronte corrucciata significa perplessità, le lacrime indicano dolore o tristezza. La mente umana interpreta, sembrerebbe quasi in automatico, il volto delle persone con cui entra in contatto quotidianamente associandolo ad uno stato mentale, un’emozione, uno scopo. È automatico intuire l’umore del proprio compagno da uno sguardo scambiato a colazione ed è semplice capire con un’occhiata se per il proprio capo è un giorno positivo oppure no. Più in generale, a partire dall’azione dell’altro, l’individuo comprende o perlomeno intuisce lo stato mentale e l’intenzione che vi sta dietro, più facilmente se l’altro è qualcuno con cui si è già entrati in contatto o che si conosce bene. Si tratta di qualcosa che appare del tutto naturale e automatico ma che per lungo tempo ha impegnato prima i filosofi, poi gli psicologi, i cognitivisti e infine i neuroscienziati nella ricerca di una spiegazione scientifica che mostrasse in termini espliciti questa capacita tutta umana di capirsi reciprocamente.

L’uomo è un animale sociale per natura e questa sua caratteristica ha favorito lo sviluppo dell’intersoggettività. Il volto è il protagonista di questa “lettura dell’altro”. Anche i gesti, la cadenza della voce, il movimento di tutto il corpo contribuiscono alla scoperta dell’intenzione, dell’umore e delle emozioni dell’altro ma il volto è certamente l’elemento più influente. È a partire da un semplice sguardo che si riesce a condividere e partecipare uno stato mentale. La quotidianità di ogni individuo è costituita da infiniti incontri di sguardi che avvengono oggi non solo dal vivo ma anche in forma mediata attraverso supporti o dispositivi tecnologici che hanno ampliato protesicamente lo sguardo umano.

(16)

16

Si definisce intersoggettività la capacità di due soggetti di condividere stati mentali soggettivi. Tale peculiarità è stata difficile da spiegare per il cognitivismo classico troppo legato ad un concetto materiale e “chiuso” di mente umana: se l’individuo ha accesso esclusivamente alla propria mente che è qualcosa di privato, come può entrare nella mente degli altri e in che modo può comprenderla? Eppure ciò che sembrava qualcosa di “magico” e inspiegabile è altrettanto semplice da riscontrare nell’esperienza reale di tutti i giorni, come si è esposto sopra in modo quasi banale. Per troppo tempo i neuroscienziati sono stati legati ad una visione del cervello diviso in compartimenti stagni, ognuno dei quali specializzato in una determinata funzione. Oggi è evidente che il cervello umano funziona in modo molto più olistico: azione, percezione e cognizione non sono separati. A legare questi tre momenti partecipano le cellule motorie le quali, si è scoperto, sono implicate anche nella finalità di un’azione e non nella sola esecuzione fisica di essa. In particolare, la capacità umana di comprendere gli altri a partire da un’espressione, un’azione, un gesto dipende da cellule celebrali chiamate neuroni specchio che agiscono automaticamente e si sviluppano in ogni individuo a partire dalla prima infanzia. Tali cellule permettono agli individui di legarsi fra loro sul piano mentale ed emotivo. Questa scoperta negli anni Novanta ha aperto in modo rivoluzionario nuove prospettive di studio che collegano la cognizione al corpo secondo il modello chiamato Embodied Cognition (Gallese, 2016). Il cervello non agisce in modo indipendente dal corpo ma, tutt’altro, è proprio nel corpo che si devono cercare le risposte sul funzionamento della cognizione umana. La capacità dell’uomo di intrattenere relazioni interpersonali, secondo questa prospettiva, non dipende solo da fattori mentali e linguistici, ma si fonda sulla condivisione di rappresentazioni motorie. La cognizione è sempre situata in un corpo.

Ciò che la mente umana fa non è “leggere” la mente dell’altro bensì comprenderne le intenzioni a partire dalla percezione e dalla simulazione incarnata dell’azione osservata o percepita anche attraverso uno stimolo non visivo (ad esempio si potrebbe simulare mentalmente l’apertura di una porta anche semplicemente sentendone il rumore). I neuroni specchio, infatti, sono cellule particolari che si attivano quando un individuo compie delle azioni in prima persona ma anche quando

(17)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 17

vede compiere quelle stesse azioni da altri1. Le ricerche che hanno portato alla scoperta di questi neuroni si sono concentrate sullo studio dell’area F5 del cervello umano, quella porzione di neocorteccia implicata nella pianificazione, nella selezione e nell’esecuzione di azioni. Il corpo, in pratica, ha riacquistato centralità e proprio attraverso un processo di cognizione incorporata è possibile oggi spiegare l’intersoggettività.

Dopo la scoperta dei neuroni specchio una prima ipotesi sostenne subito che essi potessero essere il punto di partenza dei processi di simulazione che permettono di comprendere la mente altrui (Gallese & Goldman, 1998). Oggi i moderni strumenti di

neuroimaging hanno permesso esperimenti a sostegno di questa ipotesi che mostrano

come l’uomo comprenda effettivamente le azioni dell’altro producendone una simulazione incarnata nel proprio cervello per mezzo dei neuroni specchio.

