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Università di Pisa
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia
FIBROSI E RIMODELLAMENTO
VENTRICOLARE NELLA CARDIOMIOPATIA
DILATATIVA: VALORE DELLA GALECTINA-3
Candidato:
Relatore:
Giorgio Biagini
Prof. Michele Emdin
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Riassunto analitico
Background. Malgrado i progressi nella diagnostica e nella terapia, l’insufficienza cardiaca
(IC) rappresenta una delle principali cause di morbidità e mortalità nei paesi sviluppati. Il rimodellamento del ventricolo sinistro nel paziente scompensato è associato a peggioramento clinico e ad una prognosi peggiore. Il late gadolinium enahcement (LGE) alla risonanza magnetica cardiaca rappresenta un efficace strumento non invasivo per la stima della fibrosi cardiaca e del rimodellamento ventricolare ed un fattore prognostico importante nei pazienti con cardiomiopatia dilatativa (CMD). È stato recentemente dimostrato in modelli sperimentali, che la galectina-3 (Gal-3) partecipa alla fibrogenesi e al rimodellamento cardiaco ed i suoi livelli circolanti sono predittori di outcome nei pazienti con IC.
Scopo dello studio. Scopo del nostro studio è stato quello di valutare la correlazione fra livelli
circolanti di Gal-3 e la fibrosi miocardica, rilevata mediante risonanza magnetica cardiaca in pazienti con CMD.
Materiale e metodi. Sono stati arruolati prospetticamente 150 pazienti con diagnosi di CMD
(maschi 73%, età media 58±14 anni) afferenti alla Fondazione Toscana Gabriele Monasterio di Pisa (FTGM). In tutti i pazienti è stata effettuata una coronarografia allo scopo di escludere la presenza di malattia coronarica significativa. Tutti i soggetti arruolati hanno inoltre ricevuto una valutazione clinica globale ed una caratterizzazione bioumorale comprensiva del dosaggio di attività reninica plasmatica, aldosterone, catecolamine, peptidi natriuretici di tipo
3 B e Gal-3. Infine è stata effettuata una risonanza magnetica cardiaca con analisi del LGE dopo somministrazione di mezzo di contrasto per la valutazione della fibrosi miocardica.
Risultati. Il valore mediano di Gal-3 osservato nella nostra popolazione era di 14.4 ng/mL
(IQR 11.7-19.0); il LGE è stato rilevato in 106 (71%) pazienti. I pazienti con LGE avevano livelli di Gal-3 più alti rispetto a quelli senza LGE (15.4, 11.8-21.0, vs 13.1, 11.7-16.4 ng/mL, p=0.006). Fra i predittori univariati di presenza di LGE (Gal-3, sesso maschile, durata di malattia, ipertensione arteriosa, frazione di eiezione destra e sinistra, gittata sistolica ventricolare sinistra), la Gal-3 ha mantenuto il suo valore predittivo all’analisi multivariata insieme a sesso, ipertensione, durata di malattia e frazione di eiezione ventricolare destra. Alla curva ROC (Receiver Operating Characteristic), il cut-off ottimale di Gal-3 per la predizione di LGE era 14.6 ng/mL (AUC 0.651, sensibilità 57%, specificità 73%).
Conclusioni. In pazienti con CMD, la concentrazione circolante di Gal-3 è associata alla
presenza di fibrosi miocardica valutata alla risonanza magnetica cardiaca con la tecnica del LGE. Questa osservazione supporta l’ipotesi che la Gal-3 sia direttamente coinvolta nei meccanismi di fibrogenesi e rimodelllamento cardiaco e che contribuisca alla progressione dell’IC.
4 INDICE
1 INSUFFICIENZA CARDIACA CONSIDERAZIONI GENERALI 1
1.1 Epidemiologia 2
1.2 Classificazione 4
1.3 Eziologia 5
2 IL RIMODELLAMENTO CARDIACO 15
2.1 Il modello neuroormonale dell’insufficienza cardiaca 16
2.2 Il rimodellamento ventricolare 20
2.3 Il rimodellamento tissutale 21
3 LA DIAGNOSTICA NON INVASIVA NELL’INSUFFICIENZA CARDIACA 24
3.1 Dati clinici 25
3.2 Dati bioumorali 25
3.3 Elettrocardiografia 27
3.4 Radiografia del torace 28
3.5 Valutazione capacità funzionale 29
5
3.7 Risonanza magnetica cardiaca 30
4 LA GALECTINA-3 35
4.1 La struttura molecolare della galectina-3 36
4.2 Il ruolo della galectina-3 come mediatore del rimodellamento cardiaco 37
4.3 Lo stato dell’arte della galectina-3 nell’insufficienza cardiaca 42
4.4 L’interpretazione dei valori circolanti di galectina-3 44
5 GALECTINA-3 E FIBROSI NELLA CARDIOMIOPATIA DILATATIVA NON
ISCHEMICA 45
5.1 Scopo dello studio 45
5.2 Materiali e metodi 45
5.2.1 La popolazione dello studio 45
5.2.2 Il protocollo di studio della risonanza magnetica cardiaca 46
5.2.3 L’analisi statistica 48
5.3 Risultati 49
5.3.1 Le caratteristiche della popolazione 49
5.3.2 I predittori dell’enhancement tardivo di gadolinio 49
6
5.4 Discussione 59
5.4.1 La galectina-3 e la fibrosi alla risonanza magnetica cardiaca 60
5.4.2 Correlati della galectina-3 63
5.4.3 Limiti dello studio 65
5.5 Conclusioni 65
Bibliografia 66
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1. INSUFFICIENZA CARDIACA CONSIDERAZIONI GENERALI
L’insufficienza cardiaca (IC) è “uno stato fisiopatologico in cui un’anomalia della funzione cardiaca è responsabile dell’incapacità del cuore di pompare sangue in quantità adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti” (Braunwald E, 1980). Altre definizioni ne enfatizzano invece l’aspetto funzionale, relativo alla compromissione di sistole e diastole e il corrispettivo clinico: “l’insufficienza cardiaca è una sindrome complessa che può risultare da una qualunque alterazione della struttura o della funzione cardiaca che altera la capacità del ventricolo di riempirsi o di pompare sangue. Le manifestazioni cardinali dell’insufficienza cardiaca sono la dispnea e l’astenia, che possono limitare la tolleranza all’esercizio fisico, e la ritenzione di liquidi, che può portare alla congestione polmonare e all’edema periferico” (Hunt SA et al., 2005). Definizioni più recenti pongono l’accento sulle nuove acquisizioni e sul modello fisiopatologico neuroendocrino che spiega l’evoluzione del danno strutturale e funzionale, del quadro clinico e della efficacia della terapia farmacologica sulla base dell’attivazione neuroormonale: “l’IC congestizia rappresenta una sindrome complessa caratterizzata da alterazioni della funzione ventricolare sinistra e della regolazione neuro-ormonale che si associano ad intolleranza allo sforzo, ritenzione idrica e ridotta longevità” (Packer M et al., 1996), o ancora “l’IC è una sindrome clinica complessa nella quale un danno al cuore o un aumentato stress del miocardio attivano una risposta sistemica che fornisce nel breve periodo un supporto alla funzione cardiovascolare, ma che influisce negativamente sulla struttura e sulla funzione cardiaca nel lungo periodo” (Bonow RO et al., 2011).
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1.1 Epidemiologia
Le definizioni fisiopatologiche, per quanto accurate, si prestano poco ad essere usate in studi epidemiologici. Le attuali linee guida dell’European Society of Cardiology (2012) e dell’American College of Cardiology Foundation/ American Heart Association (ACCF/AHA) (2013) per la diagnosi e il trattamento dell’IC suggeriscono che per la diagnosi debbano essere presenti sintomi e segni tipici assieme ad una evidenza oggettiva di disfunzione cardiaca, evidenziata preferenzialmente all’ecocardiografia. La misurazione delle concentrazioni plasmatiche dei peptidi natriuretici di tipo B (brain natriuretic peptide, BNP e frammento N-terminale del proBNP, NT-proBNP) può essere utilizzata per confermare o rigettare la diagnosi (McMurray JJ et al., 2012; Yancy CW et al., 2013). Una definizione clinica operativa come questa è più complessa da implementare, e solo recentemente è stata adottata negli studi di popolazione, come il Bromley Heart Failure Study di Londra (Fox KF
et al., 2001; Mehta PA et al., 2006), rimpiazzando i sistemi a punteggio come quello del Framingham Heart Study (Ho KKL et al., 1993; Ho K et al., 1993).
