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Blocco del nervo femorale eco-guidato precoce e prevenzione del delirium nel paziente grande anziano con frattura di femore.

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Academic year: 2021

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1 Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN ANESTESIA, RIANIMAZIONE,

TERAPIA INTENSIVA E DEL DOLORE

Direttore: Prof. F. Forfori

TESI DI SPECIALIZZAZIONE

Blocco del nervo femorale eco-guidato precoce e

prevenzione del delirium nel paziente grande anziano

con frattura di femore

RELATORI

Dott.ssa Catia Sbarbaro Dott. Paolo Malacarne

CANDIDATA

Dott.ssa Gioia Grazzini

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2 A tutte le giovani dottoresse, “nolite te bastardes carborundorum”.

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3

Indice

PRESENTAZIONE DELLO STUDIO ... 5

CAPITOLO 1: La frattura di femore nel grande anziano ... 6

1.1 - Introduzione ... 6

Anatomia dell’articolazione dell’anca e del femore ... 6

Anatomia del nervo femorale ... 10

Vascolarizzazione e fisiologia ... 13

1.2 - Epidemiologia della frattura di femore ... 14

Inquadramento e impatto economico ... 14

Conseguenze della frattura di femore ... 24

Prevenzione delle cadute ... 25

1.3 - Clinica e classificazione delle fratture di femore ... 27

CAPITOLO 2: Il delirium ... 30 2.1 - Cenni storici ... 30 2.2 - Definizione ... 32 2.3 - Epidemiologia ... 34 2.4 - Fisiopatologia e clinica ... 34 2.5 - Fattori di rischio ... 37 2.6 - Diagnosi ... 38 2.7 - Trattamento e prevenzione ... 44

2.8 - Linee guida per la gestione del delirio post-operatorio ... 52

CAPITOLO 3: Gestione del paziente grande anziano con frattura di femore ... 58

3.1 - Valutazione geriatrica multidimensionale ... 58

3.2 - Gestione anestesiologica ... 61

Valutazione pre-operatoria ... 61

Controllo del dolore e blocco nervoso periferico ... 66

Scelta anestesiologica ... 67

Gestione dell’emodinamica ... 68

Anemia, trigger trasfusionali ... 68

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4

CAPITOLO 4: Tecniche loco-regionali analgesiche in orto-geriatria ... 70

4.1 - Analgesia multimodale in orto-geriatria ... 70

4.2 - Analgesia loco-regionale ... 72

4.3 - Blocco del nervo femorale: sonoanatomia e tecnica... 77

CAPITOLO 5: Studio sperimentale ... 81

5.1 - Disegno e setting dello studio ... 81

5.2 - Materiali e metodi ... 81

5.3 – Risultati della sperimentazione ... 88

5.4 – Discussione dei risultati e limiti dello studio ... 93

5.5 - Conclusioni ... 97

RINGRAZIAMENTI ... 98

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5 PRESENTAZIONE DELLO STUDIO

Il presente studio si pone l'obiettivo primario di valutare l'impatto di una precoce analgesia loco-regionale, eseguita sotto guida ecografica ed elettroneurostimolatoria, sullo sviluppo di delirium in una popolazione ad alto rischio, quella composta da pazienti ultra-ottantenni con frattura di femore.

La patologia in esame si configura come importante burden per la nostra economia sanitaria nonché indicatore di buona pratica clinica delle strutture ospedaliere. Il paziente fragile sottoposto a endoprotesi o osteosintesi dopo frattura di femore presenta un corredo di comorbidità che lo rendono particolarmente suscettibile a tutte le complicanze post-operatorie, non ultima quella rappresentata dal delirium, che risulta associato a prolungamento della degenza e peggiori outcome funzionali.

Il blocco del nervo femorale, procedura caratterizzata da elevato profilo di sicurezza ed efficacia, garantisce un controllo del dolore il più delle volte ottimale per la durata d'azione del farmaco che si sceglie di somministrare e, trattandosi di anestetico locale, presenta poche controindicazioni e quasi nessun effetto collaterale. Quest'ultima caratteristica lo rende tecnica ideale nel paziente fragile, in cui la finestra terapeutica risulta ridotta e gli effetti avversi della tradizionale terapia del dolore endovenosa o intramuscolare possono essere deleteri.

Ottimizzare il percorso del paziente anziano con frattura di femore implementando una tecnica antalgica sicura, opioid-free e di facile esecuzione è una sfida che interessa e interesserà le equipe di tutti i DEA; l'ambizione del presente lavoro è suggerire uno step fondamentale di quello che dovrebbe essere un trattamento tempestivo, mininvasivo, multidisciplinare ed efficace per il ritorno di questi malati alla loro situazione clinico-cognitiva antecedente al momento del trauma.

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6 CAPITOLO 1: LA FRATTURA DI FEMORE NEL GRANDE ANZIANO

1.1 - Introduzione

Il numero di fratture di femore va aumentando contestualmente all’aumento dell’età media in tutto il mondo. Gli anziani sono particolarmente esposti al rischio di trauma da caduta a causa della ridotta densità ossea, della compromissione della percezione degli spazi e degli stimoli esterni, del deficit di equilibrio e degli effetti collaterali della terapia assunta a domicilio, senza dimenticare una ridotta prontezza nel superare o aggirare gli ostacoli dell’ambiente circostante. Una comprensione di base dell’anatomia dell’articolazione dell’anca, la conoscenza delle principali tipologie di frattura e delle specifiche implicazioni devono costituire patrimonio fondamentale per tutti i clinici che si trovano a trattare questi pazienti nel loro percorso, dal Medico di Medicina Generale al Geriatra.

L’esecuzione di un’analgo-anestesia sicura ed efficace, inscritta in un percorso terapeutico efficiente e multidisciplinare, è subordinata alla conoscenza da parte dell’Anestesista-Rianimatore dell’alterazione anatomica e funzionale delle strutture interessate dal trauma, risulta dunque utile iniziare riassumendo le caratteristiche della regione interessata e la classificazione del fenomeno.

Anatomia dell’articolazione dell’anca e del femore

L’articolazione dell’anca (o coxo-femorale) è una diartrosi che unisce il cotile dell’osso iliaco alla testa del femore. La superficie articolare del cotile (o acetabolo) è costituita dalla superficie semilunare o lunata, un anello fibrocartilagineo incompleto a forma di C ruotato di 90° in senso orario, delimitato esternamente dal margine dell’acetabolo e internamente dal confine della fossa acetabolare, situata più in profondità. Una cartilagine ialina riveste l’intera superficie articolare facendosi più spessa nelle porzioni ove la sollecitazione del peso corporeo si fa maggiore (le posteriori), e deborda da ogni margine formando il labbro acetabolare.

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7 Quest’ultimo ripiega verso l’interno andando a restringere il diametro del cavo acetabolare e approfondire l’articolazione rispetto a quanto permetterebbero da sole le superfici ossee. Le due estremità del labbro sono unite dal legamento acetabolare trasverso al livello dell’incisura acetabolare. In fossa acetabolare non è invece presente cartilagine ma tessuto adiposo fibroelastico rivestito da sinovia.

La forma della testa femorale varia con l’età: in epoca giovanile corrisponde a ¾ di una sfera, con l’avanzare dell’età si arrotonda perdendo la congruenza con l’acetabolo. La sua superficie è liscia e interamente ricoperta da cartilagine ialina, più spessa al centro -dove deve tollerare maggior carico- fatta eccezione per la cosiddetta fovea capitis (fossetta della testa) dove s’inserisce il legamento rotondo del femore.

