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Il racconto del Sé compresso nella bacheca di IG

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL

4.3 Il racconto del Sé compresso nella bacheca di IG

Instagram, come caso studio specifico, può essere considerato un mezzo per performare il Sé e scriverne il racconto in tempo reale utilizzando esclusivamente immagini fotografiche e selfie in particolare. Il profilo di un utente, quindi, può essere analizzato come il diario quotidiano di un’identità che esiste a prescindere dalla rete ma che nella rete prende la forma qui discussa di immagine fotografica, entra in contatto con il pubblico di follower, innesca emozioni nel creatore e nei fruitori e costituisce una rimediazione di Sé narrativo.

Attenzione, non si vuole qui affermare che l’identità del singolo non esiste se non viene a configurarsi in una protesi esterna digitale quale la pagina profilo di un social network. Ma è evidente, come già affermato, che la capacità di scrivere questo racconto del Sé in immagini nei social è diventata un’abilità sociale di base. Non interessa in questa sede esprimere dei giudizi di valore; esistere o meno nei social network rimane, per fortuna, una scelta libera o comunque semi-libera dell’individuo contemporaneo. Ciò che però è innegabile è che le facoltà narrative relative al racconto del Sé sono state “rimediate” in nuove e più complesse forme digitali che vale la pena indagare. L’alfabetizzazione digitale offre nuovi canali e richiede nuove competenze per ciò che l’uomo ha sempre fatto, raccontarsi all’Altro. La capacità di

networked self messa in atto dal singolo individuo definisce la fotografia social come

strumento performativo che permette uno storytelling della propria identità capace di empatizzare con lo spettatore in modo immediato e forte.

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Nel caso specifico che si vuole qui introdurre, l’Instagram self si configura come un’identità costruita contemporaneamente dalle immagini del profilo dell’utente e da tutte le altre immagini che ne condividono l’hashtag (Vigliotti, 2016). L’uso dell’hashtagging è un elemento chiave per l’analisi dell’identità raccontata dal singolo individuo su IG. Gli hashtag permettono agli utenti di organizzare eteropaticamente l’esperienza visiva. La scelta di un determinato hashtag, infatti, mostra la volontà dell’utente di connettersi ad un determinato gruppo sociale. Egli sceglie una determinata cultura e collega la propria esperienza visuale a quelle degli altri utenti trasformando la propria memoria privata in memoria pubblica e collettiva.

Gli hashtag creano un archivio digitale complesso di memoria pubblica nel quale il concetto di tempo si modifica. Foto che appartengono al passato, ad esempio, vengono condivise per entrare a far parte del racconto di oggi, magari utilizzando il celebre #TBT (ThrowbackTo). Il passato è rivisto e utilizzato per dare senso all’identità presente. Da qui il concetto di herealways già citato nel corso del presente lavoro (Vigliotti, 2016), nel quale si inserisce il progetto di tutta la fotografia social: un progetto di immortalità all’interno della rete in un tempo sempre presente.

Questa essenza di Instagram lo rende terreno fertile per una narrazione del Sé che si manifesta come co-creata. L’individuo non è l’unico autore della propria identità, così come non lo è mai stato nella realtà offline. Sul social network preso in esame è evidente come ogni immagine fotografica che incarna un pezzetto di Sé dell’autore è anche influenzata dalla cultura della rete, attraverso gli hashtag che si sceglie di inserire. La narrazione di una persona su Instagram corrisponde in tutto e per tutto a quel “tessuto di citazioni tratte dagli innumerevoli centri della cultura” di cui parlava Barthes (1977). L’identità è co-creata insieme alla rete di altri utenti proprio come offline i racconti che si offrono su di sé non possono che essere influenzati dalla presenza degli altri o, più specificatamente, dai loro ricordi sul soggetto narrante. Per analizzare la fotografia social di oggi è necessario un approccio multidisciplinare al quale la possibilità di lavorare con big data offerta da applicazioni come Instagram aggiunge valore e forza. Nel caso specifico dell’analisi della costruzione identitaria attraverso materiali visuali digitali, IG offre numerosi spunti di ricerca per lavorare in senso qualitativo e quantitativo sulla produzione di selfie.

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Conclusioni

Nel corso di questo lavoro si è ipotizzata l’esistenza di un rapporto profondo che lega l’individuo contemporaneo all’uso delle immagini fotografiche istantanee e social, facendo dialogare fra loro campi di ricerca che spesso non dialogano. Si è partiti dal presupposto che oggi “la vita è più fotografica” (Rubenstein, 2008) e si è tentato di andare oltre l’uso narcisistico del selfie e della fotografia social in generale per teorizzare come tali generi visuali, supporti e dispositivi abbiano modificato il medium fotografico per renderlo maggiormente aderente alla comunicazione dell’identità dell’individuo contemporaneo. La fotografia è ovunque come estensione delle facoltà fisiche e percettive dell’uomo, come memoria, affetto, identità. La fotocamera, integrata nello smartphone, è diventata networked camera, protesi non biologica del corpo umano che innervandosi in esso ne ha inevitabilmente modificato il sensorio.

