• Non ci sono risultati.

Costruire la democrazia. Conflitto sociale e dinamiche di potere nelle relazioni industriali. Pisa e Provincia (1948-1958)

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Costruire la democrazia. Conflitto sociale e dinamiche di potere nelle relazioni industriali. Pisa e Provincia (1948-1958)"

Copied!
240
0
0

Testo completo

(1)

Conflitto sociale e dinamiche di potere nelle relazioni industriali.

Pisa e Provincia negli anni del “centrismo”

(2)

fin qui.

A nonna Rina, che giorno per giorno mi ha incentivato a proseguire. Ad Alessia, il mio Amor, che con il suo dolce sostegno e la sua lodevole competenza informatica ha reso concretamente possibile la conclusione di questo percorso.

Al piccolo Gregorio, mio fratello. A tutti i miei carissimi amici.

Questo lavoro ha avuto inoltre il privilegio di potersi avvalere della do-cumentazione privata d’impresa conservata presso l’Archivio storico Anto-nella Bechi Piaggio di Pontedera. Al personale dell’Archivio, ed in partico-lare a Maria Margherita Scotti, va il mio più sentito ringraziamento per la collaborazione avuta nella fase della ricerca e della raccolta documentaria.

Infine il lavoro è debitore nei confronti del Professor Luca Baldissara, che non ha mai mancato di mostrare tutta la sua cura e disponibilità in ogni fase di questo difficile, ma altrettanto appassionante percorso di studi.

(3)

1 Il conflitto nel contesto italiano 1 1.1 Dalla caduta del fascismo all’immediato dopoguerra: per una

diversa concezione del lavoro nelle relazioni industriali . . . 1

1.2 Lavoro e conflitto sociale nel dibattito politico e costituzionale 3 1.3 Dinamiche di potere e contesto sociale negli anni del “centrismo” 6 1.4 Conflitto sociale nella costruzione della democrazia:un approc-cio per l’analisi storica . . . 29

2 Pisa e provincia nella ricostruzione 43 2.1 Il contesto . . . 43

2.2 Ridefinizione del conflitto sociale: le Commissioni interne alla prova . . . 53

2.3 L’Ufficio Provinciale del Lavoro di fronte al protagonismo ope-raio . . . 59

3 I diritti, la legge, la forza (1946-1949) 64 3.1 Aspetti di una “difficile” democrazia . . . 64

3.2 Il protagonismo operaio e il governo della fabbrica . . . 73

3.3 Dall’attentato a Togliatti alla firma del “Patto Atlantico” . . . 85

3.4 Dinamiche di potere nelle relazioni industriali: il 1949. Tra continuità e rotture . . . 97

4 Proteggere la democrazia (1950-1953) 118 4.1 “Come prima peggio di prima”? . . . 118

4.2 L’offensiva contro le giunte comunali e il caso Piaggio . . . 141

4.3 In fabbrica . . . 163

(4)

5.1 Conflitto, democrazia, sindacato: dagli «anni duri» all’avvio della «grande trasformazione» . . . 206

Antologia documentaria 216

(5)

Il conflitto nel contesto italiano:

uno sguardo d’insieme

1.1

Dalla caduta del fascismo all’immediato

do-poguerra: per una diversa concezione del

lavoro nelle relazioni industriali

Gli scioperi del marzo 1943, attuati nei maggiori stabilimenti industriali del centro-nord, rappresentano, secondo un’interpretazione ampiamente condivi-sa dalla storiografia del movimento operaio italiano, l’inizio di quella che agli stessi protagonisti appariva una riscossa non solo contro la dittatura, ma an-che contro la subordinazione totale della classe operaia al padrone e ai fascisti suoi complici1. La conflittualità sociale si presenta così «l’elemento cruciale

nella crisi del fascismo», ben prima della caduta del regime e della nascita di un movimento partigiano organizzato2. Si tratta di una conflittualità che

nasce dal malcontento e dal disagio per le sempre più difficili condizioni ma-teriali di vita, che erodono i margini di consenso sempre più rarefatti dalla guerra.

1Sandro Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia

imperfetta (1947-1955) in Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta (Italia,Emilia Romagna), a cura di Luca Baldissara, Milano, Franco Angeli, 2006, p. 133.

2Luigi Ganapini, Protagonisti del conflitto sociale, in L’Italia alla metà del XX secolo.

Conflitto sociale, Resistenza, costruzione di una democrazia, a cura di L. Ganapini, Milano, Guerini e associati, 2005, p. 19.

(6)

Quando esplode, la conflittualità, è dapprima spontanea, poi organizza-ta e assume organizza-tanto maggior rilievo quando afferma che il lavoro, chiamato a misurarsi con la prospettiva politica-sindacale della “socializzazione”, è un valore in sé, in quanto è il «completamento e l’espressione stessa della perso-nalità umana»3. Inoltre il nesso tra conflitto sociale e antifascismo militante

che permea le lotte operaie del 1943-1945 acquista una rilevanza particolare perché, a differenza del primo dopoguerra, quando proprio dal conflitto e dalla mancata legittimazione del suo protagonista principale – il movimento operaio – era sgorgata la crisi del sistema liberale, ora è quello stesso protago-nista di allora a porsi come soggetto attivo di una legittimazione del nascente sistema democratico4.