Come anticipato, non solo si comprende l’azione ma anche l’intenzione che vi sta dietro. Il sistema motorio, infatti, non produce semplici movimenti ma “atti motori” dotati di uno scopo: osservare un oggetto manipolabile evoca un’attivazione motoria nel cervello di chi osserva che è portato naturalmente a simulare mentalmente una serie di possibili azioni da compiere con quell’oggetto specifico e non con altri oggetti. Allo stesso modo i neuroni specchio che si attivano quando si osserva un altro individuo eseguire un atto motorio portano il soggetto osservante a simularlo mentalmente con il proprio sistema motorio e a ricondurlo anche a specifiche intenzioni. Ciò vuol dire capire, o perlomeno immaginare e simulare, il sentimento che sta dietro quell’azione, gesto o sguardo.

L’intersoggettività, quindi, passa dal sistema motorio che attraverso il corpo permette non solo l’esecuzione di un’azione ma anche la sua percezione, simulazione e

1 A volte è sufficiente un suono per permettere al sistema motorio di simulare l’azione

collegata a quello stimolo. In particolare, negli esperimenti del gruppo di Parma guidato da Giacomo Rizzolatti cui è attribuita la scoperta, i neuroni specchio nel cervello del macaco preso in esame reagivano osservando un suo simile o un umano mangiare delle noccioline ma anche semplicemente sentendo il rumore delle nocciole che venivano aperte, senza cioè stimolo visivo.

(18)

18

immaginazione. Attraverso questo meccanismo di rispecchiamento l’individuo comprende le intenzioni dell’altro osservandone il comportamento corporeo, coinvolgendo, in particolare, quelle regioni cerebrali (i neuroni specchio, appunto) generalmente implicate nell’esperienza soggettiva di emozioni personali. Ciò vuol dire che attraverso questi neuroni specchio l’individuo comprende l’altro e ne condivide anche le emozioni come se a provarle fosse lui stesso in prima persona. Nella simulazione incarnata dell’azione altrui si rende esplicita una prima forma di intimità del Sé con l’Altro che costituisce il primo passo verso l’empatia, pilastro della cognizione sociale. Si comprende l’Altro a partire dalle proprie esperienze pregresse e dalla capacità di ricondurre le emozioni dell’Altro alle proprie per comprenderle e decodificarle.

Alla base della simulazione incarnata troviamo l’attitudine umana di imitare i propri simili. La capacita di imitare l’Altro, e quindi poterne anche simulare mentalmente in modo incarnato le azioni, dipende da un meccanismo neurale relativamente semplice. Già da piccoli, infatti, i bambini sembrano essere predisposti a comprendere il comportamento altrui in quanto capaci di imitarlo. La possibilità di imitare e quindi capire il pensiero dell’Altro, poi le sue intenzioni e infine i suoi desideri permette lo sviluppo delle abilità sociali di base. L’empatia, infatti, è considerata una delle modalità principali attraverso cui è possibile conoscere i propri simili e, di conseguenza, agire in modo adeguato nel mondo.

Nel Novecento il filosofo tedesco Theodor Lipps fu il primo a parlare di empatia riconducendola alla capacità umana di percepire i movimenti altrui attraverso una forma di imitazione interna: si comprende lo stato mentale dell’Altro facendo letteralmente finta di essere nei suoi panni (Lipps, 1903). Lipps, che in pratica aveva già abbozzato il meccanismo dei neuroni specchio, per spiegare tale fenomeno riportò l’esempio dell'osservazione di un acrobata del circo sospeso sulla fune in alto sopra le teste del pubblico. La performance è seguita con il fiato sospeso dagli spettatori che si emozionano e magari spaventano come se si trovassero al posto dell’acrobata stesso. La scoperta del funzionamento dei neuroni specchio, che scaricano sia quando il soggetto afferra qualcosa sia quando vede qualcun’altro afferrare qualcosa, fornisce una spiegazione neurofisiologica a questa intuizione e descrive anche l’uomo come

(19)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 19 biologicamente legato all’Altro, predisposto già per natura a comprenderne le azioni e le intenzioni. Ma come si riconduce biologicamente il meccanismo mirror dei neuroni specchio alle emozioni? Il collegamento fra i sistemi neurali dell’imitazione (il sistema dei neuroni specchio) e i sistemi neurali delle emozioni (il sistema limbico) avviene attraverso una regione cerebrale che presenta connessioni ben documentate sia con i neuroni specchio che con le aree limbiche e che è denominata insula. In sintesi, quando si osserva l’espressione facciale altrui (Iacoboni, 2008) i neuroni specchio producono una simulazione incarnata irriflessiva e automatica di quelle espressioni nel soggetto che osserva. Simultaneamente i neuroni specchio inviano dei segnali ai centri emozionali che si trovano nel sistema limbico del cervello innescando un’attività neurale che consente di provare le emozioni associate a quelle espressioni facciali osservate. Soltanto dopo che le emozioni sono sentite internamente, vengono riconosciute esplicitamente dal soggetto che osserva. Per dirla con altre parole, i neuroni specchio si attivano quando si osserva l’Altro esprimere le proprie emozioni come se fosse il soggetto osservante a porre in atto quelle espressioni facciali. Questo rispecchiamento dell’emozione è mediato dalla simulazione incarnata dell’azione stessa. Attraverso l’imitazione si è in grado, quindi, di provare l’emozione dell’Altro (Figura 1).

Figura 1 Schema che riassume il collegamento fra neuroni specchio ed emozioni.

