SELFIE E SELFING: LA COSTRUZIONE IDENTITARIA NELL’ERA DELLA FOTOGRAFIA SOCIAL
2.4 La rimediazione del racconto del Sé nel mondo delle reti digitali Dalla descrizione del Sé fornita nei paragrafi precedenti, si ricava un’identità fluida e
astratta che si riferisce all’uomo di ogni tempo e luogo. Ma è nella società contemporanea di simmeliana socievolezza che questa definizione risulta ancora più appropriata. Il processo di autopresentazione è un ciclo in continua evoluzione che oggi gode dell’appoggio e del sostegno di dispositivi e canali multimediali che ben si prestano ad un racconto del Sé ogni giorno diverso. Partendo da quanto sopra esposto in relazione al concetto di Mente e di Sé Esteso, le cose che circondano l’uomo
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forniscono possibilità di ampiamento delle sue capacità sensorie e dei suoi bisogni di base. Lo storytelling del Sé raggiunge quindi, grazie alle tecnologie digitali, nuove prospettive di rappresentazione e si rimedia materializzandosi in nuovi dispositivi e oggetti di uso quotidiano come possono essere considerati gli smartphone e, in particolare, i singoli social network.
Goffman (1959) già molto tempo fa parlò di autopresentazione in questi termini definendola un “gioco di informazione” dove si alternano scoperte, occultamenti, false rivelazioni e riscoperte. Dopo di lui molti altri sociologi hanno definito il Sé alternativamente come liquido (Bauman, 2000), riflessivo (Giddens, 1990) o come processo in continuo movimento (Jenkins, 2004). Ciò che si verifica oggi è che questa rimediazione del racconto del Sé si affida alle nuove tecnologie di condivisione e, in particolare, si snoda sui social network che forniscono nuovi canali di incontro fra persone e nuovi strumenti di autopresentazione. La costruzione identitaria avviene in concomitanza, si è visto sopra, al nascere delle relazioni sociali. Oggi queste relazioni, sempre più effimere e liquide, si costruiscono in rete, e in rete si costruisce e comunica l’identità del singolo individuo.
In generale, ogni individuo utilizza, orientativamente, dai due ai cinque differenti canali di condivisione online e si “incontra” sul web con persone molto differenti fra loro, legate o meno alla sua vita offline. L’architettura delle reti, infatti, permette di creare nuovi legami con persone non conosciute prima, rinsaldare legami con amici lontani o mantenere vive le relazioni di parentela. L’utilizzo specifico che i singoli individui fanno della rete è poi assolutamente soggettivo, ciò che interessa in questa sede è elencare quelle che sono le principali possibilità di protesizzazione delle facoltà e dei bisogni innati dell’uomo. In particolare per quanto riguarda lo
storytelling del Sé.
Tante sono le piattaforme social e molteplici sono gli strumenti multimediali a disposizione dell’utente per presentarsi all’Altro. Ciò permette di creare sempre più fantasiose performance di identità online (Papacharissi, 2012) e di differenziarle a seconda del gruppo di riferimento, del social prescelto o dello strumento multimediale utilizzato (testo, foto, video, link...). Ne risulta un insieme di mini performance eterogeneo che il fruitore è portato a decodificare di volta in volta in
50 modo diverso. L’identità è frammentata non solo attraverso diversi tipi di strumenti ma anche su diversi tipi di piattaforme che, però, risultano, seguendo la legge della convergenza transmediale, sempre collegate fra loro da una serie infinita di rimandi e possibilità di ri-condivisione offerta da social a social. Lo spazio che ne risulta è un continuum convergente di socialità omogeneo ma allo stesso tempo frammentato. I social network assottigliano la distanza fra spazio pubblico e spazio privato e, cosa ancora più significativa, fra spazi offline e spazi online. L’individuo è naturalmente portato a vivere in queste due dimensioni costantemente connesse fra di loro, e a calibrare le sue performance di autopresentazione per diversi pubblici