L’ingrandimento cui il selfie sottopone il volto umano, aumenta il potenziale emotivo della fotografia e favorisce una comunicazione intima e allo stesso tempo fatica e liquida dell’individuo con l’Altro lontano. La decodifica del messaggio visuale, il senso della fotografia, si costruisce di infinite interpretazioni da parte del fruitore che fanno leva su un tipo di fruizione immediata, spesso inconscia ed emozionale più che razionale.

In un selfie le emozioni vengono materializzate, concentrate in pixel e allo stesso tempo allontanate dal Sé. Si dona all’Altro un pezzo della propria identità ma nello stesso momento in cui lo si crea il selfie diventa vecchio, dura il tempo di un istante e contemporaneamente dura per sempre, in quella dimensione herealways propria della rete. La fotografia è sempre rappresentazione di qualcosa che non c’è più, di quel momento passato cristallizzato nell’immagine. Nel selfie ad essere congelata è l’emozione di un istante che rimane online in una costante tensione fra memoria ed oblio. Ciò che si costruisce, attraverso la fotografia social e il selfie in particolare, è un

self storytelling fluido e in costante mutamento.

La rapidità di esecuzione di un’immagine fotografica la rende una rappresentazione visuale più aderente alle intenzioni dirette del soggetto. Non c’è spazio di azione fra

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intenzionalità e condivisione del prodotto finito. Il gap temporale è talmente breve che cogliere cognitivamente il tipo di operazione mentale che l’uomo realizza nella creazione di uno scatto fotografico istantaneo risulta molto complesso. Ciò che però è evidente è come attraverso la fruizione dello scatto si possa empatizzare con il soggetto rappresentato, osservare il mondo con i suoi occhi, attivare una relazione di intersoggettività nonostante l’assenza fisica dell’Altro. L’ingrandimento del volto nel

selfie favorisce e mette ancor più in risalto quella che è una caratteristica propria del

mezzo fotografico da sempre, la sua carica emozionale, permettendo di utilizzarlo come diretta rimediazione del racconto del Sé.

L’enorme potenziale comunicativo di questo nuovo genere visuale è testimoniato dall’utilizzo contemporaneo del selfie in moltissime campagne di promozione sociale. Dalle raccolte fondi per la ricerca sui tumori, alle dimostrazioni contro la violenza sulle donne, il selfie è sfruttato in quanto supporto capace di raccogliere in sé tutto il potenziale empatico di uno sguardo e di guardare a sua volta. Ciò che si innesca fra il soggetto dell’immagine e il suo osservatore è uno dialogo fatto di sguardi. Il selfie è un gesto che può essere caricato di infiniti significati che riguardano l’identità del suo creatore e protagonista. All’interno di un profilo IG il selfie può essere una singola pagina del racconto quotidiano del Sé, ma preso da solo e utilizzato in altri contesti può diventare un’intera storia. Un selfie può essere protesta, adesione, paura, gioia, bisogno, dolore...Si potrebbe dire che in ogni sua declinazione, in misura più o meno grande, ogni selfie è arte, nel momento in cui si considera arte ciò che aiuta ad esprimere l’Io e a capire l’Altro. Numerose sono, a sostegno di questa affermazione, le mostre fotografiche che hanno deciso di dare spazio al selfie come nuovo genere visuale “artistico” superando le banali considerazioni della prima ora che descrivevano il selfie come banale, anti-estetico e ripetitivo.

Bisognerebbe a questo punto interrogarsi su come il potenziale emotivo del selfie influenzi la vita sociale offline. E domandarsi, quindi, se questa rimediazione del racconto del Sé influenzi anche le vecchie modalità di comunicazione faccia a faccia così come ha trasformato il medium fotografia ridefinendone gli obiettivi e le aspettative. La risposta più immediata è un sì. Sicuramente le capacità empatiche del

