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Dinamiche di modernità periferica nei romanzi di Alejo Carpentier, Juan Rulfo e Gabriel García Márquez

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E

LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN LETTERATURE E FILOLOGIE

EUROAMERICANE

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Dinamiche di modernità periferica nei romanzi di Alejo Carpentier,

Juan Rulfo e Gabriel García Márquez

CANDIDATO

RELATORE

Agnese Iovine

Prof. Stefano Brugnolo

CORRELATORE

Prof.ssa Alessandra Ghezzani

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Indice

Introduzione 1

Capitolo Primo 4

1.1 Motivo del Fallimento nella letteratura ispanoamericana del XX Secolo 14

1.2 Octavio Paz: El Laberinto de la Soledad come analisi della condizione del Messico e dell’America Latina 18

1.3 Sul concetto di periferia 21

Capitolo Secondo 27

2.1 Cenni biografici e ideologici 27

2.2 El Reino de este Mundo 34

2.2.1 Credito e Critica: contrappunto di cosmo visioni 38

2.3 Studio dell’opera 43

Capitolo Terzo 61

3.1 Cenni biografici e contesto storico 62

3.1.2 Rulfo e la sindrome “de Bartleby” 67

3.2 Pedro Páramo 70

3.3 Studio dell’opera 74

Capitolo Quarto 94

4.1 Cenni biografici e contesto storico 96

4.2 Cien años de Soledad: studio dell’opera 108

Conclusioni 133

Bibliografia 138

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Introduzione

Questa tesi di laurea si propone di indagare come in testi della Letteratura Ispanoamericana del 1900 si possa ritrovare una tematica comune: il fallimento come risultato da collegarsi ad eventi politici e movimenti di emancipazione personale, sociale ed economica. L’approccio di questa indagine sarà quello teorico-comparatistico, mettendo in relazione testi delle più diverse nazioni latinoamericane, tutti però sorti nell’arco di un trentennio, quello che va dal 1949 al 1967. Sono anni di grande fervore letterario, in relazione ai quali, soprattutto per le opere che nascono intorno agli anni ’60, si è potuto parlare del così detto boom letterario, sperimentato dalla letteratura dell’America Latina: questo tipo di letteratura venne conosciuta e apprezzata in tutto il mondo attraverso i giornali, le riviste letterarie ma anche e soprattutto grazie ai premi letterari internazionali che si svilupparono nel XX secolo. Il momento storico era dei più favorevoli per la circolazione di nuovi prodotti letterari ma è doveroso aggiungere che un fatto storico-politico come la Rivoluzione cubana (1959), con il suo impatto a livello mondiale, sicuramente fece la sua parte nel dirigere l’attenzione del mondo verso questa parte del globo che definiremo come periferia.

Il concetto di fallimento che andremo ad indagare all’interno delle narrazioni è sempre legato al contesto storico in cui ci troviamo: molti dei movimenti di affrancamento dalla madrepatria europea, ma anche molti tentativi di indipendenza politica e economica messi in atto in America Latina, non ebbero i risultati sperati e questo senza’altro si riflette nella produzione letteraria. I testi che andremo a studiare sono tre: El Reino de este Mundo di Alejo Carpentier, Pedro Páramo di Juan Rulfo e Cien años de Soledad di Gabriel García Márquez. Come vedremo, il valore di questi romanzi risiede soprattutto nel fatto che, nonostante trattino tematiche molto specifiche e locali, hanno una portata e un messaggio universale e riescono a dare al lettore una rilettura personale, originale ma molto illuminante sul Mondo tutto: seppur parlando di periferia, spesso ben riconoscibile nei luoghi dell’infanzia dei nostri autori, queste opere sono riuscite a

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far luce su meccanismi sociali e economici che interessano tutti i rapporti, universalmente, e che hanno potuto dare una versione forse aggiornata ma sicuramente nuova e profonda sui rapporti spesso stridenti e poco equi che si instaurano tra il centro, con il suo bagaglio di ideologie e valori, e la periferia. Questi due concetti, centro e periferia, saranno, di testo in testo, ripresi e risemantizzati, e risultano fondamentali al nostro studio: non parliamo semplicemente di America Latina e Europa, ma ci riferiremo al centro come nucleo decisionale e attivo rispetto a una periferia che risente di decisioni arrivate da un altrove che può non superare i limiti geografici nazionali.

Nel primo capitolo cercheremo di delineare i tratti teorici su cui si fonderà il nostro studio su ogni testo, facendo riferimento innanzitutto, sia pure sinteticamente, all’evento che ha dato una svolta fondamentale alla struttura del mondo che oggi conosciamo: la scoperta e la conquista dell’America nel 1492. In questa fase della storia dell’America Latina sta, in qualche modo, il germe del suo destino: un approccio violentissimo e diretto con l’altro da sé, una perdita della propria memoria storica e un nuovo inizio forzato da ideologie esterne e aliene. Con questo non si vuol certo dire che tutto ciò che è accaduto in America Latina dal 1500 in poi sia legato a questo singolo evento, ma è certo che le conseguenze sono state molto importanti. L’America Latina fu segnata da un trauma che, come vedremo anche attraverso l’importantissimo studio di Octavio Paz, ha lasciato una cicatrice profonda, presagio forse delle violenze che caratterizzeranno queste terre meravigliose nei secoli avvenire.

Nel secondo capitolo entreremo nel vivo del testo con lo studio de El Reino de Este Mundo di Alejo Carpentier, il capostipite di quel movimento letterario che verrà poi definito come realismo mágico ma che Carpentier aveva inaugurato con il nome di real maravilloso: più che una corrente, l’autore voleva definire una realtà, la sua realtà latinoamericana, una realtà meravigliosa appunto. Un meraviglioso che si ritrova in questo romanzo ma che sarà poi comune, in modi diversi, a tutte le narrazioni che qui studieremo. Un meraviglioso che fa da tramite per la presentazione di fatti scomodi, peculiari e, spessissimo, fallimentari.

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Nel terzo capitolo passeremo ad analizza l’unico romanzo mai scritto dal messicano Juan Rulfo, un autore che dopo questo grande piccolo testo non è più tornato a scrivere. Tratteremo appunto il Pedro Páramo, collegandoci però anche ad alcuni dei racconti della raccolta precedente a questo testo, El Llano en Llamas. Qui il fallimento sarà strettamente legato alla terra d’origine di Rulfo, la campagna messicana, dopo gli eventi della Rivoluzione messicana (1910) e delle rivolte de los Cristeros degli anni 1926-28. Un fallimento che non è solo o semplicemente nazionale o politico, ma anzi e soprattutto personale e individuale, quindi forse ancora più tragico.

Nel quarto e ultimo capitolo, infine, il testo in esame è Cien años de Soledad di Gabriel García Márquez. Consapevoli del fatto che ci troviamo di fronte ad uno dei più importanti e complessi romanzi del 1900, il nostro studio si limiterà alla riflessione sul tema di nostro interesse, il fallimento, e vedremo che qui il nemico più grande per il Mondo-Macondo fu proprio l’impatto con un processo progressivo e modernizzatore venuto dall’esterno, mal gestito e mal posizionato all’interno di questo universo a sé stante.

La violenza e la solitudine, in modi diversi, sono le grandi protagoniste di queste narrazioni, le quali sono capaci di essere, in conclusione, una lente privilegiata sul mondo intero.

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Capitolo Primo

Il 12 Ottobre 1492 è la data che sancisce idealmente l’inizio dell’epoca moderna e, nel particolare di ciò che concerne questa tesi, è la data in cui Cristoforo Colombo annota sul suo diario di bordo l’arrivo in quel territorio che si credevano le Indie ma che, in realtà, era il continente non ancora conosciuto, ribattezzato poi con il nome di Nuovo Mondo, l’America. A tale riguardo, è emblematico come lo studioso bulgaro Tzvetan Todorov1 si esprima riprendendo

le parole di Las Casas2, scrivendo che «con il 1492 siamo entrati in questo nostro

tempo così nuovo e così diverso da ogni altro »3. L’America, quindi, entra nell’epoca

moderna attraverso un incontro-scontro con l’Europa, un contatto che fin da principio fu connotato dalla violenza e dalla prevaricazione, un contatto, però, che portò questi popoli, fino ad allora isolati, a confrontarsi con una civiltà più avanzata, da molti punti di vista. Mi trovo a sottolineare subito questo concetto perché è di fondamentale importanza comprendere come la storia del popolo americano sia strettamente legata alla violenza che, in qualche modo, porta al cambiamento e allo sviluppo: non si può negare, infatti, che, nonostante i molteplici risvolti negativi, la Conquista diede uno slancio repentino alle economie e alle strutture locali, facendo entrare queste realtà nel Mondo considerato appunto moderno.