e situazioni offline tanto quanto per diversi pubblici e situazioni online. Non si intende qui indagare la creazione di avatar finzionali che rappresentano una fantasia dell’individuo che li crea per allontanarsi dalla realtà, giocare o svagarsi. Ciò che interessa qui analizzare è come ciò che avviene offline, l’incontro con l’Altro, il racconto del Sé e l’innescarsi di reazioni di intersoggettività, avviene oggi online in ugual modo attraverso la rimediazione di pratiche sempre appartenute all’uomo. In riferimento alla mescolanza di spazi pubblici e privati, gli studiosi hanno parlato di “raddoppiamento del luogo” (Scannell, 1996) fenomeno che oggi risulta ancora più evidente: ogni evento si verifica contemporaneamente in due luoghi differenti, il luogo fisico dell’evento e quello virtuale in cui esso è guardato, commentato e condiviso. E ciò è valido sia per eventi pubblici di grandi dimensioni sia per il compleanno di un qualsiasi utente di Facebook che scelga di condividerlo con una diretta o con una semplice foto. I media connettono questi due luoghi che inevitabilmente finiscono per influenzarsi a vicenda e per influenzare quella performance del Sé che risulta costante e continua e che descrive individui dall’identità multipla, performata per spettatori multipli, su piattaforme multiple. Molti studi sociali si sono concentrati finora sulle tecnologie di comunicazione digitale per cercare di capire se esse rendano le persone più o meno sociali. Ma ciò che è evidente, al di là delle speculazioni psicologiche, è che i social network permettono nuove situazioni sociali e facendo ciò offrono nuove possibilità di socialità che possono essere più o meno accolte dal singolo individuo ma non
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permettono più nella realtà quotidiana una posizione neutra. L’uso dei social network è, infatti, diventata un’abilità sociale di base.
Molti studi svolti in particolare sul social network più famoso, Facebook, hanno messo in evidenza come le persone siano portate ad usare tale piattaforma per scoprire informazioni e comunicare meglio con persone conosciute offline (Lampe, Ellison, & Steinfield, 2006). Ma la grande risorsa dei social network è la loro capacità di connettere online anche persone che non si sono mai viste dal vivo ma che condividono determinati interessi e passioni. I social danno cioè la possibilità di creare in rete subculture influenti quanto quelle offline del passato. Basti pensare alle community che si creano intorno alle serie televisive, meglio note come gruppi
fandom, che finiscono per influire sulle scelte editoriali dei gruppi televisivi e per
avere un peso sociale rilevante. Tutto ciò per avvalorare ancora di più l’importanza oggi di interessarsi a ciò che avviene in rete, e al come anche l’identità del singolo individuo non possa più prescindere dalla sua inevitabile presentazione online che si offre come protesi mediale di quel racconto del Sé che sta alla base delle relazioni sociali e non solo.
La studiosa di media Zizi Papacharissi (2012) ha definito l’identità dell’individuo contemporaneo un “networked sense of self” mettendo in evidenza la possibilità, ma si potrebbe dire anche quasi la necessità, per l’utente dei social network di performare ogni giorno in modo diverso su media differenti ma convergenti a seconda delle capacità dell’utente stesso. È la convergenza che definisce oggi la necessità di avvalorare nuove metodologie di studio dei fenomeni online che devono necessariamente tenere conto di questo continuo scambio da una piattaforma all’altra. Si faccia attenzione che non interessa in questa sede giudicare tale pratiche o definire il modo migliore o peggiore in cui il singolo può rappresentarsi online. Ma semplicemente indagare come quel racconto del Sé, che è l’unica via di accesso ad esso e all’Altro, sia oggi migrata verso nuovi canali e dispositivi mediali, come la fotografia social, seguendo il processo che è stato già definito di rimediazione.
