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Il concetto di democrazia e la rappresentanza politica nella teoria democratica di Giovanni Sartori.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di laurea

LA DEMOCRAZIA NELLA TEORIA POLITICA

DI GIOVANNI SARTORI

RELATORE

Prof. Tommaso Greco

CANDIDATO

Giuseppe Russo

(2)

2 INDICE

Premessa...2

Capitolo 1. DEFINIRE LA DEMOCRAZIA...9

1.1 L’etimologia: “demos” e “kratos”...9

1.2 Dal Realismo all’utopismo democratico...14

1.3 Le democrazie non occidentali...19

1.4 “Provare” la democrazia...24

Capitolo 2. ATTUARE LA DEMOCRAZIA...29

2.1 Antichità e modernità: polis e Stato...30

2.2 Libertà ed uguaglianza...36

2.3 Liberalismo, Socialismo, Comunismo...43

2.4 Il mercato “malvagio”...49

Capitolo 3. LA RAPPRESENTANZA ED IL SISTEMA DEI PARTITI...54

3.1 L’opinione pubblica...54

3.2 La democrazia verticale...60

3.3 Sistemi di partito...64

3.4 Tipi di partito...68

3.5 La competizione partitica...72

Capitolo 4. L’IMPEGNO CIVILE...76

4.1 Il “problema” della comunicazione...76

4.2 Le “riforme” ed il sistema elettorale...84

4.3 La fine dell’ideologia...89

Conclusioni...95

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3 Premessa

Da molto tempo l’Italia vive una situazione di precarietà politico-istituzionale, la quale può considerarsi causa del persistere al centro del dibattito pubblico di questioni che sono alla base della vita democratica e che in altri paesi non costituiscono un nodo problematico.

Un modo proficuo per discutere di questi problemi è certamente quello di volgersi alla ricostruzione del pensiero di quanti si sono impegnati in una riflessione intensamente calata dentro questa realtà al fine di indicare una plausibile via d’uscita. Può essere utile, a questo fine, analizzare il pensiero di un autore quale Giovanni Sartori, unanimemente riconosciuto come uno dei più importanti teorici della democrazia, sia per la sua produzione in ambito accademico sia per i suoi numerosi interventi all’interno del dibattito pubblico.

Nato a Firenze il 13 maggio 1924, Giovanni Sartori, dottore in Scienze Politiche e Sociali a ventidue anni, già nel 1950 diventa Professore incaricato di Storia della filosofia moderna nella stessa università del capoluogo toscano.

Si trasferisce alla cattedra di Sociologia nel 1961, successivamente a quella di Scienza politica nel 1966, unico titolare della disciplina in Italia.

Nel 1974 fonda l'Istituto Universitario Europeo, di cui è Professore fino al 1976, anno in cui accetta la cattedra di Scienza Politica alla Stanford University, per poi diventare dal 1979 Albert Schweitzer Professor in the Humanities alla Columbia University fino al 1994, dividendosi gli ultimi anni con il Cesare Alfieri di Firenze dove era

(4)

4 cominciata quasi cinquant'anni prima la sua carriera accademica.1 Già da questo autorevolissimo curriculum si intuisce la centralità del ruolo di Giovanni Sartori soprattutto per quel che riguarda l'opera di ricostruzione e ridefinizione quale autonoma disciplina della scienza politica. Non a caso, come tra l'altro ritenuto da Norberto Bobbio2, è considerato uno dei fautori principali (proprio insieme a Bobbio) della definitiva affermazione dello studio dei fenomeni politici nel secondo dopoguerra.

A tal proposito è utile porre l’accento sulle differenti considerazioni fatte riguardo alla definizione dei confini della scienza politica da parte dei due autori, anche al fine di avere ben presente l’ambito disciplinare entro il quale inseriscono ogni riflessione circa i fenomeni politici analizzati.

Bobbio differenzia la scienza politica soltanto rispetto alle scienze giuridiche e alla storiografia. Premesso che tanto il giurista quanto il politologo hanno riguardo esclusivamente per i comportamenti tipici o astratti, lo studioso torinese afferma che mentre il primo ne analizza le conseguenze in termini di poteri e facoltà regolati da un dato ordinamento giuridico, lo scienziato della politica ne studia le motivazioni per poter valutare le diverse posizioni assunte dall’individuo nell’ambito della vita politica e analizzare i rapporti umani come conseguenza dei rapporti di forza sostanziali, oltre che formali.

Dall’altro punto di vista, invece, Bobbio considera che mentre il politologo utilizza concetti generali per affrontare i fenomeni di massa da una prospettiva in cui ‹‹scompaiono gli individui e rimangono i tipi››, la storia si limita ad osservare i singoli

1 O. Massari, Nota bio-bibliografica, in G. Pasquino (a cura di), La scienza politica di

Giovanni Sartori, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 267-284.

2

N. Bobbio, La scienza politica in Italia: da Mosca a Sartori, in ‹‹Mondoperaio››, 1985, pp. 90-97.

(5)

5 avvenimenti particolari con attenzione agli individui concreti.3 Sartori, differentemente dallo studioso torinese, si preoccupa di distinguere la disciplina della scienza politica non soltanto rispetto al diritto ed alla storia, ma anche dalla filosofia, dalla cultura e dalla sociologia.

In particolare durante gli anni fiorentini, egli matura la convinzione che occorra separare la scienza politica dalla cultura dominante, concausa, insieme a ideologismi ed errate descrizioni, di quell' “inconcludente scientismo (…) idolo costruito su un cumulo di complessi di inferiorità”4.

Per distinguere la scienza politica dalla storia e dalla filosofia, Sartori ne traccia i caratteri affermando che lo scienziato della politica non può limitarsi, come lo storico, ad una mera ricapitolazione dei fatti del passato. Lo scienziato della politica, distinguendosi anche dal filosofo il quale resta concentrato su discorsi prettamente assiologici, deve occuparsi del presente e, risolvendone i problemi, cercare di individuare le conseguenze potenzialmente condizionanti il domani.

Da qui l’autonomizzazione dalla sociologia, in particolare politica, la quale parte dalle strutture e dai rapporti sociali per comprenderne l’influenza sulla vita politica. La scienza politica, afferma Sartori, parte dallo Stato, dal sistema politico, per capire come influenzano la società.5

È facile dedurne un approccio non asettico e fine a se stesso, ma diretto ad orientare il muoversi degli “attori” politici, in primis dei partiti, in conformità alle previsioni teoriche ritenute fondanti la

3 N.Bobbio, La scienza politica italiana: insegnamento e autonomia

interdisciplinare, in ‹‹Tempi Moderni››, 1963, pp. 45-52.

4 G. Sartori, Lo studio comparato dei regimi e dei sistemi politici, in ‹‹Studi Politici››,

1954, pp. 7-25.

5

G. Sartori, Scienza politica e conoscenza retrospettiva, in ‹‹Studi Politici››, 1952, pp. 52-74.

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6 meccanica del sistema di volta in volta considerato.

Giovanni Sartori, alla duplice concezione della politica fatta oggetto di un’autonoma “scienza”, come insieme di convinzioni e ideali che orientano l’agire politico e come ‹‹contesto›› in cui si assumono delle decisioni, fa corrispondere i due modi di realizzazione della scienza politica stessa.

Se la politica si configura quale comunicazione di valori ed ideali potenzialmente condizionanti i comportamenti, il problema principale dello studioso consiste nel predisporre un “linguaggio” in cui le parole indicano quello che rappresentano senza cadere in eccessi ideologici.

Se, diversamente, la politica sta ad indicare le diverse manifestazioni della vita associata, compito della scienza politica è occuparsi dei rapporti di sotto e sovraordinazione sia dal punto di vista orizzontale, che pone l’accento sulla comunità, sia dal punto di vista verticale, che evidenzia invece la struttura gerarchica ed eventuali conflittualità.6

Teorie, queste, comunque compiutamente descritte nella copiosa attività di produzione scientifica ed editoriale dello stesso politologo fiorentino.

