• Non ci sono risultati.

Storie, immagini e identità: il racconto come unica via di accesso al Sé

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL

2.2 Storie, immagini e identità: il racconto come unica via di accesso al Sé

La costruzione identitaria, dunque, altro non è che un racconto, prodotto dell’arte narrativa che sembra essere innata nell’essere umano. Nel tentativo di catturare il Sé altro non si può fare che descriverlo, raccontarlo appunto, attraverso una storia.

«Il Sé è probabilmente la più notevole opera d'arte che noi mai produciamo, sicuramente la più complessa. Giacché noi non creiamo un solo tipo di racconto produttore del Sé, ma parecchi. » (Bruner, 2002, p. 16)

Questo legame fra il Sé e il racconto è evidente se si considera che l’uomo vive costantemente immerso nelle storie. Anzi, per dirla con le parole di Gottschall «gli esseri umani sono creature di un reame immaginario chiamato Isola che non c’è» e

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 39

questo “istinto di narrare” porta ogni individuo a imporre una struttura narrativa anche al caos delle sue esperienze e della sua identità (Gottschall, 2012, p. 190). Sembra cioè che ogni individuo non possa fare a meno di raccontare storie a se stesso e agli altri su se stesso e sugli altri.

Il modo in cui le storie colpiscono l’uomo e si insinuano nella sua mente tanto da farlo ridere, piangere, intristire, emozionare è già stato ben chiarito dall’intuizione oggi verificata da diversi studi, secondo la quale quei neuroni specchio che si attivano alla vista di qualcun’altro che compie un’azione si attivano anche se questa azione è rappresentata in immagini o raccontata a parole e anche nel caso in cui questa azione sia una finzione narrativa. Un film fa commuovere nella misura in cui lo spettatore riesce ad empatizzare con il protagonista attraverso l’attivazione del meccanismo

mirror, come potrebbe fare dal vivo parlando con un amico. I film sembrano tanto

reali, dunque, perché nel cervello umano i neuroni specchio ricreano il dolore (o il piacere, la felicità...) che si vede sullo schermo (Iacoboni, 2008). Adesso a questa realtà cognitiva si aggiunge la consapevolezza che le storie più belle l’uomo le racconta a se stesso, su se stesso.

L’unica via di accesso al Sé, infatti, è la narrazione. Dalla notte dei tempi, e da quando poi ha iniziato a parlare l’uomo ha cominciato a raccontare storie e a raccontarsi. Bruner (2002) si domanda, non a torto, se il senso dell’identità del Sé che l’uomo possiede sia esso origine della narrativa o se, al contrario, sia l’umano talento narrativo che porta ad assegnare all’identità la forma di un racconto. Ma ciò che appare evidente, per l’uomo contemporaneo ma anche per l’uomo preistorico, è la dipendenza dell’essere umano dalle storie. Le storie permettono alla mente umana di fare ordine nel caos dell’esistenza, e questo è testimoniato dalla totale immersione nelle storie che contraddistingue l’homo sapiens. Da qui la nascita di un nuovo filone di studi, la già citata Biopoetica, che mira a dimostrare scientificamente con il supporto delle scienze cognitive ciò che i letterati hanno sempre saputo: l’uomo ha bisogno della letteratura e della narrazione in generale.

Sono storie non solo la finzione letteraria ma anche il cinema, la fotografia, la pubblicità, un programma tv, un reality show o un video game: infinite sono le forme di narrazione mediante le quali è possibile raccontare una storia, riconosciuta come

40

tale in quanto sequenza ordinata di azioni. E infinite sono anche le forme in cui ogni individuo tesse quotidianamente il racconto del Sé.

Questa dipendenza dallo storytelling è evidente nel momento in cui, volendo fare un piccolo esperimento, si tenta di descriversi ad una persona appena conosciuta. Ciò che si dirà è esattamente un racconto influenzato, ovviamente, da una serie di elementi culturali, da ciò che si crede l’altra persona si possa aspettare, da intuizioni momentanee e da emozioni istintive. Non c’è altra via che il racconto per parlare del Sé. Questo narrative turn si completa guardando al parallelismo descritto da Bruner (2002) fra caratteristiche del Sé e gli elementi tipici di un racconto (Tabella 1). Tabella 1 Alcune delle corrispondenze fra il Sé e le caratteristiche di un racconto in Bruner 2002, p. 80. Il Sé è teleologico, pieno di desideri, intenzioni, aspirazioni, scopi… Un racconto vuole trama Il Sé è sensibile agli ostacoli Alle trame servono ostacoli al conseguimento di un fine Il Sé ricorre alla memoria selettiva per adattare il passato alle esigenze del presente Esponi soltanto il passato che ha rilevanza per il racconto Il Sé è orientato su “gruppi di riferimento” che forniscono criteri culturali mediante i quali giudica se stesso Fornisci i tuoi personaggi di alleati e relazioni Il Sé è capriccioso, emotivo, labile, sensibile alle situazioni Fa’ che i tuoi personaggi abbiano cambiamenti di umore… Il Sé descritto dagli psicologi, d’altronde, non è altro che un tipico protagonista di una tipica storia e gli psicoterapeuti in questo senso sembrano essere degli script doctor che aiutano i pazienti a “riscrivere” le loro storie (Gottschall, 2012). Questa necessità di esprimere l’identità e quindi il Sé sotto forma di racconto è ancora più evidente se si guarda alle patologie, come ad esempio l’Alzheimer o la patologia Korsakov, che ledendo le capacità di memoria e l’affettività, pregiudicano la capacità di narrare e di conseguenza causano la perdita dell’identità.

