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I limiti al diritto di proprietà posti dagli strumenti urbanistici. I vincoli urbanistici.

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Dipartimento

Corso di Laurea Magistrale in G

I limiti al diritto di proprietà posti dagli strumenti urbanistici.

Il Candidato

Francesco Losito

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

I limiti al diritto di proprietà posti dagli strumenti urbanistici.

I vincoli urbanistici.

Il Candidato

Il Relatore

Francesco Losito

Chiar.mo Prof. Carmelo D’Antone

A.A. 2014 / 2015

iurisprudenza

I limiti al diritto di proprietà posti dagli strumenti urbanistici.

Il Relatore

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INDICE

Introduzione ... 1

I - Evoluzione della materia dell’urbanistica, la

pianificazione e la proprietà

1 - Origine ed evoluzione dell’urbanistica ... 3 2 - Pianificazione ... 14 3 – Proprietà. Funzione sociale e contenuto minimo ... 23

II - I vincoli urbanistici. La differenza fra vincoli

espropriativi e vincoli conformativi

1 - Vincoli espropriativi e vincoli conformativi nella

giurisprudenza costituzionale ... 36

2 - Vincoli espropriativi e vincoli conformativi nella

giurisprudenza amministrativa e ordinaria ... .53

III - Il regime giuridico dei vincoli urbanistici

1 - I modi di imposizioni dei vincoli ... 64 2 - La durata e le conseguenze della decadenza

dei vincoli urbanistici. Le zone bianche ... 73

3 - La reiterazione dei vincoli ... 81 4 - L’indennità di esproprio e i criteri per la sua

determinazione ... 98

Conclusioni ... 110

Bibliografia ... 113

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro si propone di esaminare il tema dei vincoli urbanistici posti dagli strumenti di pianificazione e volti a conformare la proprietà privata, al fine di garantirne la funzione sociale di cui all’art. 42 Cost.

Nel primo capitolo è tracciata una breve ricostruzione delle tappe più significative della legislazione urbanistica, partendo dalle prime leggi post-unitarie in materia espropriativa della seconda metà dell’800, fino ad arrivare all’attuale T.U. Espropri (D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327). Inoltre è sinteticamente esaminato il sistema di pianificazione previsto dalla legge urbanistica del ’42 e le modifiche apportate dalle regioni. Successivamente viene analizzato il diritto di proprietà in rapporto all’art. 42 Cost. II comma che afferma che la proprietà è garantita dalla legge ma allo stesso tempo limitata dalla stessa al fine di assicurarne la funzione sociale. Osservando però, che le limitazioni alla proprietà privata, anche se imposte al fine del raggiungimento degli obiettivi di giustizia sociale indicati dalla Costituzione, non possono spingersi fino al punto di svuotare sostanzialmente la proprietà privata di ogni contenuto e valore concreto, altrimenti siamo in presenza di un’espropriazione di fatto.

Nel secondo capitolo si approfondisce il tema dei vincoli urbanistici, in particolare l’importante distinzione fra vincoli conformativi e vincoli espropriativi alla luce della giurisprudenza

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costituzionale, amministrativa e ordinaria, rilevando delle divergenze fra gli orientamenti espressi da tali organi giurisdizionali su alcuni tipi di destinazioni.

Nel terzo capitolo viene analizzato il regime giuridico dei vincoli. Si descrivono i modi di imposizione dei vincoli preordinati all’esproprio distinguendo fra apposizione direttamente mediante piano urbanistico generale (art. 9 T.U. Espropri) e apposizione mediante atti di natura diversa dal piano urbanistico generale (art. 10 T.U. Espropri) se la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità non è prevista dal piano urbanistico generale. Successivamente è trattata la durata dei vincoli e le conseguenze della loro decadenza la cui disciplina è contemplata dal II e III comma dell’art. 9 del T.U. Espropri, analizzando anche la disciplina delle c.d. “zone bianche”. In seguito si analizza la reiterazione dei vincoli, i cui profili più problematici riguardano la motivazione del provvedimento e l’indennizzo da reiterazione. Infine si esamina l’indennità di esproprio e l’evoluzione dei criteri per la sua determinazione.

(5)

CAPITOLO I

EVOLUZIONE DELLA MATERIA

DELL’URBANISTICA, LA PIANIFICAZIONE E

LA PROPRIETA’

1 - Origine ed evoluzione dell’urbanistica

“L’urbanistica è l’espressione di un vasto potere discrezionale che consente alle amministrazioni di limitare e funzionalizzare la proprietà privata assegnando destinazioni d’uso ai suoli, definendo i rapporti tra spazi pubblici e privati, individuando territori oggetto di speciali destinazioni, localizzando le opere di urbanizzazione”1.

L’urbanistica moderna nasce nella seconda metà del ‘700 (in particolare in Inghilterra e solo più tardi nel resto dell’Europa), epoca in cui si manifestano due fenomeni strettamente collegati tra loro: l’avvio del processo di industrializzazione e l’incremento del tasso di crescita della popolazione. Tali fattori determinarono la nascita di nuove infrastrutture (fognature, acquedotti, ferrovie) ma anche un

1

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conseguente degrado delle condizioni igienico-sanitarie. Ciò comportò l’introduzione di nuovi strumenti di controllo e pianificazione del territorio (regolamenti edilizi e primi piani regolatori).

In Italia l’evoluzione storica dell’urbanistica si dipana attraverso tre fasi.

Una prima fase si ha verso la fine dell’800, quando vengono varate le prime leggi sanitarie che costruirono la base della legislazione urbanistica successiva (L. 25 giugno 1865, n. 2359 e L. 15 gennaio 1885 n. 2892 c.d. “legge Napoli”).

In questa prima fase gli interessi di rilievo urbanistico trovano considerazione occasionale ed indiretta nell’ambito di provvedimenti normativi disciplinanti materie diverse. Infatti, i primi interventi normativi in materia hanno avuto all’inizio prevalentemente carattere riparatore specifico e rispondente a finalità particolari ritenute di volta in volta meritevoli di considerazione.

Il primo testo legislativo post-unitario è la L. 25 giugno 1865, n. 2359 sulla espropriazione per pubblica utilità, che dedica alcune disposizioni al piano regolatore comunale, configurato allora come strumento straordinario e facoltativo dei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti. Si trattava sostanzialmente di una sorta di programma di espropriazioni da porre in essere per il miglioramento viario ed igienico dei maggiori centri abitati. Disciplinava, in maniera completa ed organica, tutto il processo per la dichiarazione

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di pubblica utilità ed il ricorso all’esproprio, stabilendo, con riferimento all’indennità, che questa sarebbe dovuta consistere nel “giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita” (cioè il valore venale del bene).

A tale testo normativo sono seguite a poco a poco vari leggi speciali sorte dall’esigenza di risolvere situazioni specifiche di singole città. Tra queste la L. n. 2892/1885 c.d. “legge Napoli” che prevedeva un piano di risanamento basato sull’espropriazione di interi comparti da risanare, per fronteggiare un’epidemia di colera che colpì la città di Napoli a causa dell’affollamento abitativo e le pessime condizioni igienico sanitarie. Inoltre contemplava un nuovo criterio di determinazione dell’indennità di esproprio: “la media tra il valore venale del bene da espropriare e la somma dei fitti riscossi negli ultimi dieci anni”.