Nel presente lavoro non tenteremo di ricostruire tutto il percorso compiuto da Sartori, né di fornire un panorama completo della sua vasta produzione. Appare preferibile, in questa sede, soffermarsi sui contributi principali, concordemente ritenuti capisaldi della teoria democratica del secondo dopoguerra.

Punto di partenza della nostra analisi non può che essere il lavoro fondamentale intitolato Democrazia e Definizioni7, opera cardine

6

G. Sartori, La politica: logica e metodo in scienze sociali, Milano, SugarCo, 1979, pp. 204-208.

(7)

7 nella quale si sviscerano i concetti primari della teoria democratica sartoriana, nozioni poi ricorrenti in ogni opera successiva atte a descrivere l'architettura istituzionale dalla quale partire per capire come ne vengono influenzati la vita e l'agire politico-sociale.

Altro pilastro è poi uno studio sui partiti e i sistemi di partito8, anticipato da dispense uscite nell'anno accademico 1964-65, in lingua inglese, tradotto e studiato nelle più importanti università mondiali, opera tuttora valida dal punto di vista teorico e forse la più limpida dimostrazione di quanto la teoria di Giovanni Sartori abbia condizionato ed influenzi costantemente ogni tentativo di analisi relativo al soggetto-partito.

Peculiarità di quest'opera, che tra l'altro la differenzia da molte di altri illustri politologi, è il non riferirsi al singolo partito, ma offrire una visione sistemica trattando appunto di sistemi di partito, in un'indagine comparatistica del funzionamento e della trasformazione degli stessi.

Tra i contributi scientifici di Sartori, non si può non citare la fondazione nel 1971 e la direzione per più di trenta anni della

Rivista italiana di Scienza Politica, la più importante rivista

scientifica del settore, in Italia, caratterizzata da fini estranei al comune intendere le riviste accademiche: un'operazione culturale, atta a mettere a disposizione di chiunque volesse interessarsi di politica il meglio della produzione scientifica italiana e straniera9. Altre opere non meno importanti sono poi Elementi di teoria

politica10, nella quale partendo dai fondamenti costitutivi di ogni

1969; 8° ristampa 1989).

8 G. Sartori, Parties and Party Systems: A Framework for Analysis, Cambridge

University Press, New York, 1976.

9 G. Pasquino, Premessa, in Id. (a cura di), cit., p.8. 10

G. Sartori, Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1987 (2° ed. 1990; 3° ed. 1995; ultima ed. 2002). L’edizione cui si farà riferimento nel corso del lavoro è la prima, risalente al 1987.

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8 sistema politico si riflette sul destino della liberaldemocrazia nel mondo contemporaneo; o ancora Democrazia: cosa è11, dove, come

spiegato dallo stesso autore nella premessa all'ultima ristampa, forte dei trascorsi degli anni precedenti e della completa conoscenza del “fenomeno democratico”, mette a fuoco in maniera analitica (Parte Prima) e poi storica (Parte Seconda) le varie problematiche per poi concentrarsi (Appendici) sul post caduta del muro di Berlino nel 1989 e su nuove domande, dall'esportabilità della democrazia al rapporto democrazia e benessere influenzato dall’insostenibilità dello sviluppo economico.

Ciò detto può in breve farsi qualche considerazione sull'impegno civile di Sartori e sulla sua partecipazione attiva al dibattito pubblico, in particolare a partire dagli anni Ottanta, quando a seguito della crisi del sistema culminata con gli scandali di “Mani Pulite” ed il movimento referendario promosso da Mario Segni iniziò quell'interminabile dibattito ancora oggi in corso sulle c.d. riforme.

Il politologo, tra i molti rappresentanti politici e studiosi alle prese con tali questioni, propose sin da subito di individuare nella legge elettorale il nocciolo della questione istituzionale italiana.

Mentre ci si affannava inutilmente ad elaborare teorie sulla validità di un impianto maggioritario invece che proporzionale, Sartori con molta lungimiranza, riconoscendo nella modifica alle modalità di elezione l'unica possibilità di breve periodo per riformare il sistema, criticava l'assunto secondo il quale era necessaria ‹‹stabilità›› per aversi ‹‹governabilità›› sostenendo piuttosto quanto per quest'ultima fosse essenziale ridurre la frammentazione politica e dunque garantire quell'omogeneità dei governi, fondamentale per

11

G. Sartori, Democrazia: cosa è, Rizzoli, Milano, 1993 (4 ristampe; in Bur Supersaggi, 1994, 1995, 1996, 1997, 2000).

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9 aversi reale efficienza.

Al di là della preferenza per il semi-presidenzialismo, fatto seguire al proposto doppio turno francese integrato da meccanismi premiali12, quel che interessa far notare è la sottolineatura da parte dello stesso Sartori dell'errore di quanti, partendo da un indebito accostamento tra sistemi elettorali e forme di governo, tendono ad affermare che il sistema elettorale maggioritario implichi una qualche forma di presidenzialismo e quello proporzionale il parlamentarismo.

In Francia, pur avendosi un Presidente con funzioni di governo eletto con una legge maggioritaria, si ha pur sempre un sistema parlamentare dove il Governo deve avere la fiducia del Parlamento; mentre in Germania, dove il Capo del Governo può essere sfiduciato dal Parlamento e la legge elettorale è proporzionale, il sistema garantisce (grazie all'istituto della c.d. fiducia costruttiva) efficacia e stabilità dell'Esecutivo almeno quanto i più celebri esempi di sistemi presidenziali.

Di là da tali considerazioni specifiche, è certo comunque l'indiscusso valore di uno studioso diventato punto di riferimento di più generazioni successive, le cui teorie riescono ancora oggi a dare risposte di fronte ai diversi cambiamenti della realtà politica, istituzionale e sociale.

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10 Capitolo 1. Definire la democrazia.

Come dimostrano secoli di riflessione e di discussioni, provare a definire la democrazia, cercando di individuarne la vera essenza, è tutt'altro che semplice. Naturalmente il discorso non può che muovere dal significato etimologico del termine, avendo però piena consapevolezza dell'insufficienza di questo approccio a fini di un esame approfondito.

Sartori a tal proposito pone sin da subito la necessità di una distinzione tra definizione descrittiva e definizione prescrittiva1, proprio a far notare che ogni esperienza democratica si sviluppa dal dislivello tra ‹‹essere›› e ‹‹dover-essere››, lungo una linea tracciata da aspirazioni ideali che vanno sempre oltre le condizioni reali.

Ciò presupposto, è intuitivo che mentre tutti, più o meno, sappiamo quale dovrebbe essere una democrazia ideale, poco o nulla si conosce circa le condizioni di una democrazia almeno possibile. Da qui i trabocchetti2 che per l'autore fiorentino insidiano ogni discorso sulla democrazia. Per primo quello terminologico: occuparsi della parola ignorando la cosa. Poi quello del cattivo realismo: considerare valido soltanto il reale e per nulla l'ideale. Terzo quello perfezionistico: l'esaltazione dell'ideale.

1.1 L'etimologia: “demos” e “kratos”.

“Democrazia”, alla lettera, significa “potere del popolo”, vale a dire che in una comunità politica il potere appartiene al popolo.

In primo luogo occorre interpretare correttamente il termine “demos”, il quale secondo Sartori si può intendere in cinque modi

1

G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957, p. 7.

(11)

11 diversi3:

1) popolo inteso quale totalità organica e indivisibile;

2) popolo come pluralità espressa dal principio maggioritario

assoluto;

3) popolo come pluralità espressa dal principio maggioritario

temperato;

4) pluralità approssimativa: molti; 5) pluralità integrale: tutti.