Gli studi di popolazione più recenti hanno evidenziato un’incidenza dell’IC compresa tra 1 e 5 casi per mille abitanti l’anno, con un deciso aumento nell’età avanzata. L’età media di esordio è di circa 70 anni, con un’incidenza più alta negli uomini che nelle donne a tutte le età (Fox
KF et al., 2001; Mehta PA et al., 2006).
Si stima che la prevalenza dell’IC sia in aumento in tutto il mondo, raggiungendo le dimensioni di una pandemia, comportando un significativo aumento del numero di ricoveri ospedalieri, di mortalità e di costi. È stato calcolato che almeno 23 milioni di persone nel
3 mondo siano affette da IC. Negli Stati Uniti la prevalenza dell’IC varia tra l’1,5% ed il 2%, ed in Europa tra lo 0,4% ed il 2%. La prevalenza aumenta esponenzialmente con l’età, raggiungendo valori compresi tra il 6% ed il 10% nella popolazione ultrasessantacinquenne (Hunt SA et al., 2005).
Le ragioni dell’aumento della prevalenza mondiale sono da ricercare nell’invecchiamento della popolazione e nell’aumento della prevalenza dell’obesità, dell’ipertensione arteriosa e del diabete mellito nei Paesi industrializzati ed in via di sviluppo, ma anche nell’aumentata sopravvivenza dei pazienti con infarto miocardico acuto, nell’utilizzo di strategie volte a prevenire la morte cardiaca improvvisa e nei progressi terapeutici fatti negli ultimi decenni.
Nonostante le terapie oggi disponibili abbiano migliorato la prognosi quoad valetudinem e
quoad vitam, la mortalità rimane elevata: circa il 50% dei pazienti con IC muore entro 5 anni
dalla diagnosi (Roger VL et al., 2011). Negli Stati Uniti una nuova diagnosi di IC comporta una prognosi peggiore di quella di un carcinoma della mammella e di un carcinoma del colon (Roger VL et al., 2011; Jemal A et al., 2010). Fattori associati ad una prognosi negativa includono il sesso maschile, l’età avanzata, la classe New York Heart Association avanzata, relativa alla severità dei sintomi e alla riduzione della capacità funzionale, l’eziologia ischemica, l’ipotensione, la malattia renale cronica, l’iponatremia e le concentrazioni elevate di BNP (Cowburn P, 1998; Cowie MR, 2000; Clerico A and Emdin M, 2004; Lloyd- Jones
DM, 2001).
Negli Stati Uniti l’IC rappresenta la causa più frequente di ricovero in ambiente ospedaliero negli ultrasessantacinquenni (Roger VL et al., 2011). In uno studio su 1077 pazienti con diagnosi di IC seguiti in media per circa 5 anni, l’83% veniva ricoverato almeno una volta ed il 43% almeno quattro volte; circa la metà dei ricoveri era legata a cause non cardiovascolari (Dunlay SM et al., 2009), a testimonianza dell’alto tasso di comorbidità (in particolare
4 polmonare e renale) e di impegno sistemico, spiegato con la comunanza di fattori di rischio e con il danno d’organo conseguente alla bassa gittata. Ai ricoveri ospedalieri sono da attribuire i due terzi circa dei costi totali, che rappresentano una quota compresa tra l’1% ed il 2% della spesa sanitaria totale negli Stati Uniti ed in molti Paesi Europei (Berry C et al., 2001). Se sono considerati inoltre i costi indiretti legati all’impatto economico della malattia sul paziente e la sua famiglia, il costo totale negli Stati Uniti è stato stimato di 37,2 miliardi nel 2009 di dollari (Fuster V et al., 2011).
Nonostante in passato si ritenesse che l’IC si manifestasse primariamente nel contesto della disfunzione ventricolare sinistra sistolica (IC a funzione sistolica ridotta, Heart Failure with
reduced Ejection Fraction, HFrEF), recenti studi epidemiologici hanno dimostrato che circa il
50% dei pazienti che sviluppano IC hanno una frazione di eiezione ventricolare sinistra normale o lievemente depressa (superiore al 40%, IC a funzione sistolica preservata, Heart
Failure with preserved Ejection Fraction, HFpEF) (Yancy CW et al., 2006). Ai fini della
presente trattazione, tuttavia, si farà riferimento alla categoria dei pazienti con disfunzione sistolica ventricolare sinistra.
1.2 Classificazione
L’ACC e l’ AHA hanno proposto di considerare l’IC come un continuum distinguibile nella pratica clinica in quattro stadi (Wiliams JF et al., 1995), ponendo l’accento sul quadro di rischio o impegno strutturale preclinico. Lo stadio A comprende i pazienti a rischio di sviluppare IC (ad esempio pazienti ipertesi, diabetici, dislipidemici), asintomatici per IC ed in assenza di alterazioni strutturali cardiache. Lo stadio B comprende i pazienti con malattie strutturali del cuore in assenza di sintomi di IC. Lo stadio C include i pazienti con anomalie strutturali cardiache che hanno sviluppato IC sintomatica. Lo stadio D include pazienti con IC refrattaria che richiede interventi speciali (supporto inotropo farmacologico continuativo,
5 dispositivi di assistenza ventricolare, trapianto cardiaco). La stadiazione ACC/AHA, oltre ad avere un valore prognostico (Ammar KA et al., 2007), permette di modellare la terapia sulla base della progressione del paziente lungo lo spettro della storia naturale della patologia ed evidenzia la necessità di un intervento di prevenzione e screening precoce, già nella condizione asintomatica di impegno strutturale o funzionale.
1.3 Eziologia
Qualunque condizione che porti ad un’alterazione della funzione o della struttura del ventricolo sinistro predispone allo sviluppo dell’IC. La cardiopatia ischemica ne è la causa prevalente. L’ipertensione arteriosa contribuisce al 75% circa dei casi di IC, associandosi fortemente alla cardiopatia ischemica, ma raramente è causa isolata (Fox KF et al., 2001). Non è chiara invece la relazione esistente tra diabete mellito e IC, ma è noto che il diabete mellito acceleri l’aterosclerosi e sia spesso associato all’ipertensione. Altre cause di IC comprendono cardiomiopatie, valvulopatie in grado di determinare sovraccarichi emodinamici cronici di pressione o di volume, tachi- e bradiaritmie croniche, ipertensione arteriosa polmonare primitiva o secondaria, anemia, condizioni disendocrine (tireotossicosi, ipotiroidismo, etc.), agenti tossici esogeni (abuso di alcool, cocaina, etc.), alterazioni congenite del metabolismo (ad.es. emocromatosi), mutazioni a carico dei geni che trascrivono per proteine strutturali o funzionali del miocardio, malattie infettive (miocarditi virali, morbo di Chagas, etc.), malattie infiltrative (ad.es. amiloidosi), malattie da deficit nutrizionali (ad. es. beriberi), fistole arterovenose (Bonow RO et al., 2011). La figura 1 mostra la frequenza delle varie eziologie nei nuovi casi di IC registrati nella popolazione di età inferiore a 75 anni del
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Figura 1 Eziologia dell’IC nei casi incidenti nel Bromley Heart Failure Study. I dati
riguardano la popolazione di età inferiore a 75 anni, sottoposta all’intero depistage diagnostico, comprendente scintigrafia perfusoria e coronarografia. La dicitura “indeterminato” fa riferimento ai pazienti per i quali non è stato possibile eseguire una coronarografia, mentre “altro” comprende i casi di ectasia/aneurisma dell’aorta ascendente con insufficienza aortica, di cuore polmonare, blocco atrioventricolare completo, tachicardia atriale, pericardite costrittiva e miopatia dei cingoli. Abbreviazioni utilizzate: CAD, coronaropatia; FA, fibrillazione atriale. Immagine modificata da Fox KF et al., 2001
CAD 52% Indeterminato 10% Idiopatica 12% Altra 5% FA 3% Alcool 4% Valvulopatia 9% Ipertensione 5%
7 In una quota variabile tra il 20% ed il 30% dei pazienti con IC congestizia con disfunzione sistolica e volumi ventricolari aumentati, il fattore causale non può essere identificato (Bonow
RO et al., 2011). Questi pazienti vengono quindi inquadrati nell’ambito della cardiomiopatia
dilatativa idiopatica (CMD), ovvero di quella malattia primitiva del miocardio caratterizzata da dilatazione e alterata funzione sistolica del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli, che si sviluppa in assenza di alterazioni del carico emodinamico (ipertensione arteriosa, valvulopatie) o di malattia coronarica tale da comportare una disfunzione sistolica globale (Elliott et al., 2008). Tutti i soggetti con CMD inspiegata dovrebbero inoltre essere sottoposti al dosaggio dell’ormone tireostimolante per escludere casi di ipotiroidismo; tutti i soggetti con disfunzione diastolica dovrebbero inoltre essere indagati per escludere processi infiltrativi, preferenzialmente attraverso l’esecuzione di una biopsia endomiocardica (Fuster V et al., 2011). Si stima che la prevalenza della CMD sia di circa 1:2500 (Codd MB et al., 1989); essa è la terza causa più frequente di IC e la più frequente indicazione al trapianto cardiaco (Fuster
V et al., 2011). Studi familiari hanno mostrato come i pazienti con CMD presentino un
eccesso di circa il 20% nella probabilità di avere un familiare affetto; sono stati identificati diversi geni le cui mutazioni sarebbero responsabili di CMD. È stato ipotizzato inoltre che altri fattori genetici possano interagire con fattori acquisiti, quali le miocarditi infettive ed autoimmuni, fattori tossici e metabolici, predisponendo alla CMD.
