SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL
3.3 Cos’è il selfie: dal narcisismo dell’autoritratto del passato alla nuova estetica della tecnologia digitale
Mai come nel mondo contemporaneo le immagini dicono più di mille parole. La comunicazione visuale sembra aver preso il sopravvento e ciò è vero soprattutto nelle interazioni online dove le immagini hanno in molti casi sostituito il testo, che ne è
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diventato semplice appendice, come avviene ad esempio nelle didascalie. Tutto ciò perché le immagini, e le fotografie in particolare, sono capaci di trasmettere emozioni in modo immediato più del semplice testo e, come già discusso sopra, hanno il potere di scatenare nell’osservatore risposte viscerali, inconsce ed emotive (Freedberg, 1989). Fra tutte le immagini che circolano online il selfie occupa una posizione predominante in base alle sue caratteristiche specifiche che si discuteranno in questo paragrafo ma anche in termini numerici in base ai commenti, alla popolarità e al numero di like sui social network1. Nel 2013 la parola selfie è entrata ufficialmente nell’Oxford English Dictionary con la seguente definizione: Selfie – ‘a photograph that one has taken of oneself, typically one taken with a smartphone or webcam and uploaded to a social media website.’ (OED)
Il selfie, in sostanza, non è altro che un tipo di foto con delle caratteristiche ben precise e proprio queste caratteristiche ne definiscono l’importanza come oggetto di studio di diverse discipline. Le scienze sociali lo studiano come costruzione dell’identità online, gli studi culturali ne mettono in risalto il legame con le tecnologie, i teorici della comunicazione ne sono interessati in quanto pratica sociale, gli informatici ne analizzano i metadati, gli storici dell’arte lo paragonano all’autoritratto dei pittori del passato. Le scienze cognitive, infine, sembrano offrire una prospettiva di studio multidisciplinare più ampia e allo stesso tempo capace di restringere l’attenzione su una definizione chiave, il selfie come finestra di accesso all’Altro e protesi delle facoltà empatiche del singolo individuo.
Indagare il selfie dal punto di vista cognitivo vuol dire, in sostanza, concentrarsi sul tipo di reazione neurale/empatica che la fruizione di un selfie scatena nell’osservatore e sul tipo di relazione intersoggettiva che instaura fra creatore e destinatario dello
1 Secondo uno studio del 2015, la pratica del selfie è cresciuta di 900 volte dal 2012 al 2015 e
pur non essendo l’unico genere prevalente su Instagram, esso genera il maggior numero di interazioni su tale applicazione di condivisione che fa della fotografia social il suo unico contenuto, risultando in questi termini il genere visuale più interessante (Souza, et al., 2015).
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scatto. Il selfie è identificato, in questa prospettiva, come espressione del Sé e comunicazione con l’Altro. Esso diventa uno strumento comunicativo di cui il singolo individuo si serve per instaurare relazioni intersoggettive. Da qui il collegamento evidente con il meccanismo mirror descritto nel primo capitolo. È attraverso l’attivazione dei neuroni specchio che un selfie viene decodificato dal suo fruitore in modo del tutto equivalente a ciò che succede nell’interazione faccia a faccia.
Il primo selfie risale al 2002 quando ancora i social network non esistevano ed è stato inserito da un utente all’interno di un commento su un blog. Come si legge nella definizione dell’OED, infatti, un autoscatto può definirsi selfie in quanto esiste nei social, è scattato cioè per essere condiviso sul web. Ma in realtà la frammentarietà delle immagini digitali, cui si è già accennato in precedenza, rende anche questa definizione soggetta a modifiche. Un selfie può essere scattato e condiviso anche su una piattaforma di messaggistica come WhatsApp, non propriamente definibile come “social media website”. O, ancora, può essere inviato attraverso social network come messaggio privato e quindi condiviso non con tutta la rete di contatti ma esclusivamente con pochi contatti selezionati. A prescindere, comunque, dal grado di pubblicità che investe il singolo selfie in base alle preferenze dell’autore, nel momento in cui inizia a circolare in rete, esso si allontana in ogni caso dal suo creatore per entrare a far parte della dimensione digitale online, in quel herealways immortale a prescindere dal suo produttore.
