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Introduzione all’autoritratto: il Sé esteso e la sua rappresentazione materiale

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL

2.3 Introduzione all’autoritratto: il Sé esteso e la sua rappresentazione materiale

Il concetto di Sé preso in esame nel presente lavoro è un concetto di Sé esteso. Si è già accennato ai sostenitori della mente estesa e all’importanza dei supporti tecnici, dei media per usare un altro termine, che influiscono sui processi mentali di ogni singolo individuo modificandone il sensorio, potenziandolo o limitandolo.

Parlare di Sé esteso vuol dire accogliere l’impossibilità di distinguere nella costruzione del Sé fra ciò che è nel cervello, ciò che è nei corpi e ciò che è nelle cose (Malafouris, 2013). Creare un utensile, spiega il teorico della cultura materiale

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Malafouris (2013), è un atto che incarna un’intenzione e la trasforma in una cosa esterna. Allo stesso modo indossare un anello di famiglia che racchiude una storia e un significato specifico per l'individuo che lo indossa rende l’anello stesso depositario di una memoria incarnata, protesi materiale che connette il Sé con il mondo esterno. Con il termine tecnoetica Malafouris (2007) indica come la memoria non sia un processo interno solo alla mente ma si estenda all’esterno, nelle cose. In sintesi, il Sé è fatto di pensieri, di intenzioni, di desideri ma anche di cose.

Nello stesso modo in cui le cose influiscono sulla cognizione umana, l’uomo può trasformare un oggetto in una protesi della propria identità, una memoria incarnata appunto. Ciò non vuol dire che ogni individuo dipende o è legato in modo particolare a tutti gli oggetti che indossa o che lo circondano, ma è significativo capire che nella definizione del Sé e nella sua condivisione con l’altro si rende necessaria un’azione di mediazione e comunicazione che, quando non verbale, è possibile incarnare in un oggetto che diventa protesi dell’identità dell’individuo stesso andando oltre il linguaggio parlato. Più precisamente, l’oggetto incarna l’azione che è possibile per l’altro empatizzare. In questa prospettiva si rivela esaustivo il concetto di immagini come atti descritto nel capitolo precedente. La foto incarna l’atto di creazione della stessa e in quanto tale materializza un frammento di identità dell’autore per condividerla con l’Altro.

Come già osservato in precedenza, ciò che rende l’intersoggettività possibile non è una magica lettura della mente ma una comprensione dell’azione altrui, espressa in modo materiale con uno sguardo, un gesto, una postura ma perché no anche con un oggetto. Banalmente, il portare una fede al dito non è semplicemente un comunicare il proprio stato civile ma testimonia un’intenzione e un’azione compiuta dal soggetto che la indossa. Quella fede è una memoria incarnata che “racconta” un episodio di vita personale riferita a chi la indossa. Questo è esattamente ciò che avviene nella creazione e poi fruizione di un autoritratto: l’autore incarna su un supporto materiale (foto o dipinto che sia ma nel caso specifico andrebbe bene qualsiasi supporto visuale) un momento, un’emozione, un gesto e lo offre all’altro, donando una parte di sé.

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Questo concetto ci permette di inoltrarci nell’analisi dell’immagine digitale, e del selfie in particolare, con una nuova consapevolezza: le cose che circondano l’uomo ne modificano la propriocezione, influiscono sul sensorio e incarnano le intenzioni di chi le utilizza diventando memorie incarnate. Il fatto che la mente umana usi protesi mediali non-biologiche non rappresenta una forma disincarnata di utilizzo delle capacità cognitive, bensì la conferma che il corpo umano è un medium e che gli altri media, fra cui la fotografia, sono sue estensioni non-biologiche. Da qui si arriverà a definire questi oggetti come materializzazione di identità, come storie, episodi di vita, o meglio ancora gesti “incarnati” in un supporto materiale, nel caso specifico in scatti fotografici digitali condivisi online su piattaforme di sharing. Ma prima ancora del

selfie fotografico, di cui si parlerà diffusamente più avanti, si vuole provare qui a

riscoprire l’origine dell’autorappresentazione visuale quale rimediazione del racconto del Sé, in realtà di molto antecedente all’invenzione del mezzo fotografico. L’autoritratto pittorico, in quanto rappresentazione del Sé, ha acquistato in passato grande attenzione da parte degli studi visuali e continua a farlo anche oggi. Già nel medioevo gli artisti usavano inserire il proprio volto nelle loro opere come testimonianza di autenticità, firma certificata della paternità dell’opera d’arte. Ma lo statuto sociale degli artisti non gli permetteva grandi libertà. I pittori erano considerati degli artigiani, le loro opere non erano semplice frutto della loro libera creatività ma dipinti appositamente commissionati che dovevano rispettare delle precise richieste. In alcuni casi, comunque, l’autore riusciva a rappresentarsi nel dipinto insieme allo stesso donatore. Sarà poi nel Rinascimento che il genere dell’autoritratto inizierà a svilupparsi in maniera autonoma. Di pari passo con il proliferare di specchi piani che consentono agli artisti una visione non deformata del proprio volto, infatti, l’autoritratto si va diffondendo e l’aumento del prestigio sociale degli artisti permette loro di ritrarsi anche da soli. In quel periodo sono diversi i tipi di autoritratti diffusi fra i pittori: autoritratti ambientati in cui l’autore è inserito nella scena rappresentata in una posizione marginale; criptoautoritratti in cui l’artista maschera il proprio volto nell’opera nascondendolo; autoritratti delegati in cui il volto dell’artista è assegnato ad un personaggio storico o ad un santo; e, infine,