Fatta questa classificazione, il politologo fiorentino critica le ultime due accezioni in quanto non utilizzabili come criterio. La clausola iperdemocratica del “tutti”, se non altro per le differenti interpretazioni di cui è suscettibile - potendosi riferire per esempio a tutti i cittadini piuttosto che a tutti i residenti in un territorio -, in nessun caso potrebbe porsi a fondamento di una qualsiasi definizione di democrazia.

Allo stesso modo, il riferimento approssimativo ai “molti”, dovendosi ogni volta stabilire alla stregua dello stesso quanta parte della totalità serva per identificare il “popolo”, non può fungere da riferimento per una democrazia funzionante.

A questo punto, Sartori fa notare come in base alle altre tre definizioni sia possibile giustificare qualsiasi forma di governo. Intendere il popolo come totalità indivisibile potrebbe porsi a fondamento dell'esercizio più dittatoriale e tirannico del potere: infatti, nessuna democrazia realmente tale si richiama al popolo nel senso romantico del termine, come “fusione organica”, idea legittimante al contrario i totalitarismi del Novecento.

A farlo discendere poi dall'applicazione del principio maggioritario assoluto, con esclusiva considerazione per il risultato numerico, il

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12 concetto di popolo quale 51% che conta (sempre) per tutti rappresenta il limite di rottura del sistema, poiché l'impossibilità per il restante 49% di subentrare alla maggioranza è assolutamente intollerabile e porterebbe al blocco del regime democratico.

Ne consegue che solo l'applicazione del principio maggioritario temperato, riconoscendo il potere alla maggioranza e tutelando al tempo stesso le minoranze, fornisce una soluzione compatibile coi parametri democratici.

Fatte queste premesse, si arriva al punto in cui cominciano le difficoltà insuperabili per la “democrazia etimologica”: come limitare il potere di chi ha il diritto di esercitarlo?

L'etimologo, afferma Sartori, preoccupandosi solo della parola, non considera tutti quegli elementi estranei alla volontà popolare che entrano in gioco al fine di determinare i confini all'interno dei quali chi è legittimato esercita il potere.

È la consequenzialità delle regole procedurali rispetto alla definizione di “sistema democratico” che anche Bobbio definisce necessaria al fine di capire cosa effettivamente voglia dire volontà collettiva.4

Tutto ciò serve a rilevare come, nell’analisi del potere, anche quando sia esercitato dal popolo, non ci possa limitare al problema della titolarità, ma si debba rivolgere l’attenzione anche a quello delle modalità di esercizio.

Il discorso si sposta perciò dal piano del significato letterale a quello dell'analisi della democrazia come tecnica costituzionale i cui meccanismi non vengono considerati né rappresentati da quello che è il significato attribuito alla parola.

4

N. Bobbio, Quale Socialismo?, edizione speciale per Corriere della Sera pubblicata su licenza di Einaudi editore, Torino, 2011, p. 113.

(13)

13 Ogni sistema democratico moderno si fonda sul principio maggioritario, su meccanismi elettivi e, data la complessità del contesto sociale, sulla “rappresentanza” al potere.

Questi stessi elementi però, a seconda di come vengono impiegati, rischiano di esserne contemporaneamente il punto debole, in quanto paradossalmente potrebbero giustificare un esercizio autocratico del potere. Sartori esemplifica affermando che un'elezione non è detto sia necessariamente libera, di conseguenza la rappresentanza non sarebbe autentica. Ecco che chi delega il proprio potere si ritroverebbe in sostanza a perderlo.

Richiamando nuovamente Bobbio, ci si potrebbe riferire alla preferibilità «etica» del metodo democratico, prospettiva che esalta la libertà quale autonomia e la considera concetto ultimo indispensabile per fondare l'attribuzione di potere.5

Tutti questi aspetti vengono trascurati nell'ambito dell'indagine etimologica, dalla quale il discorso risulta sospeso: «potere del popolo» è un'espressione che non basta a spiegare tali evoluzioni, proprio perché non consente di individuare la diversità dei ruoli del “popolo”, fonte e allo stesso tempo destinatario dell'esercizio del potere medesimo.

Da tutto ciò risulta che ogni volta che si compari una democrazia rispetto alla definizione etimologica è plausibile che le carenze siano insite nella definizione più che nella realtà analizzata.

L'accezione data a “demos” e “kratos” può essere utile finché serva a giustificare il passaggio della titolarità del potere da un tiranno o da un'oligarchia al popolo, ma non può spingersi sino a riempire di

5 Cfr. N. Bobbio, Quale Socialismo?, cit., pp. 119-121 cercando di riassumere tutta la

letteratura sul tema, considera la preferibilità del metodo democratico secondo altre due prospettive: ‹‹politica››, per la quale la ragione della preferenza per la democrazia starebbe nel suo essere l'unico rimedio all'abuso di potere. ‹‹Utilitaristica››, secondo la quale dovrebbe considerarsi che i migliori interpreti dell'interesse collettivo siano gli stessi interessati.

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14 contenuti quell'idea di “società libera” ritenuta da sempre alla base del concetto di democrazia.

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15 1.2 Dal Realismo all'utopismo democratico.

Stabilito quale sia il significato letterale del termine “democrazia”, si può passare ad analizzare le questioni collegate alla “verità effettuale” cui esso si riferisce.

Giovanni Sartori afferma convintamente che “da Machiavelli in poi, siamo alle prese con un fantasma che gioverebbe esorcizzare: la «politica realistica», la politica come ‹‹pura politica››”.1

Egli parte da un'importante differenza concettuale: la distinzione tra il politico e la politica. Il politico, afferma, è una persona e perciò può farsene una tipologia, distinguendo tra «politico realista» e «politico idealista».

La politica è un fenomeno complesso che richiede la partecipazione e l'adesione di molte persone.

Ciò presupposto, Sartori sostiene che non basta prendere ad esempio un tipo di politico per denotare una politica. Dunque non può ritenersi esistente una politica “pura” solo perché può definirsi e porsi come modello un politico “puro”, presumibilmente attento solo al reale e senza la minima considerazione per principi ed ideali. È corretto reputare priva di significato la disputa tra presunti politici realisti e idealisti democratici: il realismo politico è un carattere distinguibile in qualsiasi posizione politica, non una specie di politica affiancabile, per esempio, a quella liberale piuttosto che socialista.

Il punto di vista realistico analizza i presupposti di fatto di qualsiasi ordinamento etico-politico: ma non va oltre, si arresta dove liberalismo, socialismo, democrazia o altro iniziano ad influenzare il corso degli eventi.

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16 Per fornire una prova concreta di quanto sia sbagliato impostare una disputa del genere, Sartori cita ad esempio il caso di Benedetto Croce.

Sartori sostiene che se l’Italia liberale si ritrovò inerme a dover subire l’affermazione del fascismo fu anche per l’attenzione esclusiva alla inutile divisione tra realisti e democratici i quali, quando ormai era troppo tardi, si ritrovarono poi d’accordo nel rimpiangere la libertà che con tanto sangue erano riusciti a conquistare.

Benedetto Croce fu tra i primi ammiratori di Machiavelli e convinto sostenitore della Realpolitik in aperta contesa con la ‹‹retorica›› democratica. Tuttavia, fa notare Sartori, dopo il tragico periodo fascista, fu lui stesso a scrivere che ‹‹non gli era venuto lontanamente nel pensiero che l’Italia potesse farsi togliere dalle mani la libertà che le era costata tanti sforzi››.2 Il che prova che il primo Croce “realista” si trovò erroneamente a “brandire il realismo politico non dentro alla liberal-democrazia ma contro la democrazia”.3

Il limite del liberalismo crociano è stato proprio quello di tenere costantemente distinti realismo ed etica. Infatti, mentre nella prima fase del suo pensiero – fino al 1924 – Croce era convinto che bastasse descrivere la politica per quella che è per risolvere il problema etico, nella seconda fase imperniò tutto sulla Libertà quale ideale morale preminente.