La “moda” dei selfie ha causato la nascita di un’ampia discussione online per lo più tenuta in piedi in un primo momento da giornalisti, blogger o gente comune più che da accademici i quali si sono avvicinati a questa complessa materia di studio con più precauzioni. In generale, non c’è rivista, giornale, blog di informazione o tecnologia che non abbia almeno una volta parlato del trend dell’autoscatto. E nel 2014 sicuramente l’invenzione più originale e significativa è stata proprio il bastone per scattare selfie, vera rivoluzione all’interno del genere visuale preso in esame che ne ha permesso un’esecuzione in maggior confort da parte di tutti i possessori di una
networked camera, tecnologia che ha di fatto reso il selfie ciò che è oggi. L’attenzione
nei confronti di questa pratica sociale e dei suoi risvolti nella vita quotidiana delle persone, anche qualora non propriamente scientifica, testimoniano come il selfie sia
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evidentemente diventato qualcosa di interessante cui destinare energie e propositi di ricerca da parte di tutti coloro che si interessano dell’uomo e dei suoi rapporti con i suoi simili oltre che di tecnologie digitali e nuovi media.
La discussione non accademica, però, si è spesso concentrata sul selfie come espressione di una società narcisistica che tende sempre più a sponsorizzare la rappresentazione del Sé come un brand che ha bisogno di essere pubblicizzato al proprio pubblico di follower. La società estetica in cui l’individuo contemporaneo è immerso lo porterebbe in modo naturale, secondo questa linea di pensiero di stampo psicologico, a rappresentarsi attraverso un’immagine che si presenta come spontanea ma in realtà è ricercata e controllata. Si cerca, cioè, di offrire alla propria rete di contatti l’immagine migliore di sé senza lesinare filtri, correzioni e manipolazioni delle foto. Ma ridurre il selfie ad una pratica narcisistica, parlare come avviene in molte discussioni d’oltreoceano di Selfie Syndrome come di un disturbo della personalità che porta a forme superficiali di autopromozione per attrarre l’attenzione è, dal punto di vista che questo lavoro si prefigge di assumere, assolutamente sbagliato e riduttivo. Affermare che il selfie è il prodotto di una società narcisistica e allo stesso tempo esso è la causa dell’aumento di questo narcisismo è come descrivere un cane che si morde la coda senza però andare a fondo della questione e tralasciando moltissimi elementi significativi.
Il primo elemento da tenere a mente è che da sempre c’è stata una naturale tendenza da parte dei fotografi a girare verso sé stessi la fotocamera. Il selfie, forse, esiste da sempre e ciò che ne definisce oggi il carattere particolare sono i dettagli della sua rimediazione online. Forse la forma più popolare della prima fotografia era proprio l’autoritratto. Secondo elemento da considerare, come già più volte accennato nel presente lavoro, è che l’autoritratto in pittura ha una lunga storia e fino a quando a praticarlo, almeno fino ai primi dell’Ottocento, sono stati solo i pittori stessi, che si auto dipingevano per lasciare traccia di sé ai posteri, nessuno li ha tacciati di disturbi della personalità. I pittori in genere sono narcisisti per definizione e i loro autoritratti erano sicuramente carichi di autocelebrazione e di affermazioni pretenziose. I selfie di oggi, pur essendo in parte una rimediazione di quei dipinti del passato, si distaccano
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da quelle motivazioni puramente narcisistiche ma ne ereditano qualcosa dal punto di vista estetico e del bisogno di comunicazione.