Tali esigenze di risanamento igienico ed edilizio continuarono ad essere prevalenti fino alla seconda guerra mondiale, anche se ad esse si affiancarono finalità di adeguamento di alcune grandi città al ruolo rappresentativo cui erano chiamate (la vicenda riguarda in particolare il ruolo di capitale attribuito a Torino, a Firenze ed infine a Roma).

Tuttavia il complesso normativo sedimentatosi nel corso del tempo non si rivelò idoneo a disciplinare in maniera organica il

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fenomeno dell’espansione urbana dando luogo, inoltre, a rilevanti problemi di coordinamento.

Ciò condusse al passaggio ad un seconda fase, dove, grazie ad interventi normativi di carattere organico, l’urbanistica si configurò come materia autonoma.

Il primo intervento di tipo sistematico fu la L. 17 agosto 1942, n. 1150 che rappresenta ancora oggi il testo fondamentale di disciplina della materia, anche se nel tempo, ha subito profonde modifiche. Tre sono le caratteristiche fondamentali: a) la previsione di una sequenza di piani, secondo il modello della c.d. “pianificazione a cascata” o “piramide rovesciata”; b) un rigido vincolo gerarchico tra i piani medesimi; c) la sostanziale “atemporalità” della pianificazione2. Infatti, con tale legge, per la prima volta, vengono previsti vari livelli di pianificazione tra loro collegati e coordinati, che vanno da un piano sovracomunale (il piano territoriale di coordinamento) che avrebbe dovuto fissare le direttive generali dell’assetto territoriale, a piani via via più dettagliati (piano regolatore generale e piano particolareggiato) destinati a specificare dette direttive, traducendole in precise prescrizioni e vincoli per i privati.

Tuttavia la legge si rivelò inadeguata perché il livello di pianificazione fu riduttivamente e prevalentemente riferito alla

2

L’art. 11, comma I, L. 17 agosto 1942, n. 1150 stabilisce: “Il piano regolatore generale del Comune ha vigore a tempo indeterminato”.

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parziale formulazione dell’art. 1 della stessa e cioè al solo “incremento edilizio dei centri abitati”, abbandonando il restante territorio alla eventualità di futuri interventi.

Nel 1967, in seguito ad alcuni eventi traumatici (il disastro del Vajont e la frana di Agrigento del 1966), viene emanata la L. 6 agosto 1967, n. 765 c.d. “legge-ponte” (così denominata perché avrebbe dovuto rappresentare una sorta di ponte verso una nuova legge urbanistica generale, poi mai emanata).

La suddetta legge ha introdotto i più corposi correttivi alla legge urbanistica del ’42, incidendo su alcuni degli aspetti più rilevanti della disciplina urbanistica. Tra questi l’introduzione delle limitazioni all’attività costruttiva in assenza degli strumenti urbanistici generali (cioè i c.d. standard generali o standard di salvaguardia); le norme di disciplina delle lottizzazioni (frammentazione della proprietà in porzioni di terreno mediante frazionamento catastale); l’obbligo di licenza edilizia per la realizzazione di fabbricati in tutto il territorio comunale; la necessaria realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria3 anteriormente al rilascio della licenza edilizia.

L’anno successivo, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale 29 maggio 1968, n. 55 (che estende l’ambito applicativo della precedente sent. Corte cost. 20 gennaio 1966, n. 6),

3

Opere di urbanizzazione primaria: strade, reti fognarie e idriche di distribuzione

dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi destinati a parcheggio; opere di urbanizzazione secondaria: asili, scuole, mercati, chiese, impianti sportivi, aree destinate a verde attrezzato, centri culturali.

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il piano regolatore subisce una sorta di mutamento. Infatti questa sentenza introduce, attraverso un’interpretazione estensiva del comma III dell’art. 42 Cost., il concetto di espropriazione “sostanziale” o “larvata” per il quale è necessaria la corresponsione dell’indennizzo anche per quelle espropriazioni che, sebbene non comportino il trasferimento del bene in capo all’amministrazione, determinano il sostanziale svuotamento della situazione proprietaria. In particolare viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, nn. 2, 3, 4 e dell’ art. 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, nella parte in cui queste disposizioni “non prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali”4.

Tale indirizzo, delineato dalla Consulta, viene recepito dal legislatore attraverso la L. 19 novembre 1968, n. 1187 (c.d. “legge-tampone”) che introduce la disciplina relativa alla temporaneità dei cosiddetti vincoli urbanistici. In particolare, viene prevista la durata quinquennale, come alternativa all’obbligo di indennizzo, dei c.d. vincoli preordinati all’esproprio (cioè quelli sulle aree destinate dal piano stesso alla futura realizzazione di opere e impianti pubblici) e di inedificabilità assoluta. Inoltre, la legge 1187 dispone l’obbligo per il piano regolatore di considerare la totalità del territorio

4

Sent. Corte Cost. 29 maggio 1968, n. 55: “dichiara l'illegittimità costituzionale

del numeri 2, 3, 4 dell'art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e dell'art. 40 stessa legge, nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l'imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti del diritti reali, quando le limitazioni stesse abbiano contenuto espropriativo nei sensi indicati in motivazione”.

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comunale, e prevede tra i contenuti del P.R.G. i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico.

Altra tappa significativa è la L. 28 gennaio 1977, n. 10 (c.d. “legge Bucalossi” o anche detta “legge sui suoli”) che introduce l’onerosità della concessione edilizia, l’istituto del programma pluriennale di attuazione ed un nuovo regime sanzionatorio degli abusi edilizi con la previsione della confisca. In particolare, con la legge Bucalossi il legislatore cerca di risolvere la questione dell’indennizzabilità dei vincoli, scorporando il diritto di edificare (c.d. jus aedificandi) dal diritto di proprietà. Infatti, il legislatore tenta di separare la facoltà di edificare dalla proprietà del suolo e di attribuirla al Comune, al quale poi spetta rilasciare la concessione edilizia. Quindi se la facoltà di costruire non spetta al proprietario ma al Comune è chiaro che l’imposizione di un vincolo di inedificabilità non necessita di alcun ristoro e può anche essere a tempo indeterminato.

Tuttavia, pochi anni più tardi, questa disciplina viene dichiarata illegittima dalla Consulta con la sent. 30 gennaio 1980, n. 5 che afferma la permanente inerenza dello jus aedificandi al diritto di proprietà5 e che l’indennizzo deve rappresentare un serio ristoro

5

Sent. Corte Cost. 30 gennaio 1980, n. 5: “Invero, relativamente ai suoli destinati

dagli strumenti urbanistici alla edilizia residenziale privata, la edificazione avviene ad opera del proprietario dell'area, il quale, concorrendo ogni altra condizione, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell'area ed è irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza previsti dalla legge (art. 4 legge n. 10 del 1977). Da ciò deriva che il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire

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basato sul valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali e alla sua potenziale utilizzazione economica6. Quindi la Corte afferma che lo jus aedificandi è tuttora un attributo del diritto di proprietà e che la concessione edilizia è solo un mero provvedimento autorizzatorio7.