Nel clima della ricostruzione come orizzonte comune delle varie parti po-litiche e sociali, l’atteggiamento delle organizzazioni operaie appare spesso improntato a una volontà di collaborazione costruttiva con la controparte padronale, determinata anche dal fatto che la “fabbrica” durante la guerra aveva rappresentato un «punto di ancoraggio e di sopravvivenza anche civi-le nel disfacimento di ogni altra istituzione», per divenire poi, alla fine del conflitto bellico, un luogo in cui la possibilità di lavorare viene a costituire «non soltanto una minimale garanzia di sussistenza, ma anche l’affermazione di specifici valori di cittadinanza politica»5. A rendere del tutto nuovo il

rapporto tra capitale e lavoro si aggiunge la nascita di un movimento opera-io e sindacale libero, dotato di proprie strutture di rappresentanza a seguito dell’accordo nazionale del 2 settembre 1943 e poi del Patto di Roma del 3 giu-gno 1944, che al ripristino delle Commissioni interne vedono l’inserimento di nuovi organismi di base come le Cellule comuniste, i Comitati di liberazione di fabbrica e i Consigli di gestione, che avevano contribuito alla germinazione

3Ganapini, Protagonisti del conflitto sociale, cit., p. 35.

4Luca Baldissara, Democrazia e conflitto. Gli anni Cinquanta come storia in

Democrazia e conflitto, cit., p. 31.

5Giuseppe Berta, Le Commissioni interne nella storia delle relazioni industriali alla

Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat. Saggi critici e note storiche, Milano, Fabbri, 1992, pp. 14-15.

(7)

di un reticolo di contropoteri tale da alterare profondamente i riti, le forme e la sostanza del comando capitalistico6. Questa forza organizzativa e politica

diviene un interlocutore imprescindibile per garantire non solo la sopravvi-venza degli impianti, ma anche per la gestione della forza-lavoro e dei piani decisionali nella direzione della fabbrica7.

1.2

Lavoro e conflitto sociale nel dibattito

po-litico e costituzionale

Per comprendere il ruolo e gli elementi distintivi che il sindacato doveva rap-presentare, all’interno del nuovo sistema democratico, è opportuno riprendere la discussione che a tal proposito era in atto in quegli anni tra i partiti po-litici, e in primo luogo tra la visione cattolica della Dc e quella comunista del Pci. Già nel suo programma del 1943 la Dc sosteneva l’ipotesi del sinda-cato di categoria autonomo e obbligatorio e nel 1945 Gronchi, in qualità di ministro dell’Industria, presenta un progetto di legge che prevede il “sinda-cato professionale” e la validità erga omnes dei contratti da esso stipulati e registrati8; il leader della Dc De Gasperi è favorevole alla prospettiva di un

sindacato unico, riconosciuto come ente di diritto pubblico, così come altri esponenti Dc affermano la necessità di un sindacato apolitico9.

Questa concezione neocorporativa non può non entrare in rotta di col-lisione con l’ipotesi classista, che si fonda sulla libera adesione del singolo sia al conflitto che al sindacato, i comunisti sono infatti fermamente contrari all’ipotesi di un sindacato giuridico obbligatorio10 e nella sua relazione

sul-l’ordinamento sindacale, presentata alla III sottocommissione dell’Assemblea

6Andrea Rapini,Aurora ed eclissi della democrazia industriale. Il caso Piaggio

(1943-1947), in Democrazia e conflitto, cit., p. 97.

7Rapini, Aurora ed eclissi della democrazia industriale, cit., p. 97.

8Baldissara, Democrazia e conflitto. Gli anni Cinquanta come storia, in Democrazia e

conflitto, cit., p. 32.

9Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 32. 10Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 32.

(8)

costituente, il segretario della Cgil Di Vittorio pone come punto di partenza il principio del diritto d’associazione come diritto fondamentale del cittadi-no, come «una delle espressioni più chiare delle libertà democratiche». Per garantire appieno questo diritto, la Costituzione doveva anche riconoscere il diverso valore di esso per i differenti strati sociali, non si poteva infatti presupporre che il cittadino lavoratore e il cittadino capitalista si trovassero in condizioni d’eguaglianza nel caso di controversie relative ai rapporti di lavoro.

Nella sua memoria, Di Vittorio esprimeva chiaramente anche la sua posi-zione riguardo lo status da attribuire allo sciopero, sostenendo che: «le libertà sindacali [. . . ] comportano il diritto di sciopero», che non può in alcun modo essere limitato perché: «è attraverso lo sciopero che i lavoratori - poveri e deboli, isolatamente – affermano la propria potenza e l’indispensabilità della loro funzione sociale. Il divieto di sciopero, per qualsiasi categoria di lavo-ratori, è una mutilazione della personalità; è incompatibile con il principio della libertà del cittadino, e si riallaccia piuttosto a quella del lavoro forza-to, che presuppone una condanna [. . . ]. Uno Stato democratico ha il dovere di riconoscere e di garantire il diritto di sciopero a tutti i lavoratori, senza eccezione»11.

La posizione democristiana sul diritto di sciopero era ben rappresentata da Giulio Pastore, futuro segretario della Cisl, che già nel dicembre 1945 sulle pagine del quotidiano di partito, “Il Popolo”, si era espresso «con un giudizio del tutto negativo per l’inserimento di ogni tipo di manifestazione a sapore politico nelle possibilità di azione del sindacato»12. Il programma sindacale

della Dc escludeva poi la possibilità per i dipendenti delle amministrazioni statali e dei servizi pubblici di esercitare il diritto di sciopero. Qualora poi il progetto Gronchi di “arbitrato obbligatorio”, avesse trovato applicazione, lo

11La relazione di Giuseppe Di Vittorio, da cui sono tratte tutte le citazioni del testo, è

ora disponibile in appendice al volume La Cgil e la costruzione della democrazia, Roma, Ediesse, 2001, con saggi di Adolfo Pepe, Pasquale Iuso, Simone Misiani.

(9)

sciopero sarebbe stato deprivato di senso, nonché di fatto istituzionalmente limitato e controllato13.