La capsula fibrosa che riveste l’articolazione è spessa e robusta e origina 0,5 cm medialmente al margine dell’acetabolo seguendone il profilo. Le sue fibre longitudinali si dirigono lateralmente inserendosi sulla linea intertrocanterica al livello della faccia anteriore del femore, dove hanno maggior spessore. Posteriormente si arrestano alla metà del collo femorale e spesso si fondono al legamento ileo-femorale. Le fibre orbicolari si dispongono internamente alle longitudinali avvolgendosi attorno al collo e fondendosi ai legamenti puo-femorale e ischio-femorale. L’articolazione presenta cinque legamenti che concorrono alla stabilità articolare in estensione e rilassamento:

• Ileo-femorale, o del Bigelow, o di Bertin: il più robusto e esteso. Viene definito anche legamento a Y, e s’inserisce lateralmente alla spina iliaca antero-inferiore e medialmente al margine acetabolare andando a costituire la porzione più debole del legamento. A seguire si scinde in una porzione mediale, che si porta in direzione infero-mediale sulla linea intertrocanterica, e una laterale, che scende infero-lateralmente verso la parte inferiore del grande trocantere;

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8 • Pubo-femorale: triangolare, con base che origina dall’eminenza ileo-pettinea e dalla cresta otturatoria. Le sue fibre si fondono infero lateralmente alla porzione mediale del legamento ileo femorale rinforzandolo;

• Legamento ischio-femorale: ha una parte centrale che origina al disopra della tuberosità ischiatica e si porta a spirale al grande trocantere, fondendosi parzialmente col legamento ileo-femorale;

• Legamento acetabolare trasverso: piccola banda collagenosa che fa da ponte fra le due estremità del labbro acetabolare chiudendo l’incisura e completando il margine inferiore della fossa acatabolare. Al suo interno decorrono rami del nervo e dell’arteria otturatori;

• Legamento rotondo: origina al disopra del legamento trasverso e si porta sulla testa del femore in corrispondenza della fovea capitis. Al disopra di esso decorre l’arteria del legamento rotondo, ramo dell’otturatoria, che si porta fin sulla testa del femore.

La guaina sinoviale dell’articolazione riveste tutta la superficie interna dell’acetabolo, nonché la testa e il collo del femore sino alla linea intertrocanterica, sia anteriormente che posteriormente. Posteriormente si ferma a metà del collo del femore in continuità con la capsula, senza mai sopravanzarne le inserzioni.

Il femore è formato da un corpo e due estremità, delle quali la prossimale si articola con le ossa dell’anca formando l’articolazione coxo-femorale, e la distale prende rapporti con la rotula e la tibia formando l’articolazione del ginocchio. Il femore è sede d’inserzione di molti muscoli del bacino e dell’arto inferiore. La testa poggia sul collo anatomico del femore, dove sono situati i trocanteri grande e piccolo, rispettivamente in posizione latero-superiore e latero-inferiore, dove hanno inserzione alcuni muscoli fra i quali l’ileopsoas. La diafisi, o corpo, è formata da tre facce: anteriore, postero-mediale e postero-laterale divise dalla linea aspra, che si biforca all’altezza metafisaria dando origine alla tuberosità glutea e alla linea pettinea. Al livello della metafisi distale si origina una depressione detta faccia

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9 poplitea, in vicinanza della quale scorrono i vasi poplitei, che caratteristicamente hanno la componente arteriosa più in superficie rispetto a quella venosa.

L’epifisi distale presenta due superfici ossee posteriori convesse, i condili mediale e laterale, che fanno parte dell’articolazione del ginocchio e sono rivestiti da cartilagine articolare. Tra di essi è situata la fossa intercondiloidea, mentre anteriormente convergono nella superficie patellare. Su di essi s’inseriscono i due legamenti crociali (anteriore e posteriore) e due menischi (mediale e laterale), ad appianare la discrepanza fra le superfici articolari di femore e tibia. I menischi contornano i due condili, i crociati s’incrociano nello spazio intercondiloideo.

Figura 1: L'articolazione dell'anca (F. Netter)

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Anatomia del nervo femorale

Il nervo femorale è uno dei rami terminali del plesso lombare, che a sua volta è formato dai rami anteriori di primo, secondo, terzo e parte del quarto nervo lombare (L1-L4). Sono collegati tra loro da anse anastomotiche nella regione lombare lateralmente alla colonna nello spessore del muscolo grande psoas. L1 riceve un ramo anastomotico dall'ultimo nervo intercostale. Il plesso ha la forma di un triangolo, con la base rivolta verso la colonna vertebrale e l'apice diretto in basso. Ogni ramo anteriore dà origine a due rami periferici e a un'ansa anastomotica che va a unirsi con il nervo sottostante.

Il nervo femorale o crurale è un nervo misto che origina con tre radici dal plesso lombare e comprende fibre provenienti da L1, L2, L3 e L4. La radice superiore origina dall'ansa anastomotica fra L2 e L3, la radice media da L3 e la radice inferiore da L4. L'ansa fra L3 e L4 può mancare: in questo caso l'anastomosi origina dalla radice media del nervo femorale.

E’ considerato, assieme al nervo otturatorio, ramo terminale del plesso, mentre i nervi ileo ipogastrico, ileo inguinale, genitofemorale e cutaneo laterale della coscia sono considerati rami collaterali lunghi. Esistono anche vari rami collaterali brevi di natura motoria diretti ai muscoli grande psoas, piccolo psoas, quadrato dei lombi e intertrasversari laterali. Il nervo femorale innerva l'ileopsoas, i muscoli anteriori della coscia e parte dei muscoli mediali (parte dell'adduttore lungo). Innerva inoltre la cute anteromediale di coscia e gamba e la cute dorsomediale del piede. Insieme al n. otturatorio innerva inoltre il muscolo pettineo. Le tre radici confluiscono in un unico tronco a livello della quinta vertebra lombare. Il tronco scende verso il basso coperto dal grande psoas e si rende evidente nell'angolo formato dalla confluenza fra lo psoas e l'iliaco.

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11 Passa al di sotto del legamento inguinale nella lacuna neuromuscolare assieme all'ileopsoas. In corrispondenza del triangolo di Scarpa si divide nei suoi rami terminali:

Nervo muscolocutaneo laterale: misto, si porta verso il basso addossato alla

faccia profonda del sartorio, cui fornisce rami muscolari. Stacca inoltre rami perforanti che lo attraversano raggiungendo la cute anteriore della coscia;

Nervo muscolocutaneo mediale: misto, raggiunge la parte mediale della

coscia fornendo rami muscolari per il pettineo e l'adduttore lungo e rami cutanei per la faccia superomediale della coscia;

Nervo del muscolo quadricipite: esclusivamente motorio, è il più voluminoso

dei rami terminali e si divide in quattro branche destinate ai quattro capi del quadricipite;

Nervo safeno: esclusivamente sensitivo, può essere considerato l'effettivo

ramo terminale. Decorre profondamente nella coscia a ridosso dell'arteria, con la quale penetra nel canale degli adduttori. Esce dal canale perforandone la parete anteriore e raggiunge la regione mediale del ginocchio,dove stacca due rami: il ramo tibiale, sua diretta continuazione, ha decorso satellite alla vena safena grande, prima lungo la faccia mediale della gamba e poi davanti al malleolo mediale e lungo il margine mediale del piede. Innerva la cute mediale della gamba, la cute dorsomediale del piede e l'articolazione talocrurale. Il ramo infrapatellare (o rotuleo) si fa superficiale e innerva la cute della regione della rotula e l'articolazione del ginocchio.

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12 Figura 2: Il plesso lombare (anatomyqa.com)

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Vascolarizzazione e fisiologia

Le fratture si accompagnano spesso a distruzione delle strutture vascolari con conseguente difficoltà di guarigione: la base del collo femorale è circondata da un anello vascolare di pertinenza delle arterie femorali circonflesse mediale e laterale, che a loro volta originano dall’arteria femorale profonda. Da questo anello vascolare originano le arterie cervicali ascendenti, che decorrono parallelamente al collo del femore portandosi sino alla testa. La vascolarizzazione della testa è completata dall’arteria foveale, ramo dell’otturatoria, che perfora il legamento rotondo e si porta nella fovea. Questo vaso, tuttavia, non assicura di per sé una vascolarizzazione adeguata alla testa femorale.

L’osso spugnoso che compone quest’ultima è organizzato in trabecole orientate secondo le principali linee di stress: le trabecole principali mediali contrastano le forze compressive, le trabecole principali laterali contrastano le forze in tensione. Queste strutture consentono all’osso di fronteggiare forze a elevato impatto nella zona del femore prossimale.