Il concetto di modernità è uno dei nuclei chiave del presente studio: nei capitoli successivi, prenderemo in esame molte evoluzioni modernizzatrici, molti tentativi di cambiamento, all’interno della letteratura latinoamericana, ed è per questo motivo che, soprattutto parlando di America Latina è fondamentale parlare anche di Conquista, il momento che ha segnato l’ingesso nella modernità per questi paesi, in modo traumatico e permanente.

1 Cvetan (o Tzvetan) Todorov (Sofia, 1º marzo 1939 – Parigi, 7 febbraio 2017)

2 Bartolomé de Las Casas (Siviglia, 1484 – Madrid, 17 luglio 1566) è stato un vescovo cattolico spagnolo, impegnato nella difesa dei nativi americani.

3 T.Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro , Torino, Einaudi, 1984 p.7. Consapevole del fatto che esiste una bibliografia ampissima sopra questo tema, mi sono limitata a pochi testi che giudico importanti per dare fondamento storico al mio discorso, come appunto l’opera qui citata.

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Ora, parlando di modernità, il nostro studio deve poi trattare il concetto di modernizzazione, con il quale, nel senso più tradizionale del termine, facciamo riferimento al secolo dell’industrializzazione, il secolo in cui la parola chiave fu progresso: legato senz’altro al concetto di sviluppo, quando si parla di progresso si parla anche di fiducia nel futuro e nella ricchezza, una fiducia sorta in seno alle nuove tecnologie, spesso semplici accorgimenti che però dettero grandi profitti, non solo economicamente parlando. Siamo nel XIX secolo: in America Latina ci troviamo in un momento di grandi conflitti interni, di rivoluzioni indipendentistiche, mosse dal desiderio di affrancamento rispetto alla patria occidentale che aveva in mano le sorti di questo nuovo mondo, dal 1492 in poi: gli eredi di quel trauma storico che è stata la Conquista, vogliono essere i protagonisti di questo nuovo momento di modernità, per guarire, in qualche modo, da quella ferita e prendere finalmente in mano il proprio destino, spinti da un sentimento di emancipazione. Le conseguenze di questo grande e travagliato bagaglio storico sono da ritrovarsi esemplificate in molta parte della letteratura del secolo successivo, il 1900, ed è seguendo il filo rosso che parte appunto dal 1492 che il nostro studio vuole esaminare alcune opere narrative dell’America Latina del XX secolo.

Ma andiamo per ordine. Prima di riflettere sull’importanza che l’avvenimento della Conquista ha avuto, anche indirettamente, nella storia più recente dei popoli americani, è sicuramente necessario capire che, prima di tutto, l’intensità di questo evento è tale proprio perché l’incontro con l’Altro da sé non raggiungerà mai più una simile forza: a partire dal 1492 il Mondo può considerarsi chiuso, iscritto nella conoscenza umana, quasi piccolo, per utilizzare un concetto espresso dallo stesso Colombo:

“Il mundo es poco; el injuto de ello es seis partes, la séptima solamente cubierta de agua. (..) Digo que el mundo non es tan grande como diçe el vulgo.”4

4 C.Colón, Texotos y documentos completos. Relaciones de viajes, cartas y memorias , Madrid, Alianza Editorial, 1982 p. 320

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Quest’ultimo personaggio, Cristoforo Colombo, l’Ammiraglio artefice della scoperta, è simbolicamente colui che fa entrare l’America nella Storia, o meglio, nella storia moderna occidentale, e paradossalmente lo fa basandosi su conoscenze medievali, tradizionali. Colombo infatti, non è un uomo moderno, non è un empirista; arriva nel Nuovo Mondo e durante tutto il viaggio sembra che sappia già cosa lo aspetta e cosa si aspetta di trovare: le fonti della sua conoscenza sono sicuramente i testi religiosi in genere, ma anche libri come quello di Marco Polo5 o I Viaggi di Mandeville6, che descrivono quelle terre che anche Colombo crede di raggiungere. L’atteggiamento che caratterizza il genovese nell’attraversare l’Oceano Atlantico è quindi quello di chi non pensa di “scoprire” qualcosa che non sa, ma quello, al massimo, di verificare ciò che aveva letto nei lunghi mesi in cui aveva sognato e preparato il viaggio; ogni segno naturale viene letto usando una chiave di lettura ben stabilita in anticipo, poiché ogni segno doveva essere simbolo di ciò che si cercava, la terra delle Indie; la rotta percorsa era inedita, non il mondo che avrebbe trovato. In Todorov si legge:

“In mare tutti i segni indicano la prossimità della terra perché tale è il desiderio di Colombo. A terra tutti i segni rivelano la presenza dell’oro: anche in tal caso la convinzione si è formata tanto tempo prima.”7 E ancora: “Colombo

più che un preciso osservatore era un attento decifratore di segni. I particolari da lui notati non erano tentativi di descrivere il mondo quale si presentava ai suoi occhi, quanto piuttosto compilazioni di segni significativi.”8

È importante fare queste osservazioni di carattere generale sull’approccio “medievale” di Colombo nell’affrontare il suo viaggio, per aprire la strada ad un discorso che ci interessa più da vicino, e cioè la percezione del nuovo, dell’altro,

5 Il Milione (XIV sec) è il resoconto del viaggio in Asia di Marco Polo.

6 The Travels of Sir John Mandeville (conosciuto anche come Voyage d'outre mer) è un resoconto di viaggio del XIV secolo. Benché il racconto descrivesse in realtà un viaggio immaginario, fu creduto autentico per almeno due secoli. Il racconto raccolse una straordinaria popolarità, anche grazie alla traduzione in molte altre lingue.

7 T.Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro , Torino, Einaudi, 1984 p. 24

8 Riferendosi a riflessioni di Todorov, cito S. Greenblatt, Meraviglia e Possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo

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per quanto riguarda sopratutto il livello umano. La tendenza a leggere i segni in modo da trarne una sorta di conferma a conoscenze previe verrà applicata da Colombo anche nei confronti dei nativi che incontra sulla sua strada, escludendo qualsiasi tipo di approccio conoscitivo o qualsiasi tentativo di comprensione reciproca, almeno inizialmente. Come osservava e descriveva il paesaggio, Colombo notava che sì, esistevano su quelle terre delle presenze umane, ma passava oltre nella descrizione.

Questo atteggiamento iniziale di Colombo, un atteggiamento di distacco e di poco vivo interesse, è, se vogliamo, una sorta di preannuncio delle prevaricazioni fisiche e culturali che gli indigeni soffriranno a causa dei nuovi arrivati, i quali li vedevano come bestie. Si utilizza il corsivo per il verbo vedere al fine di collegarsi al concetto di trasparenza culturale che Stephen Greenblatt sviluppa nella sua opera Meraviglia e Possesso9, proprio descrivendo l’attitudine

caratteristica degli europei nei confronti di quelli che venivano definiti selvaggi: partendo dalle enormi difficoltà di comunicazione che si ebbero fin da subito tra le due culture che si trovarono l’una di fronte all’altra, Greenblatt riflette:

“Da un lato, si tende a immaginare gli indiani come un vuoto virtuale – creature selvagge, informi, nude nella cultura e non solo nel corpo; dall’altro li si immagina come copie virtuali degli europei, pienamente integrati nel loro linguaggio e nella loro cultura. Queste due tendenze sembrano contrapposte, ma in effetti sono ciascuna una variante dell’altra, come possiamo scorgere in un’osservazione del cronista Pietro Martire: Come tavole rase o non dipinte sono adatte a ricevere qualsiasi forma vi sia disegnata sopra dalla mano del pittore, ugualmente questa gente ignuda e semplice riceverà presto gli usi della nostra Religione, e nel colloquio con i nostri uomini si libererà della sua fiera e nativa barbarie. Prima si nega agli indiani una cultura, poi si attribuisce loro la nostra”10