Le difficoltà legate all’esecuzione della biopsia miocardica per la diagnosi di miocardite secondo i criteri di Dallas (Cooper LTJ et al., 2009) ed il fatto che molti virus comuni siano implicati nelle miocarditi virali rendono probabilmente la categoria della CMD post-miocardica sottodiagnosticata.
8 Alcuni studi hanno evidenziato nei pazienti con CMD alterazioni del microcircolo e ne hanno ipotizzato un ruolo nella genesi e progressione (L'Abbate A et al., 2002). È noto che l’aumentato stress parietale nella CMD avanzata possa ridurre la perfusione miocardica, e che d’altra parte la ridotta contrattilità riduca le richieste metaboliche miocardiche e determini una
down-regulation della perfusione a riposo (Neglia D et al., 2005). Le alterazioni della
perfusione miocardica misurate alla tomografia ad emissione di positroni (PET) si sono dimostrate in grado di predire la disfunzione ventricolare sistolica sinistra progressiva e l’IC indipendentemente dal grado di disfunzione ventricolare iniziale, anche in assenza di malattia coronarica (Neglia D et al., 2002).
Diversi studi hanno evidenziato alterazioni dell’immunità acquisita umorale e cellulare nei soggetti con CMD. È stato proposto che la risposta immune sia diretta verso antigeni virali espressi sulla superficie dei cardiomiociti, oppure che un’alterazione primitiva immunitaria conduca alla produzione di anticorpi anti-cuore in seguito ad un danno miocardiocitario iniziale con rilascio in circolo di componenti intracellulari. La CMD è in effetti associata all’aplotipo HLA-DR4 e sono stati individuati in alcuni pazienti anticorpi diretti contro le catene pesanti della miosina, il recettore β1-adrenergico, il recettore colinergico, la pompa
Na+/K+ ATPasi della membrana sarcolemmale, la lamina e proteine mitocondriali. Sono stati descritti inoltre nei soggetti con CMD livelli elevati di tumor necrosis factor α (TNF-α) e di endotelina, che potrebbero contribuire alle alterazioni del signalling intracellulare miocardiocitario.
Infine, anche alterazioni del bilancio redox sono state indicate come possibili meccanismi alla base del danno cellulare, con anomalie della produzione di ossido nitrico (NO) e iperproduzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) (Bonow RO et al., 2011).
9 Sono state descritte in letteratura diverse noxae patogene in grado di portare allo sviluppo di forme secondarie di CMD. Individuare le cause di CMD secondaria non rappresenta per il clinico un puro esercizio diagnostico, ma permette di evidenziare condizioni potenzialmente reversibili.
L’insulto ischemico, specie quello che si attua nell’infarto miocardico, è in grado di determinare rimodellamento del ventricolo sinistro, con dilatazione e disfunzione ventricolare. La cardiomiopatia ischemica è comunemente definita come una CMD in un soggetto con anamnesi positiva per infarto miocardico o rivascolarizzazione (percutanea o chirurgica), oppure con stenosi ≥75% di un vaso coronarico epicardico (Felker G et al., 2002).
La cardiomiopatia dilatativa ipertensiva è diagnosticata quando la depressione della funzione sistolica ventricolare sinistra non è spiegabile esclusivamente sulla base dell’aumento dello stress di parete in un paziente iperteso (Fuster V et al., 2011). È utile considerare una causa ipertensiva in un soggetto con CMD inspiegata solo quando esiste un’anamnesi positiva per ipertensione arteriosa incontrollata, grave (valori pressori > 160/100 mmHg) e sostenuta (per anni) (Fuster V et al., 2011). Secondo la classificazione originariamente proposta nel 1996 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) e dall’International Society and
Federation of Cardiology (IFSC), la cardiopatia ipertensiva può presentarsi nelle forme
dilatativa, restrittiva e non classificata (Richardson P et al., 1996). Tuttavia le successive classificazioni delle cardiomiopatie proposte nel 2006 dall’American Heart Association e nel 2008 dall’European Society of Cardiology non hanno formalmente incluso la cardiomiopatia ipertensiva (Elliot P et al., 2008; Maron BJ et al.,2006).
Anche il sovraccarico emodinamico secondario ad una valvulopatia può determinare una forma di CMD valvolare, diagnosticata quando la disfunzione ventricolare sinistra è depressa più di quanto ci si aspetterebbe in base al solo incremento dello stress di parete (Fuster V et
10
al., 2011). Anche la CMD valvolare non trova una formale collocazione nelle più recenti
classificazioni (Elliot P et al., 2008; Maron BJ et al., 2006 ).
La CMD è stata descritta come caratteristica di diverse miopatie ereditarie, quali le distrofie legate al cromosoma X di tipo Duchenne, Becker ed Emery-Dreifuss e la distrofia facioscapolomerale di Landouzy-Déjerine a trasmissione autosomica dominante. Studi di
gene linkage hanno identificato ormai numerosi geni mutati nelle forme familiari di CMD, in
particolare tra i geni che codificano per proteine citoscheletriche del complesso glicoproteico associato alla distrofina o per componenti dell’apparato contrattile sarcomerico. Le mutazioni a carico di questi geni determinerebbero il fenotipo della CMD provocando difetti nella generazione e nella trasmissione di forza contrattile, alterazioni metaboliche e meccanocettoriali e disturbi dell’omeostasi del calcio.
Le miocarditi possono esitare in danni permanenti o progressivi che configurano spesso il fenotipo della CMD. Agenti eziologici riconosciuti delle miocarditi infettive sono virus (coxsackievirus, citomegalovirus, HIV, adenovirus, herpersvirus ed altri), batteri (comprese rickettsie, micobatteri, spirochete), funghi e parassiti (Toxoplasma spp., Trichinella spp. e l’agente responsabile del morbo di Chagas, Tripanosoma cruzi). I danni sostenuti dai miocardiociti sono in parte sostenuti dall’attività citopatica dell’agente eziologico, e in parte derivanti da una risposta abnorme autoimmune di tipo cellulo-mediato e umorale. Non sempre le miocarditi sono sostenute da agenti infettivi: il coinvolgimento del miocardio è stato osservato in numerose malattie autoimmuni coinvolgenti mio- e pericardio, ovvero all’origine di vasculite coronarica con conseguente danno miocardico su base ischemica, quali il lupus eritematoso sistemico, l’artrite idiopatica giovanile, la panarterite nodosa, la malattia di Kawasaki, la sclerosi sistemica, la dermatomiosite, la sindrome di Churg-Strauss. Anche le reazioni idiosincrasiche da farmaci su base immune possono coinvolgere il miocardio. Tachiaritmie ventricolari e sopraventricolari, compresa la fibrillazione atriale a risposta
11 ventricolare tachifrequente, possono determinare, se sostenute nel tempo, quadri di dilatazione ventricolare e disfunzione sistolica.
L’abuso cronico di sostanze come la cocaina risulta in un’aumentata attività ortosimpatica, causando una disfunzione ventricolare sia direttamente, sia attraverso l’induzione di spasmo coronarico, l’accelerazione dell’aterosclerosi e la promozione della trombosi coronarica (Afonso L et al., 2007; Aquaro GD and Emdin M, 2014 ) . Anche l’abuso cronico di alcool può deprimere la funzione cardiaca attraverso meccanismi poco chiari, principalmente attivando una risposta neuroormonale (Klatsky AL, 2002). È stato riportato come un consumo di alcool superiore ai 90 g/die per 5 anni sia associato ad un aumentato rischio di sviluppare una CMD alcolica, e che la mortalità a 4 anni sia vicina al 50% per i pazienti che non si astengono completamente dal potus dopo la diagnosi (Laonigro I et al., 2009). È consigliato quindi considerare una genesi alcoolica nei soggetti con CMD inspiegata con storia di abuso di almeno 80 g di etanolo (circa 6,5 unità alcoliche) al giorno nel maschio e di almeno 40 g di etanolo (circa 3 unità alcoliche) al giorno nella femmina per almeno cinque anni (Fuster V et
al., 2011). Anche tossici ambientali quali il cobalto, il piombo, il mercurio e il monossido di
carbonio possono provocare un quadro di CMD.