La prognosi delle fratture di femore varia a seconda della zona anatomica cruentata: la regione intertrocanterica ha un’elevata quantità di osso spugnoso ed è molto vascolarizzata pertanto le fratture intertrocanteriche guariscono bene se ridotte e fissate appropriatamente. Tuttavia questo tipo di frattura può disallinearsi per azione del muscolo ileo psoas (spinta su piccolo trocantere) e i grandi muscoli rotatori e adduttori dell’anca che s’inseriscono sul grande trocantere.

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14 1.2 – Epidemiologia della frattura di femore

Inquadramento e impatto economico

L’aspettativa di vita della popolazione mondiale sta aumentando sempre di più e ogni anno più persone raggiungono età avanzate, questo porta l’attenzione sull’importanza delle patologie geriatriche come considerevolmente impattanti su costi e fenomeni sociali. Le fratture di femore si verificano soprattutto nei grandi anziani, per cui il numero assoluto è strettamente dipendente dai cambiamenti demografici, e il problema sta assumendo l’importanza e la dignità di un evento epidemico che va a influenzare la salute pubblica e comporta un grande peso economico per i nostri sistemi sanitari1. Poiché si tratta di un evento che presuppone nella quasi totalità dei casi un ricovero, la raccolta dati e l’intervento mirato “evidence based” sono di facile proposta e applicazione, e la letteratura sul tema è molto sviluppata.

Esistono considerevoli differenze geografiche non giustificate dai differenti gruppi di età studiati, ma il dato epidemiologico che per primo deve far riflettere è che l’incidenza del fenomeno aumenta esponenzialmente con l’età: la diminuzione della massa ossea, della sua densità e un aumento del rischio di caduta risultano in una fortissima associazione fra età e rischio di frattura.2

Nei Paesi occidentali 3 fratture di femore su 4 si verificano in soggetti di sesso femminile: questa considerevole differenza nel numero assoluto di fratture è da imputare in parte alla maggior aspettativa di vita delle donne. Questo dato è leggermente meno forte per quanto riguarda la popolazione mondiale, che vede un rapporto complessivo di 2:1.3 Secondo uno studio tedesco del 2012 questo rapporto tende a parificarsi studiando una popolazione di particolare interesse, quella degli anziani istituzionalizzati.

Come vedremo in seguito la vita in struttura assistenziale è correlata a disabilità cognitivo-motoria di rilievo, ridotta autonomia, impairment nella gestione del sé, ed

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15 è parametro cruciale di alcuni scores di rischio che si utilizzano nella gestione peri-operatoria di questi pazienti.

Figura 4: Rapp et al., 2008

Nello studio citato si evidenzia come nella popolazione degli anziani istituzionalizzati la frattura di femore e il rischio di caduta siano frequenti anche nel sesso maschile con un rapporto complessivo di 1.26:1 a favore del sesso maschile per quanto riguarda l’evento “caduta”. Altro punto interessante: i soggetti con bisogno di cure, siano essi residenti o meno in strutture assistenziali, costituiscono più del 50% dei ricoverati per frattura di femore e rappresentano il gruppo più a rischio di caduta, sebbene ricevano costante e ravvicinata assistenza da parte dei

caregivers.4

La variabilità geografica dell’incidenza della frattura di femore è notevole: i tassi variano di 200 ordini nella popolazione femminile e 140 nella popolazione maschile. I Paesi dove si registra la maggior incidenza sono quelli dell’Europa del Nord (Norvegia, Svezia, Islanda, Irlanda), seguiti dal Centro Europa (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e dal Medio Oriente5. Altri Paesi particolarmente a

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16 rischio sono l’Argentina e Taiwan. Le ragioni di queste disparità non sono ancora completamente chiare: i trend descritti negli anni e gli studi in materia di migrazione suggeriscono che siano da ricercare in fattori ambientali più che genetici.6

Alcuni indicatori sociali come lo status socioeconomico, il tasso di sviluppo e l’urbanizzazione sono correlati all’incidenza delle fratture di femore anche se non esiste omogeneità di associazione fra fattori socio-economici e rischio frattura fra un Paese e l’altro7. Le aree più urbanizzate hanno un’incidenza più alta, il 20-60% in più rispetto alle zone rurali a seconda degli studi8, questo probabilmente a causa delle superfici cementate, delle abitudini di vita tendenzialmente più sedentarie e i minori livelli sierici di Vitamina D dovuti alla ridotta esposizione solare. In Germania l’incidenza della frattura di femore è di 130 nuovi casi su 100000 abitanti/anno9, con significative differenze regionali che non seguono un pattern definito, il motivo di tutto ciò non è ancora ben decodificato sebbene sia noto come le differenze di status sociale e di urbanizzazione non siano particolarmente rilevanti in questo Paese.

L’incidenza nei diversi gruppi d’età è cambiata considerevolmente nelle ultime decadi: fino agli anni ’90 nella maggior parte delle aree prese in esame l’età media d’insorgenza della frattura di femore tendeva a una crescita ripida con un aumento più pronunciato nel sesso femminile. Negli anni a seguire questo ritmo di crescita si è fatto meno marcato10. In zone ad alta densità di popolazione come il Sud America o l’Asia la rapidità di aumento delle fratture di femore è invece più regolare. L’andamento di questi dati influenza profondamente il peso economico che questo evento rappresenta per le diverse economie. Il fatto che in alcune aree l’incidenza aumenti con maggiore rapidità sono verosimilmente da correlare ai processi di urbanizzazione.

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17 Figura 5: Incidenza delle fratture in funzione del tempo dal ricovero in strutture assistenziali

(tutte le fratture VS fratture di femore) – Rapp et al., 2018

I fattori che, contrariamente, contribuirebbero a un rallentamento della diffusione del fenomeno, che comunque – come già detto – tende ad avanzare, sono i programmi d’incentivazione al movimento, l’aumento dell’incidenza di obesità –contrariamente a quanto verrebbe da pensare- e l’’implementazione dello screening e della terapia contro l’osteoporosi. Ci sono alcune evidenze, infine, che correlerebbero il rischio d’incorrere in frattura di femore con una ipo-alimentazione durante la vita fetale e l’infanzia.11 Bambini sottopeso e con dimensioni sottosoglia alla nascita tendono a presentare una minor densità ossea e a conservare questa caratteristica negli anni.

Il rischio individuale di frattura di femore varia rapidamente all’insorgenza di alcune variabili: è noto che uno dei momenti in cui il soggetto è più a rischio corrisponde all’immediato periodo che segue una prima frattura di femore, in particolare quando il paziente viene dimesso presso una struttura assistenziale, come dimostrato da due recenti studi12,13: il rischio di frattura, come mostrato in Fig.7, risulta particolarmente elevato durante le prime settimane di degenza. Verosimilmente la causa di questo trend è da ricercare nel fatto che i soggetti, in

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18 gran parte anziani e affetti da impairment cognitivi antecedenti, siano inseriti in ambiente nuovo ed estraneo.

Il rischio di frattura di femore, inoltre, aumenta nelle settimane che seguono immediatamente la dimissione da strutture ospedaliere a prescindere dalla diagnosi di ammissione (Fig.8).14 Questa tendenza è verosimilmente da imputare a condizioni di debolezza disparate con deterioramento relativo dell’equilibrio e il persistere di forme fruste di delirium, magari non diagnosticato.

Figura 6: Rapp et al., 2018

Molteplici studi evidenziano un aumento dell’incidenza di fratture di femore che interessa i mesi invernali. Un pattern stagionale è stato osservato anche in Paesi dove non c’è neve o ghiaccio, quantomeno abitualmente. Le temperature basse, il vento e le precipitazioni atmosferiche sono associati a incidenza di fratture elevata15.