9 S. Greenblatt, Meraviglia e Possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994 10 S. Greenblatt, Meraviglia e Possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994 pp. 167-168

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Come non vedere anche in questo concetto di trasparenza culturale attribuita agli indigeni un’altra faccia degli abusi subiti da questo popolo? Prendiamo per esempio un famosissimo passo de Il giornale di bordo di Cristoforo Colombo11:

“Yo fallé muy muchas islas pobladas con gente sin número; y d’ellas todas he tomado posesión por sus Altezas con pregón y vandera real estendida, y no me fué contradicho. Á la primera que yo fallé puse nombre “ San Salvador”, a comemoración de Su Alta Magestad, el qual maravillosamente todo esto ha dado; los Indios la llaman “Guanahaní” (..) y así a cada una un nombre nuevo.”12

Non voglio soffermarmi sulle molteplici letture e riflessioni che si sono fatte sopra questo frammento di testo, ma è importante notare che siamo agli albori del contatto Europa-America e la prevaricazione, la violenza, è già implicita in queste poche frasi; l’indigeno è presente sul territorio, ha dato un nome a questo territorio, ma tutto questo, nell’ottica dell’occidentale, non conta niente. Colombo può dare nomi nuovi, e dando un nome alle Isole ne prende il possesso, senza essere contraddetto. Ma viene naturale chiedersi: come potevano i nativi contraddire le parole di Colombo se non le comprendevano? Nessuno si pose questo quesito poiché si mise in atto il processo di trasparenza culturale di cui si parlava sopra. Non si riuscì a concepire l’alterità culturale, ma anzi, vedendo un popolo che viveva nella più completa nudità, il primo pensiero fu quello che fossero privi anche di ogni sorta di costume culturale e religioso, facilmente sottomettibili, perciò perfetti futuri servitori alle corti spagnole:

“Ellos deven ser buenos servidores y de bueno ingenio, que veo que muy presto dizen todo lo que les dezía. Y creo que ligermente se harían cristianos, que me pareçió que ninguna secta tenían. Yo plaziendo a Nuestro Señor levaré de

11 C.Colombo redasse il suo giornale di bordo durante i viaggi in mare verso il Nuovo Mondo ed era indirizzato ai sovrani spagnoli, con lo scopo di mantenerli al corrente di tutto ciò che accadeva durante la spedizione da loro finanziata.

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aquí al tiempo de mi partida seis a su Vuestra Altezas para que deprendan fablar.”13

Risulta chiaro quindi che gli Europei si sentivano immensamente superiori a tutti i popoli che incontrarono, persino agli Aztechi, forse il più sviluppato e ben organizzato popolo dell’America pre-conquista. Non è qui la sede per riflettere a fondo sulle motivazioni di questo quasi innato senso di superiorità posseduto dagli spagnoli, ma per molti versi è da legare sia alla religione cristiana, che era ritenuta come l’unica religione che veicola la Verità, sia ai mezzi tecnologici di cui disponevano. È innegabile che gli occidentali possedessero una tecnologia del potere complessa e ben sviluppata, formata dagli strumenti di navigazione, navi, cavalli, armature robuste e armi letali, prima tra tutte la polvere da sparo. Fu grazie a questa serie di strumenti da guerra che si ottenne il successo da parte dei conquistadores, che riuscirono, nonostante fossero in numero fortemente inferiore rispetto ai nativi, a sottomettere e, prima conseguenza, convertire al cristianesimo, tutti i popoli che trovarono sulla loro strada? Sicuramente no, o comunque non soltanto per questi vantaggi tecnologici. Ci sono svariate teorie, sopra le quali non staremo qui a dilungarci, ma sintetizzando molto si può accennare al fatto che, per alcuni studiosi, anche il possesso di un sistema di scrittura avanzato ebbe un ruolo importante in questi scontri. Possedere una tecnologia di conservazione e di riproduzione del sapere voleva dire possedere una consapevolezza culturale che pareva non appartenere ai nativi, e questa consapevolezza fu l’asso nella manica nei momenti in cui era necessaria una mobilità di azione e di calcolo14. Questa situazione favorì in molte occasioni gli

Europei e decretò infine la loro vittoria.

Quello che però davvero ci interessa, per quanto concerne l’argomento di questa tesi, è soprattutto notare il come e non il perché della grande impresa vittoriosa occidentale, la Conquista. Tornando a uno dei simboli dello sviluppo

13 C.Colón, Texotos y documentos completos. Relaciones de viajes, cartas y memorias , Madrid, Alianza Editorial, 1982 p. 31

14 S. Greenblatt, Meraviglia e Possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994 pp. 35-36

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tecnologico europeo, la polvere da sparo può essere presa come esempio di quel progresso portato in America, la chiave verso una modernità che arriva quindi in modo molto traumatico, senza i periodi di transizione che di solito caratterizzano il momento precedente allo sviluppo. Scrive Greenblatt:

“L’intera tragica storia, la storia di un’assoluta negazione del consenso, non era già scritta nel primo starnuto di uno spagnolo, con i suoi milioni di invisibili pallottole? La sorte degli indigeni non era forse già segnata da quel primo sangue innocente versato? Mostrai loro le spade ed essi, per ignoranza, prendendole per il taglio, si ferivano (Il giornale di bordo)”15

Ora, continuando il nostro discorso sulle orme dello studio di Greenbalatt, vorrei fare una riflessione che può rientrare all’interno del nostro come. Uno dei concetti che attraversa tutti i documenti di questo momento storico è senza dubbio quello di Meraviglia. Gli Europei di fronte al Nuovo Mondo descrivono spessissimo la loro sensazione di meraviglia e di forte stupore nei riguardi di una natura completamente diversa rispetto a quella a cui erano abituati: il termine meraviglioso (o simili) è usato continuamente nelle descrizioni che si possono leggere ancora oggi nelle lettere di Colombo. Riporto qui un esempio per tutti:

“Domingo, 21 de Otubre: (..) Me salí con estos capitanes y gente a ver la isla, que si las otras ya vistas son muy fermosas y verdes y fértiles, esta es mucho más y de grandes arboledos y muy verdes. Aquí es unas grandes lagunas, y sobre ellas y a la rueda es el arboledo en maravilla, y aquí y en toda la isla son todos verdes y las yervas como en Abril en el Andaluzía y el cantar de los paxaritos que pareçe que el hombre nunca se querría partir de aquí (..) Y después ha árboles de mil manerasy todos dan su manera frutos, y todos güelen qu’es maravilla.”16

A tal proposito Greenblatt scrive:

15 Ibid. p. 116

16 C.Colón, Texotos y documentos completos. Relaciones de viajes, cartas y memorias , Madrid, Alianza Editorial, 1982 p. 41

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“Lo scetticismo che gli europei colti hanno sviluppato deve essere in qualche modo sospeso; essi devono essere indotti a rivedere la loro percezione di quello che è possibile e di quello che è soltanto favoloso. (..) L’esperienza del meraviglioso ci ricorda continuamente che il nostro dominio del mondo è incompleto.”17

La sensazione di meraviglia è qualcosa che ha a che fare con ciò che è fuori dalla nostra sfera di conoscenza, che ci attrae ma che al tempo stesso ci incute timore proprio a causa del suo essere sconosciuto a noi. Questo è, a grandi linee, ciò che probabilmente l’uomo europeo provò di fronte alle mille specie di animali e di piante che trovò in America, ma anche di fronte ai rituali delle popolazioni indigene. La meraviglia, poi, si trasformò in ammirazione per guidare l’animo dell’occidentale verso il desiderio di possedere quei luoghi; e così fu.