Al contrario, la tesi di Giovanni Sartori è che nessuna politica, in generale, può intendersi solo in termini prescrittivi o solo in termini di accertamento. Egli ritiene necessaria la simbiosi tra essere e dover-essere, in quanto non esisterebbe struttura etico-politica

2

B. Croce, Filosofia, poesia e storia, Ricciardi, 1951, p. 1172.

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17 senza alla base una serie di ‹‹valori›› ritenuti essenziali.

Ritornando al concetto di democrazia, è intuibile a questo punto il perchè il politologo ritenga illogico motivare la sfiducia nei confronti della democrazia stessa riferendosi alla sua incompatibilità con la realtà fattuale: infatti, può esservi ipoteticamente tanto un realismo democratico quanto un realismo anti-democratico. Semplicemente se non si crede nella democrazia è perché si ritengono migliori valori diversi.

Altrettanto illogico, specularmente, è rifiutare un accertamento descrittivo perché sembrerebbe in contrasto con l’ideale democratico: quasi come se una democrazia non debba tenere in conto le condizioni di fatto nelle quali si troverebbe ad operare.4 L'altra faccia della medaglia è rappresentata da quello che Sartori definisce il “perfezionismo democratico”, un modo errato di intendere gli ideali alla cui base sta appunto un loro impiego senza avere precisa cognizione di cosa effettivamente intendano. Coerentemente con quanto detto sul ‹‹realismo democratico››, partendo dall’assunto che una determinata realtà etico-politica semplicemente non verrebbe ad esistenza senza un proprio sostrato deontologico a sostegno, lo studioso fa notare come con l’obiettivo di elevare il più possibile l’ideale si finisca spesso per stravolgerne il rapporto con il reale.

Sartori distingue due modalità del perfezionismo democratico: un “perfezionismo mitologico”, relativo all’aspetto teorico della questione, caratterizzato da eccessive rappresentazioni di

4 In Democrazia: cosa è, Rizzoli, Milano, 1993, p. 38, Sartori conclude affermando

che “il realismo davvero tale è un puro e semplice realismo cognitivo. Se così, accertare il fatto è indispensabile anche per il democratico”. Anche dal punto di vista metodologico dunque è confermata l’idea della essenziale interconnessione tra accertamento e prescrizione, essere e dover-essere, al fine di una completa costruzione della struttura democratica.

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18 democrazia in cui si considerano quali accertamenti di fatto delle prescrizioni di valore; un “perfezionismo utopistico”, dal lato pratico del problema, fondato sulla pretesa di poter realizzare alla lettera una deontologia, un ideale.5

Afferma: ‹‹la democrazia non può non allevare miti; ma se non sappiamo ad un certo punto riconvertirli in realtà, il mito che riscalda le democrazie si trasforma in utopia che le distrugge››.6 L’utopismo non è altro che un caso limite di esaltazione deontologica, un modus operandi che tralascia completamente ogni considerazione sul rapporto e la complementarietà tra precetti ideali e realtà di fatto.

Per il politologo fiorentino l’ideale non è fatto per essere commutato in realtà; esso costituisce piuttosto un contrappeso del reale. I precetti deontologici sono degli eccessi che nascono dalla insoddisfazione per la realtà vissuta e ne costituiscono un fattore di costante pressione finalizzato al miglioramento continuo della qualità del vivere democratico.

Al netto comunque della teorizzazione analizzata riguardo agli estremi del ‹‹realismo›› e dell’‹‹utopismo›› resta sullo sfondo del ragionamento di Sartori un atteggiamento critico nei confronti della democrazia ideale, quasi come se un riferimento esplicito ad un “modello” possa accentuare gli aspetti negativi della democrazia reale per come si presenta.

Quest’atteggiamento è ad ogni modo da tenere distinto da quello che porta ad accettare una visione di pura politica, in quanto lo studioso non arriva mai al momento di rottura rappresentato dall’incompatibilità tra deontologia e accertamento. Si tratta solo di una visione meno ottimistica di altre, magari caratterizzate da una

5

Cfr. G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., pp. 47-48.

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19 maggiore influenza riconosciuta all’ideale.

Del resto, il contrariato rapporto tra democrazia e realtà è al centro di molte indagini e costituisce un luogo cruciale della riflessione di altri autori. Come ad esempio Norberto Bobbio, il quale giunse a parlare di “promesse non mantenute” evidenziando quelle che erano, a suo parere, delle vere e proprie “incompiutezze” della democrazia reale. La nascita della società pluralistica, la rappresentanza legata ad interessi particolari, il resistere delle oligarchie su vari livelli, lo spazio limitato in cui la democrazia ha valore, il c.d. potere invisibile e l'apatia politica sono tutti fattori che dimostrano quanto non siamo riusciti a realizzare compiutamente una democrazia in grado di dare concretezza ai valori teorizzati quali pilastri fondanti della stessa.7

Ecco dunque un approccio fondato quasi sul raffronto tra la democrazia ideale, optimum auspicabile, e la democrazia “di fatto” costruita dall’uomo col suo agire politico. Di certo un atteggiamento più propositivo di quello con cui Sartori, al di là della considerazione per i ‹‹valori››, analizza pregi e difetti dello status quo del vivere democratico.

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20 1.3 Le democrazie non occidentali.

Alla base del ragionamento di Sartori sta la convinzione che dire ‹‹democrazia›› o dire ‹‹democrazia di tipo occidentale›› sia lo stesso. Non per dimenticanza, ma in quanto il discorso sull'esistenza di un'“altra democrazia” rappresenta al più un'aspettativa, come vedremo, in realtà improponibile.

Non diversamente da quanto aveva fatto anche Hans Kelsen e da quanto poi dirà Norberto Bobbio, Sartori sostiene che il discorso sulla democrazia di tipo occidentale è l'unico possibile in quanto sono le stesse caratteristiche della democrazia orientale – un sistema politico a democrazia diretta, dittatoriale e monopartitico – ad allontanarla dalla liberaldemocrazia.1

Peraltro, pur essendo vero che le democrazie orientali non sono rappresentative, ciò non implica automaticamente la loro conversione in democrazie dirette in quanto non è impossibile che si abbia un regime politico allo stesso tempo indiretto e non-rappresentativo: indiretto perchè altro è la titolarità, altro ancora l'esercizio del potere; non-rappresentativo perchè appunto non c'è effettiva rappresentanza del cittadino.

E' evidente, tale volendo essere l'ideale di democrazia da affermare, che si ripropone come moderna e progressiva la formula della democrazia antica con l'aggravante del conoscerne le ragioni dell'impossibile applicazione, visto anche che pianificazione statale e democrazia diretta è intuitivo si escludano vicendevolmente. La democrazia diretta, data la postulata facilità di fare quel che necessario, presuppone che i ruoli di direzione siano occupabili da chiunque; invece, la pianificazione presume che tutto venga

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21 ordinato dall’alto da posizioni dominanti occupate da un’elite competente.2

La seconda caratteristica considerata è la dittatorialità, la quale sarebbe democratica solo perché “del proletariato”.

Si sa che la dittatura è un sistema di governo senza controllo e forme di limitazione, dunque l'idea di “dittatura del proletariato” è chiaro rappresenti un nonsenso in quanto la dittatura è per natura solo e soltanto del dittatore.

Sartori considera pure che i sostenitori di tale “altra” democrazia affermano di definire diversamente la dittatura in quanto di una classe e non predominio di uno, ma è chiaro come ciò rappresenti una confusione di problemi visto che l'estrazione sociale di chi è al potere è cosa diversa dalla struttura statale.

La teoria comunista ha alla base l'idea che la dittatura del proletariato sia un qualcosa di temporaneo in quanto deputata solo alla distruzione delle classi e dello Stato: perciò dopo essa si avrebbe una democrazia compiuta e matura.

Il politologo fiorentino reputa tale promessa priva di credibilità per tre ragioni: in primo luogo, ammesso pure la struttura statale possa trasformarsi in qualcos'altro, ciò implicherebbe unicamente la trasposizione della lotta per la leadership politica su qualche altro piano.