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 41

Per narrare, infatti, l’uomo ha bisogno di alcuni elementi specifici: un’autoreferenzialità minima, e quindi la capacità di riconoscere quel Sé minimale diverso dall’altro (Gallagher, 2000); la capacità di ordinare temporalmente; la capacità di metacognizione, di cui si discuterà a breve; e, infine, la memoria episodica. In assenza di questi elementi viene meno la capacità di tessere un racconto e, di conseguenza, la capacità per il singolo individuo di riconoscersi nel racconto che offre agli altri di Sé stesso. Ciò che viene meno è la coerenza di queste narrazioni le quali, ad esempio nel caso dei malati di Alzheimer, non spariscono, in base a quella datità

embodied del Sé descritta nel paragrafo precedente, ma si confondo nella mente del

soggetto che prova a fornire un racconto di Sé ma si descrive senza trovare ordine. La narratività, dunque, è la forma che l’homo sapiens è capace di dare alle sue esperienze. Da qui è facile comprendere come l’amore per le storie sia da sempre parte integrante della vita umana. Narrare fa parte della quotidianità e narrativo sembra lo stesso pensiero umano. La condizione di default del cervello è, infatti, quella di sognare ad occhi aperti e i sogni altro non sono che narrazioni. Questa capacità di allontanarsi dalla contingenza ed elaborare informazioni non legate ad essa è proprio quella metacognizione cui si è accennato sopra. Molti vedono in questo fenomeno di decoupling (Tooby & Cosmides, 2001) una forma di esonero dalla realtà e di allontanamento da essa al fine di controllare e ridurre l’ansia, tipica caratteristica dell’uomo1.

I Cognitive Literary Studies si interessano proprio dello studio dei comportamenti che consentono alla mente umana di entrare nei mondi narrati. Pilastro di questa interpretazione cognitiva della narrazione è la teoria della mente o mind reading, già citata sopra, cioè la capacità tutta umana di comprendere le intenzioni degli altri, ciò che all’inizio del presente capitolo è stato definito intersoggettività. 1 Cometa nel suo libro Perché le storie ci aiutano a vivere arriva a descrivere la narrazione e la letteratura in particolare come una terapia per l’ansia perenne che assilla l’uomo in quanto essere finito e soggetto allo scorrere del tempo. La narrativa placa quella consapevolezza di essere destinati alla morte e “distrae” l’uomo dalla realtà per offrirgli una via di fuga, esonero e compensazione allo stesso tempo (Cometa, 2017).

42

«L’attribuzione di stati mentali è modo predefinito in cui costruiamo e attraversiamo il nostro ambiente sociale». (Zunshine, 2006, p. 6)

Così come è portato ad interpretare i volti che si trova davanti, l’uomo è portato ad attribuire stati mentali ai personaggi di una narrazione, entrando in intimità con essi e finendo per esserne coinvolto come se fossero amici del mondo reale. Il piacere della lettura, ma si potrebbe dire anche il piacere di fruire un film (o, come si vedrà più avanti, osservare le immagini sui social), è dato in questa prospettiva dalla consapevolezza della salute del proprio mind reading, dall’esercizio della capacità di comprendere gli altri, da mettere poi in atto nella realtà quotidiana faccia a faccia. Ciò che le storie rendono possibile è l’esperienza vicaria delle vite degli altri. La fruizione di storie finzionali è una forma priva di rischi di teoria della mente. Gottschall definisce le storie un “parco giochi della mente” (2012) che permette all’uomo di allenarsi per la vita vera. Ma quello che è significativo richiamare qui, e che si vedrà meglio nelle pagine successive, è che oggi nella rimediazione digitale del Sé narrativo, questa distanza fra narrazione finzionale e mondo reale risulta ancora più sottile. Il singolo individuo costruisce il racconto del Sé allo stesso identico modo attraverso il quale un autore costruisce un personaggio immaginario o un attore dipinge il proprio profilo pubblico. Gli strumenti, ma si potrebbe dire meglio i supporti digitali che il singolo individuo ha a disposizione sono gli stessi che un tempo erano appannaggio di artisti o professionisti del settore. Il vecchio diario nel cassetto è diventato un blog pubblico, commentabile e condivisibile; il video di famiglia viene pubblicato su YouTube e la qualità della messa in immagine del racconto quotidiano ha raggiunto livelli molto alti. Ciò vuol dire che le nuove tecnologie innervandosi nell’uomo contemporaneo ne hanno, come più volte accennato, ampliato le capacita sensorie e rimediato la costruzione identitaria.