Guardando, invece, l’altra parte della storia, il punto di vista dei vinti, ciò che sappiamo ci arriva, per molta parte, da scritti redatti dai vincitori, che si occuparono, in qualche caso, di annotare o descrivere le reazioni dei selvaggi nel momento in cui entravano in contatto con la realtà occidentale. Accade di frequente che i nativi siano descritti come molto ingenui, arrivando a insinuarne la stupidità:

“Colombo non si stanca mai di lodare la generosità degli indiani che danno tutto per niente. A suo giudizio, essa giunge talvolta fino alla balordaggine: perché apprezzano nello stesso modo un pezzo di vetro ed una moneta? Una monetina e una moneta d’oro? Diedi ad alcuni di loro qualche berretta rossa e qualche collanina di vetro che si misero al collo, e molte altre cose di poco valore. Essi gradirono molto questi doni. (..) Quale che sia l’oggetto che viene dato loro in cambio e quale che sia il suo valore, valga esso molto o sia cosa di poco prezzo, essi sono contenti.”18

17S. Greenblatt, Meraviglia e Possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Bologna, Il Mulino, 1994 pp. 48-51

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Quello che Colombo non riesce a comprendere è che il popolo che ha di fronte non condivide il suo stesso sistema di valori e per questo non giudica un oggetto come lo giudicherebbe un europeo.

Tornando però al discorso sulla meraviglia, è molto probabile che anche gli stessi indigeni abbiano provato questa sensazione alla vista delle caravelle, dei cavalli, delle armi, che lo straniero aveva introdotto nel suo paese. Ecco che allora il nuovo entra a far parte delle vite dei nativi, passando dalla meraviglia, quindi dalla paura mista con l’ammirazione, per poi diventare qualcosa di desiderato e in seguito, posseduto. Todorov, attraverso i suoi studi, ci da un dettaglio importante a riguardo della percezione che i nativi americani poterono avere degli spagnoli durante i primissimi incontri: se Colombo li definiva selvaggi e descriveva il loro modo di vivere simile a quello delle bestie, a causa soprattutto del loro andare ignudi, sintomo quindi del non-costume anche culturale, molte delle popolazioni indigene probabilmente pensarono di trovarsi al cospetto di Dèi venuti dal cielo. Il grado di identificazione spagnolo-dio non fu però, per tutte le popolazione, dello stesso livello: gli Inca credevano fermamente a questa loro natura divina; gli Aztechi ci credettero solo in un primo momento; i Maya si posero la domanda, ebbero un dubbio, ma compresero che gli spagnoli erano effettivamente umani.19

Nonostante si sappia ben poco della visione indigena, vero è che sia dal punto di vista degli europei che da quello dei nativi è possibile ipotizzare una visione distorta della realtà con cui si confrontavano: probabilmente non si riconobbe l’altro come umano, uguale ma diverso. La grande differenza sta nella classificazione della diversità. L’equivoco in cui caddero gli indigeni durò per un breve periodo, ma sicuramente bastò a far avere grandi vantaggi ai nuovi arrivati: umani erano i corpi sotto le brillanti armature degli spagnoli, come sinceramente umane erano le loro brame di possesso e di ricchezza. A questo punto saranno gli occidentali ad essere descritti come animali affamati e ingordi:

“Come scimmie dalla lunga coda hanno arraffato, d’ogni parte, l’oro. E’ come se si fosse acquietato, come se si fosse rischiarato, come se si fosse

19 Ibid. p. 98

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rasserenato il loro cuore. E’ ben vero che essi ne avevano inestinguibile sete, che ne avevano fame, che se ne rimpinzavano, ch’essi bramavano, a guisa di porci, il metallo prezioso.”20

La brama che caratterizzò gli occidentali in un primo momento, continuò a farlo per molti secoli, nel momento in cui si fu consapevoli delle innumerevoli materie prime ricavabili da queste terre d’oltremare: con il tempo, infatti, si prese consapevolezza del territorio, della cultura, delle usanze, ma l’atteggiamento continuò ad essere quello di prevaricazione e, in ogni caso, volto al profitto. Con ciò non voglio dire che non ci fu, in nessun caso, sincretismo culturale positivo, ma che, da sempre, il rapporto tra le due visioni non fu mai alla pari.

Concludendo quindi, il primo incontro-scontro tra Europa e America fu meraviglioso, traumatico e di grande impatto per la Storia moderna. Questo incontro ha segnato il futuro dei paesi latinoamericani e, in qualche modo, alcune dinamiche collegate a questo trauma possono essere ritrovate nei tre romanzi che questo studio prenderà in esame nei capitoli successivi. Tratteremo, infatti, di opere della letteratura ispanoamericana del secolo successivo alla modernizzazione del 1800, momento in cui, come abbiamo detto, queste popolazioni hanno, praticamente in massa, “deciso” di combattere per la propria indipendenza, riconoscendo la propria americanità. Da questo momento la letteratura dell’America Latina ha iniziato a guardare dentro di sé, e non più verso la sponda opposta dell’oceano21 che fino a quel momento aveva imperversato con

la propria influenza sulla sua produzione culturale, ritrovando quella meraviglia e riconoscendo che quel trauma interno era ancora vivo, faceva parte dell’essere americani. Tutto questo, e forse qualcosa in più, andava adesso affrontato, reso noto e sviluppato attraverso l’arte, in un periodo storico di grande fioritura intellettuale.

20 T. Todorov, G. Baudot , Racconti Aztechi della Conquista , Torino, Einaudi, 1988 p. 22

21 Aggiungerei anche che lo sguardo era tradizionalmente volto verso l’Europa, ma, dalla fine del 1800 iniziò ad avere un peso importante sulla cultura dell’America Latina anche l’influenza della produzione culturale nordamericana.

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1.1 Motivo del Fallimento nella letteratura ispanoamericana del XX secolo

Abbiamo detto che l’America entra nel tempo moderno attraverso la violenza distruttrice e insieme costruttrice dell’Occidente, e questa violenza originaria, legata poi allo sviluppo e alla crescita culturale e economica, lascerà una sorta di cicatrice difficile da rimarginare.

“Secondo Todorov, la conseguenza per le culture americane non fu (come pensavano Léry o Purchas) una perdita del passato, quanto piuttosto una perdita fatale della capacità di manipolare il presente.”22

Per quanto nella citazione di Greenblatt ci si riferisse ad un discorso più ampio legato al sistema di scrittura mancante nella cultura indigena, mi trovo d’accordo nell’affermare che una delle conseguenze più importanti della Conquista fu quella di influenzare in maniera quasi permanente il presente ( e quindi il futuro) di queste popolazioni. Vediamo in che modo.

Rimanendo fermamente consapevoli del fatto che gli sviluppi storici e culturali, dal 1492 in poi, sono stati dei più vari e specifici in ogni Stato che si è venuto a formare in questa porzione di mondo, rendendo così pressoché impossibile una generalizzazione realistica in quanto a determinare conseguenze storiche precise ad antecedenti comuni, quello che in questa sede risulta invece possibile è cercare di comprendere come venga presentato nella letteratura ispanoamericana questa sorta di trauma legato ad una passato di violenza e come possa far nascere il desiderio di miglioramento della propria condizione, di progresso in senso ampio del termine, di emancipazione quindi; come vedremo, però, risulta ricorrente che i tentativi per fare questi passi avanti siano fallimentari o comunque non raggiungano le mete desiderate. Questi motivi ricorrenti nella letteratura dell’America Latina possono essere riassunti in un concetto generale

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che noi chiameremo motivo del fallimento, dal momento che i protagonisti delle opere che più avanti analizzeremo sono spesso intenti a dedicarsi con molta convinzione e impegno in azioni che spesso si concludono con un “nulla di fatto” o che non giungono ai risultati sperati, azioni collegate, direttamente o indirettamente, allo sviluppo del proprio paese e della propria persona nella società in cui si trovano a vivere.

Quello su cui sarà importante riflettere è come questo motivo dice qualcosa per quanto riguarda la realtà storica del Latino America e della sua evoluzione molto tormentata, ma anche, e forse ancora più interessante, cosa può dirci su meccanismi di potere che sono universali.