Furono Togliatti e Dossetti, nella I sottocommissione, a formulare la pro-posta di articolo relativa alla garanzia del diritto di sciopero. In seduta plenaria la discussione trovò poi un punto d’arrivo nella proposta della so-cialista Lina Merlin, di adottare integralmente la disposizione contenuta nel preambolo della Costituzione francese del 1946, di cui l’articolo 40 è dun-que la traduzione letterale. L’ordinamento costituzionale veniva in dun-questo modo a rappresentare nella storia italiana un fattore di discontinuità, dove le conquiste delle classi lavoratrici assumevano un valore costituzionale, non più concessioni di volta in volta strappate sul terreno del conflitto sociale e dei rapporti di forza in seno alla società, ma “guarentigie stabili” limitanti e vincolanti la stessa funzione legislativa14

Così sul terreno specifico della concezione dell’ordinamento del lavoro, la Costituzione del 1948 non concepiva più il cittadino esclusivamente nella sua individualità, ma anche nella relazione con la società, entro un disegno che tendeva appunto alla democrazia sostanziale, non solo al riconoscimento dei diritti fondamentali ma anche alla definizione di precise garanzie sociali. Del tutto nuova era nella Costituzione la posizione del lavoratore all’interno dell’impresa: non più prestatore d’opera dietro compenso, ma un cittadi-no che nello svolgimento dell’attività lavorativa consegue dignità sociale e realizzazione della personalità15. Con l’articolo 39 (libertà sindacale), con

l’articolo 40 (diritto di sciopero) e con l’articolo 3 che - come sostenuto con decisione da Di Vittorio - realisticamente assume l’esistenza nella società di due parti distinte, il datore di lavoro e il lavoratore, che possono casual-mente avere coincidenza di interessi, ma mai identità di fini, la Costituzione

13Pietro Ciarlo, Lo sciopero tra fatto e diritto nella fase costituente: Italia e Francia,

in scelte della Costituente e cultura giuridica, II, Protagonisti e momenti del dibattito costituzionale, a cura di U. De Siervo, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 409.

14Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 38. 15Baldissara, Democrazia e conflitto, , cit., p. 39.

(10)

riconosce l’autonomia collettiva espressa dall’organizzazione sindacale nella contrattazione, ed anzi lo Stato ammette l’importanza delle funzioni assolte dal sindacato nel tutelare interessi di carattere collettivo; di conseguenza, attribuendo il diritto di sciopero alla libera espressione della personalità del cittadino lavoratore, viene sancito anche lo spazio istituzionale del conflitto sociale, che, nella libera dinamica degli interessi tra le parti contrapposte, avrebbe risposto democraticamente alla necessità di risolvere specifiche que-stioni economiche e sociali in modo più adeguato di quanto non avrebbe potuto fare lo Stato con un proprio intervento diretto16.

1.3

Dinamiche di potere e contesto sociale negli

anni del “centrismo”

Il 18 aprile 1948, data fissata dal governo De Gasperi per le prime elezioni repubblicane del Parlamento italiano, costituisce per molti aspetti uno spar-tiacque nel contesto politico sociale italiano. Quelle elezioni segnarono la resa dei conti tra le forze politiche che si erano presentate come protagoniste della rinascita democratica del Paese dopo la caduta del fascismo, inaugurando la nascita di un sistema politico costituito intorno al “peculiare” equilibrio tra un partito, la Dc, destinato a esprimere a lungo il centro motore del governo del Paese e un’opposizione, Pci e Psi in primo luogo, costretta ai margini dell’azione politica e dell’alternativa di governo17. La fragilità del sistema

di collaborazione tra i diversi schieramenti era già evidente nel maggio 1947, quando, l’uscita delle sinistre dal governo, insieme al contemporaneo deterio-ramento a livello internazionale dei rapporti tra le potenze uscite vincitrici dal conflitto bellico, andava determinando una rigida ripartizione dell’Europa in due compatte sfere d’influenza bipolari. Con il progetto di aiuti

all’Eu-16Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 39.

17Francesco Barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, in Storia dell’Italia

re-pubblicana, 1. La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, p. 123.

(11)

ropa occidentale pianificato dal segretario di Stato americano Marshall, la Dc trovava le risorse economiche, la cornice di cooperazione internazionale e soprattutto l’appoggio strategico americano che ne avrebbe garantito il suc-cesso; così, come annotava lo stesso Calamandrei in quei giorni, la posta in gioco del l8 aprile aveva determinato «la trasformazione della elezione del primo Parlamento italiano in un plebiscito nazionale per lo schieramento del sistema bipolare appena costituito, [. . . ], comportando una gravissima limi-tazione alla efficacia della libera espressione del voto», «l’eventuale vittoria del Fronte Popolare», continuava Calamandrei, «avrebbe prodotto non un governo di sinistra, ma una guerra civile tesa ad assicurare la permanenza dell’Italia nel campo Occidentale»18. Dopo quella data, il confronto intorno

sia alle scelte di governo, che alle modalità di espressione dell’opposizione, infatti, andò progressivamente esprimendosi non solo e non tanto con l’a-sprezza talora propria del dibattito politico, ma attraverso la costante messa in discussione della effettiva caratura democratica dell’avversario, sino a du-bitare, se non a negarla, della fedeltà alla democrazia sorta dalle macerie della guerra e dal crollo del regime fascista19

Innanzitutto De Gasperi, nel gettare le basi politiche per la ricostruzio-ne economica del Paese, si trovava sul tavolo le drammatiche dimensioni di una disoccupazione lavorativa che, attestata nel dicembre 1947 su 1.800.000 unità, riprendeva a salire in modo esponenziale, superando nel febbraio 1948 la soglia di 2.000.000 di disoccupati20. Il deterioramento del quadro sociale,

oltre che dall’ampiezza delle cifre, era segnato dall’applicazione sempre più frequente che gli imprenditori davano a un accordo dell’agosto 1947 fatto con il sindacato, quest’ultimo accettava la revisione del sistema dei licen-ziamenti definitosi a ridosso della guerra, che praticamente ne stabiliva un

18Riportato in Barbagallo, La formazione dell’Italia democratica, cit., p. 127. 19Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 22.