In particolare, mentre l’autoritratto del passato può in alcuni casi essere considerato una più banale contemplazione narcisistica di se stessi, il selfie essendo creato per essere immediatamente condiviso online si presenta più come una pratica sociale, come un atto di comunicazione più che di autoriflessione narcisistica. Inoltre, altra differenza importante, l’autoritratto del passato veniva creato per far vivere in eterno l’immagine dell’artista oltre la morte. Ma sebbene i teorici come Susan Sontag (1977) e Ronald Barthes (1980) vedano in ogni tipo di fotografia la malinconia e i segni della morte, i selfie vivono solo nel presente, hanno senso solo nell’istante in cui vengono scattati e condivisi e quindi la loro dimensione è l’oggi. Un selfie non è fatto per rimanere immortale pur essendolo nella dimensione della rete, ed esaurisce il suo potenziale comunicativo nel momento esatto in cui viene scattato il selfie successivo. Sono cioè delle fotografie social soggette ad un’obsolescenza veloce pur facendo parte dell’herealways della rete.
La vicinanza con l’autoritratto dei pittori del passato si ritrova, invece, nell’intimità che esso creava fra autore e fruitore del dipinto che in qualche misura si avvicina a quell’intimità creata oggi dal selfie stesso. Guardando agli autoritratti di Van Gogh, scrive Jerry Saltz (2014), si nota l’intensità, l’immediatezza e il bisogno di rivelare qualcosa di interiore al mondo esterno. C’è in questa ricerca di comunicazione con l’Altro qualcosa che è stato evidentemente ereditato dal selfie di oggi, già definito sopra come atto comunicativo, e che lo avvicina all’arte del passato. Si tratta di un bisogno naturale cui il selfie offre soddisfazione in quella che è stata già definita rimediazione del racconto del Sé. Quel bisogno di offrirsi all’Altro che spingeva il pittore ad autorappresentarsi sulla tela è lo stesso che spinge l’individuo contemporaneo a scattarsi un selfie e a condividerlo.
Bisogna sempre tenere presente che i selfie sono in parte sinceri e in parte finzioni costruite per raccontare una storia di cui l’autore dello scatto è il protagonista. Questa storia viene materializzata in uno scatto fotografico che non ha la funzione commemorativa della fotografia o di molti dipinti del passato ma è finalizzato solamente a comunicare nel presente e in modo immediato le emozioni dell’autore al
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proprio pubblico. Tali emozioni, siano esse più o meno romanzate e più o meno “filtrate”, rappresentano in ogni caso l’identità del creatore. Spogliato, dunque, delle pretese artistiche degli autoritratti dei pittori di un tempo, il selfie di oggi resta pura incarnazione di un gesto fatico messo in scena per mantenere vivo il contatto con il proprio interlocutore, come meglio si spiegherà più avanti. In questo senso il selfie, ma forse la networked camera in generale, hanno cambiato la fotografia stessa mutando definitivamente la sua funzione primaria da celebrativa a dispositivo di comunicazione legato al presente più che al futuro e alla commemorazione del passato. La fotografia come medium si è andato ricollocandosi in una nuova prospettiva di utilizzo privato e pubblico allo stesso tempo, rimediando pratiche sempre esistite. Non si usa più il mezzo fotografico solo per immortalare momenti e ricordarli ma per viverli attraverso le fotografie stese. La fotografia è vita, presente e in movimento.
Interessarsi al selfie, prima di tutto, vuol dire prendere coscienza del fatto che esso è probabilmente il genere visuale più diffuso e popolare di sempre. Ciò è dovuto sicuramente all’avanzare della tecnologia della networked camera che ne è stata la promotrice. Nella storia della fotografia le nuove tecnologie hanno sempre portato al nascere di nuove arti figurative e, di conseguenza, di nuove teorie per descriverle. A metà del Novecento la “Kodak girl” della pubblicità (Figura 2) aveva ben descritto la presenza sul mercato di un nuovo strumento, le macchine fotografiche Kodak appunto, economico e facile da usare per tutti, anche per le donne. Lo slogan “too easy
for words” è particolarmente significativo in quanto rivela già molti anni fa come la
fotografia sia destinata a sostituire le parole e la creazione di foto a diventare un gesto quotidiano e naturale com’è facile considerarlo nella società contemporanea della networked camera. La fotografia fino a quel momento, infatti, era stata dominata dagli uomini, ma la presenza di una tecnologia leggera, portatile e semplice aveva aperto la strada a nuovi usi del medium preso in esame. La fotografia divenne in breve tempo il passatempo di molti, senza grandi distinzioni di classe e di genere, e non di pochi amatori. Inizia così, grazie ad una fotocamera venduta al prezzo di un dollaro, una lunga era di fotografia istantanea popolare.