Le antracicline rappresentano un gruppo di farmaci chemioterapici a spiccata attività antineoplastica, utilizzati fra l’altro nella terapia del carcinoma della mammella e dei linfomi. Molti pazienti sottoposti a terapia con antracicline, indipendentemente dall’età, sviluppano una forma insidiosa di CMD e di IC. Sebbene non siano ancora chiari i meccanismi del danno a carico dei miocardiociti, si ritiene che esso sia legato alla generazione di ROS, al danno mitocondriale e al disaccoppiamento della catena di trasporto degli elettroni dalla sintesi di adenosintrifosfato (Volkova M et al., 2011). Il danno sembra comunque essere dipendente dalla dose cumulativa; sono particolarmente a rischio i soggetti che hanno ricevuto dosi cumulative superiori a 450mg/m2 in assenza di altri fattori di rischio o cardiopatie preesistenti,
12 sebbene alterazioni istopatologiche siano evidenziabili già in soggetti che hanno ricevuto dosi cumulative di 240 mg/m2 di doxorubicina e siano stati descritti in letteratura casi di disfunzione insorti in pazienti trattati con dosi cumulative di 350 mg/m2 (Volkova et al., 2011). Sono state proposte diverse strategie volte a limitare la cardiotossicità del trattamento con antracicline: protocolli di infusione continua piuttosto che l’utilizzo di boli, la co-somministrazione di sildenafil o di scavengers dei radicali liberi quali dexrazoxano o probucol, l’utilizzo di formulazioni liposomiali o di nuove molecole quali l’epirubicina (Fuster V et al., 2011). Nonostante la diagnosi di CMD da antracicline possa essere formulata clinicamente, la diagnosi di certezza richiede l’esecuzione di una biopsia endomiocardica che mostri le tipiche alterazioni citologiche indotte dalle antracicline in un numero sostanziale di cardiomiociti (Fuster V et al., 2011). La prognosi dei pazienti con CMD indotta da antracicline è significativamente peggiore di quella dei pazienti con CMD idiopatica (Felker
GM et al., 2000). Anche l’uso del trastuzumab è stato messo in relazione con un aumentato
rischio di disfunzione ventricolare e di IC. Il trastuzumab è un anticorpo monoclonale umanizzato in grado di interferire con il signaling di HER-2, ed è attualmente indicato per il trattamento del carcinoma gastrico e mammario. Recettori HER-2 sono espressi fisiologicamente anche a livello cardiomiocitario, e il trastuzumab è in grado di interferire con la cascata EebB2-ErbB4 che promuove il trofismo cellulare. Il trastuzumab non causa tuttavia la morte cellulare dei miocardiociti e non è associato ad alterazioni ultrastrutturali. Gli effetti avversi non appaiono dose-dipendenti e sono frequentemente reversibili con la sospensione del farmaco in alcuni mesi (Fuster V et al., 2011). Altri farmaci messi in relazione con la CMD sono gli agenti antiretrovirali zidovudina, didanosina e zalcitabina; il litio; l’interferone-α e l’interleuchina-2; antipsicotici quali la clozapina. Diverse anomalie del metabolismo sono state chiamate in causa nella genesi della CMD. Tra queste figurano deficienze nutrizionali (tiamina, selenio, carnitina, malnutrizione proteica), difetti metabolici congeniti
13 (emocromatosi), endocrinopatie (ipo- e ipertiroidismo, acromegalia, morbo di Cushing, feocromocitoma, diabete mellito) e disturbi elettrolitici (ipocalcemia e ipofosfatemia) (Fuster
V et al., 2011).
Malattie infiltrative come l’amiloidosi e malattie granulomatose quali la sarcoidosi possono esitare in forme di CMD, oltre che pseudoipertrofiche.La cardiomiopatia peripartum è definita come la patologia che sottende un quadro di IC clinicamente evidente con disfunzione sistolica che insorge nel terzo trimestre di gravidanza o entro sei mesi dal parto (Pearson GD
et al., 2000). Essa è prevalentemente classificata come una CMD secondo la definizione
WHO/IFSC (Richardson P et al., 1996), sebbene occasionalmente nelle fasi precoci la dilatazione e il rimodellamento ventricolare non siano ancora evidenziabili. Recentemente è stato chiamato in causa un peptide derivato dalla prolattina nella genesi della cardiomiopatia
peripartum (Hilfiker-Kleiner D et al., 2007), e ciò ha aperto la strada alla sperimentazione
dell’utilizzo degli inibitori della sintesi della prolattina, come la bromocriptina (Sliva K et al., 2010). La CMD peripartum ha una prognosi nettamente superiore rispetto alle altre cardiomiopatie dilatative (Felker GM et al., 2000).
La non-compattazione del ventricolo sinistro (left ventricular non-compaction, LVNC) è una cardiomiopatia descritta per la prima volta nel 1990 caratterizzata da una accentuata trabecolatura di segmenti ipertrofici e ipocinetici del ventricolo sinistro. In un paziente su due è presente coinvolgimento anche del ventricolo destro. Si ritiene che la LVNC sia una patologia genetica, derivante dall’arresto dello sviluppo intrauterino del miocardio. Circa due terzi dei pazienti sviluppano IC e sono a rischio aumentato di accusare aritmie ed eventi embolici. È spesso presente disfunzione diastolica, che deriva sia dall’alterato rilasciamento, sia dall’ostacolo al riempimento ventricolare causato dalle trabecole prominenti (Fuster V et
al., 2011). Una quota significativa di pazienti con LVNC si presenta con un ventricolo sinistro
14 pazienti con LVNC sono simili a quelli dei pazienti con CMD, sebbene la prognosi dei bambini con LVNC sia peggiore di quella dei bambini con CMD (Jefferies JL et al., 2010).
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2. IL RIMODELLAMENTO CARDIACO
La patogenesi dell’IC è complessa e per taluni aspetti ancora oscura. Negli ultimi decenni sono stati proposti diversi modelli patogenetici, nessuno dei quali si è dimostrato accurato. Inizialmente i sintomi dell’IC erano attribuiti ad una ridotta funzione di pompa cardiaca (modello emodinamico) o ad un’eccessiva ritenzione di sodio e acqua secondaria ad una alterata perfusione renale (modello cardiorenale). Successivamente è stata descritta nei pazienti con IC una complessa attivazione sistemica neuroormonale avente effetti di compenso emodinamico nel breve periodo, ma deleteri nel lungo periodo. Ciò ha portato all’introduzione di nuovi farmaci in grado di antagonizzare tale attivazione, con benefici in termini di morbilità e mortalità. Nemmeno il modello neuroormonale tuttavia è in grado di spiegare completamente la progressione di malattia nell’IC. Nonostante il largo utilizzo dei farmaci antagonisti neuroormonali, infatti, nella maggior parte dei pazienti si continua ad osservare una progressione di malattia, sebbene rallentata. E’ stato suggerito che il rimodellamento ventricolare sia sufficiente ad indurre la progressione di malattia indipendentemente dallo stato neuroormonale dei pazienti (Mann DL et al., 2005).
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2.2 Attivazione neuroormonale
Quello di neuroormone è un termine a valenza principalmente storica, coniato in seguito all’osservazione che molte molecole attive nell’IC sono prodotte dal sistema neuroendocrino. È stato successivamente dimostrato che altre molecole biologicamente attive di pertinenza non neuroendocrina sono implicate nella patogenesi dell’IC, e che d’altra parte molte molecole classicamente descritte come prodotti del sistema neuroendocrino (noradrenalina, angiotensina II) possono essere sintetizzate direttamente nel miocardio, agendo in maniera autocrina e paracrina.