In secondo luogo, è effettivamente incomprensibile come possa avviarsi all'estinzione uno Stato che si muove in direzione esattamente opposta.

2 Da queste considerazioni Sartori prende le mosse per delineare la condizione del

“rivoluzionario dei nostri tempi”, il quale sarebbe svantaggiato dal non trovarsi più di fronte uno Stato autocratico da spezzare con violenza, bensì uno Stato democratico in ipotesi anche riformabile. E con molta lungimiranza arriva a concludere che per legittimare la rivolta all’interno della democrazia non resta che invocare sempre più democrazia. Dunque, ecco il punto, se la democrazia diretta resta solo uno spauracchio per fini (presunti) rivoluzionari non è questa una caratteristica realmente tale del modello alternativo che si asserisce esista.

(22)

22 In terzo luogo, se c'è uno Stato restio alla propria sparizione è per l'appunto lo Stato-dittatoriale. Sostiene Sartori: “promettere una

libertà che deve passare, prima, per la stretta della dittatura, è come promettere che il fumo resterà dentro l’ampolla dopo che la si è rotta”.3

Terza e ultima peculiarità delle democrazie orientali sarebbe l'essere sistemi a partito unico, in quanto un sistema pluripartitico corrisponderebbe ad una società suddivisa in classi, mentre con l'abolizione di queste ultime susseguente alla dittatura del proletariato non potrebbe che aversi l'autentica democrazia monopartitica.

Con tale esaltazione di una società monocolore non si fa altro, per Sartori, che premere per un ritorno all'ideale dittatoriale in maniera tale da farlo affermare definitivamente e non certo quale condizione temporanea, strumentale all'affermazione di un mondo democratico.4

Per queste ragioni, per il politologo, è inutile proseguire in un'analisi che passi dal contesto prescrittivo a quello descrittivo, molto semplicemente perché non può parlarsi di democrazia nel rappresentare un modello differente da quello occidentale.

C'è pur sempre da considerare, però, per quali motivi un tipo di democrazia così difficile o addirittura così poco “credibile” sia preso come modello da più teorici.

A questo punto Sartori, nel cercare di spiegare le difficoltà del neutralizzare tali argomentazioni, imposta il ragionamento sulla contrapposizione tra “noi” - a favore dell'idea che l'unica

3 G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., p. 290.

4 Egli cita in maniera quasi provocatoria Bertrand Russell (What is Democracy,

Phoenix, Letchworth, 1946, p.14.), in quale scrisse che ‹‹mentre la nostra definizione di democrazia si richiama a un governo della maggioranza, il punto di vista russo è che consiste negli interessi della maggioranza››.

(23)

23 democrazia possibile sia quella derivante dal liberalismo - e “loro” - sostenitori della democrazia orientale -, iniziando dall'affermare che è prima di tutto per la poca importanza data alle parole che si verifica tale situazione.5

Egli è convinto che dovremmo più correttamente attribuire alle cose il loro nome proprio invece che consentire con slogan emozionali il credere di poter parlare di democrazia anche laddove non può esserci.

Per l’autore la sottovalutazione dell'aspetto terminologico della lotta politica costituisce un grave errore: con la propaganda, soprattutto in politica, si ha quella forte persuasione emotiva che non consente di riflettere autenticamente su cosa rappresenti quanto detto.

Da qui Sartori arriva anche a differenziare tra ascoltatori intellettuali e non, quasi a voler far denotare un elitismo che di certo non può porsi all’origine di una autentica affermazione dell’ideale democratico.

Solo non accettando dizioni mistificanti si può consentire a tutti di capire le ragioni per le quali non può sussistere, a suo dire, un modello alternativo alla liberal-democrazia.6

Per tutta questa serie di esplicazioni egli preferisce la distinzione geografica tra democrazia occidentale e orientale a quella tra liberale e comunista, l'unica neutra e col vantaggio di essere comprensibile per la gran parte degli interlocutori.

Un aspetto che lo studioso non considera, ma che conferma comunque la tesi dell'inesistenza di un'“alternativa democratica”, è la critica fatta invece da Bobbio ai teorici marxisti per aver basato le

5 G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., pp. 292-293.

6 Sartori la definisce tecnica della “guerra delle parole”: utilizzare per la propria parte

etichette ‹‹positive›› e per la controparte invece denominazioni spregiative. Al fine, appunto, di suscitare volutamente confusione nell’interlocutore (magari non particolarmente accorto) ed affermare un’idea in realtà per varie ragioni improponibile.

(24)

24 loro argomentazioni solo sul far rilevare le mancanze della struttura dello stato capitalistico senza promuovere studi su quella (o sulla assenza di quella) socialista.7

Si sarebbe avuta molto probabilmente la stessa conclusione circa l'insufficienza della scienza politica marxistica legata al primato del partito quale istituzione cui attribuire la funzione di conseguire il potere, più che all'analisi dello Stato per un migliore esercizio dello stesso e all'illusione dell'estinzione dello Stato che porta a trascurarne la considerazione delle caratteristiche strutturali.

Al di là delle specifiche asserzioni, comunque, ciò che risulta è una presa di posizione alquanto netta circa l'impossibilità di presentare un “modello democratico” legato alla tradizione orientale.

Si arriva a trattarlo quasi quale finzione, una grande bolla con all'interno ideali e principi che dovrebbero guidare lo sviluppo storico della società legati precipuamente ad una visione assolutistica della stessa anzi che ai valori ritenuti fondanti la vera democrazia dalla gran parte dei teorici.

7

Cfr. N. Bobbio, Quale Socialismo?, edizione speciale per Corriere della Sera pubblicata su licenza di Einaudi editore, Torino, 2011, pp. 27-38.

(25)

1.4 “Provare” la democrazia.

La democrazia non è dimostrabile, ma è comunque sempre riconducibile ad una scelta di valore.

Analizzare le argomentazioni di Sartori a sostegno della scelta (sostanzialmente obbligata) di interessarsi più alla definizione che alla dimostrazione della democrazia può essere utile da più punti di vista, soprattutto per fare chiarezza su un discorso che appare preliminare a ogni teoria democratica.

Non si può che partire dalla differenza tra il definire e il dimostrare, in quanto “aver capito cos’è la democrazia non implica essere

convinti della democrazia”.1

Ogni teoria politica effettivamente si è da sempre posto il problema di provare la veridicità di un dato sistema politico e Sartori non certo evita di affrontare tale spinosa questione.

Pur facendo notare che è il dimostrare ad essere fondamentale ai fini della prova dell’autenticità del sistema democratico, egli preferisce comunque il definire, adducendo come motivazione il fatto che la democrazia, come l’autocrazia ed in generale qualsiasi sistema politico, non sia in realtà dimostrabile.2

Citando Becker, secondo il quale ‹‹la democrazia non ha referente (...), dato che non c’è nessun palpabile oggetto al quale tutti pensiamo quando si pronunzia questa parola››3, Sartori arriva a sostenere che la democrazia, come qualunque altro sistema, non sia nient'altro che un paradigma, un modello ideale che cerchiamo di adattare al mondo, derivandone l'indimostrabilità tanto con

1 G. Sartori, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna, 1957, p. 121.

2 Sartori intende per dimostrazione una serie di operazioni logico-deduttive

mediante le quali il discorso razionale arriva a provare che una certa tesi è vera. Partendo da tale presupposto ritiene che la richiesta di dimostrare un sistema politico sia erroneamente formulata e dunque non merita risposta.

3 C. L. Becker, Modern Democracies, Yale Univ. Press, New Haven, 1941, p.4; tr. it.

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accertamenti di fatto quanto con dimostrazioni razionali.4

Al fine di spiegare l’asserita non-dimostrabilità del “paradigma etico-politico” democratico, Sartori si rifà al concetto di ‹‹verità››, approfondendone i diversi significati.