Sono molti gli studi che hanno tentato e tentano tutt’ora di indagare questa performance identitaria sui social. Uno studio, in particolare, condotto su Facebook ha tentato di analizzare l’utilizzo delle immagini della galleria del profilo come
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strumento di autopresentazione del Sé (Papacharissi, 2012). Ciò che ne è emerso è una bacheca confusa di informazioni liquide e in continua evoluzione dove ai post personali si uniscono i tag degli amici. Proprio come è stato già illustrato sopra, il racconto che si offre della propria identità è allo stesso tempo narrato in prima persona e co-narrato dagli altri. Ciò si avvicina a quello che avviene da sempre offline ma rende più complicato riuscire a creare una metodologia d’analisi appropriata che tenga conto di questa mescolanza di fonti nella rappresentazione del Sé. Si tratta di una rappresentazione frammentata ma nella quale si percepisce chiaramente la prevalenza di un linguaggio visivo, immediato e trasparente che fa della fotografia il medium più adeguato al mondo della rete. I tipi di immagini fotografiche che scorrono sui social sono tantissimi, come si vedrà meglio nei prossimi capitoli, e per focalizzarsi sulla rappresentazione del Sé è forse opportuno scegliere un genere specifico. Per questo motivo, e per altri che verranno discussi in seguito, si è scelto in questo lavoro di soffermarsi sul genere visuale del
selfie come rimediazione contemporanea dell’autoritratto del passato e, di
conseguenza, rimediazione del racconto del Sé.
Una successiva proposta di specificazione è offerta, infine, dalla preliminare analisi di un social network specifico, Instagram, che fa delle fotografie il suo elemento principale. Instagram permette di osservare nella bacheca di ogni utente solo le foto autoprodotte semplificando l’analisi estetica e quantitativa, offrendo infinite quantità di dati facilmente reperibili ed estraibili e mostrandosi come terreno fertile per le ricerche che vogliano continuare a mettere in relazione analisi qualitative e quantitative.
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CAPITOLO TERZO - Selfie e selfing
3.1 La networked camera
L’individuo contemporaneo si trova oggi a stretto contatto con la presenza costante di un nuovo medium ibrido, la cosiddetta networked camera che si presenta allo stesso tempo come un dispositivo di image-making, image-sharing e image-viewing (Tifentale, 2015). Nello spazio limitato di una mano, l’uomo è in grado di adoperare uno strumento ibrido che include in se stesso differenti funzioni. Lo smartphone, infatti, è allo stesso tempo un cellulare, un modem Internet, una piattaforma di condivisione e una fotocamera che ha dato vita, per questa sua natura convergente, a nuovi generi visuali e nuovi abitudini di fruizione e creazione di immagini. Come già visto in precedenza, le cose che circondano l’uomo e con cui esso entra in contatto ripetutamente, modificano il sensorio umano e danno vita, per usare le parole di Benjamin (1936), a processi di “innervazione” che rendono l’individuo un tutt’uno con lo strumento/dispositivo che utilizza. Il cellulare o networked camera, in particolare, agisce oggi fisicamente come protesi del braccio umano e, allo stesso tempo, come dispositivo protesico delle facoltà narrative che riguardo la costruzione del Sé. A modificarsi attraverso i media che si hanno a disposizione, nel caso preso in esame dell’autoritratto, sono proprio i modi di agire del singolo individuo e le vie attraverso le quali si intraprendono rapporti di intersoggettività con l’Altro e con le cose stesse. Studiare le nuove tecnologie e il loro rapporto con l’uomo crea non poche difficoltà. Prima fra tutte la velocità con la quale i nuovi media si evolvono e rimediano creando sempre nuove prospettive di indagine. Ogni giorno i moderni dispositivi tecnologici subiscono una rapida obsolescenza e vengono aggiornati e modificati in modo da adeguarsi al progresso tecnologico. Ogni applicazione, social network, strumento di ricerca ecc. viene ad acquisire quotidianamente nuove funzioni, tools e upgrade che rendono arduo il compito di chi vuole analizzarne gli usi e le abilità ad essi connesse. La scelta stessa di focalizzarsi nel presente lavoro sulla fotografia nei social media porta per prima cosa a domandarsi cosa sia la fotografia nel suo insieme e cosa possono mai avere in comune le fotografie al cloruro d’argento di William Henry Fox54
Talbot del 1830 con le foto istantanee scattate oggi con una networked camera. La storia dei media e dei dispositivi porta in modo naturale a collegare fra loro pratiche che a ben vedere risultano molto distanti ma soddisfano in modo coerente i bisogni naturali dell’uomo che, in quanto natural born cyborg (Clark, 2003), sfrutta le cose a sua disposizione come protesi materiali per andare al di là delle sue capacità fisiche e strutturali di base.