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singolo individuo sono influenzate dalle possibilità protesiche dei nuovi dispositivi digitali e dei nuovi supporti come il selfie. Ma la questione è molto più complessa. Il software, afferma Manovich in uno dei suoi ultimi lavori (2013) ha plasmato ogni attore, strumento e oggetto della cultura. I media, lo aveva d’altronde già ampiamente spiegato McLuhan (1964), modellano la percezione umana del mondo. Il software, dunque, ha imposto nella sfera della comunicazione una rivoluzione profonda che ha investito anche la scrittura del racconto del Sé. L’immaginazione visiva tutta è influenzata dall’uso ormai naturale di protesi visive digitali. È come se ogni istante, ogni emozione, ogni gesto fosse già nel momento in cui si compie oggetto di una fotografia. O meglio, la fotografia è diventata il canale attraverso cui esperire la realtà. Essa è ovunque e sempre, non più strumento di memorizzazione ma di vita. L’avvento dello stile istantaneo prima e della fotografia social poi ha definito lo spostamento della fotografia da strumento di conservazione di un ricordo alla creazione di foto come esperienza immediata della vita di tutti i giorni (D'Aloia & Parisi, 2016). Ogni momento è costantemente osservato dal di fuori come fosse già il soggetto di uno scatto1.

Ogni fotografia social continua contemporaneamente a soddisfare vecchi bisogni di archiviazione di memorie passate, ma il potenziale rappresentativo della fotografia si carica di nuovi significati nell’utilizzo in prima persona che ogni singolo individuo oggi potenzialmente attua. La specificità esperienziale dell’atto fotografico diventa più importante della foto in sé. L’istantanea condivisione di immagini fotografiche diventa il canale preferenziale delle interazioni sociali. La fotografia non incarna più il

1 Si pensi a cosa effettivamente accede con le stories di IG. Esse sono una materializzazione

ancora più immediata e trasparente della realtà in corso. L’istantanea e la sua filosofia trovano ulteriore spazio di sviluppo in questo nuovo tools del social network preso in esame. Inoltre, Instagram ha da poco inserito una novità, la InstragamTV che permette di conservare le stories o di creare video più lunghi. La differenza fra immagine statica e immagine in movimento si riduce oggi ad una possibilità di scelta. Un tempo girare video era un’attività poco adatta agli amatori inesperti, dati i costi e le difficoltà del montaggio, oggi, al pari della fotografia, anche girare e condividere video è possibile con un semplice smartphone.

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bisogno di tracciare l’istante per congelarlo nella memoria di uno scatto. Essa, invece, risponde al bisogno di sentire, esperire in tempo reale condividendo e guardando foto, soggetto delle quali sono le emozioni stesse dei loro creatori.

Ogni immagine fotografica social ha come oggetto un’emozione che è allo stesso tempo immediata, trasparente e ipermediata, per usare la terminologia di Bolter e Grusin (1999). Un’immagine a metà fra fiction e documentario, che si presta ad essere utilizzata dall’autore come strumento di narrazione del Sé e dal fruitore come canale empatizzante dell’Altro nella rimediazione digitale dell’intersoggettività.

La fotografia favorisce la creazione di una relazione estetica con il mondo, un’esperienza performativa che nel caso specifico del selfie diventa relazione empatica con il Sé e con l’Altro. Ogni relazione sociale è legata oggi a processi visivi. La cultura digitale ha reso le tecnologie visive onnipresenti e la fotografia un’esperienza continua, aumentando la necessità per il singolo individuo di manifestare la propria autopresentazione in immagini fotografiche, sia nella forma di autoritratti/selfie sia sotto forma di altri contenuti estetici. Si ridefinisce il rapporto fra realtà, rappresentazione e arte: il collegamento fra arte e vita è sempre più diretto e l’estetizzazione di ogni esperienza si concretizza in uno scatto fotografico continuo. Il medium fotografia è quello che ha saputo meglio ritagliarsi un ruolo di primo piano nel sistema della convergenza mediale contemporanea, proprio per la sua intrinseca capacità di essere allo stesso tempo rappresentazione indicale e atto creativo.

In conclusione, l’osservazione di un volto nella dimensione bidimensionale di una fotografia è cognitivamente pressoché uguale all’osservazione dello stesso volto dal vivo. Dal punto di vista della fruizione non ci sono grandi differenze. Dal punto di vista della creazione, invece, la possibilità di controllo dell’autore/soggetto dell’immagine è maggiore ma anche istantanea e quindi percepita come più aderente alla realtà. La fotografia si offre come soluzione al bisogno di comunicare il Sé in modo trasparente e allo stesso tempo ipermediato e controllato. La fotografia è indubbiamente diventata, anche grazie all’istantanea, al selfie e ai social network, un canale per rappresentare e comunicare il processo di costruzione dell’identità. Inoltre, dotando l’uomo della capacità di estendere protesicamente lo sguardo e di

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empatizzare con l’Altro lontano, inferisce sulla stessa costruzione identitaria che non può più prescindere dalla messa in immagine del Sé.

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