Prima di procedere in questo senso, però, mi sembra doveroso fare una riflessione generale: fin da principio ho parlato del momento della Conquista come il nodo principale verso la modernità, soprattutto, ma non solo, per le popolazioni che vennero imprevedibilmente in contatto con il mondo occidentale. Come abbiamo detto, però, il concetto di progresso è figlio del XVIII secolo e trova il suo reale sviluppo nel secolo successivo:

“La fede incondizionata nel progresso che animava il tipico pensatore illuminato rifletteva l’incremento visibile della conoscenza, della tecnica, della ricchezza, del benessere e della civiltà che ognuno vedeva attorno a sé”23

È in questo secolo, infatti, che si vedono i primi tentavi di modernizzazione economica e sociale nel vecchio continente ancora caratterizzato da monarchie di tipo assolutistico. È in questo secolo che prende l’avvio quel fenomeno chiamato Rivoluzione Industriale che porterà la Gran Bretagna ad essere la nazione in assoluto più ricca e sviluppata di tutto il secolo successivo. La modernità di cui si parla più comunemente è quella che effettivamente viene creata da questi nuovi meccanismi economici che rendono il mondo per la prima volta davvero (col)legato e pronto a formare un mercato globale. Ma è anche vero che questo

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tipo di modernità ha le sue profonde radici in quell’evento di capitale importanza di cui si è parlato fin da principio: la scoperta e la conquista dell’America. A tal proposito, mi rifaccio a un documento storico famosissimo, Il Manifesto del Partito Comunista24, anch’esso figlio del secolo del progresso:

“La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa, crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercante delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. (..) La grande industria ha creato quel mercato mondiale che era stato preparato dalla scoperta dell’America.”25

C’è quindi forse un legame tra le conoscenze del mondo acquisite dal 1492 in poi e la modernizzazione del 1800? Sicuramente sì. Ma c’è da chiedersi poi, chi è che ne ha pagato il prezzo più alto? Probabilmente proprio l’America Latina, sostenitrice economica delle grandi economie europee, sfruttata fino all’impossibile, nelle terre ma soprattutto, nella dimensione umana. Da ciò, è possibile riprendere il concetto di violenza e ritrovare nell’episodio della Scoperta una sorta di antecedente comune a tutte le violenze subite nei secoli fino al momento di rivolta, che è individuabile in ogni paese in un momento storico diverso ma inscrivibile all’interno dei secoli XIX e XX.

Raccogliendo tutte queste riflessioni, l’obiettivo era chiarire il contesto in cui collochiamo le radici del nostro discorso per dare un senso al salto vertiginoso che faremo, focalizzando l’attenzione sul testo letterario e inscrivere il nostro studio all’interno della letteratura ispano-americana del 1900, una letteratura che senza dubbio eleva il romanzo a mezzo principe per la descrizione della

24 Pubblicato a Londra nel febbraio del 1848

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situazione contemporanea. È possibile notare in questo tipo di letteratura come si trovino descritti tentativi di affrancamento da questo passato di violenza, tentativi che spesso non arrivano ad una soddisfacente conclusione e che si risolvono quindi con un fallimento. Questi tentativi riguardano appunto il desiderio di miglioramento, di “modernizzare” la propria situazione e, al contempo, di rompere quel legame con l’Occidente che è stato spesso tragico ma che senza dubbio ha fatto entrare questo Continente in contatto con il mondo esterno26. Se

si pensa infatti alla cultura, allo sviluppo intellettuale, non si può negare che siano importanti e interessanti i contatti con l’esterno per la crescita di queste, perché è fondamentale arricchire il bacino di conoscenza per tornare a guardare la propria realtà con occhi nuovi; basti pensare alle conseguenze dell’apertura del mercato a livello globale: quando le idee hanno iniziato a circolare liberamente, come le merci, abbiamo visto di cosa possono essere capaci. Mi riferisco alle idee dell’illuminismo o della Rivoluzione francese che furono un motore importante per le ideologie indipendentistiche nell’America Latina del XIX secolo, solo per fare un esempio tra molti.

Ecco, l’America fino al 1492 era l’unico continente la cui popolazione non aveva mai avuto rapporti né con l’Asia né con l’Europa:

“Prima che le società indie fossero invase e poi conquistate da quelle iberiche, esse avevano alle spalle una storia plurimellenaria, iniziata quasi quarantamila anni orsono, grazie allo spostamento o migrazione di popolazioni provenienti dall’Asia che raggiunsero il continente americano attraversando lo stretto di Bering, ma anche dall’Oceania per via marittima. Paragonato agli altri continenti, l’America ha due tratti originali: è l’ultimo a conoscere la presenza umana ed è l’unico in cui le culture evolvono senza nessun contatto con quelle europee o asiatiche, sino all’arrivo degli Europei nel XV secolo.”27

26 Le conquiste ottenute con l’avvento della modernità hanno una portata senza dubbio ambivalente e il rapporto che si crea tra questa e il continente Latinoamericano ne è un esempio lampante.

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Una Storia “pre-moderna” quindi caratterizzata dall’isolamento, certo, ma anche da una forte differenziazione tra le diverse popolazioni, scarsa comunicazione e ridotto interscambio tra le aree americane settentrionali, centrali e meridionali28; una realtà eterogenea, complessa e dinamica, che però si trovò

debole di fronte alla solidità occidentale del vecchio continente. In questo primo e primitivo contatto con l’esterno troviamo le radici della nostra argomentazione.

1.2 Octavio Paz: El Laberinto de la Soledad come analisi della condizione

del Messicano e dell’America Latina

Sulla linea di quanto detto in precedenza, mi sembra coerente e fruttuoso esaminare lo studio di Octavio Paz, nel suo El Laberinto de la Soledad29. In questa sede, Paz prende in esame la condizione del messicano contemporaneo, ma è possibile senza dubbio leggere il suo studio in chiave più universale, aprendo il suo discorso al latinoamericano in genere. Quello che può interessarci di questa opera maestra è la riflessione sul legame che esiste tra l’atteggiamento che caratterizza il messicano e la storia che ha alle sue spalle: anche qui ritroviamo tematizzato il momento del contatto con l’europeo come un momento che ha davvero segnato nel profondo questo popolo.

Il messicano viene descritto da Paz come un uomo molto chiuso, ermetico, diffidente non solo verso l’altro da sé ma anche e soprattutto verso i suoi connazionali. È un uomo che non può rendere note le proprie debolezze, i propri timori, neanche con gli amici, eccezion fatta per i momenti di fiesta, in cui la sua natura può uscire un poco, qualche volta in maniera violenta. Tutto questo è spiegato da Paz come una conseguenza naturale del fatto che il messicano ( e, a grandi linee, potremmo affermare che questo è valido anche per il latinoamericano) è stato in qualche modo privato della conoscenza del suo passato, delle sue reali origini, a causa, in sentesi, del suo ibridismo:

28 Ibid. p. 5

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“La Historia de México es la del hombre que busca su filiación, su origen. Sucesivamente afrancesado, ispanista, indigenista, «poncho», cruza la historia como una cometa de jade, que de vez en cuando relampaguea. En su excéntrica carrera ¿qué persigue? Va tras su catástrofe: quiere volver a ser sol, volver al centro de la vida de donde un día - ¿ en la Conquista o en la Indipendencia? – fue desprendido.”30

Emblematica è l’espressione, il grido che esce dalle bocche dei messicani nelle situazioni di forte emozione, siano esse situazioni di felicità o di accesa collera, “¡Viva México, hijos de la Chingada!”: il termine chingar, a cui Paz dedica diverse pagine, in sintesi veicola un concetto di violenza e aggressività. Tutto quello che è chingado è violato, aperto, usurpato della propria integrità:

“El verbo denota violencia, salir de sí mismo y penetrar por la fuerza en otro. Y también, herir, rasgar, violar, destruir."31

Ecco che risulta chiara la dichiarazione colorita sopra l’origine dei messicani: il messicano è un ibrido perché figlio di una unione violenta tra due realtà opposte, l’indio32 e l’europeo, dove l’indio è stato chingado dal conquistador.