Per parlare di fattori di rischio individuali bisogna innanzitutto ricordare che più del 90% delle fratture di femore è causata da cadute e 2/3 dei pazienti che si

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19 fratturano hanno storia di osteoporosi16, pertanto gl’interventi da portare a termine per arginare il fenomeno riguardano la prevenzione delle cadute e il miglioramento della densità ossea tramite le apposite terapie. L’età, il sesso femminile, la familiarità sono fortemente correlati al rischio di fratture, così come l’anamnesi positiva per pregressa frattura o caduta. Vi è inoltre una correlazione fra rischio di frattura e ridotta forza muscolare, peso corporeo sotto soglia e abitudine tabagica17. Pazienti affetti da morbo di Cushing, ipertiroidismo, diabete mellito di tipo I, epilessia e depressione maggiore hanno mostrato incidenza aumentata, così come coloro che assumono cronicamente cortisonici, inibitori dell’aromatasi (a causa dell’impatto negativo sulla densità ossea) e benzodiazepine. E’ dimostrata una parziale associazione con l’assunzione di farmaci delle classi degli antipsicotici e antidepressivi ed esistono tre studi in cui si evidenzia una tendenza all’aumento del rischio in pazienti con morbo di Parkinson, post-ictus e demenza18.

In generale si può asserire che la popolazione a rischio è rappresentata dai soggetti con disabilità: il 50% delle fratture di femore interviene in pazienti con disabilità e necessità d’assistenza domiciliare o in struttura dedicata. Nei gruppi di pazienti relativamente “giovani” (65-80 anni) il rischio di frattura è 10 volte maggiore in coloro che necessitano di aiuto alla conduzione delle attività quotidiane. Il ricovero presso strutture assistenziali rappresenta in assoluto il maggior fattore di rischio per frattura di femore. In un recente grande studio si reperta un’incidenza di 4 cadute ogni 100 ospiti per il sesso femminile e 3 ogni 100 ospiti nel sesso maschile13 ogni anno. E’ interessante però notare come in questa popolazione la maggior disabilità e il rischio di caduta risultino inversamente proporzionali, probabilmente perché pazienti con grave disabilità sono spesso allettati. In letteratura sono presenti associazioni fra disabilità cognitiva / deficit di sviluppo e bassa densità ossea / rischio caduta: alcuni dei fattori favorenti potrebbero risiedere nei deficit dell’andatura, nella tendenza a crisi convulsive, nelle terapie domiciliari e nei disordini endocrini associati. Sembra chiaro che nella popolazione con disabilità cognitiva la frattura di femore intervenga 10-15 anni prima (donne) e 20-40 anni prima (uomini) rispetto alla popolazione generale19.

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20 Nei Paesi occidentali la mortalità annua della frattura di femore supera quella per tumore dello stomaco e del pancreas. Per la popolazione femminile, il rischio di sviluppare nel corso della vita una frattura di femore è maggiore del rischio complessivo di tumore mammario, endometriale e ovarico, per quanto riguarda il sesso maschile la frattura di femore interviene molto più frequentemente rispetto alle neoplasie prostatiche. La disabilità conseguente alla frattura di femore è generalmente più impattante di quella correlata alla diagnosi oncologica: la disabilità deambulatoria è permanente nel 20% dei soggetti colpiti e solo il 40% riacquista autonomia pari a quella compatibile con le precedenti attività quotidiane. In termini di exitus è ormai noto che la frattura femorale comporti un rischio molto vicino a quello del tumore della mammella, con mortalità stimabile in circa il 5% in fase acuta e 15-25% a un anno.

I costi diretti ospedalieri delle fratture di femore corrispondono alle spese per i ricoveri: la durata media per le fratture di origine osteoporotica è la più lunga fra le patologie acute, il life time risk nella donna over 50 è del 17% andando ad aumentare in maniera esponenziale dopo i 70 e configurandosi, secondo molti lavori, come doppio rispetto a quello dell’uomo. Si stima che la tendenza delle popolazioni ad invecchiare, in particolare quella italiana, farà attendere un incremento poderoso dei casi di frattura di femore: secondo le proiezioni demografiche, nel 2050 in tutto il mondo si registreranno oltre 6 milioni di casi in un anno. Negli Stati Uniti si prevede un aumento dei costi complessivi dal 7 agli oltre 60 miliardi di dollari annui (al 2020).

Per quanto riguarda i dati italiani il quadriennio 1999-2002 è stato documentato dallo studio di Rossini et al. pubblicato sulla rivista Reumatismo nel settembre 201120: sulla base del dati dell’archivio SDO (Schede di Dimissione

Ospedaliera) del Ministero della Salute si sono presi in considerazione tutti i DRG

(Diagnosis Related Groups) d’interesse ortopedico relativi alla degenza e agli interventi di tutte le tipologie di diagnosi che si riferivano alla frattura femorale. Per inserire il costo degli interventi riabilitativi, il riferimento è uno studio del 199721 che stimava 5375 € mensili di spesa per la riabilitazione di un paziente fratturato.

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21 Sono circa 18000 i pazienti che ogni anno divengono disabili dopo frattura, l’assistenza sociale connessa (invalidità, accompagnamento) comporta una spesa di circa 6000€/anno a paziente (considerando la mortalità media a un anno). Nell’anno 2002 i ricoveri per frattura di femore sono stati 86719, oltre 8000 in più rispetto al 78708 del 1999, un incremento generale pari al 9.2%. Il 77% riguardava soggetti di sesso femminile (66912 eventi nell’anno 2002), di queste oltre l’80% si sono verificate in pazienti over 65.

E’ interessante notare come l’aumento del numero dei ricoveri osservato nei quattro anni presi in esame fosse quasi esclusivamente da attribuire ad un aumento delle fratture nella popolazione femminile grande anziana (over 75), nella quale si evidenziava un aumento parti all’11,3% nei quattro anni. L’incidenza complessiva dell’evento “frattura femorale” aggiornata al 2002 è di 185/10000 abitanti nella categoria demografica più a rischio, quella delle donne al disopra dei 75 anni d’età (vedi tabelle).

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Figura 7: Rossini et al. (Reumatismo, 2011)

Come si evince, la durata media per la degenza è sempre superiore ai 14 giorni e i costi complessivi si aggirano oltre il miliardo di euro per il 2002, cifra in linea coi dati dell’International Osteoporosis Foundation dello stesso periodo. In Toscana nel 2004 sono stati registrati 6629 ricoveri per frattura di femore negli anziani (> 65 aa) con il tasso di ospedalizzazione pari a 7,5 ricoveri ogni 1000 anziani e le due tipologie di frattura mediale e laterale si sono divise la torta al 50%.

Nel 5% dei pazienti la morte avviene acutamente nel perioperatorio. La mortalità dei giorni immediatamente precedenti e successivi all’intervento (entro i 30) si attesta attorno al 13% secondo dati inglesi del 200522, la mortalità a un anno è attorno al 20%, fra questi il 60% muore entro i 4 mesi. Confrontando la mortalità osservata con quella della popolazione generale il rischio relativo di morte a un anno è del 2.7% nelle donne e del 3.2 negli uomini. La mortalità nelle fratture extracapsulari dove si esegue una sintesi risulta essere maggiore rispetto a quelle intracapsulari dove si impianta una protesi.

Regione Toscana e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana

Il sistema di valutazione della performance della sanità toscana è stato sviluppato, già dal 2004, dal Laboratorio Management e Sanità - Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

La Regione Toscana, in applicazione dell’Art. 20bis della Legge Regionale 40 del 2005 (che prevede la collaborazione con istituti universitari con specifica esperienza negli ambiti del management sanitario e sociale integrato e in applicazione della

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DGR n°486 del 29 marzo 2005), ha adottato questo Sistema di valutazione della performance per misurare la capacità di ogni azienda sanitaria di essere efficace ed efficiente, sia rispetto al territorio in cui opera, sia nell’ambito del sistema regionale in cui è inserita. Attraverso il sistema di valutazione è possibile monitorare nel tempo il valore prodotto per il cittadino assistito in termini di efficienza, efficacia, appropriatezza. Complessivamente il sistema conta più di 600 indicatori a livello aziendale, di questi circa la metà sono di osservazione, ossia servono a fornire dettagli o prospettive aggiuntive per completare le informazioni relative alla valutazione. Tutti gli indicatori del sistema di valutazione sono raggruppati in 60 indicatori di sintesi rappresentati in forma grafica in un “bersaglio” che viene fornito

per la valutazione di ogni singola azienda sanitaria della Regione.