La più rapida risposta compensatoria che avviene nelle prime fasi dell’IC è l’attivazione ortosimpatica, accompagnata da una concomitante riduzione del tono parasimpatico. Tali alterazioni delle efferenze simpatiche sono spiegate attraverso la riduzione dell’attività afferente inibitoria dei barocettori ad alta pressione (seno carotideo e dell’arco aortico) e a bassa pressione (atri e circolo polmonare) e l’aumento dell’attività afferente eccitatoria dei chemocettori periferici e dei metabocettori muscolari (Floras JS et al., 2003). Il risultato è una netta riduzione della variabilità circadiana della frequenza cardiaca, un aumento delle resistenze vascolari periferiche ed un aumento della diatesi aritmica miocardica. Aumentano inoltre i livelli circolanti di noradrenalina, come effetto dell’aumentata attività efferente ortosimpatica e del ridotto uptake di noradrenalina da parte delle terminazioni nervose adrenergiche. È stato ampiamente dimostrato come nei pazienti con IC i livelli circolanti di noradrenalina predicano la mortalità (Bonow RO et al., 2011). Con il progredire dell’IC si assiste ad una riduzione significativa della concentrazione di noradrenalina nel miocardio legata ad un fenomeno di esaurimento delle terminazioni nervose autonomiche e alla riduzione dell’attività della tirosina idrossilasi miocardica e del reuptake della noradrenalina
17 valutabile con esame scintigrafico con 123I-metaiodobenzilguanidina (MIBG) (Bonow RO et
al., 2011).
Il sistema renina angiotensina aldosterone (SRAA) è attivato più tardivamente. L’ipoperfusione renale, il ridotto carico di sodio nella preurina del tubulo distale e la stimolazione adrenergica renale inducono l’apparato iuxtaglomerulare a rilasciare maggiori quantità di renina. La renina taglia quattro amminoacidi dall’angiotensinogeno circolante, producendo il decapeptide angiotensina I. Questa è ulteriormente tagliata dall’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) a dare l’ottapeptide angiotensina II (AGII). Agendo sul recettore AT1, l’AGII induce vasocostrizione periferica, secrezione di aldosterone e catecolamine e ha un effetto mitogeno. Sebbene nel breve periodo l’attivazione del SRAA abbia effetti compensatori emodinamici, sostenendo la perfusione renale, cerebrale e cardiaca, nel lungo periodo l’AGII induce fibrosi miocardica, renale e di altri organi. Anche l’aldosterone a lungo andare induce fibrosi del miocardio e dei vasi, aumentando la stiffness ventricolare e riducendo la compliance vascolare. L’aldosterone è stato chiamato in causa inoltre nella genesi della disfunzione barocettoriale, della disfunzione endoteliale e nello stress ossidativo con conseguente stimolo proinfiammatorio (Bonow Ro et al., 2011).
Una delle vie finali del danno cardiomiocitario nell’IC è dunque quella dell’aumentata produzione di speciereattive dell’ossigeno e dell’azoto. Queste molecole possono essere prodotte dalla xantinaossidasi, dalle NADPH ossidasi (NOX2 e 4), dalla ossido nitrico sintasi (NOS) e dalla catena di trasporto degli elettroni nei mitocondri. Attraverso la modulazione di vie di signalling quali quella del fattore nucleare κB (NF-κB), della fosfatidilinositolo 3-kinasi (PI3K), della protein3-kinasi C (PKC) e del calcio, i ROS regolano l’ipertrofia, l’espressione del programma genetico fetale e l’apoptosi dei miocardiociti, la proliferazione dei fibroblasti e la sintesi di collagene (McKinsey TA et al., 2007).
18 L’ormone antidiuretico o vasopressina (ADH) è un ormone polipeptidico secreto dalla neuroipofisi e preposto alla regolazione dell’osmolarità plasmatica. Esso viene infatti secreto in risposta ad un aumento dell’osmolarità plasmatica e agisce riducendo la clearance urinaria dell’acqua libera. L’ADH è elevato in molti pazienti con IC, anche in assenza di alterazioni dell’osmolarità e si ritiene che ciò contribuisca all’iponatriemia che si osserva in questi pazienti (Tang WHW et al., 2007). L’ADH agisce attraverso il legame sui recettori V1A, V1B, e
V2. V1A è espresso a livello delle cellule muscolari lisce e media la vasocostrizione,
l’aggregazione piastrinica e il trofismo dei miocardiociti indotti da ADH. V1B modula la
secrezione di ormone adrenocorticotropo (ACTH) da parte dell’adenoipofisi, mentre V2 è
responsabile, attraverso la traslocazione delle acquaporine, dell’aumentato riassorbimento di acqua nel dotto collettore dei nefroni. I vaptani sono nuovi farmaci antagonisti dei recettori dell’ADH V1A (relcovaptan), V2 (tolvaptan, lixivaptan, satavaptan) o V1A /V2 (conivaptan)
sperimentati nell’IC. Il tolvaptan si è dimostrato in grado di ridurre il peso corporeo e l’iponatriemia (Tang WHW et al., 2005), ma non la mortalità per IC acuta (Konstam MA et
al., 2007). Nessuno di questi farmaci è attualmente approvato per il trattamento dell’IC, ed il
loro potenziale ruolo rimane ancora da chiarire.
Il sistema dei peptidi natriuretici comprende i peptidi strutturalmente simili ANP (atrial
natriuretic peptide), urodilantina (isoforma di ANP), BNP (brain natriuretic peptide o B-type natriuretic peptide), CNP (C-type natriuretic peptide) e DNP (dendroaspis natriuretic peptide). ANP è prodotto principalmente dagli atri, mentre il BNP è prodotto prevalentemente
dai ventricoli. Entrambi sono prodotti come pro-ormoni, tagliati e rilasciati in rapporto molare 1:1 assieme ai frammenti inattivi NT-proANP e NT-proBNP. ANP e BNP sono rilasciati in risposta ad un aumentato stress parietale, sebbene altri fattori (angiotensina II, endotelina, età, sesso, funzione renale) giochino un ruolo nella loro regolazione. I livelli ematici di peptidi natriuretici nei pazienti con IC sono frequentemente elevati. L’increzione di ANP sembra
19 rispondere prevalentemente ad aumenti acuti della pressione atriale, mentre quella di BNP è regolata a livello trascrizionale e risponde a cambiamenti cronici della pressione ventricolare ed atriale. CNP è localizzato principalmente a livello vascolare; anch’esso è prodotto sotto forma di pro-ormone, successivamente tagliato e rilasciato assieme al peptide inattivo NT-proCNP. I recettori di ANP, BNP e CNP sono chiamati NPRA , NPRB e NPRC. NPRA e NPRB
sono accoppiati alla guanilato ciclasi ed il legame con i peptidi natriuretici induce un aumento delle concentrazioni intracellulari di guanosinmonofosfato ciclico (cGMP), risultando in aumento della natriuresi, vasodilatazione, inibizione del SRAA, inibizione della fibrosi ed effetto lusitropo positivo. ANP e BNP hanno emivite plasmatiche brevi, essendo degradati dall’endopeptidasi neutra NEP. Gli inibitori di NEP sono attualmente in sperimentazione per l’utilizzo nei pazienti con IC; la Food and Drug Administration statunitense ha approvato l’utilizzo di BNP umano ricombinante (rhBNP, nesiritide) nei pazienti con IC acuta. La misurazione dei livelli di BNP o NT-proBNP, inoltre, fornisce utili informazioni diagnostiche e prognostiche nei pazienti con IC.
Sono state descritte finora tre endoteline, ET-1, ET-2 ed ET-3, tutte in grado di esercitare potenti azioni vasocostrittive. Le endoteline sono prodotte principalmente dall’endotelio ma esse possono essere prodotte e rilasciate anche dai miocardiociti. Il recettore delle endoteline ETA media la vasocostrizione, l’ipertrofia e l’iperplasia cellulare, la fibrosi e l’effetto inotropo
positivo delle endoteline. È stato dimostrato che i livelli di endoteline nei pazienti con IC siano elevati e correlino inversamente con la prognosi, oltre che direttamente con la pressione polmonare e le resistenze vascolari polmonari. Farmaci antagonisti di ETA sono attualmente
approvati per l’utilizzo nei pazienti con ipertensione polmonare in classe funzionale III.