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Il successivo avanzamento tecnologico rilevante appartiene, poi, agli anni Novanta del secolo scorso, quando fanno la loro comparsa le prime fotocamere digitali. Il 2002 è un anno di svolta, vengono infatti vendute più fotocamere digitali che macchine da presa Kodak e nel 2012 il gigante dell’industria americana del XX Secolo presenta istanza di fallimento.
Figura 2 Pubblicità del Kodak Projector del 1960 e della Kodak Instamatic Camera del 1968.
Con il digitale la fotografia vive una svolta epocale e si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Se una volta la foto era un oggetto tangibile ora essa può esistere come serie di pixel che raramente vengono stampati e materializzati ma per lo più vengono raccolti in telefoni, fotocamere, computer e altre memorie esterne magari connesse in rete come gli album iCloud2. Queste modificazioni tecnologiche
2 È bene segnalare come negli ultimi tempi c’è stato un ritorno alla fotografia del passato.
Sono infatti ritornate in commercio con nuovi modelli le polaroid del secolo scorso e sono aumentate le applicazioni che si collegano direttamente ai social network e inviano a casa le foto stampate prese dai profili online. Sembra, insomma, che nonostante l’indiscussa
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non possono non influire sulle modalità di utilizzo della fotografia stessa e sulla nascita di nuovi generi visuali. Proprio come nei primi anni del Novecento la Kodak aveva portato alla diffusione dei ritratti di famiglia e dell’home mode di cui si parlerà più avanti, nel 2010 la diffusione degli smartphone ha portato alla nascita del selfie. Rispetto al macro genere dell’autoritratto fotografico, Paul Frosh ha messo in evidenza come alcuni studi erroneamente affermino che le differenze rispetto al passato e quindi alle più antiche forme di autorappresentazione siano di tipo “non rappresentativo”, innovazioni cioè che investono la distribuzione delle immagini e la loro modifica in metadati digitali ma che non interessano la progettazione estetica delle immagini stesse (Frosh, 2015). Più semplicemente, potrebbe sembrare che l’unica cosa differente rispetto al passato è che oggi le immagini sono meno costose, di conseguenza sono numericamente di più e viaggiano veloci sul web mentre in passato no. Ma le possibilità offerte dall’autoscatto e dalla doppia fotocamera, in realtà, hanno modificato anche un caposaldo dell’estetica fotografica: la composizione. Nel passaggio da analogico a digitale la distanza fra oggetto fotografato e fotografo era, infatti, rimasta invariata. La composizione, cioè, come disposizione degli elementi nello spazio di un’immagine e il loro orientamento rispetto alla posizione dello spettatore era uguale a prima. Scattare una fotografia, anche in digitale, nel senso tradizionale voleva dire non comparire in essa. Le fotocamere moderne, invece, hanno cambiato tutto e hanno reso ogni singolo individuo capace di creare una composizione e allo stesso tempo di comparire in essa. La camera, innervandosi nel braccio umano come sua protesi, permette al singolo individuo di essere fotografo e oggetto fotografato contemporaneamente. Ciò, secondo quanto si vuole qui sostenere, ha dato vita ad un nuovo modo di autorappresentarsi. Il selfie non è solo un tipo di fotografia ma un vero e proprio genere visuale nuovo.
Dal punto di vista estetico, il selfie è stato definito ripetitivo, banale, privo di originalità...e molti studiosi hanno affermato che la pratica dell’autoritratto non avrebbe preso questa piega noiosa e ordinaria se la fotocamera digitale non fosse pixelizzazione della fotografia, la pellicola abbia ancora successo e a molti piaccia nuovamente collezionare album cartacei da toccare e odorare.