Nel 2017 (ultimo Rapporto disponibile), il trattamento della frattura del femore in Toscana presenta in generale una qualità ottima nel panorama italiano e in costante miglioramento: infatti, nel 2017, gli ospedali toscani hanno mostrato livelli di tempestività nel trattamento mediamente alti o molto alti, con oltre 80% di pazienti trattati entro 48 ore. L’introduzione di modelli organizzativi che prevedono la gestione multidisciplinare di questi pazienti (“Ortogeriatria”) si sta mostrando efficace nel garantire la tempestività e ridurre la mortalità, a dimostrazione dell’attenzione verso la popolazione fragile anziana.

L’indicatore C5.2 riguarda la tempistica d’intervento nel paziente con frattura di femore: “Percentuale di interventi per frattura del collo del femore con durata di degenza tra l’ammissione e l’intervento <2 giorni”, facente parte della più ampia

classe di indicatori C5a, denominata “Qualità del processo”, del Sistema di valutazione della performance della sanità toscana.

Per quanto riguarda i più recenti dati inerenti all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, si può affermare che lo standard regionale risulta ad oggi rispettato con proiezioni sui dati del 2019 che danno oltre il 90% delle fratture trattate. Nel 2018 all’attenzione delle U.O. Ortopedia 1 e 2 si sono presentate 467 fratture di femore, di cui l’81.3% è stato operato entro i limiti previsti, rappresentando questa patologia oltre il 40% dell’attività traumatologica del DEA dell’Ospedale di Cisanello. L’anno precedente questa percentuale si attestava attorno al 61%.

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24 Conseguenze della frattura di femore

Complicanze post-chirurgiche: Complessivamente le fratture mediali di

femore tendono a complicarsi più spesso di quelle laterali. Fra le complicanze principali ricordiamo: infezione del sito chirurgico, dolore cronico, dislocazione, necrosi avascolare (AVN), modificazioni artritiche, tromboembolismo, mancata sintesi. Quest’ultima dipende molto dalla densità ossea del paziente e ha un’incidenza che va dallo 0 al 30% a seconda delle popolazioni prese in esame, diverse per età, densità ossea, scomposizione di frattura, qualità della riduzione la protesi selezionata. La mancata riduzione si manifesta con dolore inguinale, di coscia o d’anca che non mostra risoluzione dopo l’intervento o tende ad aumentare dopo un periodo di miglioramento. La necrosi avascolare è più frequente nelle fratture scomposte e può insorgere fino a tre anni dopo l’osteosintesi, motivo per cui è opportuno prescrivere controlli radiologici periodici. Sebbene tenda ad essere inizialmente asintomatica, dopo un periodo silente si manifesta con dolore inguinale o riferito al ginocchio che aumenta coi carichi, e limitazione funzionale;

Mortalità: Le fratture di femore si verificano, in ultima analisi,

prevalentemente nell’anziano fragile con un rischio di mortalità di base già elevato, e la frattura di femore è un fattore di rischio indipendente che aumenta il rischio di morte. L’impatto sulla mortalità è maggiore nei soggetti di sesso maschile23. Il rischio è maggiore nelle settimane che seguono una prima eventuale frattura e resta elevato per alcuni mesi e si stima che il 20-30% dei decessi che avvengono in questo arco di tempo siano correlate alla frattura stessa24. Nei pazienti istituzionalizzati l’aumento di mortalità da ascrivere alla frattura di femore ammonta al 32.9% nel sesso femminile e al 57.8% nel sesso maschile;

Disabilità: la frattura di femore ha un forte impatto su abilità,

funzionamento e qualità della vita nel paziente anziano. Fino al 60% dei pazienti –a seconda degli studi presi in esame- che prima dell’evento svolgevano vita indipendente per quanto riguarda le abilità relative alla cura del sé (lavarsi,

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25 vestirsi…) dopo frattura di femore necessitano di assistenza a distanza di un anno per lo svolgimento di queste mansioni25. La maggior parte dei pazienti che recuperano il funzionamento precedente la frattura lo fanno entro i sei mesi dalla dimissione e il grado di recupero è particolarmente basso nella popolazione istituzionalizzata26;

Istituzionalizzazione: la frattura di femore può compromettere

l’indipendenza di pazienti precedentemente validi e rendere impossibile proseguire la vita a domicilio. Nei Paesi ad alto tenore socio-economico il 10-20% dei pazienti fratturati sono successivamente istituzionalizzati, il tasso d’istituzionalizzazione in Germania si attesta intorno al 15% nelle donne e 11.8% negli uomini entro i sei mesi dalla dimissione dopo frattura. Il rischio d’istituzionalizzazione aumenta del 3.6% nelle donne di età compresa fra i 65 e i 69 anni e del 34.8% nelle ultranovantenni. Nel sesso maschile il rischio d’istituzionalizzazione dopo frattura di femore è sovrapponibile a quello post-stroke;

Fratture secondarie: una pregressa frattura aumenta il rischio d’incorrere in

una frattura successiva di un fattore 2-2.5. L’aumento del rischio relativo è simile nei due sessi e particolarmente pronunciato nei primi mesi che seguono la frattura originaria.

Prevenzione delle cadute

Il percorso del paziente con frattura di femore è dunque molto complessa e i fattori di rischio sono solo in parte prevenibili. L’attività fisica continuativa sin dall’età giovanile sembra rappresentare un fattore protettivo che può ridurre l’incidenza dell’evento frattura fino al 40% dei pazienti27. Lo screening e il trattamento dell’osteoporosi sono fondamentali per arginare il rischio di cadute accidentali, sebbene sia noto che molti dei pazienti che si fratturano non presentano una gravità di osteoporosi tale da necessitare trattamento farmacologico. Gli studi sulla prevenzione delle cadute al momento non hanno sufficiente potenza per permettere d’implementare bundles efficaci e esaustivi, ma

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26 in una recente metanalisi un protocollo di esercizio finalizzato alla “fall prevention” ha ridotto nel campione in esame l’incidenza di frattura del 60%28. Tuttavia, per ottenere un significativo miglioramento dell’impatto socio-economico della frattura di femore si stima che sarebbero necessarie misure ad oggi irrealizzabili e un tasso di partecipazione dei soggetti a rischio molto difficile da ottenere, come dimostrato in un recente studio tedesco. Ad ogni modo sarebbero necessari interventi preventivi coordinati su diversi fronti e molteplici strategie su tutta la popolazione29.

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27 1.3 – Clinica e classificazione

La frattura di femore si verifica nella stragrande maggioranza dei casi a seguito di una caduta accidentale, soprattutto nel paziente anziano, ma esistono anche altre situazioni meno frequenti, come quella della frattura patologica nel tumorale o il politrauma nel paziente giovane. Classicamente si descrive il femore rotto come extraruotato e accorciato anche se in alcuni casi l’obiettività non è così franca. Spesso si tratta di un trauma isolato o associato a trauma cranico e fratture di altre sedi ossee e si accompagna a dolore e impotenza funzionale, anche se in una minoranza dei casi il paziente riesce a porre in carico l’arto danneggiato. Ematomi, ferite lacero-contuse e altre lesioni sono di riscontro non costante, si repertano più frequentemente nelle fratture laterali, associate talvolta a compromissione emodinamica di entità più rilevante. Nell’anziano la clinica può apparire sfumata in termini di percezione del dolore, che non di rado viene riferito come localizzato a ginocchio, coscia o schiena.

Ogni anziano che cade è particolarmente meritevole di anamnesi accurata poiché l’evento “caduta “può nascondere una sincope, un TIA o uno stroke. Spesso il paziente non è in grado di riferire o ricordare l’accaduto non solo in caso di trauma cranico (commotivo o meno) concomitante, ma anche in ragione della sua condizione pre-esistente, come in caso di demenza o altro deficit cognitivo.

Le fratture di femore si classificano in base alla sede anatomica interessata:

Fratture mediali o intracapsulari

Classicamente sono a loro volta suddivise in sottocapitate, mesocervicali e basi cervicali. La classificazione di Garden30, invece, ne individua quattro tipi in base all’aspetto radiografico in proiezione antero-posteriore:

• Garden I, frattura incompleta ingranata in valgismo, per definizione composta, abbastanza stabile poiché il carico segue la linea di frattura;

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28 • Garden II, completa senza scomposizione dei frammenti;

• Garden III, completa con lieve scomposizione in varismo; • Garden IV, scomposizione completa dei due capi ossei.