L’utilizzo di supporti esterni al cervello e al corpo umano, infatti, caratterizza da sempre l’homo sapiens. Per adeguarsi ad un ambiente sempre più complesso e compensare, allo stesso tempo, i propri deficit fisici e mnemonici, l’homo sapiens ha iniziato ad utilizzare protesi culturali sempre più complesse. Dalle pitture rupestri ai primi sistemi notazionali, dalla fotografia analogica ai contemporanei iPhone il salto è lunghissimo ma il processo è sempre lo stesso: essi sono allo stesso tempo causa ed effetto dell’incremento delle facoltà cognitive dell’uomo, ampliano il raggio d’azione e modificano il sensorio.
Per indagare un supporto moderno come la fotografia condivisa sui social non bisogna quindi solo chiedersi cos’è ma anche che ruolo essa possa avere all’interno della storia dei media e dei dispositivi di visione che hanno influenzato la percezione umana nel corso dei secoli. Bisogna domandarsi che nuovo tipo di rapporto la
networked camera ha innescato, se lo ha fatto, fra l’uomo e le immagini. La fotografia,
in generale, è sempre stata legata al suo tempo e si presenta in quanto tale come un medium in continua evoluzione. Essa è legata allo sviluppo della tecnologia ma anche alla promozione di nuovi mezzi di visione, agli usi sociali di tali mezzi e al linguaggio visuale corrente, fatto di convenzioni proprie di un determinato periodo. Si considera in questo lavoro, quindi, la fotografia come un medium influenzato dal progresso tecnologico in continuo mutamento dei dispositivi e dei supporti che rendono il medium fotografia ciò che è oggi. I media, infatti, non scompaiono ma si evolvono, seguendo proprio il percorso di rimediazione di cui già si è discusso. A sopperire davanti al progresso tecnologico, invece, sono le tecnologie che diventano obsolete, spesso definite delivery (si pensi alle cassette musicali o ai vecchi floppy disk), rimpiazzate da moderni strumenti. Ciò che però bisogna evidenziare è che la filosofia
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del mezzo fotografico è rimasta invariata: la fotografia è indice di qualcosa, negoziazione fra il sé e il mondo. In questa prospettiva la networked camera non è un nuovo medium ma un dispositivo convergente che include in sé diversi media e, inevitabilmente, modifica il rapporto stesso fra essi e l’individuo. Questo rapporto, che consta di un contatto corporeo oltre che cognitivo, vuole essere oggetto della presente riflessione sull’utilizzo particolare di un genere specifico di fotografia (il selfie) e, successivamente, di un’applicazione di condivisione (Instagram).
3.2 Leggere una fotografia: modalità di fruizione delle immagini sui
social
Per capire come leggere le immagini fotografiche che scorrono in rete e come esse influenzino processi cognitivi precedenti, prima di tutto bisogna osservare come, rispetto al passato, la democratizzazione delle immagini sia oggi evidente ed invasiva. Richard Prince, un artista americano, ha affermato in riferimento all’utilizzo di Instagram che è come «portare in giro una galleria in tasca». Tale affermazione più che sminuire il lavoro professionale di quanti lavorano ancora nel mondo analogico delle gallerie e delle mostre fotografiche, permette di allargare in modo evidente le possibilità di interazione fra individui e fotografia. L’uomo non è più legato alle ristrettezze fisiche del suo corpo e attraverso protesi visive come lo schermo di uno smartphone ha la possibilità di guardare infinite immagini fotografiche in ogni momento e in ogni luogo. Ciò da un lato rende questo processo, quello cioè di “guardare” le foto, automatico e quotidiano, ma si potrebbe dire anche “istantaneo”, facendo riferimento proprio allo stile delle fotografie di cui si parla, l’istantanea appunto. Dall’altro lato, però, non si può non considerare come questa abbondanza di fotografia stia occupando e influenzando la vita sociale, culturale e cognitiva, modificando lo stesso sensorio umano e il concetto di “guardare”.