All’esempio delle espressioni facciali, utilizzato da Iacoboni (2008), si potrebbe sostituire il movimento di un’altra parte del corpo. L’uomo è, infatti, percettivamente sensibile alla visione di ogni parte del corpo umano in maniera esclusiva. Esiste un’area del cervello deputata a questo che si chiama EBA (Extrastriate Body Area) e si attiva solo quando si vede un corpo o parti di esso (Downing, Jiang, Shuman, & Kanwisher, 2001). Un altro esperimento relativo all’empatia, ad esempio, è stato condotto sulla danza (Calvo Merino, Jola, Glaser, & Haggard, 2008): nel valutare

Neuroni Specchio ("Simulano" l'espressione facciale) Insula Sistema Limbico (Fanno provare l'emozione)

(20)

20

piacevolmente un atto motorio di tipo artistico che coinvolge tutto il corpo, l’uomo simula mentalmente il movimento percepito e tale simulazione è causa del soggettivo apprezzamento direttamente connesso all’emozione che esso suscita.

L’atto empatico non è solamente un’interpretazione di stati mentali altrui, ma un atto connotato emotivamente che permette di sentire le emozioni dell’Altro, di viverne in forma vicaria le esperienze corporee. E ciò è possibile grazie al fatto di condividere con l’Altro la stessa struttura corporea. È importante, inoltre, ribadire come tale condivisione empatica sia un processo complesso che può essere definito come inconsapevole: un’attività cognitiva, cioè, che si svolge prima della sensazione di consapevolezza.

Intuire e condividere le emozioni, le intenzioni, i bisogni e gli obiettivi degli altri, la capacità cioè di entrare in empatia con l’Altro ha, come accennato sopra, un ruolo fondamentale nello svolgimento della vita sociale. Comprendere l’Altro permette all’individuo di prevedere come si comporterà e cosa si aspetta da lui. Il comportamento sociale è costantemente influenzato dalla capacità umana di “leggere” gli Altri. L’uomo non è strutturato come essere solo ma ha una profonda connessione con i suoi simili, una connessione, come spiegato sopra, a livello biologico e preriflessivo. La simulazione che conduce alla comprensione dell’Altro attraverso l’attivazione dei neuroni specchio, come accennato sopra, avviene in gran parte in modo automatico. Tutto quello che si è finora descritto avviene in frazioni di secondo nel cervello umano che attiva la sua capacità di intersoggettività nel momento in cui entra a contatto con altri individui. È incredibile paragonare la semplicità dell’atto nella realtà della vita quotidiana con l’arduo compito di spiegarne a parole lo svolgimento dal punto di vista cognitivo. La mente umana è talmente complessa da raggiungere una sua specifica e a volte inspiegabile semplicità fatta di momenti automatici e processi controllati.

L’empatia coinvolge molte funzioni e per questo motivo non è semplice circoscrivere le aree cerebrali specificatamente responsabili di questo complesso processo e descriverne singolarmente i movimenti. Le condizioni di condivisione emotiva sono state studiate prevalentemente attraverso studi sulla percezione del dolore, emozione facilmente riproducibile, che hanno messo in evidenza quanto già espresso

(21)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 21

sopra: di fronte al dolore degli altri l’uomo è in grado di riprodurre a livello neuronale le condizioni emotive dell’evento. Molti esperimenti di questo tipo sono stati eseguiti coinvolgendo persone che si conoscevano fra loro, ma affinché vi sia risposta empatica tale condizione non è necessaria. Altre ricerche hanno, infatti, dimostrato che tali risposte empatiche possono essere registrate tra sconosciuti che non sono emotivamente legati fra loro (Singer, Seymour, O’Doherty, Stephan, Dolan, & Frith, 2006).

Un altro aspetto interessante, nel descrivere il meccanismo empatico umano, è l’incidenza di fattori cognitivi coscienti che determinano il volume dell’empatia. Più precisamente, è stato osservato in esperimenti sulla percezione del dolore altrui che la reazione empatica è inferiore se il soggetto esaminato è cosciente del fatto che quel dolore è indotto sul soggetto osservato a fini terapeutici e, ancora di più, se è a conoscenza dell’esito positivo del suddetto trattamento medico (Lamm, Baston , & Decety , 2007). Riassumendo, si può dire che l’empatia è un processo automatico e involontario che però può essere modulato da funzioni cognitive di livello superiore. Alla base delle teorie sull’empatia c’è l’assunto che l’uomo, attraverso i neuroni specchio, è in grado di riprodurre schemi di rappresentazione motoria sulla sola base dell’osservazione degli stessi movimenti presso altre persone, cioè imitando quei movimenti in modo incarnato.

Essendo l’uomo un animale sociale ha sviluppato un sistema di decodifica degli atteggiamenti degli altri. I neuroni specchio svolgono, quindi, un ruolo essenziale nell’interazione sociale e permettono all’individuo di adattarsi al contesto in cui vive in modo fluido, naturale e più o meno semplice, a seconda dello sviluppo soggettivo degli stessi neuroni specchio. Ogni individuo, infatti, sviluppa in modo personale tale capacità di base e la mette in atto in relazione al suo trascorso esperienziale.