20Giorgio Mori, L’economia italiana tra la fine della seconda Guerra Mondiale e il

“secon-do miracolo economico” (1945-1958), in Storia dell’Italia repubblicana, 1. La costruzione della democrazia, cit., p. 189.

(12)

contingentamento; con il nuovo accordo invece si distingueva tra licenziamen-to individuale e licenziamenlicenziamen-to per riduzione di personale, che di fatlicenziamen-to apriva la strada allo sblocco dei licenziamenti.

La difesa del posto di lavoro e dei diritti di cittadinanza operaia all’inter-no delle fabbriche, usciti rafforzati dalla stagione partigiana e dalla latitanza degli imprenditori nell’immediato dopoguerra, erano poi tutt’altro che con-divisi e sostenuti dalla maggioranza degli interlocutori padronali. Mano a mano che si profilavano le direttrici politiche ed economiche della ricostru-zione del Paese e della ristrutturaricostru-zione industriale, gli istituti rappresentativi dei lavoratori, dalle Commissioni Interne ai Consigli di Gestione, perdevano la loro funzione di mediazione nei rapporti aziendali e di controllo dei pro-cessi produttivi. La visione imprenditoriale nelle relazioni industriali era ben rappresentata dal presidente della Confindustria Angelo Costa il quale, già poco dopo il suo insediamento, rivendicava il ruolo dell’imprenditore come «elemento propulsivo e rivoluzionario nell’interno dell’azienda», «fulcro fon-damentale dell’azienda stessa», da contrapporre a quello frenante del lavoro, che rappresenta l’elemento conservatore, perché «preoccupato soprattutto dell’oggi»21.

Costa esprimeva una concezione condivisa da ampi strati dell’imprendi-toria italiana: la direzione dell’impresa doveva rimanere in un’unica mano, perché è «arte che non si improvvisa e per cui non esistono regole fisse», ed è incompatibile con il controllo da parte dei “subordinati”22. L’unicità della

funzione decisionale dell’imprenditore assumeva tratti esemplari nella gestio-ne che Enrico Piaggio aveva prospettato per lo stabilimento di Pontedera, dove la fabbricazione del motoscooter Vespa andava assumendo i caratteri di

21Massimo Legnani,”L’utopia grande-borghese”. L’associazionismo padronale tra

rico-struzione e repubblica, in L’Italia dal fascismo alla Repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali, a cura di Luca Baldissara, Stefano Battilossi, Paolo Ferrari, introduzione di Enzo Collotti, Roma, Carocci, 2000, p. 182.

22Massimo Legnani, ”L’utopia grande -borghese”. L’associazionismo padronale tra

(13)

una “nazionalizzazione a due ruote” . Dalla prospettiva dello stabilimento Piaggio il 1946, con qualche tempo di anticipo rispetto al contesto nazio-nale, si presentava come un osservatorio assai efficace: durante quell’anno la Commissione Interna, in corrispondenza dei primi successi dello scooter, pose alla direzione aziendale la necessità di rivedere il modo d’impiego dello straordinario, ormai da qualche tempo divenuto tanto selvaggio, quanto sot-tratto al controllo dell’istituto operaio24. La Commissione interna sollevava

il problema sotto una duplice luce: sostanziale e metodologica; da un lato chiedeva che le ore di straordinario conservassero il carattere di eccezionalità e non fossero trasformate in un prolungamento sistematico di quelle ordi-narie con il risultato di introdurre surrettiziamente una giornata lavorativa di 10 ore; dall’altra di poter comunque “vistare” le delibere come accadeva nell’immediato dopoguerra25. La direzione - che inaugurando una

consuetudine durevole interruppe ogni trattativa durante la mobilitazione operaia -rimase ferma nel ribadire il proprio intendimento di regolarizzare lo straordi-nario e al contempo di gestirlo unilateralmente, senza la codeterminazione dei rappresentanti operai, cui veniva assegnato l’esclusivo compito di segnalare irregolarità e abusi26.

La concezione delle relazioni industriali di Enrico Piaggio si offrono, inol-tre, come la cartina al tornasole di un processo di normalizzazione nel quale, al progressivo disconoscimento degli organismi operai, si accompagnano tor-sioni disciplinari miranti a realizzare ben definiti ambiti e gerarchie all’interno della vita di fabbrica. La vicenda del disco di circolazione, assegnato dalla direzione Piaggio ai dipendenti nel gennaio 1947, come unico modo per spo-starsi da un posto all’altro delle officine, si inseriva infatti in un più ampio processo di disciplinamento dei corpi che, procedendo in una continuità di

23Andrea Rapini, La nazionalizzazione a due ruote. Genesi e decollo di uno scooter

italiano, Bologna, Il Mulino, 2007.

24Andrea Rapini, La nazionalizzazione a due ruote, cit., p. 150. 25Rapini, La nazionalizzazione a due ruote, cit., p. 151.