Parallelamente alla normativa generale, si è sviluppata in seguito una legislazione settoriale, come la L. 18 aprile 1962, n. 167 che, nell’introdurre i “piani di zona” per l’edilizia economica e popolare, prevede l’espropriazione delle aree destinate ad accogliere insediamenti di edilizia economica e popolare. Nella stessa direzione si muove la L. 27 ottobre 1971, n. 865 (c.d. legge sulla casa), che riforma l’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità e la disciplina dell’edilizia residenziale pubblica ed introduce il piano per gli insediamenti produttivi.

Sempre in tema di legislazione statale, significativi sono il Testo unico espropriazioni (D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 modificato

anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici”.

6

Sent. Corte Cost. 30 gennaio 1980, n. 5: “perchè l'indennità di espropriazione

possa ritenersi conforme al precetto costituzionale, è necessario che la misura di essa sia riferita al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica perchè solo in tal modo l'indennità stessa può costituire un serio ristoro per l'espropriato. E' palese la violazione di tale principio ove, per la determinazione dell'indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso”.

7

Sent. Corte Cost. 30 gennaio 1980, n. 5: “Ne consegue altresì che la concessione

a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”.

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ed integrato dal D.P.R. 27 dicembre 2002, n. 302) e il Testo unico edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n.380). Il primo rileva soprattutto per la disciplina del procedimento espropriativo, dei cosiddetti vincoli urbanistici e dei piani urbanistici attuativi ed, a tal proposito, dispone l’abrogazione di diverse disposizioni della L. n. 1150/42; il secondo, invece, fissa “i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia”.

Occorre poi osservare che l’avvento della Costituzione repubblicana ha determinato un processo di regionalizzazione della materia urbanistica. Infatti, a partire dagli anni ’70 (cioè quando il nuovo sistema autonomistico è divenuto operativo) si è formata una cospicua legislazione regionale in materia8. In questo contesto iniziale le regioni hanno legiferato prevalentemente con la tecnica degli innesti sulla materia statale, modificando, integrando o abrogando singole disposizioni di quest’ultima.

La materia dell’urbanistica era espressamente citata già nel vecchio testo dell’art. 117 Cost., come materia concorrente tra Stato e regioni9.

8

La Toscana è stata tra le prime regioni a dotarsi di una legislazione urbanistica

con la L. r. n. 5/1995.

9

L’art. 9 della L. 10 febbraio 1953, n. 62, stabilì che le regioni potevano legiferare

“nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti”. Analoga previsione è oggi contenuta nell’art. 3 della legge L. 5 giugno 2003, n. 131, secondo cui nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.

(14)

Una terza fase determinante dello sviluppo della legislazione urbanistica si ha quando la materia evolve verso la più ampia nozione di “governo del territorio”.

Il nuovo testo dell’art. 117 Cost. (modificato dalla L. cost. 3/2001) abbandona il termine “urbanistica” ed adotta una nuova espressione quella di “governo del territorio”, qualificando ancora una volta la materia di “competenza concorrente” (art.117, c.3, Cost). Infatti si è discusso se la nuova espressione fosse equivalente o meno a quella originaria.

In un primo momento era stata pensata una tesi che si fondava su una sorta di frammentazione della originaria materia urbanistica in due sub-materie: “governo del territorio” afferente alla c.d. macro-urbanistica (concernente i piani di area vasta), e “macro-urbanistica” (di competenza esclusiva regionale) riguardante invece la c.d. micro-urbanistica (cioè i piani di livello comunale e il regime del controllo edilizio). Tale tesi non è prevalsa, oggi infatti è assolutamente prevalente la tesi secondo cui con l’espressione “governo del territorio” ci si riferisce ad un’unica materia concorrente, avente al suo interno diversi oggetti (Corte cost. n. 30310 - 30711 - 362/200312,

10

La Corte cost. nella sentenza n. 303/2003 ha affermato che, nonostante la

materia dell’urbanistica non sia più menzionata espressamente, “ciò non autorizza a ritenere che la materia non sia più ricompresa nell’elenco del terzo comma: essa fa parte del governo del territorio”.

11 La Corte cost. nella sentenza n. 3072003 definisce la disciplina del governo del

territorio come “l’insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio”.

12

La Corte cost. nella sentenza n. 362/2003 afferma: “anche l’ambito di materia

costituito dall’edilizia va ricondotto al governo del territorio. Del resto, anche la formula adoperata dal legislatore della riforma costituzionale del 2001 riecheggia

(15)

n. 196/200413): “l’urbanistica” propriamente detta (che attiene alla disciplina dei piani regolatori), “l’edilizia” (che riguarda essenzialmente il controllo dell’attività edilizia attraverso la disciplina dei permessi edilizi), “l’edilizia pubblica residenziale” (gli interventi per realizzare il c.d. diritto alla casa) e “l’espropriazione”, limitatamente a taluni profili strettamente strumentali all’assetto del territorio)14. Così l’ambito materiale del “governo del territorio” corrisponde ad un complesso di norme destinate ad assicurare la gestione degli usi e delle trasformazioni del territorio, allargando lo sguardo ai diversi interessi pubblici meritevoli di particolare cura e tutela che, per la loro specificità, riguardano ambiti di materia diversi, di competenza esclusiva dello Stato15.

Singolarmente una definizione di governo del territorio è contenuta nell’art. 2 della L. r. Toscana 10 novembre 2014, n. 65 che afferma: “Ai fini della presente legge, si definisce governo del territorio l'insieme delle attività che concorrono ad indirizzare, pianificare e programmare i diversi usi e trasformazioni del territorio, con riferimento agli interessi collettivi e alla sostenibilità nel tempo”.

significativamente quelle con le quali, nella più recente evoluzione della legislazione ordinaria, l’urbanistica e l’edilizia sono state considerate unitariamente”.

13

La Corte cost. nella sentenza n. 196/04 ribadisce che “nei settori dell’urbanistica

e dell’edilizia, i poteri legislativi regionali sono senz’altro ascrivibili alla nuova competenza concorrente in materia di governo del territorio”, la cui disciplina ha ritenuto comprensiva “in linea di principio, di tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla localizzazione di impianti o attività”.

14

SALVIA, Manuale di diritto urbanistico, Padova 2012, 21.

15

Come, ad esempio, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

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2 - Pianificazione

“La pianificazione del territorio consiste essenzialmente nella attribuzione a ciascuna sua parte della funzione ritenuta più appropriata alle esigenze della collettività nel suo complesso16”.

Il sistema di pianificazione previsto dalla legge del ’42 prevede 3 livelli di pianificazione (c.d. modello a “piramide rovesciata” o “a cascata”), caratterizzato dalla atemporalità dei piani (ad eccezione dei piani attuativi che hanno durata limitata decennale) e da un vincolo gerarchico (desunto dall’art. 4 della L.U.)17 in base al quale il piano sottordinato può sviluppare previsioni contenute nel piano più elevato, ma non può apportare a questo deroghe o correzioni. Peraltro occorre osservare che tale sistema, nella sua formulazione originaria, non ha retto, non solo a causa dell’alto grado di rigidità, ma anche perché una legislazione settoriale, sempre più cospicua e invadente, ha snaturato il modello della legge del ’4218. Inoltre, a partire dal 1972 con la prima attuazione del regionalismo, e poi con la riforma del Titolo V, molte regioni hanno via via adottato modelli pianificatori divergenti da quello della L.U.

16

STELLA RICHTER, I principi del diritto urbanistico, Milano, 2006, 112.