I neuroni specchio, però, nel definire l’altro in realtà si interessano anche del Sé. Non si possono, infatti, separare l’Altro e il Sé, essi sono interconnessi, «si illuminano a vicenda» (Zahavi, 2001); il Sé è tale in quanto c’è l’Altro. L’imitazione dell’Altro presuppone il riconoscimento del Sé e, di conseguenza, dell’Altro in quanto diverso dal Sé. L’autoriconoscimento e l’imitazione procedono, dunque, di pari passo e i

(22)

22

neuroni specchio che sono coinvolti nelle interazioni sociali lo sono in modo evidente anche nell’autoriconoscimento.

È interessante osservare che, in una società dominata da un modello individualista, l’Embodied Cognition, e in particolare il meccanismo dei neuroni specchio, colma il divario fra l’Io e l’Altro e riporta l’attenzione sull’intersoggettività, descrivendo la simulazione interna delle azioni altrui e la possibilità tutta umana di provare le stesse emozioni dei propri simili e non solo, vista la capacità naturale dell’uomo di empatizzare anche con animali o oggetti inanimati2 (Iacoboni, 2008).

1.2 Lo sguardo e le emozioni come via di accesso al mondo

In questi processi di relazione con il mondo e con gli altri la visione gioca un ruolo molto importante. L’uomo è un animale visivo oltre che linguistico. Ed è attraverso gli occhi, infatti, che si riceve la maggior parte delle informazioni che consentono lo svolgimento di attività quotidiane.

La visione è un processo attivo che coinvolge sia l’eredità biologica dell’uomo sia quella culturale (Tomasello, 1999). L’occhio nel guardare è guidato dalla sua natura fisiologica ma nel decodificare l’oggetto della visione l’eredità culturale del singolo soggetto coopera all’attribuzione del senso. La capacità visiva, in particolare, si muove su due percorsi neurali. Il primo, definito ventrale, è utilizzato per il riconoscimento degli oggetti e si attiva in modo consapevole. L’altro, quello dorsale, si occupa del controllo dell’azione visuomotoria e non necessita di attivazione cosciente (Goodale & Milner, 2004). Ciò vuol dire che nel percepire la realtà fenomenica che ha davanti, la mente umana è sensibile alle informazioni visive anche quando non consapevole di averle fruite. Il potere delle immagini e la centralità dello sguardo, di cui si discuterà meglio nel paragrafo successivo, sono già evidenti. 2 L’animismo è una delle caratteristiche dell’uomo che tende in modo naturale ad attribuire

un’agency anche agli oggetti. Questa capacità, in realtà, è una delle armi più importanti sviluppate dall’uomo per la sua autodifesa ed è anche ciò che, come si vedrà meglio più avanti, lo porta ad essere un racconta storie per natura.

(23)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 23

Tutti sanno cosa vuol dire guardare un volto ma il vedere è, in realtà, un’attività estremamente dispendiosa per il cervello in termini di coinvolgimento neuronale. Come accennato sopra, l’atto di guardare include anche processi inconsapevoli, guidati dalla cultura o dalle abitudini mentali ovvero dall’esperienza. Spiegare cosa vuol dire guardare un volto, in sintesi, non è poi così semplice se l’obiettivo è far dialogare fra loro la cultura, la biologia e le emozioni umane. Da qui la necessità di calarsi in una prospettiva di studio multidisciplinare partendo dal presupposto che l’uomo condivide con i suoi simili le strutture biologiche e fisiologiche atte a comprendere l’ambiente in cui vive a prescindere dalle interferenze culturali e dalle emozioni soggettive.

Il meccanismo mirror legato all’attivazione dei neuroni specchio, illustrato nel precedente paragrafo, si innesca non solo quando l’Altro è in carne e ossa ma anche quando esso è semplicemente raffigurato in immagine (Freedberg & Gallese, 2007). Come accennato sopra, l’uomo entra in contatto quotidiano non solo con il mondo e con l’Altro “dal vivo” ma anche con infinite immagini del mondo e dell’Altro. Il modello di percezione descritto dalla simulazione incarnata permette, infatti, di attivare rappresentazioni viscero-motorie nel cervello dell’osservatore sia se l’Altro è presente fisicamente, sia se è raffigurato in un’opera bidimensionale come ad esempio una fotografia. L’embodied simulation permette all’uomo di riutilizzare parte delle risorse neurali che usa per interagire nel mondo fisico anche nella fruizione mediata del mondo stesso o di mondi finzionali, mediati ad esempio da uno schermo cinematografico. Ciò vuol dire che l’uomo non ha bisogno della realtà vera e propria per innescare relazioni di natura empatica: la simulazione incarnata si pone alla base anche delle capacità immaginative dell’uomo. Ciò ha aperto la strada agli studi di Neuroestetica che si interessano dell’interazione dell’uomo con le opere d’arte e i manufatti culturali in generale; ma anche ad una nuova disciplina, la Biopoetica, che intende indagare i legami fra la mente umana e i mondi finzionali della narrazione. Una serie di esperimenti scientifici finalizzati alla comprensione dell’occhio umano hanno utilizzato manufatti artistici come oggetti di visione (Zeki, 2007). L’idea di base è che la complessità delle opere d’arte si esplicita nella consapevolezza per la mente umana della compresenza di più soluzioni possibili. In altre parole, l’arte è per il

(24)

24

cervello un forte stimolatore in quanto costringe ad un’elaborazione su più livelli: più è complesso l’oggetto della visione più risulta attraente e ricco di senso. Zeki faceva riferimento alla pittura ma la fotografia, come si vedrà meglio più avanti, alla stregua dell’arte non è altro che espressione della relazione fra l’uomo e il mondo e, di conseguenza, può permettersi di mutuare dall’estetica e dalla neuroestetica strumenti di analisi. Ancora meglio, proprio il legame indicale che lo strumento fotografico instaura con il suo referente potrebbe rendere una fotografia maggiormente attrattiva ed emozionale rispetto ad un quadro in quanto il suo oggetto è percepito come “più reale”.