Questo grido non dà certo una connotazione positiva all’individuo messicano e, spiega Paz, è una esclamazione che vuole esprimere la volontà messicana di vivere chiusi in sé stessi ma soprattutto chiusi rispetto al proprio passato che è un passato condannato dalla violenza. Si ripudia l’ibridismo proprio di questa realtà e si rimane in solitudine nel presente:

“El mexicano condena en bloque toda su tradición, que es un conjunto de gestos, actitudes y tendencias en el que ya es difícil distinguir lo español de lo indio. (..) El mexicano no quiere ser ni indio, ni español. Tampoco quiere

30 O. Paz, El Laberinto de la Soledad, Ediciones Cátedra, Madrid, 2015, p. 163 31 Ibid. p. 222

32 In generale parlando di Chingada ci si riferisce alla Madre di tutti gli ibridi messicani, incarnata dalla figura della Malinche, la donna di origini indie che fu interprete e poi amante di Cortés.

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descender de ellos. Los niega. Y no se afirma en tanto que mestizo, sino como abstracción: es un hombre. Se vuelve hijo de la nada. Él empieza de sí mismo.”33

Tutte le ansie e le angustie di questo popolo, e di conseguenza l’ approccio alla vita stessa, sono legate alla complessa questione dell’origine. Il messicano ha scelto, forse inconsciamente, di ripudiare e non perdonare la Madre Chingada, ma la ferita prodotta da questa rottura fatica a rimarginarsi poiché la posizione di “orfano” è difficile da gestire e accettare.

Paz conclude il suo capitolo trovando nella Reforma liberal di Benito Juárez (1806-1872) il momento in cui ufficialmente si chiude la porta con il passato per ricercare una via veramente autonoma per questo Stato nascente, ma questo è anche il momento in cui il messicano diventa orfano di una tradizione che invece è ricchissima e leggendaria.

Tralasciando però le conclusioni a cui approda lo studioso messicano, quello che per noi è interessante sottolineare riguarda il rapporto complesso e ambiguo che questo popolo possiede con il proprio passato e con il proprio presente. Probabilmente l’uomo che ha questo tipo di conflitto interiore con le sue origini, non può non essere caratterizzato da un atteggiamento conflittuale o sfiduciato anche con il proprio futuro e, soprattutto se questo futuro si riaggancia ai propri fantasmi del passato, diventa davvero difficile istaurare un rapporto costruttivo con esso: quando si parla di fantasmi del passato non mi riferisco semplicemente all’Europa, che spesso è tornata a far sentire il suo peso sopra questi territori nonostante le indipendenze, ma mi voglio riferire alla violenza, in generale, conosciuta nel passato e riproposta nel presente da soggetti diversi, contaminando, come è ovvio, un futuro pacifico e stabile. Nel passato, nel momento della Conquista, risiede il trauma della violenza e, come vedremo soprattutto nel romanzo di Juan Rulfo, la dimensione dell’orfano come assenza di una guida da seguire, insieme a certe dinamiche di gestione della propria realtà, si ripresentano senza dare una speranza di futuro, di miglioramento, al popolo.

33 Ibid. p. 223

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Ho parlato di Messico e ho parlato di orfano, perciò concluderei con queste parole di Paz, che rendono bene l’idea di ciò che vorrei esprimere:

“Sentirse solo no es sentirse inferior, sino distinto. El sentimiento de soledad, por otra parte, no es una ilusión – como a veces lo es el de inferioridad – sino la expresión de un hecho real: somos, de verdad, distintos. Y, de verdad, estamos solos.”34

L’orfano in questo caso è il popolo ispanoamericano che può essersi sentito solo ma è anche in sé veramente diverso, e tale carica di diversità si ritrova nell’originalità della sua produzione letteraria che andremo ad analizzare.

1.3 Sul concetto di periferia

Arriviamo quindi alla tematica più prettamente letteraria e partirei da un concetto che il professor Brugnolo ha descritto in maniera esaustiva nel suo saggio The Pendulum Swing and the Privilege of Backwardness35. In questo studio viene estrapolato da Mimesis36 di Erich Auerbach il concetto di “swinging of the pendulum”, un’immagine che rimanda al movimento oscillatorio che avviene tra il centro e la periferia del mondo, un movimento di oscillazione che ha alla base l’idea per la quale “no literary phenomenon can be conceived of, except on the basis of difference and opposition”37. In accordo con ciò, proprio perché risulta

indispensabile approcciarsi ad un’opera letteraria inserendola in un contesto più ampio, come quello di Weltliteratur38, per apprezzarne a pieno l’originalità e la profondità, studiarne associazioni e opposizioni in relazione a letterature di altri contesti, è possibile arrivare a definire la letteratura delle periferie come un tipo di

34 O. Paz, El Laberinto de la Soledad, Ediciones Cátedra, Madrid, 2015, p. 162 35 Università degli Studi di Sassari

36 E. Auerbach, Mimesis: Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Berna, 1946

37 S. Brugnolo, The Pendulum Swing and the Privilege of Backwardness, in P. Mildonian, A partire da Venezia:

eredità, transiti, orizzonti. Cinquant’anni dell’AILC. Atti del Convegno internazionale di letteratura comparata.

Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2009

38 Letteratura Mondiale (da Welt: mondo e Literatur: letteratura). Concetto coniato nel 1827 da W. J. Goethe che auspicava una più vivace interazione culturale fra i popoli, dalla quale sarebbe scaturito anche un rapporto di fiducia fondato sull'universale umano.

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prodotto culturale che può far luce su grandi problematiche date per scontate o superate nelle produzioni del centro:

“The backwardness of the periphery allows its writers to perceive in a more intense and acute way certain phenomenologies which had become routine at the centers. Not only that, however: it would seem that the vision from afar which the great figures of the peripheries enjoyed is transformed into a vision of the impending future, prophecy, a Utopian or Dystopian perspective.”39

Ma cosa intendiamo parlando di periferia? Questo concetto viene ampliamente presentato alla fine degli anni Ottanta del Novecento negli studi del sociologo ed economista statunitense Immanuel M. Wellerstein40, il quale sviluppa

la teoria di un Sistema Mondo che fornisce una chiave di lettura moderna dello sviluppo economico: si tratta di un insieme di meccanismi che ridistribuiscono le risorse economiche del pianeta a partire da un centro verso le molteplici periferie41. Le relazioni che si istaurano tra questi due poli si fondano su una distribuzione ineguale delle risorse e un’organizzazione gerarchica del lavoro a seconda della posizione che ciascun Paese occupa all’interno di questo sistema globale. In altre parole, il mercato e le sue leggi diventano il mezzo con il quale il centro sfrutta a suo vantaggio la periferia, che ha valore soprattutto perché sede delle materie prime.

Ovviamente ciò che ci interessa in questa sede non è il concetto di Sistema Mondo dal punto di vista economico, ma non è possibile prescindere da questo per arrivare a parlare di un Sistema Mondo culturale e letterario: anche in quest’ultimo tipo di sistema sono presenti centri e periferie e, in accordo con Brugnolo, è possibile affermare che:

39 S. Brugnolo, The Pendulum Swing and the Privilege of Backwardness, in P. Mildonian, A partire da Venezia:

eredità, transiti, orizzonti. Cinquant’anni dell’AILC. Atti del Convegno internazionale di letteratura comparata.

Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2009 40 New York 1930

41 Lo studio di Wellerstein ripartisce, in realtà, il Sistema Mondo in 3 poli: il centro, la semiperiferia e la periferia. Qui parliamo solamente dei due poli centro e periferia per una questione di semplicità, non essendo questo uno studio specificatamente economico.