Nel momento in cui l’uomo va oltre il cercare di mettere se stesso nei panni dell’Altro e cerca, invece, di immaginare cosa prova l’Altro in quanto differente da lui, ecco che si può parlare di empatia vera e propria. Attraverso l’empatia l’uomo si rappresenta l’esperienza dell’altro «ripetendo quell’esperienza» (Coplan, 2011, p. 18) ma senza dimenticare la differenza fra Sé e l’Altro. Quanto descritto avviene nell’intersoggettività faccia a faccia come nella fruizione di finzioni narrative: nella

SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL 43

simulazione immaginale della letteratura e dell’arte in generale l’individuo attiva le stesse zone del cervello che attiva quando esperisce la realtà fattuale quotidiana, il che implicitamente riduce la soglia tra mondo reale e mondo finzionale (Gallese, 2011).

Questo esercizio dell’intersoggettività che le storie offrono all’uomo crea, secondo alcuni studi (Gottschall, 2012), una memoria implicita che l’individuo richiamerà in causa nel momento in cui si troverà ad affrontare situazioni simili nella vita reale. Ciò è avvalorato da alcuni studi in abito psicologico che hanno indagato il grado di competenze sociali in soggetti che fruiscono notevoli quantità di fiction e soggetti che invece sono più forti di non-fiction (Mar & Oatley, 2008). I primi, infatti, sono risultati maggiormente competi nelle interazioni sociali rispetto ai secondi.

Ciò che fin dall’origine differenziò gli esseri umani dagli altri animali è stata proprio la capacità di intersoggettività (Tomasello, 1999), la possibilità di interpretare e comprendere gli stati mentali altrui e di agire di conseguenza. La narrativa sembra essere il prodotto tangibile di tale capacità o, forse, proprio le facoltà narrative innate dell’homo sapiens sono causa dello sviluppo di tale intersoggettività. Per questo motivo non è insensato affermare che la narrativa non cesserà mai di essere parte della vita dell’uomo. A modificarsi saranno sempre e solo i dispositivi, i supporti o più in generale i media utilizzati per raccontare e fruire storie. Questo bisogno di narrare che è stato qui ampiamente descritto, va ovviamente oltre la letteratura. Una storia può essere raccontata a parole ma anche per immagini, che siano queste quelle di un film, di un fumetto, di un giornale o le foto condivise sui social...Si è già discusso dell’iconic turn che ha colpito la società contemporanea, adesso si può aggiungere che queste immagini non sono semplici rappresentazioni di qualcosa ma possono diventare storie, narrazioni a tutti gli effetti che riguardano la vita, le esperienze, le emozioni e l’identità dell’uomo che le crea.

Appurato che l’unica via di accesso al Sé è la narrazione, tale Sé narrativo risulta essere la somma totale di tutte le narrazioni che ne vengono date. Ma è interessante notare che tali narrazioni non sono solo fornite in prima persona dal soggetto che si descrive ma includono anche tutte le storie prodotte da Altri che sono entrati a contatto con quel soggetto.

44

«Un Sé è costituito di un passato e di un futuro nelle varie storie che noi raccontiamo e che gli altri raccontano di noi». (Gallagher, 2000, p. 15)

Basta pensare ai racconti di quando si è bambini che vengono narrati dai genitori o dai parenti e poi riproposti dal soggetto stesso ai propri figli appellandosi non alla propria memoria bensì alla memoria degli altri. Ne risulta, ancora una volta, un Sé multiplo e decentrato che si presenta come un flusso continuo di storie che vanno sommandosi e sovrapponendosi in continuazione. Il racconto del Sé, infatti, non è un racconto retrospettivo ma è una narrazione che si va agendo giorno dopo giorno e che si spalma su una serie di media che si basano sulle facoltà narrative e trasformano questo racconto del Sé materializzandolo su supporti differenti che ampliano le capacita di memoria e comunicazione dell’uomo, fra cui la fotografia indagata nel presente lavoro.

Questi racconti che l’individuo fornisce su se stesso sono tutt’altro che neutri. Come si è già accennato, ogni narrazione del Sé è influenzata culturalmente e dipende da ciò che si crede gli altri si aspettino di ascoltare. Ma è influenzata anche e soprattutto dai media che l’individuo ha a disposizione. Ecco perché la rimediazione di pratiche che sono sempre appartenute all’uomo, come appunto quella di narrare se stesso, si concretizzano oggi in pratiche sociali del tutto nuove come la serializzazione della propria autobiografia sui social network. L’innervazione dei media nel corpo umano modifica sia il modo di percepire il Sé sia il modo di comunicarlo.

2.3 Introduzione all’autoritratto: il Sé esteso e la sua