La neuroestetica si interessa principalmente delle modalità di fruizione delle opere d’arte, a ciò che accade nel cervello mentre fruisce un oggetto artistico. Per quanto riguarda l’atto di creazione, esso desta maggiori difficoltà perché il trasferimento del concetto creativo dalla mente al supporto artistico, dalla mano alla tela per esempio, è più lungo. Nella fotografia questo gap temporale, invece, è molto breve. Per tale motivo si può supporre che la fotografia sia più legata all’intenzionalità del suo creatore, in quanto la possibilità di interferenze culturali esterne è meno incisiva. Le foto sono istantanee della mente, immagini che non solo hanno una relazione indicale con il loro referente ma sono anche molto prossime alla percezione emotiva, motoria e visiva provata dal fotografo, alla sua intenzionalità di partenza.

Si sono qui descritti due motivi che rendono la fotografia particolarmente interessante come oggetto di studio della neuroestetica: il suo essere sguardo di qualcuno su qualcosa e il suo essere empaticamente incisiva. Ma prima di concentrarsi sul medium fotografico, si consideri la fruizione estetica in generale.

«Crediamo che tra la contemplazione della realtà effettuata direttamente con i nostri occhi e quella mediata dalla finzione teatrale, cinematografica o narrativa, la realtà, cioè, trasmessa dalla finzione artistica, esista una differenza di natura dimensionale più che categoriale». (Gallese & Guerra, 2015, p. 75)

Le tecnologie come il cinema o la fotografia hanno potenziato le possibilità incorporate dell’uomo, quasi dotandolo di “poteri speciali” per andare al di là dei suoi limiti fisici e interpretare gli altri e il mondo a partire da uno schermo, rimediando

(25)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 25

pratiche di ordine quotidiano da sempre a lui appartenenti. I media hanno, cioè, ampliato protesicamente le capacità emozionali dell’uomo.

Tutti si sono commossi almeno una volta guardando un film o hanno condiviso l’emozione di un sorriso guardando una vecchia foto di famiglia; tutti hanno provato l’emozione di entrare in empatia con il protagonista di un romanzo o con l’attore di uno spot televisivo. Il meccanismo neurale che sta dietro questi comportamenti umani specifici è quello della simulazione incarnata appena descritto, possibile grazie all’attivazione dei neuroni specchio e direttamente collegato al sistema limbico e alle emozioni. L’estetica e l’empatia risultano collegate: esse hanno entrambe a che vedere con il sentire e proprio attraverso l’empatia la fruizione estetica risulta per l’uomo così piacevole. Dal punto di vista neuroscientifico, le strutture fisiologiche che stanno alla base dell’esperienza empatica sarebbero coinvolte anche nella fruizione estetica delle opere d’arte e delle narrazioni finzionali (Freedberg & Gallese, 2007). Si assottiglia così la distanza fra realtà e finzione e si introduce un elemento fondamentale per il presente studio, il medium visuale.

1.3 Cultura visuale e rimediazione: la centralità delle immagini

La realtà contemporanea è mediata dalla rappresentazione visiva digitale interattiva ma, in realtà, a partire dalle immagini delle caverne preistoriche l’uomo ha da sempre utilizzato le immagini non solo per rappresentare ma anche per comprendere il mondo e l’Altro. La necessità tutta umana di mettere in immagine per conoscere è testimoniata oggi dal proliferare di tecnologie di visione spaziale o aerea o, ancora, dalle tecnologie che in ambito clinico permettono di “fotografare” il corpo: fra queste il brain imaging, utilizzato dalle neuroscienze anche negli esperimenti sui neuroni specchio citati in precedenza, non è altro che un messa in immagine del cervello dell’uomo.

Negli ultimi due secoli, però, è risultata evidente una crescita esponenziale del ruolo delle immagini e la cultura occidentale in generale ha iniziato ad essere dominata dal visuale più che dalla dimensione orale o testuale (Sturken & Cartwright, 2009). Inoltre, è bene precisare fin da subito che quando si parla di visuale entrano in campo molti e diversi media. Parlare di immagini vuol dire parlare non solo di pittura ma anche di

(26)

26

scultura, fotografia, cinema, pubblicità, design, letteratura, televisione, videogiochi, web, digital art...La quantità di immagini che circonda l’uomo contemporaneo è talmente grande e variegata che la cultura visuale non fa solo parte della vita quotidiana dell’uomo, «essa è la vita quotidiana» (Mirzoeff, 1999) anche e soprattutto perché il singolo individuo non è più solo fruitore di immagini ma è diventato libero creatore e diffusore di esse. Tutti possiedono un canale di condivisione istantanea della propria capacità di mettere in immagine. Questo strumento (che può materializzarsi in diversi tipi di dispositivi, dallo smartphone alla GoPro...), è invasivo e ormai quasi indispensabile, entra in una mano e ha dotato il singolo individuo di un potenziale visuale enorme.