17

Art. 4, L. 17 agosto 1942, n. 1150: “La disciplina urbanistica si attua a mezzo

dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali e delle norme sull'attivita' costruttiva edilizia, sancite dalla presente legge o prescritte a mezzo di regolamenti”.

18

(17)

Al livello più alto si trovano i “piani territoriali di coordinamento” (piani sovracomunali disciplinati dall’art. 5 della L.U.): strumenti urbanistici facoltativi (oggi al livello regionale sono invece obbligatori) e che prevedono direttive generali. Sono finalizzati a determinare una zonizzazione di massima, meno dettagliata di quella comunale, rivolta ad individuare le parti del territorio da riservarsi a particolari destinazioni e quelle che devono considerarsi soggette a speciali vincoli o limitazioni di legge, alla localizzazione dei nuovi nuclei edilizi e degli impianti di particolare natura ed importanza ed alla localizzazione delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettriche e navigabili. Attualmente l’elaborazione e l’approvazione del piano spettano, in virtù del D.P.R. 15 gennaio 1972, n.8, alle regioni. Peraltro, occorre chiarire che i piani territoriali regionali (in Toscana denominato piano di indirizzo territoriale), come già accennato, nella loro evoluzione, differiscono dall’originario modello della L.U., infatti contengono prevalentemente indirizzi, criteri e standards, e sono strettamente collegati alla programmazione economica regionale; essi contengono, inoltre, prescrizioni conformative della proprietà, immediatamente operative nei confronti dei privati ed infine, non sono più, come l’altro, facoltativi ma obbligatori19.

19

Quanto all’efficacia dei piani di coordinamento nei confronti dei privati,

contrariamente a quanto originariamente previsto dalla legge fondamentale urbanistica, nelle leggi regionali si ammette che possa essere immediata, potendo arrivare anche a porre vincoli di in edificabilità e preordinare aree all’esproprio (FIORITTO, Introduzione al diritto delle costruzioni, Torino, 2013, 34).

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Vi sono, inoltre, altri piani di livello sovracomunale: il piano territoriale di coordinamento provinciale che tiene conto delle direttive fissate dalla legislazione e dai programmi regionali ed ha una vocazione preminentemente ambientalistica; il piano regolatore generale intercomunale poco utilizzato, poichè facoltativo e limitato dalla scarsa attitudine dei comuni ad associarsi; il piano paesaggistico che ha la funzione di proteggere il patrimonio paesistico ambientale, soprattutto attraverso l’imposizione di vincoli su immobili ed aree dichiarate di notevole interesse pubblico e tutelate dalla legge.

Al livello intermedio si collocano i “piani comunali” (il piano regolatore generale e il programma di fabbricazione per i comuni di ridotte dimensioni e sprovvisti di P.R.G.), redatti e adottati dal Comune e poi approvati da organi regionali.

Il piano regolatore generale comunale fissa le direttive generali per l’organizzazione dell’intero territorio comunale, anche imponendo limiti e condizioni d’uso alla proprietà privata dei suoli, al fine di garantirne la funzione sociale di cui all’art. 42 Cost. L’art. 7 della L.U. (come modificato dalla legge n. 1187/1968) ne disciplina il contenuto essenziale, consistente in previsioni di “localizzazione” e di “zonizzazione”.

Quanto alle prime, lo strumento deve contenere la localizzazione della rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti,

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l’individuazione delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico (ad esempio un parco pubblico) o sottoposte a speciali servitù (ad esempio aree limitrofe ad un aeroporto, nelle quali le costruzioni non possono superare certi limiti di altezza) e l’individuazione delle aree da riservare ad edifici pubblici, o di uso pubblico (ospedali, scuole, impianti sportivi ecc), o ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale. Tutte le aree suddette sono assoggettate dal piano, per effetto della localizzazione, a vincolo preordinato all’esproprio, che ha durata di cinque anni, entro i quali può essere emanato il provvedimento che dichiara la pubblica utilità dell’opera.

Attraverso le zonizzazioni, il piano divide il territorio in zone, precisando quali sono i criteri da osservare in ciascuna di esse20. Infine il piano deve contenere l’indicazione dei vincoli da osservare nelle zone di pregio storico, ambientale e paesistico , la ricognizione del patrimonio edilizio-urbanistico da recuperare (ex art. 27, legge n. 457 del 1978), con individuazione delle zone degradate in cui si rendono opportuni interventi di conservazione, risanamento e ricostruzione (la cui esecuzione avverrà attraverso i piani di recupero) e la definizione delle norme tecniche per l’attuazione del piano medesimo.

20

Zona A: centro storico; zona B: zona di completamento (parte del territorio

comunale parzialmente edificato in cui esistono però ancora delle aree libere); zona C: zona di espansione (parte del territorio non costruito in cui è prevista l’espansione dell’abitato); zona D: zona destinata ad insediamenti produttivi (attività industriali, turistiche e commerciali, ; zona E: zona agricola; zona F:zona destinata alla localizzazione di infrastrutture ed impianti di interesse pubblico (ospedali, caserme, impianti sportivi, ecc).

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Il procedimento di formazione è disciplinato dall’art. 8 e ss. della legge 1150/1942 che prevede le seguenti fasi principali:

a) elaborazione tecnica dello schema di piano, eseguita direttamente dagli uffici tecnici del Comune, o demandata a progettisti esterni appositamente incaricati delle amministrazioni comunali;

b) acquisizione, in relazione al progetto di piano, dei pareri richiesti dal T.U. degli enti locali e delle relative leggi regionali;

c) delibera di adozione del piano emanata dal consiglio comunale;

d) pubblicazione del piano adottato mediante deposito nella segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque può prenderne visione. Dell’avvenuto deposito deve essere data comunicazione mediante avviso affisso all’albo pretorio;

e) possibilità di presentare osservazioni per le associazioni sindacali, enti pubblici ed istituzioni interessate, nonché per i privati cittadini entro trenta giorni successivi a quelli previsti dalla legge per il deposito nella segreteria comunale;

f) delibera del consiglio comunale in ordine alle osservazioni eventualmente presentate, tale delibera deve contenere la verbalizzazione della discussione e le controdeduzioni, da cui risulti chiaramente quali osservazioni vengono accolte e quali respinte;

g) presentazione del piano all’organo regionale (giunta regionale), ai fini dell’approvazione. L’approvazione degli strumenti

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urbanistici generali, e delle relative varianti, da parte della regione deve avvenire entro il termine perentorio di un anno dalla data del loro deposito;

h) pubblicazione del decreto di approvazione del piano nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino Ufficiale delle regioni.

Il piano approvato obbliga i proprietari di immobili ad osservare, nelle costruzioni e nelle ricostruzioni, le linee e le prescrizioni di zona che sono state indicate nel piano. Inoltre l’art. 9 del T.U. Espropri stabilisce che, con l’approvazione del piano urbanistico generale, sorgono i vincoli preordinati all’esproprio delle aree nelle quali è prevista la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità.

Il piano regolatore ha durata illimitata, fino a quando non sia stato sostituito dall’approvazione di un successivo P.R.G., ciò nonostante può subire delle modifiche attraverso successive varianti.