(14)

fondo verso il ripristino dell’unicità del comando e della gerarchia interna, suggellavano la fine di quasi tutte le innovazioni realizzate nella grammatica delle relazioni industriali e di una democrazia industriale27. Il lavoro dunque,

nella visione imprenditoriale, era assunto come una componente organica del sistema capitalistico, alla quale il lavoratore non poteva sottrarsi; a togliere ogni residuo effettivo alla professionalità dell’operaio e alla sua dignità c’era poi la costante minaccia del licenziamento che, come una spada di Damocle, veniva impugnata dal padronato ogni volta che le rappresentanze operaie ri-vendicavano la tutela della loro cittadinanza operaia. A tal proposito si espri-meva nel 1949 l’industriale milanese Vittorio De Biasi: «gli operai devono rientrare in se stessi, lavorare con maggior rispetto per gli impegni che hanno assunto quando sono entrati nell’azienda. Questo è il problema sostanziale [. . . ] bisogna ripristinare la disciplina e rendere possibili i licenziamenti»28. Il

problema della disciplina dunque sovrastava ogni priorità aziendale, ristabili-re l’efficacia della gerarchia, farne riecheggiaristabili-re gli imperativi in tutti i ristabili-reparti e garantirne l’applicazione, non erano solo aspetti irrinunciabili e simbolici della ricostruzione del potere aziendale: erano considerati una misura neces-saria e preliminare alla trasformazione del ciclo produttivo; nella convinzione del management aziendale, la disciplina precedeva inevitabilmente la tecno-logia, la produzione in grande serie mediante la catena di montaggio non poteva essere realizzata senza che si fosse preventivamente condotto all’or-dine il sistema sociale di fabbrica , l’applicazione delle tecnologie moderne doveva quindi fondarsi su una riconoscibile sequenza d’autorità29. Questa

concezione non poteva quindi che respingere categoricamente ogni possibilità di mediazione tra le parti circa l’impiego dei capitali e la gestione interna delle aziende.

27Rapini, Aurora ed eclissi della democrazia industriale, cit., p. 120.

28Giorgio Caredda, Governo e opposizione nell’Italia del dopoguerra, Roma-Bari,

Laterza, 1995, p. 81.

29Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo

(15)

Con altrettanta forza si poneva la priorità, per il padronato, di togliere al conflitto sociale ogni tipo di istanza politica, e di contenerne tutti i suoi effetti; ed era ancora il segretario di Confindustria Costa a riflettere questo imperativo, ricordando al sindacato che: «Se ci dichiariamo reciprocamente i fini che ci proponiamo ci accorgeremo che i nostri fini non sono contrastanti e sarà facile raggiungere l’accordo. Ma se una delle due parti, affermando dei fini economici, perseguirà invece dei fini politici, l’accordo non potrà mai essere raggiunto»30. A cadere nella rete di questa visione aziendalistica delle

relazioni industriali era anche il diritto di sciopero. A dimostrarlo non vi era-no solo i continui tentativi di ridurre la sua efficacia all’interera-no della fabbrica, privilegiando il crumiraggio e infliggendo multe e sospensioni agli scioperan-ti, ma anche il sostegno costante che la compagine governativa metteva in atto, ispirandosi ad un disegno di mediazione dei conflitti del lavoro entro un orizzonte conciliativo e privatistico, dove l’amministrazione veniva a giocare un ruolo neutrale entro una visione a tutto tondo giuridica e non sociale del conflitto. In questa direzione si muoveva il ricorso all’operato prefettizio: il prefetto si incaricava cioè di tentare una composizione della vertenza, cercan-do di sottrarla il più possibile alla dinamica della controversia sindacale31.

Che l’articolo 40 della Costituzione fosse vissuto come un “malanno” anche negli ambienti governativi, era evidente nelle parole del ministro degli Interni Scelba che, in un articolo sul quotidiano “Il Popolo”, sosteneva: « [. . . ] è un fatto che le agitazioni sindacali a scopo politico sono di gran lunga superiori alle agitazioni a scopo economico. [. . . ]. Dovere delle classi dirigenti e pa-dronali è quello di eliminare rapidamente le cause del conflitto e di accogliere largamente, prevenendole anche, le legittime richieste dei lavoratori [. . . ] di isolare le agitazioni a scopo politico. La “non collaborazione”, lo sciopero a “scacchiera”, od a “singhiozzo”, le occupazioni di fabbrica sono illegittime anzitutto perché impediscono l’esercizio della libertà di lavoro sancita dalla

30Riportato in Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 43.

31Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta,

(16)

Costituzione a favore dei lavoratori che non vogliono partecipare a queste nuovissime forme di agitazione, ed a favore degli imprenditori i quali hanno il diritto di organizzare la propria azienda con piena responsabilità»32. Le

rivendicazioni di Scelba si concretizzarono violentemente il 9 gennaio 1950, quando, nel corso di uno sciopero generale proclamato dalla Camera del La-voro di Modena, per protestare contro la serrata delle Fonderie Riunite, la polizia, schierata davanti agli stabilimenti, aprì il fuoco contro i dimostranti, uccidendo 6 persone e ferendone, secondo le cifre ufficiali, 15. Purtroppo non si trattò né di un drammatico incidente né di un caso isolato; a riprova di questo vi sono sia le stime che, riprese e aggiornate da diversi studiosi - in riferimento al periodo compreso tra il 1948 e il 1954 - accertano 75 morti, 5.104 feriti, 148.269 arresti, 61.243 condanne33; sia l’arruolamento tra le

for-ze di Pubblica Sicurezza di agenti della Pai (la polizia coloniale italiana del periodo fascista) e il perfezionamento nell’equipaggiamento dei reparti, con mitragliatrici pesanti e mortai, trasformando gli agenti di Ps e in particola-re quelli della “Celeparticola-re” in veri e propri particola-reparti di pronto impiego militaparticola-re34.