Questo pictorial/iconic turn è testimoniato anche dal riconoscimento della cultura visuale quale disciplina di primo piano. In particolare, essa mira ad indagare le immagini e determinati atti di visione situandoli in un contesto culturale ben preciso. La cultura visuale è poi stata declinata in diverso modo da differenti campi di ricerca che hanno posto l’immagine al centro dei loro studi, fra questi anche le scienze cognitive cui si collega il presente lavoro. Già introdotta dai primi studi sul cinema e sulla fotografia, la cultura visuale promuove una nuova forma di conoscenza immediata, rapida e concreta che passa attraverso le emozioni. Le immagini, infatti, colpiscono l’uomo e il guardare implica un coinvolgimento empatico che si manifesta in una serie di reazioni fisiche nel corpo dell’osservatore, oggi spiegate scientificamente attraverso la simulazione incarnata prodotta dall’attivazione dei neuroni specchio che, come si è visto in precedenza, si attivano anche quando l’azione non è osservata dal vivo ma rappresentata da un’immagine (che sia una foto, uno schermo televisivo o cinematografico ecc.). L’homo pictor ha da sempre utilizzato le immagini per rappresentare la realtà ma oggi più che mai il “potere” di queste è tangibile nelle modificazioni che hanno interessato tutta l’iconosfera3. La diffusione delle tecnologie digitali, infatti, ha favorito la nascita 3 Con iconosfera si intende l’insieme delle immagini che circolano in un determinato periodo

storico, delle tecnologie utilizzate per realizzare, modificare e condividere tali immagini e degli usi sociali che gli individui ne fanno.

(27)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 27

di un “flusso iconico” incessante, sempre letteralmente a portata di mano tramite smartphone, che investe l’individuo attraverso una moltitudine di canali e media e che necessita di maggiori approfondimenti e nuove metodologie di analisi che a partire dalle origini della disciplina visuale sviluppino nuove teorie contemporanee. La cultura visuale si presenta negli anni Novanta come una storia dell’arte senza nomi che eredita dalla tradizione tedesca della Bildwissenschaft l’allineamento fra le immagini appartenenti alla cultura alta (l’arte propriamente detta) e le immagini non colte. Oggetto di studio sono tutte le immagini, quindi, appartenenti ad un determinato contesto (artistiche e non), analizzate da differenti prospettive fra cui quella della neuroestetica focalizzata sul rapporto intersoggettivo fra immagini, produttore e fruitore/osservatore che maggiormente interessa il presente lavoro. Tale punto di partenza risulta fondamentale per la creazione di nuove teorie che interessano l’uso dei media e delle immagini “quotidiane” e vadano oltre la tradizionale analisi estetica delle immagini artistiche.

Nella definizione del concetto di visione, Baxandall (1972) per primo ha riconosciuto due diverse dimensioni del vedere: una fisiologica a-storia e invariabile da epoca ad epoca; e una psicologico-cognitiva più fluida e variabile da individuo ad individuo e da periodo a periodo. Queste “abitudini” percettive, che condizionano l’individuo nella visione delle immagini a lui contemporanee e non, definisce il period eye. Esistono cioè due modi per guardare alle immagini, uno legato alla fisicità umana, che si potrebbe definire naturale, e l’altro più culturale legato all’esperienza e alle emozioni e alle influenze culturali. D’altronde anche Freedberg nel suo Il Potere delle

Immagini (1989) afferma che la reazione degli individui alle immagini si evolve

insieme alla cultura visuale nonostante il senso della vista sia invariato. Quando si parla di decodifica delle immagini, infatti, natura e cultura si mescolano. Sempre Freedberg aggiunge, fatto rivelante per l’argomento del presente studio, che analizzare solo la valenza estetica delle opere d’arte senza interessarsi alle emozioni è ormai anacronistico. Egli rimane legato alla tradizione disciplinare che accetta come immagini oggetto di studio solo le opere d’arte ma nei suoi lavori si percepisce la necessità di andare oltre e considerare le immagini tutte così come vengono a contatto con l’individuo in qualità di fruitore o creatore.

(28)

28

Seguendo il concetto di period eye, la storicità della visione non è da iscriversi all’uomo o da intendersi come psicofisiologica bensì come qualcosa di variabile e in continua evoluzione. In particolare, la si può iscrivere all’interno della storicità delle tecnologie ottiche e dei dispositivi che hanno permesso il proliferare di sempre nuove modalità di visione e abitudini visive, modificando il sensorio umano e configurando nuovi punti di vista spaziotemporali. Sono i media ad aver permesso l’evoluzione dell’immagine e della sua decodifica. L’ibridazione, oggi sempre più evidente, di corpi organici e dispositivi tecnologici di visone ha trasformato la capacità umana di vedere, promosso nuove modalità di visone e, come si vedrà meglio più avanti, ha dato vita a nuove immagini e rimediazioni di generi visuali.