Dal punto di vista della strategia di trattamento è utile dividere le fratture mediali in

composte (Garden I e II) e scomposte (Garden III e IV): le prime sono trattabili

tramite osteosintesi con viti, placche o chiodi endomidollari corti. In una minoranza dei casi è possibile un trattamento conservativo. Le fratture scomposte, invece, hanno anche l’endoprotesi e la protesi totale d’anca (PTA) come opzioni di trattamento.

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Fratture laterali

La rima di frattura è compresa fra grande e piccolo trocantere. Sono suddivise in 5 sottotipi dalla classificazione di Evans, la stabilità della frattura è legata al grado di comminuzione della corticale postero-laterale, che conferisce o meno stabilità ai capi ossei:

• Stabili: a due frammenti, tipo I composta e tipo II scomposta; • Instabili:

- Tipo III, a tre frammenti con avulsione del grande trocantere; - Tipo IV: a tre frammenti con avulsione del piccolo trocantere; - Tipo V: a quattro frammenti.

Figura 9: Classificazione di Evans delle fratture di femore laterali (OrthOn.com)

Il trattamento conservativo delle fratture di femore è opportuno in caso di31: pazienti con demenza molto avanzata e dolore non severo, vecchie fratture composte tipo Garden I e dolore non severo, giovani politraumatizzati con fratture composte o lesioni isolate dei trocanteri, pazienti instabili con gravissime e irreversibili comorbidità, condizioni end stage.

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CAPITOLO 2: IL DELIRIUM

“Se il paziente sta delirando, non riconosce i propri amici, non può sentire o capire, e questo è un sintomo mortale.” Ippocrate, Aforismi, VII:83

2.1 - Cenni storici

Il termine delirium deriva dal latino de (“via da”) – lira (“solco”) e si può tradurre letteralmente con l’espressione “fuori dal tracciato”. Nel I secolo a.c. Celso utilizzò il termine “delirium” per la prima volta come sinonimo della frenite descritta dagli antichi Greci della Scuola Ippocratica, che descriveva un quadro psichico contemporaneo a importanti rialzi febbrili caratterizzato da incoercibile agitazione psico-motoria, in contrapposizione al termine letargia. Questa definizione esclude le forme di delirium ipocinetico (o ipoattivo), della cui importanza si discuterà in seguito. La definizione attribuita alla Scuola ippocratica definiva già alcuni di quelli che si rivelano ai giorni nostri costituire i cardini della definizione di questa condizione e poneva l’accento sul pericolo che questi sintomi, di per sé, rappresentano per la prognosi del paziente affetto.

All’inizio del ‘900 Karl Bonhoeffer, neurologo militare tedesco, parlò di psicosi

tossica come sinonimo di delirium, ponendo l’accento sul fatto che nel paziente

delirante è sempre individuabile una causa esogena che spieghi la sintomatologia neurologica. Questo elemento è ripreso nella moderna definizione di delirium, così come il concetto relativo alla “perdita delle abilità mentali” descritta da Engel e Romano nel 1956. Negli anni ’70 Plum e Posner, neurologi americani, definirono il delirium come “condizione clinica caratterizzata da: obnubilamento della coscienza,

disorientamento, paure, sospetto, irritabilità, dispercezione degli stimoli sensoriali, delusioni, illusioni e allucinazioni visive e uditive” realizzando una panoramica

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31 precisa di quella che è ad oggi la comune percezione del clinico riguardo il paziente delirante e sottolineando come, sin da quei tempi, i medici non psichiatri tendessero a sottovalutare e quasi “snobbare” questo corredo di sintomi, non ritenendoli espressione di cause organiche e modificabili e non impattanti sulla prognosi.

Nel 1980 con l’avvento delle edizioni III e IV del DSM (Diagnostic and

Statistical Manual of Mental Disorders) s’iniziava a sciogliere il complesso nodo

diagnostico rappresentato dalla diagnosi differenziale fra delirium e demenza senile, elemento fondamentale per la realizzazione del presente lavoro e criticità preponderante nella gestione dell’anziano ospedalizzato in tutti i setting. I primi tentativi di diagnosi differenziale risalgono agli anni ’30, quando s’iniziava a contrapporre la demenza alle altre forme di stato confusionale a diversa cinetica d’insorgenza e andamento fluttuante. Con il DSM-III si giunge a una definizione univoca di delirium eliminando un forte ostacolo agli studi epidemiologici sul tema: in precedenza, infatti, risultava difficile raccogliere i lavori riguardanti questo evento in quanto veniva descritto con terminologia variegata e uniformare le popolazioni in studio risultava estremamente difficile.

Nel corso degli anni si è assistito all’avvicendarsi di diverse definizioni e denominazioni, talvolta poco chiare e non rispondenti ai criteri clinici che definiscono questa condizione: il delirium è anche conosciuto come “stato confusionale acuto”, “alterato stato mentale”, “encefalopatia metabolica tossica” e un’altra trentina di definizioni il cui minimo comune denominatore risiede nel tentativo di armonizzare i concetti di disfunzione cognitiva associata a problematica organica, cambiamento comportamentale repentino e comorbidità psicologiche-psichiatriche antecedenti l’evento32.

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2.2 - Definizione

Secondo il DSM-V il delirium si definisce come “disturbo del livello di consapevolezza o attenzione, caratterizzato da insorgenza acuta o subacuta di variazioni cognitive, attribuibile a una condizione medica generale; tende ad avere decorso fluttuante. Tale condizione non è necessariamente causata da un altro disturbo cognitivo, sebbene sia comune in caso di disturbi neuro-cognitivi maggiori.”

La definizione di delirium della più recente Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-10) proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è la seguente: “stato di confusione mentale, a insorgenza acuta, con decorso fluttuante,

di breve durata (da ore a giorni o mesi), dovuto a cause organiche, caratterizzato dalla contemporanea presenza di disturbi dell’attenzione e della coscienza, del pensiero e della memoria, con alterazioni del comportamento psico-motorio, delle emozioni e del ritmo sonno-veglia, mai di durata superiore ai sei mesi”.

I punti cardine di entrambe le definizioni permettono di scomporre la problematica “delirium” in quattro componenti fondamentali: insorgenza acuta, deficit dell’attenzione e della componente cognitiva, diretta correlazione a

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33 problematica clinica nota, deficit non motivabile sulla base di diagnosi neurocognitive precedenti. I criteri DSM-V sono ad oggi considerati gold standard per la diagnosi di delirium. E’ doveroso precisare che per la diagnosi si rende necessaria la contemporanea presenza di tutti e cinque gli elementi cardine.

CRITERI DSM-V PER LA DIAGNOSI DI DELIRIUM

A

Disturbo dell’attenzione con ridotta capacità a dirigere, focalizzare, sostenere e shiftare l’attenzione e della consapevolezza con ridotto orientamento del sé nell’ambiente;

B

Il deficit si sviluppa in un periodo di tempo relativamente breve (generalmente ore o pochi giorni), rappresenta un cambiamento dai livelli di attenzione e consapevolezza di base e tende

a fluttuare in gravità nel corso della giornata;

C

E’ presente un altro deficit cognitivo (es. memoria, disorientamento, linguaggio, abilità visuospaziali, o dispercezioni);

D

I deficit di cui ai criteri A e C non sono spiegabili sulla base di un preesistente (stazionario o in evoluzione) disturbo neurocognitivo e non si verificano in un contesto di grave riduzione dei

livelli di arousal (es. coma);

E

Vi è evidenza per storia clinica, esame obiettivo o risultati di laboratorio che il delirium è una

diretta conseguenza di un problema clinico, intossicazione o sospensione di farmaci,

esposizione a tossine, o è dovuto a molteplici eziologie.

Tabella 2: DSM V edizione

CRITERI ICD-10 PER LA DIAGNOSI DI DELIRIUM

A

Alterazione della coscienza e dell’attenzione (con ridotta capacità di dirigere, concentrare, mantenere e spostare l’attenzione);

B

Disturbo globale delle funzioni cognitive: compromissione della rievocazione immediata e della memoria recente, con relativo risparmio della memoria remota; disorientamento nel tempo,

nello spazio, nella persona.