Anche De Gasperi non si sottraeva dall’assumere una precisa posizione sul-l’utilizzo della polizia, nella difesa dell’ordine pubblico. Nel giugno del 1949,

32Riportato in Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 47.

33Giuseppe Carlo Marino, La Repubblica della forza. Mario Scelba e le passioni del suo

tempo, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 167; Marino sottolinea che i morti, i feriti e le condanne si concentrano particolarmente tra il luglio ’48 e la fine del ’50: 62 lavoratori uccisi, 3.126 feriti, 92.169 arresti di cui 19.306 condannati.

34Donatella Della Porta e Herbert Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla

Liberazione ai “no global”, Bologna, Il Mulino, 2003, gli autori scrivono inoltre della deci-sione del secondo governo De Gasperi di una “polizia militarizzata, centralizzata, e sotto stretto controllo del governo” (p. 71). E aggiungono: «fu soprattutto Scelba a dare alla polizia una chiara direzione politica contro i partiti politici e le organizzazioni collaterali del movimento operaio – condivisa da tutto il gabinetto e dal presidente del consiglio De Gasperi – con una crescente azione repressiva verso il sindacato e gli scioperi» (p. 73). Marino ricorda che “gli effettivi della polizia, dal luglio ’47 al gennaio ’48, sarebbero stati aumentati di 30.000 unità, fino a raggiungere una forza complessiva di 70.000 uomini, in aggiunta ai 75.000 effettivi dell’arma dei carabinieri e ai circa 40.000 agenti della Guardia di finanza: un vero e proprio esercito di 185.000 uomini, ben più numeroso dell’esercito nazionale”; in Marino, La Repubblica della forza, cit., p. 49.

(17)

intervenendo alla Camera dei deputati riguardo agli scioperi dei braccianti, affermò: «Può essere doloroso l’intervento della forza, ma è inevitabile»; poi l’uccisione di 3 braccianti a Torremaggiore nel novembre 1949, nel corso di uno sciopero, obbligarono il leader democristiano a chiedere ai colleghi parla-mentari: «Se sia possibile usare, contro le dimostrazioni e le violenze, mezzi di difesa che non siano le armi da fuoco. Naturalmente questo è un problema di carattere tecnico»35.

Una stretta ancor maggiore al diritto di sciopero venne inferta nel marzo 1950, in concomitanza con gli sviluppi della situazione coreana; attraverso una delibera, il Consiglio dei Ministri concedeva facoltà al prefetto di vietare cortei e pubblici comizi, per un periodo massimo di tre mesi. Allo stesso tem-po, inoltre, il governo richiamava a una rigorosa osservanza delle «disposizioni da tempo emanate riguardanti il divieto di comizi nell’interno delle fabbriche, senza preventiva denuncia alle autorità di Ps e il consenso del proprietario»36.

Inoltre in quello stesso periodo il Ministro Scelba, dopo aver in un primo tem-po predistem-posto una revisione delle norme elaborate dal fascismo attraverso il Testo unico di pubblica sicurezza (Tulps), accantonò il proprio progetto di riforma, optando per il mantenimento delle stesse. Il mantenimento del Tulps trovò piena applicazione nell’estate del 1950; lo scoppio della guerra di Corea, che portò la tensione internazionale e l’irrigidimento dei blocchi contrapposti Stati Uniti-Unione Sovietica a livelli altissimi, comportò un’ul-teriore torsione della situazione interna, intensificando nelle file governative e in ampi strati dell’opinione pubblica un’aspra denuncia contro la minaccia comunista; si sviluppò il motivo propagandistico della “quinta colonna”, at-tivisti dei partiti di sinistra determinati a sabotare, anche attraverso l’uso di armi, ogni attività del governo nel Paese37.

35Dichiarazioni di De Gasperi riprese dal verbale della riunione del Consiglio dei Ministri

del 1° dicembre 1949, riportate in Paolo Soddu, L’Italia del dopoguerra 1947-1953. Una democrazia precaria, Roma, Editori Riuniti, 1998, p. 107.

36Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta,

cit., pp. 187-188.

(18)

Al ministro degli Interni appariva chiaro che: «non è in giuoco, nella lotta odierna, soltanto la pace, la libertà e l’indipendenza del Paese; è in giuoco il patrimonio più alto, la sua civiltà creata ed impastata dalla sua fede religiosa», pertanto, proseguiva il ministro, «Rispettosi della Costitu-zione, siamo peraltro convinti che essa non può diventare la trappola per la libertà del popolo italiano, a cui garanzia è stata voluta»38. Difatti, anche

sullo specifico terreno della difesa e del rispetto della Costituzione, andavano contrapponendosi schieramenti e interessi inconciliabili; lungi dal divenire il punto di riferimento più importante, il testo cui ci si doveva sempre ispirare nella propria opera, finiva sempre più coll’essere avvertito come un intralcio nelle scelte di governo39. Già nel febbraio 1948, a poco più di un mese dalla

sua entrata in vigore, sentenziando su un ricorso di alcuni collaborazionisti, le sezioni riunite della Cassazione stabilirono la distinzione tra norme pro-grammatiche e norme precettive; ciò significava che solo le norme precettive dovevano essere applicate dalla magistratura ordinaria, dovendosi attendere l’emanazione di apposite leggi per consentire l’effettività di quelle program-matiche40. Con quella sentenza infatti si dava fondamento giuridico al rinvio

sistematico dell’attuazione costituzionale, con l’effetto di configurare un as-setto per molti aspetti divergente da quello fissato nella legge fondamentale entrato in vigore il primo gennaio 194841. In questa direzione andavano ad

colonna” è innanzitutto un determinato modello di relazioni sociali che si vuole imporre (come, del resto, è stato molti anni prima e molti anni dopo l’incubo della “Patria minac-ciata dai bolscevichi”): su una linea di fondo che porta “a difendere sempre e dovunque un ordine pubblico identificato ormai esplicitamente con l’ordine produttivo”», Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, cit., p. 186.