È stato recentemente ipotizzato che i mediatori flogistici, quali TNF-α e interleuchina 1 (IL-1), possano contribuire al rimodellamento ventricolare. I mediatori dell’infiammazione sarebbero prodotti in situ anche dai cardiomiociti, oltre che da cellule del sistema
20 immunitario. La produzione di queste molecole avverrebbe in risposta a differenti tipi di danno cardiaco, e sarebbe fondamentale per orchestrare le prime fasi della riparazione del miocardio. Tuttavia, quando l’azione di TNF-α e IL-1 si protrae nel tempo diventa maladattativa, inducendo effetti deleteri sui cardiomiociti (ipertrofia, espressione del programma genetico fetale, aumento dello stress ossidativo, effetto inotropo negativo, induzione dell’apoptosi), sulle cellule mesenchimali (conversione dei fibroblasti a miofibroblasti, aumento dell’espressione del recettore AT1 sui fibroblasti, aumento della
produzione di metalloproteinasi della matrice) e sulla matrice extracellulare (degradazione ed aumento della fibrosi). Inoltre il sistema renina-angiotensina e quello delle citochine interagiscono con effetti sinergici: l’angiotensina II induce iperespressione di TNF-α e le citochine aumentano la sintesi di ACE da parte dei miocardiociti. Queste evidenze hanno promosso la sperimentazione, nei pazienti con IC, di farmaci biologici antagonisti di TNF-α (etanercept), che tuttavia non hanno dimostrato di produrre un chiaro beneficio clinico (Mann
DL et al., 2004).
2.3 Rimodellamento del ventricolo sinistro
Per ventricular remodeling si intende l’insieme di alterazioni della geometria ventricolare, dell’architettura tissutale miocardica e dell’attività dei miocardiociti che si osservano nella progressione dell’IC.
Nella progressione dell’IC si osserva spesso un lento incremento del volume ventricolare. Anche l’insufficienza mitralica funzionale che può derivare dal reciproco distanziamento dei muscoli papillari contribuisce al sovraccarico volumetrico. Il volume telediastolico contribuisce a determinare il postcarico che il ventricolo dovrà vincere all’inizio della sistole; ne deriva quindi che la dilatazione ventricolare aumenta il lavoro e quindi il consumo di ossigeno del miocardio. La dilatazione del ventricolo sinistro è stata messa in relazione
21 all’aggiunta in serie di nuovi sarcomeri attraverso l’attivazione di cascate di signalling attivate dallo stiramento cellulare e ancora non ben caratterizzate (Force T et al., 2002). Per la legge di Laplace infatti un aumentato volume comporta, a parità di pressione, un aumentata tensione parietale. Ciò si traduce anche in una limitata apposizione di sarcomeri in parallelo. Il permanere di un’aumentata tensione parietale indurrebbe infine apoptosi dei miocardiociti (Olivetti G et al., 1997), probabilmente attraverso l’attivazione locale dell’angiotensinogeno. Nel ventricolo rimodellato si osserva spesso una riduzione dello spessore delle pareti del ventricolo sinistro, che assieme all’aumento del postcarico derivante dall’aumento del volume telediastolico, è alla base del cosiddetto mismatch del postcarico. È stato inoltre descritto nei soggetti con IC un aumento della sfericità del ventricolo sinistro, che si traduce in un aumento dello stress parietale lungo i meridiani del ventricolo (Mann Dl et al., 2005).
2.4 Rimodellamento tissutale
Allo studio istopatologico dei cuori di pazienti con IC è evidente una netta riduzione della cellularità miocardica, derivante da fenomeni di necrosi e apoptosi. La necrosi è tipica del danno ischemico, ma è stata osservata anche nel danno miocardico non ischemico. È stato descritto infatti in letteratura come le concentrazioni di noradrenalina tissutali o plasmatiche che si osservano nei pazienti con IC siano in grado di indurre la necrosi dei cardiomiociti. Inoltre questa può essere indotta anche dall’eccessiva stimolazione da parte di AGII o endotelina. Al contrario dell’apoptosi, la necrosi, liberando i componenti intracellulari nello spazio extracellulare, è in grado di indurre una intensa reazione flogistica, con richiamo di granulociti, macrofagi e fibroblasti in grado di produrre collagene. L’anomala stimolazione da parte di catecolamine, AGII, ROS, NO, citochine infiammatorie e stress meccanico si è inoltre dimostrata in grado di indurre apoptosi in vitro. L’apoptosi cardiomiocitaria sembra essere molto importante in alcuni modelli animali di IC, e potrebbe esserlo anche nell’uomo.
22 Nella progressione dell’IC si osserva accanto alla morte di alcuni miocardiociti, l’ipertrofia dei miocardiociti rimanenti. Inizialmente i miocardiociti ipertrofici sono caratterizzati da un aumento del numero di fibrille e mitocondri. Successivamente l’aggiunta di nuovi elementi contrattili in aree localizzate delle cellule determina una severa alterazione dell’architettura cellulare, con disfacimento dell’organizzazione parallela dei sarcomeri, interruzioni delle linee Z e dilatazione dei tubuli a T.
Un’altra alterazione istopatologica caratteristica della progressione dell’IC è la progressiva sostituzione di miocardio con tessuto fibroso. Si assiste ad un aumento del contenuto di collagene I, III, IV e VI, fibronectina, laminina, vimentina; ad una riduzione del grado di
cross-linking del collagene; ad una riduzione delle connessioni tra la rete di collagene
extracellulare e i miocardiociti. Si ritiene che i fibroblasti e i mastociti rivestano un ruolo fondamentale in queste alterazioni. Quella dei fibroblasti è la cellularità non cardiomiocitaria più abbondante nel cuore ed è preposta alla sintesi e alla secrezione delle componenti della matrice extracellulare. In risposta ad un danno miocardico si osserva una mutazione fenotipica dei fibroblasti in miofibroblasti, caratterizzati da un’aumentata espressione di actina e da un’aumentata capacità secretoria. Essi migrano nelle aree circostanti la lesione, dove sono responsabili della deposizione del collagene in fibre e dell’allineamento di queste. L’accumulo di collagene può avvenire attorno ai vasi coronarici intramurali (fibrosi perivascolare), nello spazio interstiziale (fibrosi interstiziale) o nello spazio occupato da cardiomiociti morti (fibrosi di rimpiazzo). Molte molecole iperespresse nell’IC (AGII, aldosterone, endotelina, transforming growth factor β (TGF-β), cardiotrofina 1) sono in grado di attivare i fibroblasti. Inoltre l’utilizzo di farmaci in grado di contrastare l’attivazione neuro-ormonale è stato messo in relazione con una ridotta deposizione di collagene in modelli sperimentali di IC (Mann DL et al., 2005).
23 La matrice di collagene fibrillare extracellulare non è un’entità statica, ma è invece oggetto di un rapido turnover. Nell’IC è infatti attivo un insieme di zinco-proteasi note come metalloproteinasi di matrice (matrix metalloproteinases, MMP) in grado di degradare il collagene. L’attività delle MMP è complessamente regolata da un insieme di inibitori tissutali (tissue inhibitors of matrix metalloproteinases, TIMP). L’attivazione delle MMP è stata associata alla dilatazione del ventricolo sinistro e all’assottigliamento delle pareti, mentre l’iperespressione delle TIMP favorirebbe la fibrosi miocardica progressiva (Bonow RO et al., 2011).
2.5 Alterazioni molecolari
Anche a livello molecolare sono state descritte alterazioni tipiche nell’IC. In particolare, nei cardiomiociti è attivato il programma genico fetale; è ridotta l’espressione del gene dell’isoforma α della catena pesante della miosina mentre è aumentata l’espressione del gene dell’isoforma β; sono alterate la trascrizione e le modificazioni post-traduzionali delle proteine chiave nella regolazione del metabolismo intracellulare del calcio e dell’accoppiamento eccitazione-contrazione; sono alterate diverse vie di signalling con diversi effetti, tra cui la desensibilizzazione β-adrenergica, già discussa.
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3. LA DIAGNOSTICA NON INVASIVA NELL’INSUFFICIENZA
CARDIACA
3.1 Dati clinici
Il fenotipo clinico dell’IC è variabile, poiché dipende da complesse interazioni tra la causa scatenante, i fenomeni compensatori, fattori genetici ed ambientali, e dalla presenza di eventuali comorbidità.
L’IC può diventare sintomatica solo in una fase avanzata della malattia causativa (stadio C e D ACC/AHA). I sintomi lamentati dai pazienti affetti da IC possono essere molteplici e poco specifici. La dispnea, la limitazione funzionale e l’astenia sono molto comuni. È utile classificare la severità della dispnea e della limitazione funzionale utilizzando la classificazione proposta dalla New York Heart Association. L’assenza di dispnea significativa comunque non deve indurre ad escludere necessariamente una diagnosi di IC, in quanto i pazienti possono compensare la sintomatologia attraverso modifiche sostanziali dello stile di vita. La dispnea può essere presente anche a riposo e può esservi ortopnea. La dispnea parossistica notturna è un sintomo altamente suggestivo di IC. Il pattern ipnico può inoltre essere disturbato dalla nicturia, da dolori muscoloscheletrici, dal respiro periodico di Cheyne-Stokes o da apnee ostruttive. L’aumentata aritmogenicità del miocardio può manifestarsi con uno spettro di condizioni che va dal cardiopalmo, alla sincope, alla morte cardiaca improvvisa. I pazienti possono riferire un aumento di peso e la comparsa di edemi declivi. Possono essere presenti inoltre fastidio addominale, iporessia, sazietà precoce e tensione o dolore addominale, soprattutto a carico del quadrante superiore destro. La cachessia, definita
25 come una perdita involontaria di massa non edematosa di almeno il 6% del peso corporeo nell’arco di 6-12 mesi (MCMurray JJ et al., 2012), può caratterizzare le fasi avanzate di malattia.