È importante precisare che nel presente lavoro ci si riferisce con il termine immagini alle picture, entità materiali che esistono concretamente grazie a supporti, media e dispositivi, e non alle image quali entità immateriali; da qui il legame già in parte espresso con la storia dei media e dei dispositivi. Ad introdurre l’argomento “medium” negli studi di cultura visuale è stato Benjamin (1936) affermando che la visione, la percezione e l’esperienza sono sempre mediate da apparecchi tecnologici che si trasformano storicamente e modificano così anche la sensibilità dell’uomo nei confronti del visibile. L’ibridazione cui si è accennato sopra viene descritta da Benjamin, con particolare riferimento al cinema, come “innervazione” fra organi corporei e strumenti tecnici favorita dal continuo utilizzo di questi (Benjamin, 1936). L’uomo, in pratica, si adegua agli strumenti che ha a disposizione e adeguandosi modifica il suo stesso sensorio. Lo stesso concetto, d’altronde, sarà poi oggetto centrale di tutta la teoria macluhaniana sui media, come lo stesso teorico non manca di precisare nel sottotitolo della sua opera più importante, Understanding media. The

Extensions of Man (McLuhan, 1964) e come si vedrà meglio nelle pagine successive.

Nel caso delle tecnologie ottiche, queste si innervano nel corpo ampliando protesicamente le possibilità percettive e di visione. La fotografia e il cinema, cui i primi studi di cultura visuale facevano riferimento, aprono per l’uomo possibilità di visione prima impensabili e, ricollegandosi a quanto detto nei paragrafi precedenti, ne ampliano di conseguenza le prospettive empatiche. Oggi ciò avviene attraverso

(29)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 29

nuovi supporti e dispositivi tecnologici di cui si servono la fotografia e il cinema classico, rimediandosi e in parte modificandosi.

L’uomo in realtà è un natural born cyborg (Clark, 2003) come affermato dai sostenitori del modello della mente estesa: gli oggetti che circondano l’uomo, i media e le protesi che utilizza non solo modificano il suo rapporto con l’ambiente ma anche le risposte del suo cervello all’ambiente stesso, promuovendo nuovi e più complessi modi di pensare. In particolare, nella storia evolutiva dell’uomo, senza determinati supporti alcune operazioni cognitive non solo avrebbero richiesto tempi più lunghi ma probabilmente non sarebbero mai state portate a termine (Clark & Chalmers, 1998). La creazione di immagini, la scrittura, gli strumenti di calcolo e molti altri supporti sono fra questi. Ciò sposta l’attenzione, anche nel caso della visione, sui dispositivi e sulle modalità di fruizione delle immagini e sul rapporto che oggi essi instaurano con ogni singolo individuo, un rapporto, come si vedrà meglio nei paragrafi successivi, non solo visivo ma tattile, liquido e costante. Il riferimento è ai numerosi schermi che sono entrati nella quotidianità di ogni uomo e ogni donna e che incessantemente offrono alla vista immagini di vario genere.

Per chiarire meglio quanto già espresso sopra, i supporti, i media e i dispositivi sono ciò che permettono ad un image di diventare picture, cioè un’immagine materiale, incarnata e determinata da fattori spaziali. In particolare, con il termine supporto ci si riferisce ai materiali che rendono possibile la visualizzazione di un’immagine concreta. Essi possono essere di vario tipo, ad esempio supporti fissi come una parete, supporti mobili come la carta fotografica, supporti opachi o luminosi, supporti legati alle immagini come la tela di un pittore o indipendenti da esse come lo schermo del cinema che ospita di volta in volta immagini differenti. Dalle caratteristiche del supporto dipende il grado di obsolescenza delle immagini stesse. Ciò è valido anche nel mondo digitale, dove ad esempio supporti sono il JPG e dove anche i file sono destinati ad invecchiare e tal volta a rovinarsi.

Ad un particolare tipo di supporto, divenuto centrale nel mondo contemporaneo, sono dedicati numerosi studi di approfondimento. Si tratta dello schermo cui si faceva riferimento sopra, che da protezione ed elemento di chiusura nei confronti dell’orizzonte quale era considerato in passato, a partire dal XIX secolo è stato

(30)

30

stabilmente associato alle arti dello spettacolo come finestra che svela un altro mondo e non più come barriera che protegge. Gli screen studies hanno tracciato una genealogia dello schermo che parte dalla descrizione della tela del quadro per giungere fino ai touch screen degli smartphone, arrivando anche ad ipotizzare la scomparsa degli schermi con la diffusione della realtà virtuale quale nuovo supporto che abbraccia lo spettatore/fruitore e lo include completamente eliminando la mediazione dello schermo stesso (Manovich, 2001). Tralasciando le apocalittiche ipotesi riferite al futuro, ciò che è interessante notare sintetizzando la storia dell’evoluzione degli schermi quali supporti alle immagini qui analizzate, è che essi hanno acquisito nel tempo varie funzioni. Da display che espone immagini indipendenti dal fruitore, lo schermo è diventato interfaccia attiva, monitor che controlla, diario personale, album dove raccogliere frammenti della propria vita. È diventato un supporto che interagisce in modo tattile con lo spettatore.

Per quanto riguarda i dispositivi, in cultura visuale con dispositivo si intende tutto ciò che concorre a disporre nello spazio l’immagine e ad organizzare il suo rapporto con lo spettatore configurandone e indirizzandone lo sguardo, ad esempio la sala cinematografia per un film o la cornice per un quadro.