Tuttavia occorre notare che, come già anticipato, molte regioni (fra cui la Toscana) hanno optato per una scissione del piano regolatore generale in “piano strutturale” e “piano operativo”21, diversamente da quanto previsto dalla legge del ’42. Il primo delinea i punti fondamentali dell’assetto del territorio comunale, derivanti dalla ricognizione dei caratteri peculiari di esso sotto i profili

21

Questo modello pianificatorio è stato adottato in prima battuta dalla Toscana,

con la L. r. n. 5 del 1995, poi modificata dalla L. r. n. 1 del 2005 e attualmente disciplinato dalla L. r. n. 65 del 2014 (FIORITTO, Introduzione al diritto delle costruzioni, Torino, 2013, 45).

(22)

economici, culturali ed ambientali, determinando al contempo le linee di sviluppo dei nuovi insediamenti. Identifica le invarianti strutturali di lungo periodo (sistema delle infrastrutture e ambientale) delineando la strategia dello sviluppo territoriale comunale. Definisce indicazioni non prescrittive e di carattere programmatico sulle trasformazioni future. Ha durata indeterminata e non ha carattere prescrittivo, né vincolistico (se non per i vincoli ricognitivi, ad esempio i vincoli paesistico-ambientali, che si caratterizzano per la atemporalità e la non indennizzabilità) e neanche conformativo dei diritti dei proprietari.

Il piano operativo, invece, è teso ad attuare le strategie fissate nel piano strutturale ed assume validità di breve-medio periodo (generalmente cinque anni, che corrisponde anche alla durata dei vincoli urbanistici). Pertanto interessa parti del territorio comunale cui corrispondono progetti di trasformazione urbanistica programmati nel breve e nel medio periodo. Definisce, sulle parti di territorio interessate dalle trasformazioni programmate, il regime giuridico degli immobili, e dettaglia le previsioni del piano strutturale (ha quindi carattere prescrittivo e conformativo dei diritti proprietari). Individua le localizzazioni dei successivi piani attuativi, definendo le trasformazioni fisiche e funzionali ammissibili, prevedendo se del caso parametri edilizi peculiari per le zone bisognose di maggior tutela.

(23)

In Toscana la recente L. r. 10 novembre 2014, n. 65 disciplina il piano operativo all’art. 95, affermando che si compone di due parti:

a) la disciplina per la gestione degli insediamenti esistenti: si tratta di quelle norme che fissano, ad esempio, il perimetro aggiornato dei centri abitati, comprensivo di tutte le aree edificate e dei lotti interclusi. Sempre tali norme disciplinano, inoltre, l’utilizzazione, il recupero e la riqualificazione del patrimonio esistente, compresa la tutela e la valorizzazione degli edifici di valore storico e artistico. Stabiliscono infine, quali siano le aree, all’interno del perimetro dei centri abitati, nelle quali è permessa l’edificazione di complemento o di ampliamento degli edifici esistenti.

b) la disciplina delle trasformazioni degli assetti insediativi infrastrutturali ed edilizi con validità quinquennale: tale gruppo di norme, invece, individua e definisce, gli interventi che, in ragione della loro rilevanza e complessità, si attuano mediante piani attuativi nonché gli interventi di nuova edificazione consentiti all’interno del territorio urbanizzato, gli interventi di rigenerazione urbana e i progetti unitari di intervento, i beni da sottoporre a vincolo ai fini espropriativi22, nonché la disciplina della perequazione e compensazione urbanistica.

22

Il comma 10, art. 95, L. r. 10 novembre 2014, n. 65 stabilisce: “I vincoli preordinati all’esproprio perdono efficacia se entro il suddetto termine quinquennale non è stato approvato il progetto definitivo dell’opera pubblica. Qualora sia previsto che l’opera possa essere realizzata anche su iniziativa privata, alla decadenza del vincolo non consegue la perdita di efficacia della relativa previsione”.

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Alla base della “piramide” vi sono, infine, strumenti più dettagliati, i piani attuativi: i piani particolareggiati di esecuzione (c.d. P.P.), e gli altri strumenti attuativi introdotti successivamente che, a differenza del piano particolareggiato, perseguono finalità limitate (i piani per l’edilizia economico popolare c.d. P.E.E.P., i piani di lottizzazione convenzionata c.d. P.L.C., i piani per insediamenti produttivi c.d. P.I.P, i piani di recupero c.d. P.d.R.). I piani attuativi P.L.C. e P.d.R. possono essere sia di iniziativa pubblica che privata, mentre i P.P., P.E.E.P., P.I.P. sono esclusivamente pubblici. I piani attuativi traducono a loro volta in prescrizioni più dettagliate le previsioni dei piani regolatori comunali (del piano operativo per le regioni che hanno scelto la scissione del P.R.G.) ed hanno durata decennale. Inoltre l’approvazione dei piani attuativi costituisce dichiarazione di pubblica utilità delle opere od impianti di interesse pubblico dagli stessi individuate.

(25)

3 – Proprietà. Funzione sociale e contenuto minimo

Il concetto del diritto di proprietà si è evoluto, negli ultimi due secoli, per l’art. 29 dello Statuto albertino del 1848 “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione” erano dichiarate “inviolabili”. Sebbene la stessa norma, non senza contraddizione, aggiunse che, quando l’interesse pubblico lo esige, il proprietario può essere tenuto “a cedere in tutto o in parte” il suo diritto “mediante una giusta indennità”. Tale articolo poneva la proprietà tra i diritti inviolabili, contrariamente a quanto accade nel vigente ordinamento costituzionale dove il costituente ha scelto di collocarla nel semplice ambito dei rapporti economici (per il diritto comunitario, invece, viene fatta rientrare tra i diritti fondamentali e quindi, anche in tale contesto, non più assistita dal carattere dell’inviolabilità23).

Sulla stessa linea dello Statuto albertino, l’art. 436 del codice civile del 1865 (che si basava sul Code Napoléon) affermava che la proprietà è il “diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta, purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”.

Nella formula dello Statuto, quindi, la proprietà privata, in quanto espressione della libertà dell’individuo, veniva configurata

23

Art. 1 Protocollo addizionale alla CEDU: “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.

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come un diritto “innato”, “di natura”, che i poteri pubblici possono soltanto eccezionalmente comprimere, ma sempre rispettandone la proprietà rispetto alla stessa organizzazione dello Stato.

Ancora nel codice civile del 1942 si ribadisce che “nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà” (art.834), nonostante la consecutiva contrastante riaffermazione della legittimità dell’esproprio “per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata e contro il pagamento di una giusta indennità”.

Il clima appare profondamente mutato con l’avvento della Costituzione repubblicana del 1948 che segna una svolta profonda rispetto allo Statuto Albertino ed alla concezione ottocentesca della sacralità ed inviolabilità della proprietà. La proprietà non è più dichiarata “inviolabile” o intangibile e non viene più inclusa nelle norme dedicate ai “principi fondamentali” (artt. 1-12); anzi non è considerata neppure tra i “diritti di libertà”.

Alla proprietà è dedicato, nel Titolo III, relativo ai “rapporti economici”, l’art. 42, che si apre al comma I con la dichiarazione che “la proprietà è pubblica o privata”, ma successivamente al comma II impone al legislatore ordinario “di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” con un programma che chiaramente subordina l’interesse individuale a quello collettivo ed auspica una più equa distribuzione delle ricchezze (in virtù del principio di eguaglianza sostanziale, art. 3, comma II Cost.). Il comma III contempla invece la possibilità dell’espropriazione della proprietà

(27)

privata, ma la circonda di garanzie a favore del proprietario, consentendola soltanto “nei casi preveduti dalla legge”, “per motivi di interesse generale e salvo indennizzo”.