C

Presenza di almeno un disturbo psicomotorio fra: rapidi shift fra ipo e iperattività, tempo di reazione aumentato, aumentata o diminuita fluenza del linguaggio, reazioni emotive abnormi.

D

Una o più manifestazioni di un disturbo del sonno e del ritmo sonno-veglia: insonnia, inversione giorno-notte, total sleep loss, peggioramento di A, B, C nelle ore notturne, incubi e allucinazioni;

E

Esordio rapido e fluttuazioni dei sintomi nel corso della giornata;

F

Evidenza nell’anamnesi, esame obiettivo, indagini di laboratorio e strumentali di una

sottostante malattia cerebrale o sistemica, che si può ritenere responsabile delle

manifestazioni cliniche descritte nei criteri A-D.

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34 2.3 - Epidemiologia

Sebbene il delirium venga descritto da più di duemila anni nella letteratura scientifica, si tratta di una condizione spesso sottodiagnosticata e non gestita in maniera ottimale ai giorni nostri33,34. Il delirium è estremamente comune nei pazienti anziani istituzionalizzati o ospedalizzati. Un terzo dei pazienti al disopra dei 70 anni che accedono alle cure ospedaliere per problematiche di pertinenza internistica svilupperanno una forma di delirium, il delirium è presente in 1/2 di questa popolazione di pazienti all’ammissione e l’altra metà lo svilupperà nel corso della degenza. Si tratta della più comune complicanza post-operatoria nel paziente anziano, con un’incidenza fra il 15 e il 25% dopo chirurgia maggiore elettiva e del 50% in procedure ad alto rischio come la sintesi in frattura di femore e la cardiochirurgia. Nella popolazione dei pazienti ventilati meccanicamente in Terapia Intensiva la prevalenza del delirium, se associato agli stati stuporosi e agli stati di coma, raggiunge il 75%35. Nel setting delle cure palliative esistono popolazioni di pazienti terminali in cui l’incidenza giunge al disopra dell’85%. In Pronto Soccorso il 10-15% degli anziani accede con uno stato mentale inizialmente individuabile come delirium36.

2.4 - Fisiopatologia e clinica

In generale si può pensare al delirium come a una disfunzione cerebrale acuta al pari dell’insufficienza di qualsiasi altro organo -come nel caso del rene, del cuore o del fegato- che si sviluppa per sinergia fra molteplici meccanismi di danno. Questa denominazione suggerisce una certa gravità e la necessità d’intervento medico, data la tendenza a non diagnosticare questa condizione questo tipo di suggestione potrebbe rivelarsi incentivante al trattamento e alla considerazione del problema.

I meccanismi fisiopatologici alla base di questa disfunzione non sono ancora compresi completamente ma sono basati su un disequilibrio dell’attività neurotrasmettitoriale e una neuro-flogosi: la sindrome neuro-comportamentale

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35 definita come delirium sembra essere causata causata da un transitorio “tilt” della normale attività neuronale. Più precisamente rappresenta una risposta ad una diffusa disfunzione cerebrale, ad una riduzione del metabolismo encefalico e ad una diminuzione della sintesi dei neurotrasmettitori. Brown propose tre basi principali della fisiopatologia del delirio37:

• L’esordio sembra essere legato ad una disfunzione delle strutture cerebrali maggiormente sensibili: esiste una “vulnerabilità selettiva”, una maggior sensibilità al danno di alcune popolazioni neuronali. In condizioni di stress -quali lo shock, l’insufficienza renale acuta, il trauma, la chirurgia, il distres respiratorio, l’ischemia- si verifica una riduzione della riserva funzionale del neurone con assenza dei substrati necessari alla formazione di adenosina tri-fosfato (ATP) e incapacità di mantenimento dei gradienti ionici, oltre a una disregolazione primaria di sintesi di dopamina (DA) e acetilcolina (ACh). Le aree ippocampali e neocorticali sono particolarmente sensibili al debito di ossigeno, il cervelletto risulta essere relativamente più resistente. In generale i neuroni meno suscettibili sono quelli in cui il carico mitocondriale è più rappresentato, poiché ciò li rende maggiormente in grado di sostenere l’insulto ipossico: gli interneuroni, ad esempio, hanno un rapporto assoni/citoplasma che va a favore di quest’ultimo, un numero maggiore di mitocondri e una risposta allo stress più performante. I neuroni più esposti sono quelli con molti assoni e dendriti, i cui mitocondri devono sostenere un carico ossidativo maggiore dato il maggior numero di pompe di superficie che necessitano costantemente di ATP;

• Disfunzione neurotrasmettitoriale a carico delle vie dopaminergiche e acetilcolinergiche: il danno della funzione neuronale è dunque dovuto a un’alterazione dei flussi ionici al livello della membrana: questo comporta un alterato rilascio di Ca2+ nel citoplasma, con conseguente aumento di secrezione di DA e inibizione del suo reuptake, in parte mediati da un’aumentata produzione di glutammato. La DA ha una sua tossicità neuronale dovuta alla produzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS) e al potenziamento dell’attività del glutammato stesso. L’azione della DA a livello del sistema limbico può mimare alcuni dei sintomi tipici

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36 del delirio iperattivo clinicamente sovrapponibili alle manifestazioni della schizofrenia (agitazione, allucinazioni, difficoltà di concentrazione). Per quanto riguarda l’ACh, in caso di debito d’ossigeno sia la sua sintesi che il suo rilascio risultano compromessi: clinicamente, il deficit della neurotrasmissione colinergica è stato a lungo correlato alle caratteristiche cognitive degli stati di delirium. Un mancato bilanciamento della quota serotoninergica encefalica può portare a ipo o iperattività, rispettivamente per esubero o decremento di questo neurotrasmettitore. I deficit selettivi, tuttavia, non mostrano le fluttuazioni tipiche degli stati di delirium. Il cortisolo sembra giocare invece un ruolo nel delirio post-operatorio, in quanto un relativo iper-surrenalismo sarebbe spesso presente in questi pazienti, e associato a alterazione neurotrasmettitoriale ipotalamica, a sua volta correlata agli stati di delirium;

• Aumento della vulnerabilità al protrarsi dell’insulto ed estensione alle zone maggiormente resistenti: le strutture interessate per prime sono quella ippocampale e quella della neocortex. Successivamente la disfunzione tende ad estendersi ai nuclei subtalamici e solo tardivamente a cervelletto e tronco encefalico. La progressione della depressione neuronale tende a rispecchiare il decorso clinico delle forme più gravi e non trattate.

Sebbene la percezione del clinico riguardo lo stato di delirium sia quella di un paziente incontrollabile, disorientato, caratterizzato da pensiero disorganizzato e agitazione psicomotoria, è importante notare che le forma di delirium cosiddetto “iperattivo” rappresentano una minoranza dei casi (25%), motivo per cui questa condizione clinica risulta sotto diagnosticata e l’under-treatment risulta ubiquitario in tutti i setting: il delirium in forma “ipoattiva”, infatti, rappresenta la maggioranza dei casi e tende ad essere trascurato. Un paziente scarsamente attivo, con modesta interazione nei confronti dell’ambiente circostante e un livello RASS tendente ai valori negativi rappresenta un impegno minore per coloro che esercitano l’assistenza di base (infermieri, OSS, ausiliari) e presuppone un minor carico di lavoro medico che porta con sé il trascurare lo stato mentale come sintomo. Come si può facilmente intuire sono queste le ragioni per cui il delirium a carattere

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37 ipoattivo è associato a peggior prognosi3839. Il delirium, inoltre, può essere classificato come lieve, moderato, severo o estremamente severo: la prognosi peggiore linearmente alla gravità di segni e sintomi.

2.5 - Fattori di rischio

I fattori di rischio per lo sviluppo di delirium si dividono in fattori predisponenti e fattori precipitanti. L’età avanzata, la demenza (spesso non diagnosticata), le disabilità fisiche, il corredo di comorbidità costituiscono comuni fattori predisponenti. Il sesso maschile, gravi deficit di vista e udito, la depressione, una compromissione cognitiva lieve, anomalie agli esami di laboratorio routinari e abuso di alcool sono tutti fattori associati a un rischio aumentato. Per quanto riguarda i fattori precipitanti, quelli principali sono costituiti da farmaci (in particolar modo sedativi, ipnotici e anticolinergici), interventi chirurgici, anestesia, alti livelli di dolore, anemia, infezioni, sindromi acute, esacerbazioni di patologie croniche40,41,42.