Più interessante, infine, è definire il concetto di medium a partire proprio dalla differenza fra supporti e dispositivi. Con medium si intende l’insieme dei supporti materiali utilizzati per visualizzare le immagini e delle tecniche che possono essere messe in pratica con tali supporti. I media si inseriscono oggi in un mediascape (Casetti, 2015) in continua evoluzione che offre ogni giorno nuovi oggetti di analisi. L’arrivo di sempre nuove tecnologie, infatti, obbliga le precedenti a riorganizzarsi per rimanere sul mercato e competere con esse. Da qui il concetto di “rimediazione”, introdotto da Bolter e Grusin (1999) in un momento ancora relativamente lontano dai social media che dominano la contemporaneità, ritorna ancora più forte. Come osservato dai due studiosi, nessun medium può essere compreso da solo, perché ogni medium ri-media altri media, compete con loro o, nel caso dei vecchi, si rimodella per mantenersi attuale (Bolter & Grusin, 1999). Questo concetto già in gran parte presente nel pensiero di McLuhan («il contenuto di un medium è sempre un altro medium» (1964)), porta a leggere la storia dei media come un percorso non lineare all’interno

(31)

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 31

del quale ogni nuovo medium tende a “rimediare”, anche nel senso di “porre-rimedio”, ai media precedenti. Ciò avviene, secondo quanto descritto da Bolter e Grusin seguendo l’oscillazione fra due poli opposti: la trasparenza e l’ipermediazione. Da un lato, cioè, vi è la tendenza dei nuovi media a far scomparire la tangibilità della mediazione, a rendere impalpabile la loro presenza in nome di un’immediatezza comunicativa che vuole assomigliare il più possibile alla realtà (si pensi alla realtà virtuale), una trasparenza totale del medium che diventa invisibile. Dall’altro lato, invece, la tendenza all’ipermediazione mette in mostra i segni della mediazione moltiplicandoli e facendo della presenza del medium stesso il suo punto di forza (si pensi alle numerose finestre apribili sullo schermo di un pc). In questo caso il medium fa sfoggio di se stesso, è iper-visibile, è percepito come invasivo ma in modo tangibile.

A questo concetto di rimediazione, che permette di riflettere in modo più approfondito sull’importanza e l’invasività dei media nella vita dell’uomo, si aggiunge quello di “rilocazione” descritto da Casetti (2015). Con la rimediazione di tecniche e di supporti a cambiare è anche il tipo di esperienza di fruizione che si muove, migra verso altri spazi, altri contesti definendo inevitabilmente nuove pratiche sociali e nuovi luoghi di socialità e condivisione. Due neologismi, rimediazione e rilocazione, che introducono e sostengono il nuovo ruolo delle immagini fotografiche social che si vuole qui analizzare, che appartengono ad un non-luogo e a un non-tempo su cui si tornerà in modo diffuso nelle prossime pagine. Prima di giungere a definire con più chiarezza l’oggetto di studio particolare del presente lavoro, è bene però aggiungere qualcosa alla definizione di immagine e al suo ruolo in relazione all’uomo.

1.4 Intersoggettività e immagini come “atti iconici”

La relazione fra individuo e immagini si è modificata nel corso del tempo e continua a modificarsi con l’avanzare di nuovi supporti e dispositivi. Oggi, inoltre, si possiedono gli strumenti adatti e le conoscenze per poter fare un’analisi visuale che non è solo estetica o sociale ma diventa cognitiva e neuroestetica nel riconoscimento di un coinvolgimento empatico che, si ipotizza nel presente lavoro, si manifesta più evidente in presenza di determinate immagini con caratteristiche estetiche

Figura

Figura	1	 Schema	che	riassume	il	collegamento	fra	neuroni	specchio	ed	emozioni.
Figura	2	 Pubblicità	del	Kodak	Projector	del	1960	e	della	Kodak	Instamatic	Camera	del	1968.
Figura	 4	 Kim	Kardashian,	attualmente	al	sesto	posto	dei	profili	più	seguiti	su	Instagram	(@kimkardashian),	qui	 ripresa	 nell’atto	 di	 scattarsi	 un	 selfie.	 Sono	 tantissime	 le	 foto	 social	 che	 inquadrano	 l’atto	 di	 scattare	 selfie,	 #gettingse
Figura	 5	 Screenshot	 tratto	 da	 Selfiexploratory,	 un’applicazione	 web	 interattiva	 creata	 all’interno	 del	 progetto	 selfiecity.net	 (2014).	 Questa	 applicazione	 permette	 ai	 visitatori	 del	 sito	 web	 di	 esplorare	 un	 database	 di	 3,200	 se
+4

Riferimenti

Documenti correlati

Così come i sordi non sono tagliati fuori dal mondo delle relazioni solo a causa della loro sordità, ma altrettanto per il fatto che la società ignora il

Fotografia al servizio della conoscenza o fotografia al servizio del potere: ci sembrano, questi, due funzionamenti che ancora oggi osserviamo nella cultura delle immagini..

The so-called ‘paradigm shift’, which definitely contained some innovative elements but was far from suggesting fundamental changes, referred to two issues. First, the

The availability of suitable lanthanide precursors urged us to try the preparation of mixed oxides starting from solutions containing two different lanthanide complexes in a

integrate the equations of motion of the respective reduced density matrices using both the self-consistent Mori projector method and cluster mean- field theory until t?γ −1 ,

We compute the data size that fl ows in a Storm topology as the amount of data that enters the system in the form of tuples which are injected into the Storm cluster by the

Conclusion In conclusion, we think that, with our central cannulation technique, T reversed upper ministernotomy may be considered the most safe and feasible among the

Use of all other works requires consent of the right holder (author or publisher) if not exempted from copyright protection by the