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“It is almost as if the peripheral writers possessed, at laeast on a theoretical level, the privilege of later reconsidering and redefining those processes that elsewhere had become stabilised, a sort of second nature. I have termed this phenomenon the privilege of backwardness. It is often the role of the so-called peripheries (in the various senses of the term) to remind us that what we thought being solved has not yet been solved” poichè “ there exists a dark side to progress and it is often the writers of the periphery who explore it on behalf of all of us.”42

Quest’ultima affermazione diventa interessantissima se messa in relazione con il nostro studio: Auerbach in Mimesis faceva forte riferimento alla letteratura russa del 1900, in particolare al romanzo di Dostoevskij, studiando l’oscillare del pendolo che caratterizza l’interiorità dei suoi personaggi, connotati da “immensurable vertiginous oscillations”43 ma è possibile allargare e generalizzare

il discorso anche a letterature come quella dell’America Latina:

“When one thinks about it, something similar may also be said of the subsequent Japanese, Latin- American and African novels: they have played a role in Weltliteratur because they had a great effect on both Western readers and writers. And they succeeded in doing so because they constituted a creative peripheral response to the cultural and literary models proposed by centers of the world; a response that has enable those central readers and writers to enter into contact with a new image of their civilization as seen by the Other.”44

Per questo, è possibile quindi asserire che le letterature come quella che questa tesi prende in esame, con le loro peculiarità, possono dire qualcosa di veramente nuovo al mondo della Letteratura Mondiale e allo stesso tempo dare una chiave di lettura personale a meccanismi assorbiti ma in qualche modo

42 S. Brugnolo, The Pendulum Swing and the Privilege of Backwardness, in P. Mildonian, A partire da Venezia:

eredità, transiti, orizzonti. Cinquant’anni dell’AILC. Atti del Convegno internazionale di letteratura comparata.

Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2009 43 Ibid. p.3

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criticabili dei grandi centri culturali ed economici, “the dark side”45 non

semplicemente delle strutture centrali, ma qualche volta dell’umanità in genere. Voglio però chiarire un punto chiave per il nostro studio: ho la sensazione che il concetto di periferia, e tutto ciò che può essere legato a questo, sia stato, a mio avviso, connotato troppo negativamente dal pensiero moderno. Essere periferia, economicamente e socialmente parlando, non è obbligatoriamente sinonimo di una produzione culturale e artistica scadente o meno importante, anzi; abbiamo tantissimi esempi di opere che sono nate in parti periferiche del mondo ma che hanno avuto un impatto fortissimo sulla cultura economicamente mondiale, proprio per la capacità di cui si parlava prima, che è quella di mostrare puntualmente il nuovo e allo stesso tempo gettare luce su problematiche legate al mondo più classicamente definito centrale. Stiamo parlando per esempio di opere come Cien años de soledad che riuscì a spostare l’attenzione sull’America Latina:

“Nessun’opera del dopoguerra è stata accolta dal vecchio mondo con più entusiasmo di Cent’anni di Solitudine. Significa, questo, che il romanzo di García Márquez appartiene di fatto, che lo voglia o meno, alla tradizione occidentale? Non proprio, o meglio: la appartiene a metà. È abbastanza interno da poterle parlare, e farsi capire. Ma è anche abbastanza esterno da poter dire cose diverse – e riuscire anzi a risolvere dei problemi simbolici di cui la letteratura europea non sapeva più venirne a capo.”46

Ma stiamo parlando anche di opere che forse hanno avuto una risonanza minore a livello mondiale, ma che possono comunque esserci d’aiuto per capire quanto una produzione in terra “periferica” possa dare testimonianza della realtà in senso globale. Prendiamo, per esempio, la novella di Verga Libertà47: siamo di fronte ad un testo nazionale che non si limita a parlarci della condizione siciliana della post unità italiana, ma più ampiamente ci presenta l’altra faccia del

45 Vedi nota 43

46 F. Moretti, Opere Mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino, 1994, p. 219

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progresso. In un articolo pubblicato su Lettere Aperte si esamina a fondo questa novella verghiana, proponendo un approccio teorico e comparatistico per “tentarne una lettura più universale, meno italiana”48: Verga si ispira per la sua

breve narrazione a fatti realmente accaduti ma non ci troviamo all’interno di una semplice cronaca storica; Libertà parla del tentativo fallimentare di modificare un mondo bloccato e arretrato, ci parla dunque della porzione periferica di quel sistema-mondo in cui ci si trovava a vivere e in cui la parola Libertà rimaneva una mera ideologia utopica e non qualcosa di effettivamente raggiungibile:

“La rappresentazione della condizione periferica come l’altra faccia del progresso. Il che assomiglia quasi ad un paradosso che possiamo riassumere così: per certi scrittori l’arretratezza delle periferie costituisce lo specchio rovesciato e rivelatore della modernità delle metropoli, delle sue contraddizioni.”49

È anche secondo questo spirito che ho scelto di parlare della letteratura dell’America Latina, in particolar modo di opere di grandi autori come García Márquez, Alejo Carpentier e Juan Rulfo: la loro produzione narrativa non è certo sorta in zone centrali del mondo ma dà voce a messaggi fortissimi e dalla portata universale.

Torniamo adesso a quel rapporto fallimentare con il progresso di cui si è parlato fin dall’inizio: nelle zone periferiche sembra che il progresso e le dinamiche di modernizzazione messe in piedi dal centro ( parliamo anche di centro all’interno di uno stesso contesto e non soltanto il centro inteso come occidente) non trovino facilmente il terreno su cui fiorire in modo naturale e fluido, ma costante è l’elemento di difficoltà e di malinteso.

Molto calzanti sono, a mio avviso, le parole di Moretti che, parlando appunto di opere come Cien años de soledad, si esprime in questi termini:

48 S. Brugnolo, Libertà di Verga ovvero come il testo rovescia l’ideologia dell’autore, su www.lettereaperte.net 2014

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“La storia di Macondo non procede da sé, ma è continuamente intersecata e deviata da altre storie: da processi che iniziano in Europa e in Asia, in Colombia, America Latina, Satati Uniti. (..) Questa è di nuovo la geografia dell’opera mondo: ampia, eterogenea, complessa. Rispetto al Faust, però, la prospettiva è stata rovesciata. Non vediamo più le cose dal centro del sistema-mondo – bensì dalla periferia. E da questo nuovo punto di vista, le digressioni epiche diventano un’altra cosa: interferenze, eventi pesanti, con conseguenze di lunga durata. (..) La storia della United Fruit (..) in Cent’anni di solitudine, è la svolta da cui Macondo non riuscirà più a riprendersi.”50

Le opere analizzate in questo studio sono quindi testi che finalmente danno voce a problematiche di lunga durata, e che, parlando di Colombia, ma anche di Cuba o di Messico, parlano al lettore di Mondo, e delle spesso gravi e confuse conseguenze di quel meccanismo ambivalente chiamato progresso. I romanzi che prenderemo in esame nei prossimi capitoli sono appunto El Reino de este Mundo di Alejo Carpentier, Pedro Páramo di Juan Rulfo e Cien años de soledad di Gabriel García Márquez, analizzati seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione.

50 F. Moretti, Opere Mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Einaudi, Torino, 1994, p. 229

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Capitolo Secondo

La prima opera che abbiamo deciso di prendere in esame è El Reino de este Mundo (1949) di Alejo Carpentier, indagando, come già abbiamo accennato nel capitolo precedente, cosa emerge da queste pagine per quanto riguarda le dinamiche del rapporto con l’Europa e i tentativi di affrancarsi da quei legami di sottomissione e dipendenza che si erano istaurati e consolidati nell’età coloniale. Partendo dal presupposto che la narrativa è una lente speciale e privilegiata per le problematiche storico-politiche di ogni realtà nazionale, questo è ancora più evidente quando si parla dell’America Latina dei secoli XIX e XX poiché sono gli anni in cui si inizia a dar voce al bisogno di indipendenza e di autonomia e tutte le produzioni letterarie sorte in questi bacini culturali trattano, direttamente o indirettamente, questi temi.

Alejo Carpentier è senza dubbio uno degli autori che apre la strada a un tipo di narrativa che si emancipa da ogni sorta di regionalismo per aprirsi verso il mercato della letteratura globale; con il suo lavoro si iniziò a credere nel romanzo come veicolo potente per l’espressione della cultura americana, concependo le idee e i progetti letterari più complessi e influenti per la narrativa di questo continente a partire dalla metà del 19001. Siamo infatti negli anni precedenti a quel boom letterario2 che interesserà la letteratura ispano-americana dal 1960 in poi e è corretto inserire Carpentier tra coloro che prepararono il terreno per questo momento di grande fervore narrativo e culturale.