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l’autoritratto autonomo cui molti artisti si dedicano in modo costante fra il Settecento e l’Ottocento (Pinotti & Somaini, 2016).

Con l’avvento della fotografia il genere dell’autoritratto conquista nuovi spazi e si rimedia, per usare un termine già discusso, grazie ad un supporto del tutto nuovo. La tecnica dello scatto telecomandato e dell’autoscatto poi, permettendo la realizzazione pratica della foto in prima persona, donano nuova forza al genere dell’autoritratto. Il primo selfie della storia è da attribuire al vero pioniere di questo tipo di foto, il fotografo americano Robert Cornelius che realizzò un dagherrotipo di se stesso già nel 1839. Tralasciando le evidenti differenze fra quel tipo di autoritratto e il contemporaneo selfie realizzato con un smartphone2, ciò che interessa a partire

dall’autoritratto in pittura prima e dall’autoritratto fotografico poi, è l’osservazione della nuova possibilità attraverso questo tipo di immagini di autorappresentarsi per il creatore e di immedesimarsi nel soggetto rappresentato per il fruitore. L’autoritratto invita l’osservatore a guardare il mondo con gli occhi dell’Altro, il soggetto rappresentato nell’immagine osservata. Ciò avviene perché, come si cercherà di sostenere nel corso di queste pagine, la vicinanza fra osservatore e soggetto osservato crea nell’autoritratto un’intimità tangibile, permettendo l’instaurarsi di una simulazione empatica più immediata che in altre tipologie di immagini. D’altronde già nel 1916 lo psicologo Münsterberg, uno dei primi studiosi che si interessò di coinvolgimento mentale dello spettatore nella percezione del film cinematografico, aveva affermato che il primo piano al cinema aveva permesso di rappresentare in modo materiale la percezione mentale dell’azione (Münsterberg, 2010); l’ingrandimento e l’avvicinamento, cioè, favoriscono forme di inferenza ed esaltano il potenziale emotivo ed empatico di un’immagine. Ad instaurarsi è proprio quel dialogo di sguardi cui si è già accennato.

2 Come si chiarirà meglio nei prossimi capitoli, l’utilizzo del termine selfie in questo caso

risulta inappropriato in quanto fra le caratteristiche distintive di tale sottogenere visuale vi è la sua condivisione su piattaforme social certo non disponibili per i pionieri della fotografia dell’Ottocento. Ma l’utilizzo del termine risulta comunque utile per legare questa pratica contemporanea al passato e osservarne l’evoluzione.

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Per provare a descrivere in modo ancora più specifico ciò che avviene a livello cognitivo nell’osservazione di un autoritratto, si rende necessario comparare ciò che avviene nella mente del fruitore dell’immagine con ciò che vuole comunicare l’autore di un autoritratto. Il contenuto di questo genere visuale non è altro che una piccola parte del Sé dell’autore, un pezzetto della sua identità. Un autoritratto, che sia un dipinto, una foto analogica o una digitale è un racconto che il soggetto rappresentato offre, ma si potrebbe dire condivide, di se stesso.

Ciò che il mezzo fotografico ha aggiunto all’autoritratto pittorico è l’indicalità: il rapporto diretto fra oggetto e referente che permette alla fotografia di essere percepita come più “reale” dal suo fruitore. Al di là della sincerità dell’atto fotografico che non verrà presa in esame, ciò che è evidente è che il procedimento tecnico della fotografia assottiglia il tempo intercorrente fra il palesarsi dell’intenzionalità dell’autore di comunicare una parte di Sé attraverso un’immagine e la creazione della stessa immagine. Nel dipingere un quadro un artista può impiegare molto tempo e l’evidenza porta a considerare come influenti una serie di elementi contingenti che nell’istantanea fotografica possono essere tralasciati. Si parlerà più avanti di modificazioni delle immagini fotografiche, di filtri e manipolazioni ma è bene chiarire che essi sono da considerarsi come naturali. Nella scrittura del racconto che l’individuo fornisce di Sé all’Altro sono infiniti gli accorgimenti, le correzioni, le riscritture e le maschere che egli può sceglie di applicare. Così come sono leciti e normalizzati i ritocchi alla rappresentazione visiva che si offre all’Altro della propria identità.

2.4 La rimediazione del racconto del Sé nel mondo delle reti digitali.