In un senso empirico, ‹‹verità›› sta ad indicare un qualcosa che sia verificabile.

In un senso più generale, una verità fattuale risulta essere tale se esatta alla prova applicativo-sperimentale.

In senso logico, invece, riteniamo vero ciò che è non-contraddittorio: ci si riferisce in questo caso alla “verità di ragione” necessaria che risulta dalla coerenza delle affermazioni.

A questi significati, il politologo ne aggiunge uno ulteriore, detto apprezzativo, secondo il quale diciamo vero ciò che è validabile: riferimento ne è un giudizio di valore che per sua stessa natura non può considerarsi né vero o falso né logico o illogico, ma soltanto preferibile rispetto ad un altro a seguito del confronto tra diverse alternative.

Ciò detto lo studioso considera come e se possa preferirsi la democrazia in base ad un’eventuale dimostrazione secondo i vari sensi attribuibili alla ‹‹verità››.

In senso empirico, la democrazia è un esperimento condotto sul piano storico, una teoria vera solo se verificabile alla prova dei fatti. A riformulare la questione dal punto di vista pragmatico ci si rende conto che non ha senso impostare l'argomentazione in questi termini, perché così facendo non si forniscono considerazioni a favore della democrazia.

Pragmaticamente, dimostrare la verità della democrazia equivale a dire renderla vera, considerarla provata per quel che funziona e può applicarsi. Ma ciò non significa addurre motivi per i quali è preferibile un sistema democratico rispetto ad uno autocratico.

(27)

Dire che la democrazia empiricamente vera è quella che meglio funziona presume una previa accettazione dello stesso modello democratico, dunque si finisce per non provare nulla.

Per quanto riguarda il senso logico, Sartori vi lega una serie di considerazioni mediante le quali arriva alla conclusione che le motivazioni razionalistiche alla base dell'improbabile dimostrazione della verità democratica rischiano di essere solo argomenti utili agli oppositori dell'ideale di democrazia.

Osserva che la democrazia non è razionalizzabile per la semplice ragione che non ha presupposti di tal genere, in quanto fondamento ultimo ne è l'assioma “il popolo ha sempre ragione”.5 Di certo tale “regola”, se messa alla prova, il più delle volte risulterebbe vanificata6, inoltre ciò che intende potrebbe sicuramente essere espresso più correttamente. Tuttavia è indubbio rappresenti quel “patto sociale” alla base dell'ideale democratico preso a modello di riferimento.

In effetti, anche l'obiezione che caposaldo di qualsiasi sistema politico non possa essere una regola procedurale ma solo i valori che rappresenta non fa altro che aggiungere argomentazioni a favore dell’impossibilità di dimostrazione razionale della democrazia: richiedere che venga provata assiologicamente equivale ad ammettere l'impossibilità di indicare basi logiche. Ecco allora che l'unica conclusione possibile riguardo al senso di eventuali costrutti razionali è che, non essendo utili circa la riprova della democrazia, servano solo a prospettare una mera ipotesi di come potrebbe configurarsi “secondo ragione”.

5 Sartori fa notare che, da Platone in avanti, l’ideale razionalistico non è una teoria

democratica, conducendo anzi alla ‹‹noocrazia››, il governo della conoscenza, l’aristocrazia dei sapienti. E correttamente sostiene che la democrazia rousseauiana non è altro che l’eccezione a conferma della regola, dato che comunque rimanda alla volontà generale, la quale è tutt’altro rispetto ad una risposta affidata alla volontà di tutti.

6

Sartori osserva che “la proposizione ‹‹il popolo ha sempre ragione›› è semplicemente la regola del gioco che ci piace giocare, e che comunque abbiamo deciso di accettare: e questo perché è il pactum societatis che istituisce idealmente la democrazia”.

(28)

Ciò non sarebbe altro che una congettura, un qualcosa di fittizio che non esiste, appunto un ottimo tema per i contrari alla democrazia.7 Resta da vedere se si può cercare prove dimostrative della democrazia nella sfera dei valori.

Facendosi rilevare che ai valori si crede ma non è possibile dimostrarli, sembrerebbe che si sia intrapresa una strada senza uscita. In realtà non è così.

Può essere condivisibile il ragionamento fatto da Sartori secondo il quale all'indimostrabilità dei sistemi politici non consegua necessariamente la considerazione degli stessi alla pari.

È ammissibile che, “come le proposizioni empiriche si verificano e le

proposizioni logiche si controllano, i paradigmi etico-politici si ‹‹preferiscono›› (…) perchè si mettono a confronto”.8

I regimi politici in effetti pongono un problema di scelta, e ciò di conseguenza non può che comportare un'indagine comparatistica che porti ad affermare quale possa ritenersi il migliore.

Alla luce di quanto detto, per dimostrarne la validità, non resta che confrontare il sistema democratico con quello autocratico e vedere perchè può essere preferito.

Lo Studioso fiorentino adduce tre tesi alla base della preferenza per la democrazia, tutte certamente sostenibili.

La prima afferma che l'autocrazia è molto più pericolosa della democrazia in quanto, mentre per il regime democratico col “popolo” s’intende riferirsi a diversi e necessari correttivi interni al processo potestativo, con la regola autocratica del “capo che ha sempre ragione” si accetta di affidargli tutto il potere in maniera incontrollata e incondizionata.

La seconda, partendo dalla possibile opposizione per la quale al frequente stallo dei regimi parlamentari si dovrebbe preferire l'efficientismo del despota, spiega che in realtà quella autocratica è

7 Cfr. G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., pp. 123-130. 8 G. Sartori, Ivi, p. 130.

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una non-soluzione in quanto basata sull'arroganza dell'uomo al comando che si autoproclama infallibile.

Da queste, la terza tesi sostiene che un altro motivo di preferibilità dell'ordinamento democratico è che ricerca soluzioni funzionali, a differenza dell'autocrazia la quale non è altro che un sistema chiuso.

Almeno in linea teorica e generale, la democrazia tende a mettere gli uomini alla prova, facendo passare i migliori al comando delle strutture verticali che la caratterizzano; un regime autocratico, viceversa, è molto più portato fin dall'origine a diventare un sistema fondato sul privilegio di pochi.9

Altra cosa è poi che gli uomini non sono in grado di raggiungere per il tramite delle strutture democratiche risultati soddisfacenti. Non è altro che perseverare nell'errore l'attribuire alle istituzioni le responsabilità per gli insuccessi nella “gestione” della vita democratica: non si tratta di “provare” la democrazia, è la riprova che forse ci si dovrebbe preoccupare maggiormente di come e se funziona.

(30)

Capitolo 2. Attuare la democrazia

Afferma giustamente Sartori che “democrazia è, per antonomasia, l'etichetta che riassume la formula politica del nostro tempo”.1 Pur essendo stato coniato quale termine più di due millenni fa, è intuitivo che “democrazia”, a seconda dell'epoca considerata lungo la storia dell'uomo, assuma significati diversi.

È opportuno cercare di evidenziare le differenze e le peculiarità che tale concetto è andato a rappresentare dall'antichità ai giorni nostri, non soltanto al fine di derivarne un quadro descrittivo di quelle che sono state, nel corso del tempo, le soluzioni ritenute più opportune per far fronte a realtà oggettivamente eterogenee, ma anche e soprattutto per cercare di scorgere tra i diversi intendimenti sottesi al termine “democrazia” quali siano le caratteristiche da attribuire ad un’autentica vita democratica.

Che il termine democrazia non abbia assunto sempre lo stesso significato appare dal fatto che persino regimi dittatoriali furono definiti democratici. Ma è evidente ciò rappresenti lapalissianamente quanto l'abuso del termine abbia contribuito a distorcerne il reale senso.

Proprio perché cose diverse possono essere designate col termine “democrazia”, si deve cercare di chiarirne i limiti e i principi sottostanti, in primis attraverso l'analisi delle distinte realtà teorizzate col trascorrere del tempo.