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stata integrata al cellulare (Lüders, Prøitz, & Rasmussen , 2010), diventando appunto
networked camera, da qui il forte legame fra pratica sociale e tecnologia utilizzata. Ma
in realtà pur essendoci dei trend riconoscibili all’interno dell’estetica del selfie, ogni autoritratto fotografico è espressione del proprio autore e in quanto tale è originale. Ci sono vari tipi di selfie accuratamente classificati da ricercatori, blogger o semplici autori di autoscatti. Esiste, ad esempio, il “welfie”, il selfie di workout che mostra il soggetto intento in pratiche di allenamento fisico; il “relfie”, un selfie che mostra il soggetto/autore in compagnia di un altro individuo del quale si vuole mettere in risalto la relazione amicale; il “belfie” che altro non è che il selfie del lato b spesso realizzato con l’ausilio di uno specchio e, infine, esiste anche il “death selfie”, scattato volontariamente o per tragica casualità poco prima della morte effettiva dell’autore protagonista.
Il suffisso –ie del termine selfie ne fa un diminutivo che implica generalmente affetto e familiarità e da un punto di vista semantico lo descrive in relazione all’autore come un “poco di sé”, un “mini-me virtuale” (Tifentale, 2014). Tale definizione ne attesta l’originalità, ogni selfie, di qualsiasi tipo esso sia, in quanto espressione del suo autore e materializzazione di un gesto fatico, è unico e originale.
Fra le caratteristiche estetiche distintive del selfie si segnalano: la presenza del braccio dell’autore (ad esclusione di quelli realizzati allo specchio che costituiscono un sottoinsieme a se); l’utilizzo di cattivi angoli della telecamera con il soggetto sempre fuori centro; un’esagerata profondità dei nasi e dei menti dovuta all’obiettivo grandangolare che rende anche il braccio che regge la fotocamera spesso enorme; l’uso di pose tipiche come le “duck face” delle fashion blogger e molte altre. Il selfie, inoltre, ha spesso una cattiva qualità a causa di una differenza qualitativa fra i due obiettivi degli smartphone. I selfie da questo punto di vista, che tende in qualche modo ad avvicinarsi ad una critica di stampo artistico, sono spesso poco creativi e rappresentano un'attività amatoriale non qualificata e senza istruzione che li allontana dal genere artistico dell’autoritratto, fotografico o pittorico che sia, per ripetitività e banalità. Ma è significativo notare come tutti gli elementi appena descritti si ritrovino già in un esempio artistico del passato: l’Autoritratto entro uno
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sono presenti in questa opera: il volto dell’autore ripreso in una prospettiva bizzarra, il braccio allungato, la distorsione compositiva, l’intimità ravvicinata. È proprio in queste differenze e analogie con l’arte del passato che si deve ricercare il significato più profondo di questo nuovo genere visuale che sembra poi non essere così nuovo. La continuità con il passato aggiunge qualcosa all’ipotesi già qui in parte espressa, secondo la quale il selfie è rimediazione di pratiche già esistenti. Figura 3 L'Autoritratto entro uno specchio convesso - olio su tavola convessa (diametro 24,4 cm) -Parmigianino, 1523-24. Come già detto, nonostante la ripetitività c’è qualcosa di assolutamente originale in ogni selfie. Chi scatta vuole essere guardato e ciò crea un’intimità intensa fra gli utenti propria di quel singolo volto, di quel singolo istante e di quella singola emozione che si vuole trasmettere. Un selfie è un oggetto fotografico che innesca la trasmissione di un sentimento umano nella forma di una relazione (Baym & Senft, 2015) che per definizione è originale e unica. È un atto di comunicazione, un gesto che invita a rispondere e che diventa incarnazione della naturale tendenza umana a comunicare con l’Altro.
La pratica di scattare selfie non è, in ultima istanza, una conseguenza del banale aumento del narcisismo dovuto alla diffusione di nuove tecnologie del sé, ma semmai si può dire che nasca dall’aumento di consapevolezza della propria immagine negli
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ecosistemi digitali dovuta anche alla democratizzazione degli strumenti di social networking (Bonini, 2014), da cui muove per ricollegarsi in realtà a pratiche e bisogni antichissimi che esistevano prima della fotografia digitale e molto prima di Internet. Proprio questa sua complessità di significato deve spingere ad un’analisi, non