38Articolo di Mario Scelba, dal quotidiano “Il Popolo”, 17 agosto 1950, riportato da

Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, cit., p. 189.

39Soddu, L’Italia del dopoguerra 1947-1953, cit., p. 66. 40Soddu, L’Italia del dopoguerra 1947-1953, , cit., p. 65.

41Inoltre Soddu scrive: «La prima legislatura e parte della seconda si svolsero entro una

cornice fissata soprattutto da quella sentenza, sicché si potrebbe definire quella fase come dominata dalla “Costituzione del 7 febbraio”», Soddu, L’Italia del dopoguerra 1947-1953, cit., p. 67.

(19)

esempio anche le misure contro i manifestanti per la pace, che nei giorni della visita in Italia del generale americano Eisenhower - inerente al rafforza-mento dei rapporti che avevano fatto seguito all’adesione dell’Italia al Patto Atlantico nel marzo 1949 - avevano polemicamente restituito le cartoline di precetto militare appena ricevute; il governo aggirando l’articolo 103 della Costituzione – che attribuisce competenze ai tribunali militari in tempo di pace solo nel caso di reati militari commessi da appartenenti alle Forze Arma-te – fece ricorso ad una norma del codice penale emanata nel 1941, in periodo fascista, che consentiva di sottoporre alla giurisdizione militare i cittadini che non fossero in congedo assoluto, ovvero tutti gli uomini dai 18 ai 55 anni42.

Andava così acquisendo sempre maggior forza, sia nelle rivendicazioni dei partiti di sinistra che in quelle del movimento operaio, il tema della difesa della Costituzione, che se da un lato si inseriva nel riconoscimento e nelle garanzie che la Carta attribuiva al lavoro, dall’altro veniva a configurarsi come punto di riferimento per un diverso e più generale ruolo del sindacato nella costruzione e nel consolidamento della democrazia43. In tale contesto si

inseriscono, a titolo esemplare, i riferimenti ai dettati costituzionali presenti in un manifesto che la Fiom locale aveva affisso per le strade di Pontedera nel luglio del 1952, mentre era in corso una grave agitazione nei confronti dei metodi di Enrico Piaggio, il manifesto dichiarava: « [. . . ] le autorità, gli uomini che rappresentano il governo e che dovrebbero far rispettare la Costituzione perché non intervengono? Quanto aspettano a far leggere al

42Giancarlo Scarpari, La Democrazia cristiana e le leggi eccezionali 1950-1953, Milano,

Feltrinelli, 1977, p. 125.

43La connessione che in sede costituente la sinistra marcò tra la questione dello stato

e la dialettica di classe, così come la reazione al formalismo giuridico liberale, trasfusosi e autoritariamente reinterpretato nella dottrina fascista, avevano infatti messo a nudo i limiti di una concezione astratta dello stato, che aveva facilitato l’uso antidemocratico e illiberale della codificazione. In questo modo si era affermata l’esigenza di un nuovo modello di stato che incrinava l’idea tradizionale della sua “neutralità” e “apoliticità”, e si era profilata l’aspirazione al recupero da parte della politica, nella sua riconquistata dimensione democratica, di una funzione generale di indirizzo e di fissazione di principi e valori condivisi, presidio di difesa delle libertà democratiche, in Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 58.

(20)

dottor Piaggio l’articolo 41 della Costituzione dove riconosce che l’iniziativa economica privata non può che avere scopi individualistici, e l’articolo 42 che stabilisce il principio della funzione sociale della proprietà privata?»44.

Dello stesso tenore sono i contenuti di una lettera che un avvocato di Pisa invia alla Camera del Lavoro cittadina, dopo che questa aveva richiesto il suo interessamento, in relazione all’atteggiamento antisindacale in corso al-lo stabilimento FIAT di Marina di Pisa, l’avvocato riteneva che: «Il diritto di organizzarsi sindacalmente, il diritto di esprimere liberamente la propria opinione, il diritto di partecipare alla direzione delle aziende, sono sanciti co-stituzionalmente e devono essere rispettati da chiunque. La stessa Corte di Cassazione ha proclamato nella sentenza del 9 maggio 1953 l’obbligatorietà e l’inderogabilità delle norme costituzionali poste a garanzia dei diritti dei lavoratori. Ritengo quindi che i fatti denunciati costituiscano esplicazione di un’attività illegittima, contrastante con le norme della Costituzione»45.

Il richiamo allo spirito delle leggi e al dettato costituzionale cozzavano d’altra parte con la mancata attuazione di alcuni istituti fondamentali per il funzionamento dello stato di diritto, in primo luogo la Corte Costituzio-nale, che sarà istituita solo nel 1956. Le priorità legislative del governo, che alle elezioni amministrative del 1952 aveva subito una leggera flessione nei consensi, si muovevano piuttosto nella direzione di recuperare il pieno con-senso dei cittadini e di “proteggere” le istituzioni democratiche da qualsiasi tipo di minaccia. Nelle intenzioni del ministro della Giustizia Zoli il progetto di modifica del codice penale, la cosiddetta “legge polivalente”, si profilava come un provvedimento urgentissimo, tanto che: «Ogni ritardo al riguar-do, come diverse e non equivoche manifestazioni recenti fanno fondatamente

44Il manifesto è allegato alla nota riservata che la Questura di Pisa invia al Prefetto

Mocci Demartis, in data 6/7/1952, contenuto in Archivio di Stato di Pisa, Gabinetto della Prefettura, busta 61, categoria 16, fascicolo “stabilimento Piaggio Pontedera 1952”, (d’ora in poi ASPi, Gab. Pref.).