Dalla democrazia antica a quella liberale, ognuna si è basata su argomentazioni dalle quali è possibile (e auspicabile) trarre una soluzione che possa valere per i diversi problemi posti dal nostro tempo.

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2.1 Antichità e modernità: polis e Stato.

Per trattare col giusto approccio della differenza tra democrazia antica e moderna si potrebbe porre quale preliminare punto fermo la definizione di democrazia di Moses I. Finley, il quale riprendendo Seymour Martin Lipset afferma che “la democrazia non è soltanto, e neppure primariamente, un mezzo con il quale diversi gruppi possono conseguire i loro fini o perseguire la società buona: è il

funzionamento stesso della società buona”.2

Anche Giovanni Sartori, nella sua analisi, parte dal comprovato assunto che la storia ha prodotto due tipologie di democrazia:

6) la democrazia diretta, intesa quale partecipazione all’ esercizio diretto del potere;

7) la democrazia indiretta, ossia rappresentativa, da intendere come un sistema di controllo e di limiti del potere.

Da questa (ovvia) classificazione Sartori fa derivare ogni riflessione circa la democrazia degli antichi (realizzata nella polis greca), e la democrazia moderna, liberale, realizzata nell’ambito dello Stato territoriale.

La polis, afferma, era un laboratorio ideale per un'esperienza che si andava cercando di caratterizzare nell'ambito esclusivo dei principi e dei riferimenti “teorici” della democrazia.3

I cittadini ne ricavarono un vivere in simbiosi con la città stessa, una completa dipendenza dal soddisfacimento dell'interesse pubblico quale solo scopo del proprio vivere.4

2 Moses I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, trad. it. Mondadori,

1992, p. 37.

Il corsivo è la parte aggiunta dall’Autore alla definizione ripresa da S. M. Lipset, Political Man, Garden City (N.Y.), 1960, p. 178 (trad. it. L’uomo e la politica, Milano, 1963, p. 166).

3

G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., p. 157.

4 Sartori cita Fustel de Coulanges (La Città antica, tr. it. Laterza, 1925, II, p. 152):

“Il cittadino...si dava per intero allo Stato; gli dava il sangue nella guerra; il tempo nella pace; non aveva libertà di lasciar da parte gli affari pubblici per

(32)

Proprio questo carattere indica, per Sartori, un primo limite di quella realtà: un totale dedicarsi ai pubblici affari cui corrisponde inevitabilmente l'abbandono di ogni altro settore caratterizzante la vita dell'uomo in quanto tale. Dunque un impoverimento, anche economico, generato dalla lotta di classe tra ricchi e poveri, impegnati tutti nel contemporaneo governare ed essere governati, vuoto in sé di ogni soluzione per vivere meglio.5

Chiaro che così considerata, l'esperienza delle polis aiuta a comprendere i vantaggi offerti dai sistemi indiretti di governo che spesso sottovalutiamo.

Innanzitutto, la mediazione alla base del governare, al contrario della partecipazione diretta, è un fattore in grado di garantire stabilità alla vita democratica latamente intesa. Sottoponendo l’iter decisionale a diversi passaggi, inevitabilmente l’esercizio stesso del potere perde in quell’immediatezza spesso facile pretesto per generare conflitti. Il politologo per tale aspetto afferma che “l’evoluzione da forme dirette a forme indirette di governo è molto simile al progresso che si compie nel settore del diritto quando si arriva alla mediazione processuale dei conflitti intersoggettivi”.6 Secondariamente, ed è questo che Sartori indica come vantaggio sostanziale, il sistema basato sul controllo del potere lascia tempo ed energie impiegabili per gli affari non politici ugualmente condizionanti la realtà democratica. Aspetti non analizzati da chi sostiene le ragioni di un esclusivo dedicarsi alla soluzione delle problematiche della cosa pubblica.

Posta la validità del ragionamento di Sartori, con riferimento alle società moderne, caratterizzate da un’alta differenziazione delle

occuparsi dei propri...doveva piuttosto tralasciare questi per lavorare a profitto della città”.

5 In questa caratterizzazione della democrazia antica, Sartori riprende le tesi

sostenute da Benjamin Constant nel discorso su La libertà degli antichi comparata con quella dei moderni, citandolo esplicitamente – come si vedrà - trattando della libertà nell’ambito della vita democratica antica e moderna.

(33)

attività, rimane da segnalare tuttavia il rischio – non considerato dal teorico fiorentino – di una estremizzazione di questa separazione tra ‘politico’ e altre attività, soprattutto in riferimento all’economia e alle sue dinamiche.

Come segnala anche Bobbio nel trattare dell'idea illusoria di estinzione dello Stato7, una volta ritenuta l'economia struttura portante della società, la politica di conseguenza diviene fattore secondario, se non inutile. Tesi che implica la visione di uno stato esclusivamente amministrativo e l'ideale della riduzione della cattiva politica alla buona amministrazione.

Un'esaltazione della tecnocrazia, questa, la quale non può che giudicarsi negativamente, come diceva Kelsen, se non altro per l'incapacità del tecnico rispetto al politico di definire i fini sociali da raggiungere.8

A prescindere da questo rischio, appare giusto tuttavia non ritenere le due formule della democrazia diretta ed indiretta alternative tra le quali si sarebbe liberi di scegliere.

Nonostante la prima rappresenti un modello storico corrispondente a situazioni del passato, sappiamo quanto il funzionamento delle democrazie contemporanee contempli anche meccanismi di democrazia diretta, per quanto “funzionali” ad un sistema che rimane di democrazia indiretta. Resta comunque la differenza di principio tra democrazia diretta e indiretta, che si può vedere anche portando il discorso, come fa Sartori, sul piano del concetto di

7 Cfr. N. Bobbio, Quale Socialismo?, edizione speciale per Correre della Sera

pubblicata su licenza di Einaudi editore, Torino, 2011, pp. 35-38.

8 H. Kelsen, in Difesa della democrazia, afferma che in un sistema politico il ruolo

del tecnico non può che essere secondario, in quanto è incapace di determinare il fine sociale. Solo dopo che si è deciso il fine può subentrare l'attività del tecnico, per stabilire il miglior mezzo per raggiungerlo.

Sostiene inoltre che l'abbandono della ragione politica in favore dell'ideale di tecnicità non porta ad altro che alla perdita del diritto di autodeterminazione del popolo.

Dunque, conclude, l'organizzazione cetuale, i professionisti, possono essere soltanto organi consultivi, non decisori.

(34)

libertà.

Giovanni Sartori, riprendendo la questione aperta da B. Constant, fa notare che le popolazioni antiche non conoscevano la libertà individuale quale proiezione della persona in quanto tale, idea affermatasi col sistema dei diritti inviolabili.9

Stando a questa ricostruzione, che pure è stata messa in discussione negli studi più recenti10, la democrazia greca non aveva rispetto per l'individuo come singolo: esso veniva considerato solo come parte della collettività.

Qui sta la differenza con la concezione moderna, nella quale la partecipazione politica appare invece piuttosto strumentale alla difesa dei diritti e delle prerogative del cittadino. Costitutivo delle democrazie contemporanee è la garanzia delle libertà dell'individuo-persona, affinché non si abbia più quella “superiorità della collettività” che appare cardine dell'ideale ‘organicistico’ antico11.

La democrazia moderna si fonda sul sistema dei diritti personali, l'unico a garantire la piena autodeterminazione e concretizzazione delle aspettative dell'uomo, come singolo e come gruppo.

Condivisibile, a questo punto, l’affermazione di Giovanni Sartori secondo la quale “anche se il nome è greco, la fattispecie che siamo tornati a designare con quel nome è nata assai più tardi, e nient’affatto in Grecia”.12

L’idea moderna di democrazia viene a formarsi con l’inversione di prospettiva affermatasi a partire dal ‘600 per la quale il

9 Sartori richiama il discorso di B. Constant De la Liberté des Anciens Comparée à

celle des Modernes, precisando che quello che l’autore e gli altri hanno inteso negare non era che la libertà individuale sia restata ignota ai Greci, ma che il mondo greco non avesse conosciuto il concetto di libertà del singolo inteso nel senso di ‹‹rispetto dell’individuo-persona››.