La Carta costituzionale, peraltro, dichiara che “la proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge24” (art. 42, comma II). Tale garanzia implica non soltanto che non è consentito al legislatore di sopprimere l’istituto della proprietà privata, ma che sarebbe altresì in contrasto con la Costituzione un’eventuale trasformazione del nostro sistema in un ordinamento in cui i beni siano prevalentemente collettivizzati.

Quindi è necessario osservare entro quale ambito sia garantita la conservazione di un regime di proprietà privata, dal momento che l’art. 42, comma II della Costituzione affida alla legge ordinaria di determinarne i “limiti” (che possono essere distinti in due categorie: limiti posti nell’interesse pubblico e quelli posti nell’interesse privato25).

24

Un problema importante riguarda la portata della riserva di legge sancita nel comma II, art. 42 Cost. (“la legge determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà”), in relazione alle modalità di approvazione del piano regolatore. Ed in particolare se affidare al piano, anziché direttamente alla legge, la conformazione del contenuto del diritto, sia rispettoso o meno del disposto costituzionale. Giurisprudenza e dottrina rispondono positivamente, sostenendo il carattere relativo e non assoluto della riserva di legge in discussione. Tale impostazione rende possibile l’approvazione del piano con atto amministrativo, anziché con legge (SALVIA, Manuale di diritto urbanistico, Padova, 2012, 32).

25

I limiti posti nell’interesse privato attengono ai rapporti fra proprietari ed

interessano i rapporti di vicinato relativamente alla proprietà immobiliare. Ad es. le immissioni art. 844 c.c.

Invece, limiti posti nell’interesse pubblico sono: l’espropriazione per pubblica utilità (disciplinata sia dal III comma dell’art. 42 Cost. ma anche dall’art. 834 c.c.) e i limiti alla proprietà edilizia (l’art. 869 c.c. e ss. prevedono una serie di

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L’art. 832 del codice civile afferma che il proprietario “ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”. In base a questa definizione, il diritto del proprietario si caratterizzerebbe per la sua assolutezza (diritto di fare della cosa o sulla cosa tutto ciò che si voglia, perfino di distruggerla, secondo una risalente definizione: ius utendi et abutendi) e per la sua esclusività (ius excludendi alios), con divieto di ingerenza della collettività in ordine alle scelte che il proprietario si riserva di effettuare con tale arbitrio e discrezionalità.

Tali caratteristiche sono oggi accettabili solo se riferite ai beni di stretto uso individuale. Infatti, lo stesso articolo 832 stabilisce che il diritto del proprietario deve esercitarsi “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

Questa necessità trova espressione anche nella carta costituzionale , che assegna alla legge il compito, non solo di rendere la proprietà “accessibile a tutti”, ma anche “di assicurarne la funzione sociale” (art. 42, comma II) la cui nozione va intesa in relazione ai principi di solidarietà (l’art. 2 Cost. richiede “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale) e di eguaglianza sociale (l’art. 3 Cost. comma II prefigura, come compito della Repubblica, il superamento degli “ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei

limiti al potere del proprietario di edificare e modificare costruzioni. Il limite fondamentale consiste nel rispetto dei piani regolatori, che molto spesso possono anche negare o limitare in maniera incisiva la facoltà di costruire o modificare preesistenti costruzioni.

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cittadini). Infatti, la Costituzione garantisce la posizione del proprietario e tutela i suoi interessi privati, ma alla garanzia fa seguire subito il limite, ammettendo la possibilità di conformare quella posizione in nome dell’interesse generale, intervenendo a precisare, per le singole categorie di beni considerate rilevanti per la vita della collettività, i modi di utilizzazione consentiti, al fine di raggiungere gli obiettivi di giustizia sociale indicati dalla Costituzione stessa. Quindi la funzione sociale consiste nella funzionalizzazione della proprietà in rapporto agli interessi generali.

“La funzione sociale frantuma l’unità del concetto di proprietà: la proprietà al singolare, si dissolve nelle proprietà, al plurale26”. Infatti, l’interesse generale esige che la previsione legislativa delle modalità di godimento dei beni avvenga secondo statuti diversi, corrispondenti alle caratteristiche differenziate dei beni, non solo sotto il profilo naturalistico, ma anche tenendo conto delle attività svolte con tali beni e della qualità del soggetto proprietario. Ad esempio per un bene mobile di consumo o per un bene destinato all’uso personale, l’interesse sociale può addirittura restare estraneo alle modalità d’utilizzazione da parte del proprietario, invece la proprietà privata di un suolo all’interno di una città richiede una delimitazione dell’interesse alla valorizzazione del bene da parte del titolare e una determinazione positiva di ciò che è a

26

(30)

lui consentito, allo scopo di garantire, nell’interesse della comunità, uno sviluppo urbano equilibrato e rispettoso dell’ambiente.

Dunque la Costituzione impone un raccordo e una mediazione tra interesse individuale e interessi connessi alla dimensione sociale, e invita il legislatore a regolare la proprietà per ricondurla verso modalità di godimento corrispondenti alla c.d. funzione sociale.

Quindi spetta alla legge, e poi nell’ambito di questa , ai poteri amministrativi, stabilire il concreto contenuto del diritto del proprietario sul bene (nel nostro caso sul bene immobile).

In concreto, la funzione sociale può manifestarsi attraverso varie tecniche d’intervento27.

Quella che interessa la disciplina urbanistica si attua attraverso un’opera di diretta conformazione e definizione dei poteri del proprietario.

Ad esempio la legislazione urbanistica, la quale (facendo prevalere l’interesse generale ad un uso equilibrato del suolo sull’interesse particolare del singolo proprietario, altrimenti indotto a perseguire la propria personale convenienza, anche se in contrasto con l’utilità di tutti) incide sulla destinazione del bene immobile e sulle relative modalità di godimento, ed organizza la disciplina della

27

Altra tecnica si realizza con norme che incidono indirettamente sui modi di

godimento o sulla destinazione del bene attraverso la disciplina del contenuto degli atti di autonomia privata relativi allo stesso bene (tale tema esula dalla nostra analisi). Ad esempio il legislatore ha previsto una durata minima inderogabile del contratto in tema di locazioni di immobili urbani adibiti ad uso abitativo primario del conduttore, al fine di garantire la stabilità del godimento da parte dell’inquilino.

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proprietà intorno al modello del piano: definendo se, quanto e come il proprietario di un area può utilizzarla per costruirvi (ad esempio il proprietario di un suolo, che il piano regolatore destina a verde o a servizi pubblici, è privo della facoltà di edificare; chi è proprietario di un terreno in una zona residenziale può costruirvi solo per la volumetria massima consentita dal piano e con l’osservanza della tipologia prescritta), ed in ogni caso subordinando l’intervento di costruzione al rilascio, da parte della pubblica amministrazione, dell’apposito permesso, a sua volta condizionato al pagamento di un contributo.