2.1 Cenni biografici e ideologici

Cercando di tracciare per grandi linee la vita di Alejo Carpentier, salta subito all’occhio la problematica sulla definizione del luogo di nascita. Nonostante lui stesso affermasse, come molte sue biografie, di essere nato a La Habana nel 1904, alcuni studiosi e critici letterari fanno notare come esista un certificato di nascita che indica Losanna, in Svizzera, come città che in realtà avrebbe dato i natali al nostro autore. Non

1 J.M. Oviedo, Historia de la literatura hispanoamericana Vol.3, Allianza Editorial, Madrid, 2001, p.507 2 Il termine viene coniato dalla rivista argentina Primera Plana

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è questa la sede per una vera e propria indagine in questo senso, ma ciò che potrebbe essere curioso denunciare è il grande desiderio di Carpentier di essere legato indissolubilmente a questa isola, Cuba, nonostante un certo documento sembri dimostrare il contrario. Queste le parole di Carpentier a riguardo:

“Nací en la Habana, en la calle Maloja, en 1904. Mi padre era francés, arquitecto, y mi madre rusa, que había hecho estudios de medicina en Suiza. Vinieron a Cuba en 1902, por la única razón de que a mi padre le reventaba Europa.”3

Sia questa una menzogna o meno, l’atteggiamento è quello di chi vuol rivendicare la propria appartenenza a un luogo, di chi ricerca una profonda identità e compenetrazione con la terra in cui vive4: non a caso, infatti, il tema dell’affermazione

di una identità americana è quella che permea tutte le sue opere. Proprio per questo desiderio di appartenenza, probabilmente Carpentier voleva affrancarsi dalle origini dategli dai suoi genitori, entrambi europei. Eppure, come nota Jacques Joset nel suo studio Historia cruzadas de novelas hispanoamericanas5, il polo caribeño è sempre in relazione con quello europeo in tutta l’opera di Carpentier, come due forti pilastri che sorreggono la struttura della sua intera narrativa. Questo studioso, infatti, richiama la nostra attenzione sul fatto che Carpentier, in modo molto preciso e puntuale, indica, per ogni suo testo, la data e il luogo della redazione: si spazia da Caracas a La Habana fino a Parigi; si spazia, quindi, dall’America Latina all’Europa. Al di là delle cause pratiche legate alla biografia dell’autore, che lo hanno portato a vivere in entrambi i paesi per periodi di tempo più o meno lunghi, solo questo fatto potrebbe essere indicatore delle referenze culturali di Carpentier: il sincretismo culturale che ritroveremo in alcuni dei suoi personaggi, il “mestizaje cultural”6 che è tematizzato, in molteplici forme,

all’interno della sua narrativa, sembra essere stato vissuto in prima persona dall’autore.

3 L. Scarabelli, Immagine, Mito e Storia. El reino de este mundo di Alejo Carpentier , Bulzoni Editore, Roma, 2011, pp. 13-14

4 Ibid. p.15

5 J. Joset, Historias cruzadas de novelas hispanoamericanas: Juan Rulfo, Alejo Carpentier, Mario Vargas Llosa, Carlos

Fuentes, Gabriel García Márquez, José Donoso, Iberoamericana, Madrid, 1995 6 Ibid. p. 33

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Torniamo adesso al dato biografico. Massimo esponente dell’avanguardia cubana, esperto conoscitore della musica afro, difensore dei diritti degli afro-cubani, in Carpentier non mancano però, come abbiamo detto, i legami con il continente da cui provengono i genitori: è a Parigi nel 1928, in esilio forzato da Cuba per allontanarsi dalla minaccia della dittatura di Gerardo Machado, contro la quale aveva lottato clandestinamente. Qui Carpentier entra in contatto con l’ambiente avanguardista del surrealismo da cui sarà molto influenzato in un primo momento, soprattutto per quanto concerne la fede nella sperimentazione linguistica: siamo nella fase in cui si affinano gli strumenti per poi tornare a parlare di America in modo molto americano. Ciò che accomuna il surrealismo francese con la sperimentazione americana è essenzialmente il concetto stesso di surrealtà come rottura attraverso l’immaginazione, portando però frutti differenti. Il frutto più rilevante è sicuramente il real maravilloso americano, nome dato da Carpentier alla corrente di sperimentazione che lui in qualche modo inaugura.

Siamo in un periodo in cui in America Latina è forte la necessità di parlare del proprio paese e della propria cultura in modo unico, perché si è finalmente consapevoli dell’unicità del territorio in cui Carpentier e altri autori si trovano a vivere. E il maravilloso pare essere l’unico mezzo in grado di dare forma alla ricchezza di queste nazioni, che sono indipendenti da pochi anni ma posseggono una storia di tradizioni ampissima e debordante, che deve quindi essere rivalutata ed espressa.

Ma perché proprio in America nasce e si radica il real maravilloso? Abbiamo già lungamente discusso come la meraviglia scaturisca nell’animo di chiunque si approcci a questo territorio, soprattutto per la prima volta: basti pensare alle descrizioni del paesaggio fatte da Cristoforo Colombo nei suoi diari e nelle sue lettere, solo per fare un esempio. A parlare però di real maravilloso è qualcuno che in questa terra è nato, o comunque è cresciuto; Carpentier infatti, dopo i suoi numerosi viaggi da e per l’Europa, comprende e riscopre l’unicità del suo paese, la meraviglia che è connaturata e non creata artificiosamente dall’uomo. Questo fatto è sicuramente degno di nota: il letterato, o l’artista in genere, latinoamericano che riesce a percepire il meraviglioso presente nel suo territorio è riuscito in quel processo culturale che possiamo definire come processo di straniamento, che porta alla riconsiderazione del proprio mondo e a riscoprire la meraviglia come la scopre un estraneo per la prima volta, ma con una consapevolezza e

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una comprensione molto più profonda rispetto a quest’ultimo poiché ciò che meraviglia è interno al proprio universo, inconsapevolmente già in suo possesso. Carpentier sembra aver raggiunto questa consapevolezza e sperimentato questa sorta di straniamento, soprattutto grazie al distacco dal continente americano, e, dopo questa esperienza, decide di scrivere una sorta di manifesto per delineare le caratteristiche del real maravilloso americano, una filosofia della percezione del reale più che una vera e propria corrente letteraria. Per manifesto intendo naturalmente il famosissimo prologo a El Reino de este Mundo, nel quale l’autore sviluppa il suo concetto di real maravilloso prendendo nettamente le distanze dal surrealismo francese e da tutto ciò che lui definisce “obtenido con trucos de prestidigitación”7: Carpentier critica in questa sede le

formule utilizzate per “produrre” il meraviglioso in Europa, dove si cerca di stupire e scioccare il lettore con immagini assurde e fittizie8. In America non c’è bisogno di

questi trucchi poiché “ todo resulta maravilloso en una historia imposible de situar en Europa, y que es tan real, sin embargo, como cualquier suceso ejemplar de los consignados, para pedagógica edificación, en los manuales escolares. ¿ Pero qué es la historia de América toda sino una crónica de lo real-maravilloso?”9

Parlando di real maravilloso americano, però, non si può non fare accenno al concetto di realismo mágico con il quale spesso si è confuso o, talvolta, contrapposto. Molto brevemente potremo dire che, limitandoci anche solo ad esaminare il termine realismo mágico, siamo di fronte ad un “ismo” perciò a una corrente, a una pratica letteraria:

“El proyecto de Carpentier se reparte necesariamente en tres aspectos: realidad, percepción y expresión. Lo real maravilloso se refiere únicamente a los dos primeros: datos más o menos objetivos acerca de la naturaleza y del hombre americano (lo real), percibidos desde el ángulo adecuado, afectan al sujeto de tal modo, que éste los interpreta como maravillosos. En cambio, el realismo mágico es, desde luego, un «ismo»: no algo que se es sino algo que se practica, un modo de expresión, un conjunto de procedimientos. Su relación directa no es con la realidad, sino con el arte ( léase

7 A. Carpentier, El Reino de este Mundo, Alianza Editorial, Madrid, 2012, p.10

8 Basti pensare a quadri come quelli di Giorgio De Chirico (1888-1978), solo per fare un esempio. 9 A. Carpentier, El Reino de este Mundo, Alianza Editorial, Madrid, 2012, p.17

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