10 Cfr. ad es. D. Musti, Demokratia. Origini di un’idea, Laterza, Roma-Bari, il quale

sostiene che la democrazia greca classica aveva saputo bilanciare l’attenzione per il ‘privato’ con la partecipazione diretta alla vita politica.

11 Cfr. la voce Organicismo nel Dizionario di politica, curato da N. Bobbio, N.

Matteucci e G. Pasquino, Utet, Torino.

(35)

‹‹pluralismo››, il dissenso, la differenziazione non vengono considerati più causa della rovina sociale ma alla base dello sviluppo di uno Stato.

Di conseguenza, anche il “potere popolare” da fattore volubile e disordinato diventa elemento importante e duraturo del processo politico. Potestà popolare, però, che non si ritiene più unica fonte di giustificazione per ogni decisione13, bensì si considera nell’ambito di tanti altri elementi influenzanti i processi decisionali i quali per forza di cose contribuiscono alla nascita di entità di gruppo preposte ad ottenerne il riconoscimento.

È la stessa concezione espressa da Bobbio, forse da un punto di vista meno sistematico, circa il mancato rispetto della “promessa democratica” di uno Stato senza corpi intermedi nel quale ogni individuo, accordandosi con gli altri, decida formando la società politica.

Il politologo torinese parte dalla medesima concezione individualistica della società, per affermare la differente idea di “popolo sovrano” caratterizzante la “rozza realtà” rispetto all'ideale democratico.

Giunge a descrivere una società democratica nella quale si è imposto un modello opposto a quello teorizzato ed idealizzato della volontà popolare quale risultato dell'incontro delle singole volontà individuali.

Sono sempre più rilevanti le grandi associazioni, i gruppi di interesse, organismi frapposti tra il rappresentante ed il rappresentato molto più influenti del singolo individuo.

Bobbio afferma che anziché il popolo quale unione di individui, si è imposta l'idea di popolo come insieme di gruppi contrapposti, non un unico centro di potere ma una società centrifuga con più unioni

13 Sartori (in Democrazia: cosa è, Rizzoli, Milano, 1993, p. 154) afferma che “Alla

fine tutto quello che la folla acclamava diventava legge, né limiti di sorta limitavano questo discrezionale potere di esercitare un assoluto potere.”

(36)

dotate di autonomia decisionale.14

Bisogna stare attenti a non vedere in queste argomentazioni una critica alla democrazia rappresentativa, in quanto si tratta di un discorso ancora precedente all'analisi delle sue caratteristiche, che cerca anzi di meglio definirne il fondamento teorico attraverso il riconoscimento della sua necessità alla luce di una società non più monistica ma pluralistica.

Sia Bobbio, che può sembrare quello maggiormente critico se non altro perchè più analitico, sia Sartori intendono con le loro argomentazioni affermare l'idea di una società per forza di cose contrassegnata dalla diversità di posizioni ed aspettative, alla quale non può che rispondersi mediante una matura democrazia rappresentativa.

Altro è il giudizio negativo che possono dare sull'insufficiente risposta data dall'uomo a tali esigenze.

Ciò che si sta cercando di vedere mediante l'analisi delle diverse concezioni affermatesi nel corso della storia è se e quanto sia stato attuato nella realtà l'ideale democratico.

Successivamente se ne vedranno gli aspetti essenziali, giudicando, allora si, se di compiuta e corretta attuazione può parlarsi.

(37)

2.2 Libertà ed uguaglianza.

Da sempre nel dibattito sulla democrazia è stata dedicata molta attenzione ai principi di libertà e uguaglianza.

Hans Kelsen, tra i più importanti teorici della democrazia che proprio sul principio di libertà e uguaglianza ha basato la sua teoria, ha sintetizzato lo spirito democratico affermando che, se dobbiamo essere comandati, “lo vogliamo essere da noi stessi”.1 La democrazia dunque sembrerebbe tutelare i diritti e le libertà di tutti attraverso la garanzia di uguaglianza rappresentata dalla partecipazione collettiva alle decisioni politiche.

Partendo dalla “posizione intellettuale di una filosofia relativistica” caratterizzata dal “rispetto del diritto del tu ad essere anch’egli un

ego”,2 Kelsen concepisce il sistema democratico come quello in cui la libertà politica, intesa come partecipazione al governo, determina una restrizione dei poteri governativi al fine di garantire l’uguaglianza come “ideale sociale” e quindi consentire la tutela degli individui in quanto tali.

Anche Sartori si occupa compiutamente di tali tematiche, tuttavia, prima di vedere in che termini ne tratta, occorre fare una premessa generale sulla metodologia seguita dall'Autore, anche per comprendere appieno il nesso tra tali argomentazioni e l'idea del legame tra liberalismo e democrazia.

Come pure Angelo Panebianco in un suo saggio fa notare3, il politologo fiorentino intende la teoria politica quale modo autonomo di guardare alla politica, intermedio tra la filosofia politica e la scienza politica.

1 H. Kelsen, La democrazia, Il Mulino, 1984, p. 40. 2 H. Kelsen, La democrazia, cit., p. 234.

Il politologo spiega che “da un punto di vista psicologico, la sintesi di libertà ed uguaglianza, caratteristica essenziale della democrazia, significa che l’individuo, l’ego, desidera la libertà non solo per se stesso, ma anche per gli altri, per il tu”.

3 A. Panebianco, Teoria politica e metodo comparato, in G. Pasquino (a cura di), La

(38)

La teoria politica è l'attività preliminare di definizione concettuale che deve porsi a fondamento di ogni analisi empirica. Senza tale indispensabile passaggio, unito ad un altrettanto necessario corretto uso del linguaggio, non può farsi alcuna analisi empirica. Ciò detto possiamo passare ad analizzare innanzitutto il concetto di “libertà”.

Sartori afferma preliminarmente di non essere interessato a trattare della libertà in termini generali, in quanto è suo precipuo interesse analizzarne soltanto la concezione politica, ritenuta il “sine qua non delle altre libertà”.4

Il politologo considera la libertà politica come opposta al potere di coercizione statale ed attinente al rapporto cittadino-Stato dal punto di vista del primo. Perciò la ritiene caratterizzata da un’accezione ‘negativa’, afferma che “è la libertà dei più deboli” la quale consente di “resistere a quel potere massimo (statale) altrimenti destinato a

soffocarli”.5

Per quanto riguarda il punto di vista dello Stato, invece, lo studioso fiorentino afferma che il discorso non riguarda più la libertà politica, ma necessita l’introduzione di considerazioni sull’arbitrio del potere, vista la posizione di superiorità dell’autorità statale rispetto al cittadino.6

A questo punto Sartori precisa che, sebbene tale definizione in forma avversativa lasci presupporre una conseguente esplicazione positiva, la libertà politica si caratterizza solo per il presupposto negativo, non viene qualificata come mezzo per poter essere

«liberi di».7

4 G. Sartori, Democrazia e definizioni, cit., p. 182. 5 Ivi, p. 183.

6 Sartori descrive in questi termini il punto di vista statale circa il rapporto col

cittadino: “il fatto che si possa dire che lo Stato è ‹‹libero di›› è un modo per introdurre un discorso sulla illibertà politica. Lo Stato tirannico è libero di comandare a suo lìbito, ma perciò priva i sudditi di ogni libertà”.

7 (Ivi) “La libertà politica è una libertà pregiudiziale, ma dire che è pregiudiziale non

vuol dire che si può oltrepassare. [...] Non si può saltare la libertà in senso negativo, poiché altrimenti non si arriva più alla libertà in senso positivo”.

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