La Corte costituzionale, a partire dalla fine degli anni sessanta (sent. Corte cost. 20 gennaio 1966, n. 6 e successive), è intervenuta a porre limiti ai limiti che il legislatore può introdurre al contenuto del diritto. E ciò per non rendere evanescente l’elemento della “garanzia”, anch’esso presente accanto alla funzione sociale nell’art. 42. E’ una garanzia, quella elaborata dalla Consulta, di natura economico-patrimoniale che si traduce, da un lato nella figura del limite sostanzialmente espropriativo, dall’altro nell’individuazione del parametro del “serio ristoro”, per controllare che i criteri per il quantum dell’indennizzo non lo riducano a un entità meramente simbolica. Ma che, comunque, ribadisce (e l’ha fatto da ultima la Corte costituzionale con la sentenza 24 giugno 2007, n. 348) la rilevanza del principio della funzione sociale della proprietà, sotto il profilo sia della necessità di contemperare l’interesse del proprietario

(32)

con altri valori costituzionali, sia della conseguente insussistenza di un principio di garanzia integrale del valore patrimoniale dei beni privati di fronte all’intervento pubblico28.

Occorre inoltre soffermarsi su un tema che è stato a lungo oggetto dell’attenzione della Corte costituzionale, cioè se la legge ordinaria, cui compete apporre “limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, possa arrivare allo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, ad annullarlo, ad incidere sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile in rapporto alla destinazione inerente il bene stesso o determinandone il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio29.

Il problema è quello dell’esistenza o meno di un contenuto minimo o essenziale del diritto di proprietà che non possa essere scalfito e quindi intangibile dalle leggi che in particolare mirano alla sua conformazione, cioè se esista, nell’esercizio del potere di conformazione, una “minorazione della sostanza” che intacchi il contenuto essenziale della proprietà privata tale da configurare un contrasto con l’art. 42, comma II Cost., infatti tale articolo non fornisce alcuna disposizione espressa che consenta di individuare un contenuto minimo del diritto di proprietà.

Significativa è la sentenza della Corte Costituzionale n. 55/1968 (preceduta dalla n. 6/1966) dove si è ritenuto che i vincoli di

28

SALVI, La proprietà privata e l’Europa. Diritto di liberta o funzione sociale?,

in Rivista critica del diritto privato, 2009, 415.

29

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inedificabilità preordinati all’esproprio relativi a beni particolari (e non ad intere categorie di beni), posti a tempo indeterminato e senza la previsione d’indennizzo, fossero equiparabili a procedimenti ablatori in quanto configuravano forme di espropriazione larvata o di valore. L’assimilazione dei vincoli di inedificabilità ad un procedimento ablatorio è stata corroborata dal principio, elaborato dalla Consulta, della inerenza dello jus aedificandi30 nel diritto di proprietà considerandosi questo contenuto essenziale del diritto di proprietà e come tale soggetto ad indennizzo31.

In tal modo si è affermato ciò che non è previsto dall’art. 42, comma II Cost. e cioè che la funzione sociale espressa nell’ambito delle scelte pianificatorie incontrerebbe il limite del contenuto minimo o essenziale del diritto di proprietà. Limite che la Corte ha proposto di applicare anche ai casi di espropriazione sostanziale lì dove il piano, attraverso una previsione conformativa, arrivi ad azzerare per finalità generali qualunque capacità edificatoria del bene privato32.

30

La Corte costituzionale con la sentenza n. 5/1980, dichiarando illegittimo il

tentativo della legge Bucalossi di scorporare lo jus aedificandi dal diritto di proprietà, conferma l’inerenza del diritto di edificare alla proprietà essendo uno dei possibili comportamenti del proprietario.

31

Successivamente a tale pronuncia della Corte il legislatore ha colto l’occasione

di prevedere in alternativa all’indennizzo, una durata limitata nel tempo (L. 1187/68) e in seguito la stessa Corte con la sent. 179/99 ha sancito che nel caso di reiterazione del vincolo, superato il periodo di franchigia, al proprietario vincolato debba essere corrisposto un indennizzo per la perdita di valore del bene fintanto che duri il vincolo.

32

URBANI, Il tema del contenuto minimo del diritto di proprietà nella

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Un significativo apporto per il tema trattato deriva dall’ordinamento comunitario. Infatti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU)33 in tema di proprietà immobiliare si ricavano alcune indicazioni utili per una riflessione complessiva nel nostro ordinamento sull’esistenza di un contenuto minimo o essenziale del diritto di proprietà nella pianificazione urbanistica.

In breve, la Corte afferma che ogni persona ha diritto in generale al rispetto dei suoi beni; ne consegue da ciò il divieto di indebite ingerenze da parte del potere pubblico nel godimento dei beni privati che non siano giustificate alla luce dell’interesse pubblico, la Corte, quindi, giunge ad individuare due criteri. Il primo che l’interesse pubblico sia comparabile con il sacrificio imposto al privato, il secondo che l’interesse pubblico speculare al privato sia concreto ed effettivo (nonché attuale) pena la sua soccombenza rispetto a quello privato.

Questi orientamenti della Corte di Strasburgo hanno rilevanza non tanto nel caso dell’espropriazione per pubblica utilità, ma nei casi dell’espropriazione di ”valore” che non si traduce necessariamente in una privazione della proprietà, ma comporta un forte ridimensionamento delle facoltà in capo al proprietario e quindi

33

La giurisprudenza della Corte EDU in materia di proprietà ha assunto maggiore

rilevanza nel nostro ordinamento con particolare riguardo all’art. 117 Cost. che prevede che “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

(35)

di una espropriazione di fatto. Si tratta di casi in cui non vi è equilibrio tra interesse pubblico e sacrificio imposto al privato o di casi in cui il comportamento dell’autorità rende per un lungo lasso tempo aleatorio o incerto il diritto di proprietà senza possibilità di soluzioni edificatorie alternative. Quindi in questi casi è censurabile l’ingerenza e la durata della compressione proprietaria.

Questi innovativi profili comunitari hanno condizionato in modo significativo la nostra giurisprudenza costituzionale. In particolare la sentenza n. 338/2011 in cui la Consulta ha affermato: ”giova ricordare che sia la giurisprudenza di questa Corte che

quella della Corte EDU hanno individuato in materia di indennità di espropriazione un nucleo minimo di tutela del diritto di proprietà, garantito dall’art. 42, comma III, Cost., e dall’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU, in virtù del quale l’indennità di espropriazione non può ignorare ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene, né può eludere un ragionevole legame con il valore di mercato. In applicazione di tale principio, l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve realizzare, in primo luogo, un ‘giusto equilibrio’ tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo. In secondo luogo, nonostante che al legislatore ordinario spetti un ampio margine, l’acquisizione di beni senza il pagamento di indennizzo in ragionevole rapporto con il loro valore costituisce normalmente un’ingerenza sproporzionata. Il

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legislatore, quindi, sebbene non abbia il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato, non può sottrarsi al ‘giusto equilibrio’ tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui”.

In sostanza non viene contestata la potestà conformativa dei pubblici poteri ma vengono individuati i limiti oltre i quali si avrebbe una lesione del contenuto minimo del diritto di proprietà.

Dunque la Corte Costituzionale ma anche la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in più occasioni l’esistenza di un nucleo essenziale costituzionalmente garantito del diritto di proprietà.