All’esame obiettivo generale possono essere riscontrati edemi declivi, pallore e ipotermia degli arti, cianosi periferica. Attraverso l’esame cardiovascolare sono riscontrabili cardiomegalia, tachicardia, terzo e quarto tono, soffi da rigurgito, turgore giugulare e reflusso epatogiugulare. Sono comuni reperti toracici quali crepitii fini tele- o paninspiratori. A livello addominale si possono obiettivare epatosplenomegalia ed ascite.
3.2 Dati bioumorali
Le analisi ematologiche e biochimiche di routine sono importanti per determinare se una terapia antagonizzante il SRAA possa essere intrapresa in sicurezza (è necessaria infatti cautela nei pazienti con malattia renale cronica avanzata o iperkaliemia) e per escludere l’anemia. L’anemia è comune nei pazienti con IC (si osserva nel 37% dei pazienti) ed è stata messa in relazione ad una maggiore gravità dei sintomi, ad una ridotta capacità funzionale e qualità di vita e ad un’aumentata mortalità (Groenveld HF et al., 2008). Alterazioni elettrolitiche sono particolarmente frequenti nei pazienti con IC. L’iponatriemia si manifesta in un paziente su 5, specie nello scompenso acuto. Essa si associa ad aumentate lunghezza dei ricoveri e mortalità intra- ed extraospedaliera e a deficit cognitivi e neuromuscolari (Bonow
RO et al., 2011), sebbene l’implementazione di strategie volte a limitarla (con la
somministrazione di vaptani) non abbia dimostrato benefici clinici (Konstam MA et al., 2007). L’ipokaliemia e l’alcalosi metabolica sono comuni nei pazienti in terapia diuretica. È utile valutare la funzione epatica. Elevazioni di aspartato aminotrasferasi e alanina aminotrasferasi possono essere legate ad alterazioni emodinamiche o alla terapia farmacologica e andrebbero
26 seguite nel tempo. Incrementi della bilirubina e del tempo di protrombina possono essere osservati in alcuni episodi di scompenso acuto. La riduzione dei livelli di albumina può riflettere una ridotta capacità di sintesi epatica, una malnutrizione calorico-proteica o un malassorbimento attraverso le pareti intestinali edematose. È importante valutare il profilo glicemico e lipidemico, nonché i livelli di acido urico, che aumentano nella sindrome metabolica e nei pazienti in terapia diuretica. Anche lo studio della funzione tiroidea è raccomandato in questi pazienti (McMurray JJ et al., 2012).
È importante dosare inoltre i peptidi natriuretici (in particolare BNP e NT-proBNP o il
mid-regional ANP, MR-proANP), i cui livelli sono elevati nei pazienti con IC e sono utili nella
valutazione dei soggetti con dispnea di causa dubbia. Il loro impiego è consigliato dalle più recenti linee guida: a) in funzione diagnostica, per il rule-out in particolare, ma anche per il
rule-in (per i quali sono stati descritti diversi cut-off) (Mueller et al., 2004; Moe GW et al.,
2007) di pazienti con sintomatologia sospetta per IC, sia con funzione ventricolare sistolica ridotta che preservata (Van Veldhuisen DJ et al., 2013); b) per la stratificazione di rischio (McMurray et al., 2012; Yancy CW et al., 2013). Altri impieghi proposti sono lo screening della disfunzione ventricolare asintomatica in popolazioni selezionate e la guida al trattamento: in questi ambiti la letteratura presenta evidenze contradditorie (Clerico A and
Emdin M, 2004, Clerico A et al., 2013). Le concentrazioni plasmatiche dei peptidi natriuretici
tendono ad essere più elevate nei pazienti in classe funzionale NYHA avanzata e nei pazienti con disfunzione sistolica sinistra più marcata; aumentano con l’età e (specie l’NT-proBNP) con il peggioramento della funzione renale; tendono inoltre ad essere più elevate nelle donne e più basse nei soggetti obesi. Il loro incremento può comunque essere riscontrato anche nelle sindromi coronariche acute, negli stati iperdinamici quali la sepsi, l’ipertiroidismo e la cirrosi, nell’embolia polmonare, nell’ipertensione polmonare e nelle malattie polmonari gravi (Bonow
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3.3 Elettrocardiografia
L’elettrocardiografia (ECG) è un esame diagnostico di primo livello indicato nei pazienti con sospetto di IC e in quelli con IC nota acutamente scompensata, per la sua elevata accuratezza predittiva negativa.
Nei pazienti con IC avanzata o acutamente scompensata può essere dimostrata una tachicardia sinusale dovuta all’aumentata attivazione adrenergica. Il riscontro di fibrillazione atriale è associato con la progressione del rimodellamento cardiaco e con la severità clinica, costituendo per se un fattore prognostico. Alterazioni della morfologia dell’onda P possono suggerire una dilatazione atriale, mentre un allungamento dell’intervallo PR è comune nei pazienti con cardiomiopatia da mutazione del gene della lamina (Van Berlo JH et al., 2005). Anomalie recenti o reversibili della ripolarizzazione ventricolare possono suggerire la causa di scompenso acuto, mentre i segni ECG di ipertrofia ventricolare sinistra o di sovraccarico destro possono essere associati con profili eziologici specifici. Pattern di anomalia del complesso QRS possono indirizzare verso un’eziologia ischemica dell’ IC. Bassi voltaggi dei complessi QRS possono essere riscontrati in malattie infiltrative o in presenza di versamento pericardico. Un QRS la cui durata ecceda i 120 ms, spesso associato con blocco di branca sinistra, in un paziente con disfunzione sistolica è un utile indicatore di dissincronia ventricolare ed è uno dei criteri per l’indicazione alla terapia di cardioresincronizzazione. L’allungamento dell’intervallo QT, come altri parametri legati all’eterogeneità del processo di ripolarizzazione, sono collegati con la propensione verso eventi aritmici potenzialmente fatali.
Anche l’esame ECG dinamico delle 24 ore secondo Holter può fornire utili informazioni sul
burden aritmico e sull’imbalance autonomico. La variabilità circadiana dell’intervallo RR può
28 simpato-vagale: nella CMD aumenta la variabilità a bassa frequenza (determinata dal tono simpatico) e diminuisce la variabilità ad alta frequenza (determinata dal tono vagale); negli stadi più avanzati diminuisce tuttavia anche la variabilità a bassa frequenza, probabilmente per la saturazione del nodo del seno da parte del simpatico, per la downregulation dei recettori β-adrenergici e per la deplezione delle scorte di catecolamine. La ridotta variabilità circadiana della frequenza cardiaca è un predittore indipendente di morte nei pazienti con IC ischemica e CMD idiopatica (Ponikowski et al., 1997). La presenza di episodi di tachicardia ventricolare non sostenuta al tracciato Holter inoltre correla con il rischio aritmico nei pazienti con CMD idiopatica (Grimm W et al., 2000).
3.4 Radiografia del torace
Nonostante oggi ci si serva dell’ecocardiografia per la determinazione dei volumi delle camere cardiache e degli esami bioumorali per distinguere l’IC dalle altre cause di dispnea, la radiografia del torace rimane un valido componente della valutazione iniziale del paziente con sospetta IC. Tipici reperti radiografici sono la cardiomegalia, l’aumento di dimensioni del peduncolo vascolare (espressione dell’aumento del volume intravascolare), l’ingrandimento, l’aumento della densità e le caratteristiche dei margini delle immagini ilari dei rami delle arterie polmonari, i reperti collegati con l’aumento dell’imbibizione extravascolare polmonare (le strie di Kerley, la presenza di manicotti peribronchiali e perivascolari), la presenza di versamento pleurico, la redistribuzione del flusso arterioso polmonare verso gli apici, sino al quadro di edema alveolare.