Guardare un’immagine può sembrare un gesto naturale e semplice ma in realtà, come in parte si è già osservato e spiegato in questo lavoro, chiama in causa meccanismi socioculturali, cognitivi e neurofisiologici particolari. Guardare, inoltre, scriveva
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Berger nel 1972, è un atto di scelta e ciò che si guarda è sempre il rapporto che esiste fra l’osservatore e l’oggetto osservato. C’è sempre, dunque, un rapporto di reciprocità insito nell’atto di guardare. Il fruitore che guarda un’immagine, parafrasando Faeta (2011), vede ciò che vuole vedere di ciò che altri hanno reso palese di ciò che essi stessi hanno voluto vedere. Il fatto che oggi la possibilità di fotografare e condividere ciò che si è fotografato sia disponibile a tutti in modo semplice e veloce non può non influenzare questo rapporto di reciprocità fra creatori e fruitori di immagini, oltre che la relazione anche fisica con l’oggetto fotografico stesso. In particolare, poi, la fotografia si presta oggi ad essere utilizzata come canale preferenziale di autorappresentazione.
La democratizzazione delle immagini, a partire dall’invenzione della fotografia per poi arrivare al digitale, ad Internet e alla networked camera, ha reso possibile per ogni individuo servirsi delle immagini per definire la propria identità, le proprie esperienze ed le proprie emozioni, aree nelle quali le parole sono spesso inadeguate (Berger, 1972) o comunque ormai sostituite dalla più facile condivisione delle immagini. Anticipando ciò che oggi è facile osservare nell’uso quotidiano di uno smartphone da parte di un individuo qualsiasi, Berger aveva già prefigurato lo scenario contemporaneo, quello di un mondo in cui le immagini liberatesi dell’atmosfera incantata del museo sono a portata di mano di tutti e da tutti utilizzate a scopi personali.
Ciò che è più interessante e anche bizzarro notare è che questi utilizzi contemporanei delle immagini, proprio come sostengono i lettori in chiave moderna dell’opera di Berger, corrispondono dal punto di vista del contenuto estetico ai generi primari dell’arte del passato. L’autore di Ways of seeing aveva paragonato la pubblicità degli anni Settanta alla pittura ad olio in quanto quel genere visuale era nato proprio per rappresentare le “cose” possedute dai commissionari dell’opera stessa e quindi per rappresentarne il possesso. Quello stesso possesso riproposto in tempi moderni sotto forma di desiderio futuro dai cartelloni pubblicitari e dalla pubblicità in generale. Allo stesso modo negli scatti più comuni postati in rete oggi è possibile riconoscere altri generi visuali appartenenti alla pittura del passato: le foto di #foodporn sono vicine per composizione e oggetti rappresentati allo still-life della pittura; i #selfie, come si è
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già accennato nel capitolo precedente, sono rimediazione dell’autoritratto; i moderni #landscape sono simili alle viste di vacanza dei ricchi aristocratici del passato rappresentate nei loro preziosi dipinti; e le foto di #holiday evocano il più noioso cliché dell’iconografia del tempo libero della classe media (Davis, 2014).
Bisogna, però, indagare se anche il bisogno esperito attraverso le foto, lo scopo o la volontà che vi sta dietro, sono gli stessi delle immagini pittoriche del passato. Berger sostiene che le immagini mantengono tutt’ora la loro funzione di pezzi di gioco nella competizione per lo status sociale. Ma qui si intende sostenere che le differenti modalità di fruizione, insieme al mutato contesto culturale permettono di osservare ad un livello più specifico ciò che le immagini contemporanee comunicano. Sembra, infatti, opportuno ipotizzare un legame più profondo che lega l’individuo di oggi alla creazione, condivisione e fruizione di immagini fotografiche sui social media vista la mole di queste e il rapporto di quasi “dipendenza” che lega l’individuo all’uso della
networked camera. Un legame che va al di là della cultura e delle mode, e risiede nella
possibilità attraverso le immagini fotografiche di rimediare non solo generi visuali del passato ma pratiche e bisogni incorporati che caratterizzano l’uomo in quanto tale. Manovich scrive che non è importante per gli utenti della rete raccontare una storia ma è la composizione grafica, il mood che fa la differenza (2016). Qui si intende, invece, sostenere che proprio l’insieme di questi atti iconici, la lettura di tutte le immagini fotografiche social condivise da un utente, intese come successione di azioni nel tempo, come atti iconici, compongono un racconto vero e proprio, il