Il tema del contenuto minimo si pone in rapporto con il potere pubblico di conformazione dei beni immobili che si esprime attraverso la pianificazione urbanistica. Nel nostro ordinamento, per quanto riguarda la questione del riconoscimento di un contenuto minimo del diritto di proprietà, occorre distinguere la situazione giuridico soggettiva del privato in assenza di pianificazione o in attesa della pianificazione attuativa, da quella nella quale il potere conformativo si sia espresso definitivamente attraverso il piano urbanistico. Nel primo caso, infatti, il legislatore, preso atto dell’inerzia della P.A. nel determinare l’assetto dei suoli (assenza di piano o vincoli espropriativi decaduti) garantisce quel contenuto minimo del diritto di proprietà che si manifesta o nel riconoscimento di una edificabilità minima (0,03 mc per mq) o nella potestà di

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svolgere attività conservative sui beni edilizi anche ristrutturandoli al fine di garantirne il valore d’uso o di scambio art. 9, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 T.U. Edilizia)34. Nel secondo caso, ovvero quando l’amministrazione ha esercitato il proprio potere conformativo attraverso disposizioni di piano che fissano definitivamente il contenuto della proprietà senza prevedere il rinvio ad ulteriori atti di pianificazione sembra porsi il problema della legittimità delle scelte pianificatorie in rapporto alla garanzia del cosidetto contenuto minimo nella misura in cui al privato non sia riconosciuto alcun valore d’uso o di scambio del bene35.

34

Autorevole dottrina (Urbani) ha rilevato un riconoscimento dell’esistenza di un contenuto essenziale del diritto di proprietà in varie disposizioni dell’ordinamento: “vi sono disposizioni statali, che chiamerei valvola, che al contrario, si pongono proprio nell’ottica della garanzia del contenuto minimo del diritto, norme ‘contrappeso’ rispetto all’eccessiva discrezionalità lasciata alla P.A. nel dare attuazione ai processi di pianificazione e a colpirne l’inerzia”.

Un riconoscimento dell’esistenza di un contenuto minimo del diritto di proprietà può essere ricavato dall’art. 9 del T.U. Edilizia che riconosce al proprietario, anche in assenza di strumenti di piano, un seppur limitato diritto di edificazione all’esterno del perimetro del centro abitato (una edificabilità minima di 0,03 mc per mq) e la possibilità di porre in essere attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e conservazione del patrimonio edilizio esistente all’interno di tale perimetro.

Si tratta di una norma da un lato tendente a dare certezza al contenuto della proprietà e dall’altro a penalizzare l’inerzia dell’amministrazione nel procedere alla redazione dello strumento urbanistico, fissando così ex lege, standard (c.d. “Standard ope legis”) applicabili a tutto il territorio comunale privo di piano urbanistico. (URBANI, Le nuove frontiere del diritto urbanistico, Torino, 2013, 126).

35

(38)

CAPITOLO II

VINCOLI URBANISTICI. LA DIFFERENZA FRA

VINCOLI ESPROPRIATIVI E CONFORMATIVI

1- Vincoli espropriativi e vincoli conformativi nella

giurisprudenza costituzionale

La prima questione da esaminare riguarda la controversa distinzione tra limitazioni riconducibili al potere conformativo, risultanti dal II comma dell’art. 42 Cost. e, limitazioni a carattere espropriativo che emergono dal III comma dell’ art. 42 Cost.

La giurisprudenza costituzionale, con le sentenze Corte cost. 20 gennaio 1966, n. 6 e 29 maggio 1968, nn. 55 e 56, ha fornito dei criteri per individuare il confine fra l’una e l’altra tipologia di limitazioni al diritto di proprietà. Tali criteri sono stati poi ulteriormente chiariti dalla più recente sent. Corte cost. 20 maggio 1999, n. 179.

In particolare è attribuibile alla sent. Corte cost. n. 6/196636 il merito di aver individuato, attraverso un’interpretazione estensiva del

36

La sentenza della Corte cost. n.6 del 1966 dichiarò l’illegittimità costituzionale

(39)

comma III dell’art. 42 Cost. relativo alla nozione di espropriazione per pubblica utilità, la categoria dei vincoli espropriativi per i quali è necessaria la corresponsione di un indennizzo37. Le successive pronunce (sent. nn. 55 e 56/1968) ne ripropongono il contenuto ampliandone la portata applicativa (infatti la sent. n. 6/1966 riguardava solo lo specifico caso delle servitù militari imposte senza indennizzo).

Prima della sent. n. 6/1966 si era affermato un orientamento che considerava, come presupposto dell’istituto dell’espropriazione, il trasferimento del diritto in capo alla P.A., quindi l’indennizzo, secondo tale orientamento, era dovuto solo se all’effetto estintivo della posizione giuridica soggettiva del privato fosse associato l’acquisto del diritto da parte della P.A. Cioè si riteneva che il III comma dell’art. 42 Cost. prevedesse il principio in base al quale l’indennizzo si giustificasse solo in quanto corrispettivo della sola traslazione coattiva del bene.

La Consulta, attraverso la pronuncia del 1966, supera tale orientamento e giunge ad una nuova definizione del concetto di espropriazione; infatti, la Corte afferma che tale nozione “non può

essere ristretta al concetto di trasferimento né l’obbligo della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a tale

militari, rispetto al comma III dell’art. 42 Cost., nella parte in cui non prevedeva l’indennizzo per le limitazioni della proprietà privata di natura espropriativa.

37

URBANI, Il problema dei vincoli urbanistici nella giurisprudenza della Corte

(40)

concetto”38, viene così elaborata la nozione di “espropriazione non traslativa” (cosidetta teoria dell’espropriazione “larvata” o “sostanziale”). Infatti, secondo tale ricostruzione si ha una violazione della proprietà privata “non soltanto nei casi in cui fosse posta in

essere una traslazione totale o parziale del diritto, ma anche nei casi in cui, pur restando intatta la titolarità, il diritto di proprietà venisse annullato o menomato senza indennizzo”39.

Quindi da tale pronuncia si ricava che rientrano nella garanzia del III comma dell’art. 42 Cost. tutte quelle restrizioni alla proprietà che, pur non determinando l’acquisizione del diritto in capo alla P.A., generano un effetto di tipo espropriativo nella sfera giuridica del proprietario, incidendo sulle facoltà di godimento (comprensive dello jus aedificandi) e sul valore del bene.

Con questa innovativa concezione di espropriazione vengono poste le premesse per distinguere i vincoli espropriativi da quelli non

38

Sent. Corte cost. 20 gennaio 1966, n. 6.

39

Sent. Corte cost. 20 gennaio 1966, n. 6, punto 3 della motivazione in diritto. La

sentenza afferma: “che cosa debba intendersi per espropriazione ai sensi del terzo comma dell'art. 42 risulta dal confronto di questa norma con i due commi precedenti dello stesso articolo. Con il primo comma e con la prima parte del secondo comma, si afferma, in correlazione con altri articoli, quali precipuamente il 41, il 43 ed il 44, il principio che l'istituto della proprietà privata è garantito; con la seconda parte del secondo comma si enuncia che la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti; nel terzo comma si prevede che la proprietà può essere espropriata, salvo indennizzo. Ciò comporta che la determinazione dei modi di acquisto e di godimento e dei limiti, volta, come deve essere, a regolare l'istituto della proprietà privata, a stabilirne, cioè, la configurazione nell'ordinamento positivo, non può violare la garanzia accordata dalla Costituzione al diritto di proprietà, sopprimendo l'istituto della proprietà privata o negando ovvero comprimendo singoli diritti senza indennizzo”.

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