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3.5 Valutazione della capacità funzionale
Può essere difficoltoso interpretare e quantificare il grado di dispnea e limitazione funzionale riferito dai pazienti con IC. Si fa comunemente ricorso quindi ad esami che permettano di quantificare oggettivamente la capacità funzionale dei pazienti con IC. Il test del cammino dei 6 minuti è un esame semplice e sicuro; i risultati sono in grado di predire la prognosi (Bittner
V et al., 1993), ma non è in grado di discriminare le cause della riduzione della tolleranza
all’esercizio o di correggere i risultati per gli effetti del decondizionamento o dell’età.
Il test ergospirometrico o test cardiopolmonare fornisce una migliore quantificazione della capacità funzionale e può distinguere tra cause cardiache e polmonari di dispnea da sforzo. Esso inoltre fornisce informazioni utili per la stratificazione prognostica e per l’indicazione al trapianto cardiaco (Ingle L et al., 2008). Il riscontro dei test funzionali è utilizzato nel
follow-up per la valutazione dell’efficacia dello sforzo terapeutico.
3.6 Ecocardiografia
L’ecocardiografia rappresenta attualmente l’esame di imaging di prima scelta nella valutazione dei pazienti con IC (McMurray et al., 2012; Yancy CW et al., 2013). È un esame non invasivo, che non utilizza radiazioni ionizzanti, poco costoso ed ampiamente disponibile sul territorio. È particolarmente utile per la valutazione della struttura e della funzione del miocardio e delle valvole cardiache, delle pressioni e dei flussi intracardiaci. L’ecocardiografia permette anche di evidenziare le cicatrici fibrose post-infartuali come aree iperecogene del miocardio, e sono disponibili tecniche, come l’analisi backscattering ed il Doppler tissutale, in grado di valutare la presenza della fibrosi intramiocardica. L’esplorazione ecocardiografica può tuttavia essere limitata in alcuni pazienti obesi o enfisematosi, in quanto i piani di scansione disponibili e la qualità dell’immagine dipendono dalla bontà della finestra acustica.
30 Nei pazienti con IC è utile misurare i volumi e la frazione di eiezione del ventricolo sinistro, la quale è utilizzata come semplice indice di funzione sistolica nonostante sia influenzata dal precarico, dal postcarico, dalla frequenza cardiaca e dai vizi valvolari. Attraverso lo studio Doppler del flusso transmitralico e delle velocità tissutali a livello dell’anulus mitralico e la valutazione di altri parametri quali il flusso nelle vene polmonari e le dimensioni dell’atrio sinistro, è possibile valutare la funzione diastolica ventricolare sinistra. La disfunzione diastolica può essere classificata dal grado I al grado III in base ai valori di questi parametri. È possibile stimare la pressione atriale destra attraverso il diametro della vena cava inferiore ed il suo grado di collabimento inspiratorio. Infine, è utile stimare le pressioni sistoliche del ventricolo destro e dell’arteria polmonare utilizzando il picco di velocità del rigurgito tricuspidalico e la stima della pressione atriale destra.
3.7 Risonanza magnetica cardiaca
RMC è un esame di imaging di secondo livello per i suoi costi e la ridotta disponibilità sul territorio. Come l’ecocardiografia, la RMC non utilizza radiazioni ionizzanti; essa fornisce però immagini con una risoluzione spaziale migliore di quelle ecocardiografiche. La RMC è attualmente considerata il gold-standard per la misurazione dei volumi e della funzione dei ventricoli e degli atri (Maceira AM et al., 2006; Maceira AM et al., 2007; Maceira AM et al., 2010; Maceira AM et al., 2013). Inoltre essa permette una buona caratterizzazione tissutale, nonché di valutare la vitalità miocardica. Controindicazioni alla RMC comprendono la claustrofobia, l’eccessivo peso o l’eccessiva circonferenza addominale che non permettano di accomodare il paziente nello scanner, e la presenza di materiale ferromagnetico nell’organismo. Sebbene esistano oggi pacemakers compatibili con la RMC, la maggior parte di essi non lo è, e la presenza di un defibrillatore impiantabile rappresenta attualmente ancora una controindicazione assoluta alla RMC. L’esposizione al forte campo elettromagnetico può infatti dislocare il dispositivo o gli elettrocateteri; le radiofrequenze possono riscaldare gli
31 elettrocateteri al punto da indurre danno miocardico; gli effetti magnetoidrodinamici possono determinare alterazioni del sensing ECG e risposte anomale del dispositivo e possono interferire direttamente con la sua programmazione. Altri dispositivi ferromagnetici che rappresentano controindicazioni assolute alla RMC comprendono elettrocateteri ritenuti, clip vascolari, corpi metallici estranei nel bulbo oculare o nell’orbita, impianti cocleari e pompe di infusione.
La RMC si basa sull’utilizzo di un forte campo magnetico uniforme (dell’ordine di 1.5-3 T) all’interno del quale i protoni sono indotti ad allineare i propri spin. L’allineamento è disturbato dall’emissione di energia in radiofrequenza (fenomeno della risonanza) e, nel momento in cui questa cessa, i protoni tornano ad allinearsi emettendo a loro volta energia sotto forma di radiofrequenze, che vengono captate dalla macchina e utilizzate per la creazione dell’immagine. In particolare, i tempi di rilassamento longitudinale (T1) e trasversale (T2) descrivono il tempo necessario ai protoni a riallineare i propri spin a seguito della perturbazione esterna. L’intensità del segnale misurato (e codificato nell’immagine in scala di grigio) dipende in parte dai tempi T1 e T2.
La quasi totalità degli esami di RMC viene condotta avvalendosi anche della somministrazione di mezzo di contrasto contenente gadolinio (Gd). Il Gd è un metallo della serie dei lantanidi, utilizzato in forma cationica trivalente. In questa forma il Gd presenta sette elettroni spaiati sugli orbitali esterni, ed è pertanto paramagnetico, ovvero in grado di generare un campo magnetico quando sottoposto ad un campo magnetico esterno. Grazie a questa proprietà il Gd è in grado di accorciare i tempi T1 e T2 dei protoni circostanti e quindi di alterare le caratteristiche delle immagini ottenute. Il grado con cui ciò accade dipende anche dalla concentrazione del Gd, dall’intensità del campo magnetico applicato e dalle specifiche sequenze utilizzate per acquisire le immagini. In genere viene sfruttata la capacità del Gd di accorciare il tempo T1 (Sherry AD et al., 2009).
32 Il Gd trivalente è tossico per i sistemi biologici, in quanto ha dimensioni simili al calcio in forma cationica divalente e può alterare le funzioni cellulari dipendenti da questo ione. Per questo il Gd viene legato chimicamente e stabilmente a molecole lineari o cicliche, ionizzate o meno, che occupino sei dei sette elettroni spaiati, lasciando un unico elettrone libero di interagire con i protoni circostanti, che per questioni probabilistiche sono più frequentemente i protoni dell’idrogeno della molecola dell’acqua (Sherry AD et al., 2009). La molecola così ottenuta prende il nome generico di Gd-chelato. Il Gd-chelato più utilizzato in RMC deriva dalla chelazione del Gd con una molecola lineare ionica, l’acido dietilen-triamino-pentacetico o acido pentetico (DTPA).
Nonostante i Gd-chelati fossero considerati sicuri ed associati con una minore incidenza di effetti avversi nella popolazione con malattia renale cronica se comparati ai mezzi di contrasti iodati utilizzati per la tomografia computerizzata (TC), nel 2006 il loro utilizzo fu per la prima volta collegato alla rara fibrosi sistemica nefrogenica (nephrogenic systemic fibrosis, NSF). È stato calcolato che i Gd-chelati siano stati somministrati dalla loro introduzione più di 200 milioni di volte, mentre i casi di NSF denunciati siano meno di mille in tutto il mondo (Weinreb JC et al., 2008). Alcuni ritengono tuttavia che i casi di NSF, specie quelli lievi o indolenti, siano sotto-diagnosticati. L’unica associazione descritta per la NSF da Gd-chelati è quella con una funzione renale severamente ridotta. Non è chiara la patogenesi della NSF, ma si ritiene che la de-chelazione del Gd dalla molecola legante sia più probabile negli individui con una ridotta clearance renale, e che ciò aumenti la probabilità di effetti tossici sistemici. Nel 2010 la Food and Drug Administration controindicò l’utilizzo di tre Gd-chelati (gadopentetato, gadodiamide, e gadoversetamide) nei pazienti con malattia renale cronica severa o danno renale acuto (Reserch C for DE, 2010). In seguito all’adozione delle nuove controindicazioni i casi incidenti di NSF da Gd-chelati si sono virtualmente azzerati. È stato inoltre appurato che i Gd-chelati contenenti molecole cicliche anziché lineari hanno velocità