E’ intuitivo pensare dunque che in un soggetto con molti fattori predisponenti il delirium si sviluppi all’intervenire anche di un solo fattore precipitante, come il trauma da caduta e la conseguente frattura di femore, oggetto del presente studio.

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38 Il delirium è classicamente descritto come una sindrome transitoria, ma ad oggi sono sempre più abbondanti i dati che depongono per una sua influenza sullo sviluppo di demenza e altri disturbi psico-cognitivi. Una recente review sistematica ha mostrato che lo stato di delirium nel paziente anziano persiste nel 45% dei soggetti alla dimissione e nel 33% dei pazienti a un mese dalla dimissione43. I fattori di rischio che contribuiscono alla persistenza del delirium includono l’età molto avanzata, una pre-esistente demenza, multiple comorbidità, la gravità dello stato di delirium, l’uso di mezzi di contenzione fisici (che di per sé tendono ad aumentare la severità dei sintomi). Il delirium è causa di un’ospedalizzazione più prolungata e di dimissione presso strutture assistenziali, ovvero l’istituzionalizzazione del paziente44,45.

Per quanto concerne l’outcome a lungo termine dei pazienti che hanno manifestato delirium, in una recente metanalisi coinvolgente quasi 3000 soggetti seguiti a 22 mesi il delirium si andava a configurare come fattore di rischio indipendente per mortalità e sviluppo di demenza. Esistono diversi studi riguardanti l’associazione fra delirium e outcome cognitivo a lungo termine: in setting cardiochiurgico si evidenzia una correlazione fra il declino cognitivo in acuto e tempi di recupero prolungati: fra i pazienti deliranti la funzione cognitiva rimaneva al disotto delle performances pre-operatorie a un mese dall’intervento, per non normalizzarsi più. I dati relativi alla popolazione della Terapia Intensiva mostrano l’esistenza di una disfunzione cognitiva post-delirium molto presente in pazienti a basso rischio (al disotto dei 50 anni, in assenza di comorbidità rilevanti)46,47.

2.6 - Diagnosi

Attualmente gli studi che confrontano la documentazione clinica con la ricerca diagnostica mirata per delirium evidenziano che solo il 12-35% dei deliri sono diagnosticati, dato variabile a seconda della popolazione presa in esame. Il metodo diagnostico più utilizzato e validato da reviews sistematiche sembra essere il

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39 Confusion Assessment Method (CAM), uno strumento rapido e applicabile “bedside”48.

Figura 11: Algoritmo CAM (Ely et al., JAMA 2001

L’algoritmo CAM formula la diagnosi di delirium in base alla positività di quattro items: cambiamento acuto dello stato mentale a decorso fluttuante, disattenzione, pensiero disorganizzato o, in alternativa a quest’ultimo, un alterato livello di coscienza. L’applicazione del metodo CAM ha tuttavia una scarsa sensibilità, motivo per cui negli anni sono state elaborate numerose varianti che incorporano una rapida valutazione dello stato cognitivo del paziente aumentando così l’affidabilità dell’indagine adattandosi ai diversi setting. Fra questi ricordiamo:

• CAM-ICU: CAM for Intensive Care Units, in uso nelle terapie intensive49; • bCAM: Brief CAM, che si utilizza nei Dipartimenti d’Emergenza50;

• 3D-CAM: three-minute Diagnostic Interview for Delirium using CAM, per i pazienti ambulatoriali (setting di Medicina Generale)51;

• 4AT: valutazione di stato di allerta, stato cognitivo (orientamento e attenzione) e cambiamenti comportamentali acuti del paziente. Non è basato sull’algoritmo CAM.

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40 Questi sono gli strumenti a nostra disposizione per la conferma della presenza di un delirium o per una early-detection in pazienti ad alto rischio che non mostrino una clinica tipica ed evidente. Esistono anche metodi ultra-rapidi per la valutazione del delirio in pazienti a basso rischio: questi includono test di attenzione come il “Digits Backward” (ripetizione di cifre a rovescio). Il test consiste di coppie di sequenze di numeri; l'esaminatore legge la sequenza numerica (un numero al secondo); quando la sequenza è ripetuta da soggetto correttamente, l'esaminatore legge la sequenza successiva, che è più lunga di un numero rispetto la precedente, e continua così fino a che il soggetto fallisce una coppia di sequenze o ripete correttamente l'ultima sequenza composta da nove numeri. Altro test analogo è detto “Days of the week and moths of the years backwards”.

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41 Figura 13: Brief-CAM in Dipartimento d'Emergenza (Han, J. H. et al., Emerg.Med. 2013)

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42 Figura 15: 3D CAM per il setting ambulatoriale (Shelke et al., Bone 2008)

I test su larga scala per lo screening del delirium trovano difficile applicazione per limitazioni legate a tempo, costo, necessità logistiche concomitanti e l’attuale assenza di evidenza scientifica circa gli outcome nelle popolazioni non a rischio. Comorbidità quali la demenza, la depressione e le manifestazioni psichiatriche acute fanno tutte parte della diagnosi differenziale e possono sovrapporsi agli episodi di delirium: lo scenario più comune consiste nella diagnosi differenziale fra la demenza senile e il delirium. In assenza di documentazione clinica o anamnesi (spesso raccolta grazie al contributo di parenti e/o caregivers) che attesti una demenza senile pre-esistente, è opportuno comportarsi come si ci si trovasse di fronte a un delirium.

In soggetto affetto da demenza senile ci si può orientare sulla diagnosi di delirium anche in caso di accertata alterazione delle condizioni del paziente rispetto a quelle abituali: il rilievo o la testimonianza diretta di un cambiamento acuto,

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43 intervenuto nell’arco di minuti o ore, caratterizzato da fluttuazione o da alterato livello di coscienza che soddisfi i criteri CAM permette di propendere per la diagnosi di delirium sovrapposto a demenza senile. I casi di delirio ipoattivo e iperattivo molto severi possono essere erroneamente identificati rispettivamente come episodi depressivi o di mania maggiore. E’ opportuno, nell’incertezza, valutare questi pazienti come affetti da delirium lasciando un’eventuale diagnosi psichiatrica alla valutazione specialistica al di fuori della criticità intercorrente onde evitare di sottostimare le cause organiche eventualmente presenti.

Un delirio di nuova diagnosi può rappresentare una vera e propria emergenza, una condizione life-threatening, e richiedere immediata valutazione (anamnesi, esame obiettivo generale e neurologico, test di laboratorio). Esistono alcuni fattori reversibili che contribuiscono all’insorgere e al persistere del delirium sui quali si può intervenire tempestivamente o in via preventiva (Tabella 8). In una minoranza dei pazienti i sintomi di delirium nascondono uno stroke o uno stato di male epilettico, ma più frequentemente i fattori scatenanti la sintomatologia sono da ricercare al di fuori del cervello: si tratta solitamente di un’eziologia multifattoriale , per cui è opportuno vagliare tutti gli elementi che potrebbero concorrervi, molti dei quali risultano essere reversibili, partendo con un’accurata anamnesi dell’evento cerebrale acuto. Il clinico dovrebbe chiedere quando è insorto lo stato di delirium e se è stato accompagnato da altri sintomi (dispnea, disuria, dolore…) o somministrazione di farmaci. Una dettagliata anamnesi farmacologica remota e prossima è fondamentale soprattutto nel setting emergenziale, dove spesso si fa uso di blandi sedativi che possono indurre risposte paradosse, come nel caso delle benzodiazepine; da includere eventuale storia di abuso d’alcool o altre sostanze e l’utilizzo di farmaci auto-prescritti.

L’esame obiettivo completo deve mirare al riconoscimento di problemi organici che potrebbero aver scatenato il deficit cerebrale acuto. In questa fase non è infrequente il riscontro di segni cardiopolmonari patologici correlati o meno

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