45La lettera dell’avvocato Carlo Smuraglia è contenuta presso l’Archivio della Camera

del Lavoro di Pisa (d’ora in poi ACCdL di Pisa), busta 30, fascicolo “licenziamenti arbitrali, violazione libertà varie nelle aziende della provincia di Pisa 1952-1956”.

(21)

temere, potrebbe arrecare pregiudizio irreparabile all’assetto del nostro Sta-to»46. A fare da corollario al progetto di modifica del codice penale - in cui

erano inserite, tra le altre, anche disposizioni sulla stampa che vietavano la distribuzione dei giornali murali, in quanto «per il loro contenuto, atti a pro-vocare incidenti e turbamenti dell’ordine pubblico»47 - era la riforma della

legge elettorale, la cui rilevanza era ben sintetizzata dal sottosegretario alla Presidenza del consiglio, il quale spiegando le finalità della riforma, osser-vava: «Perché si vuole introdurre il “collegamento” e il “premio”? [riferito al premio di maggioranza]. La risposta è semplice: per rendere più effica-ce la lotta contro il totalitarismo, la lotta contro il comunismo, movimenti politici che cercano di sfruttare ogni debolezza del sistema democratico par-lamentare per infliggergli un colpo mortale [. . . ]. La riforma elettorale ha appunto quest’obbiettivo: servirsi della scheda per ridurre la rappresentanza parlamentare dell’estremismo, dare stabilità alla maggioranza espressa dagli elettori, assicurare un’efficiente continuità di governo»48. Le elezioni

poli-tiche del 7 giugno 1953 non riuscirono però a far raggiungere ai partiti di centro quel 50% più uno dei voti, che avrebbe fatto scattare il premio di maggioranza.

La sconfitta del progetto che doveva porre le basi per uno “Stato forte”, come aveva dichiarato lo stesso De Gasperi in un’intervista giornalistica, non segnarono la conclusione dell’impegno governativo verso l’opera di conteni-mento e limitazione di ogni iniziativa del Pci e del moviconteni-mento operaio; anche su quest’ultimo infatti l’azione convergente di governo e padronato

portaro-46Introduzione al d. d. l., v. Atti Parlamentari, Senato della Repubblica, I Legislatura,

vol. XXI, ddl n. 2354, in Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, cit., p. 196.

47Nelle “nuove disposizioni sulla stampa” che il governo presenta alla Camera il 27 giugno

1952 rimangono escluse le pubblicazioni religiose, con la motivazione che “devesi escludere che queste possano avere vero e proprio carattere giornalistico”, da Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, I Legislatura, Documenti, vol. XXVIII, ddl n. 2801, in Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, , cit., p. 197.

48Riportato in, Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una

(22)

no ad un’ulteriore intensificazione dei ritmi di lavoro, accompagnata da una sempre più massiccia azione di rappresaglia nei confronti degli operai politi-camente più attivi. Per sottolineare le dimensioni delle dinamiche in gioco, nelle relazioni tra capitale e lavoro, che si andavano svolgendo, è interessante riprendere almeno due iniziative che vennero portate avanti in quel periodo. La prima prende le mosse da un esposto che la Camera del Lavoro di Pisa invia nel marzo del 1953 all’Unione Provinciale Industriali: «per protestare di fronte a vari provvedimenti, del tutto illegittimi, che sono stati adottati, in diverse circostanze da diverse aziende a carico dei lavoratori», la Camera del Lavoro si sofferma sulla descrizione di alcuni provvedimenti, riguardanti un breve arco di tempo, ritenuti profondamente antigiuridici, come quello avve-nuto alla Piaggio di Pontedera, dove: «si infligge una sospensione all’operaio Diomelli perché presta ad un compagno di lavoro il proprio giornale che ha in tasca»; ma sottolinea che: « è su un aspetto politico di fondo che questa Camera del Lavoro intende richiamare l’attenzione, [. . . ]. Un così largo e massiccio intervento delle aziende tendente a limitare il libero esercizio dei diritti da parte dei lavoratori, unito ad una recrudescenza senza precedenti di punizioni disciplinari, [. . . ] non può non indicare un profondo cambiamento dei rapporti tra maestranze ed aziende, non più improntati ad un equilibrato reciproco rispetto di diritti e di doveri, ma soltanto sui più brutali rapporti di forza», ritenendosi quindi «Pensosi della serenità dei rapporti tra maestranze e aziende, [. . . ] chiedono a codesta Unione degli Industriali di aderire ad una riunione cui partecipino le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, ed in cui, chiarito l’ambito dei reciproci diritti e doveri, si sancisca formale impegno al rispetto della legge, dei contratti, delle libertà fondamentali dei cittadini, che tali sono e restano i lavoratori fuori e den-tro della fabbrica»49. La risposta degli industriali arriva nell’aprile del 1953,

49L’esposto della Segreteria della Camera del Lavoro di Pisa del 24/3/ 1953, da cui

sono tratte tutte le citazioni del testo, è contenuto presso ACCdL di Pisa, busta 30, fascicolo “licenziamenti arbitrali, violazione libertà varie nelle aziende della provincia di Pisa 1952-1956”.

(23)

grazie soprattutto all’interessamento del Prefetto che aveva invitato l’asso-ciazione a «far conoscere il proprio punto di vista»50; l’Unione Industriali

rivolgendosi al Prefetto dichiara: «Sia per quanto attiene ai casi di merito che la impostazione generale, la Presidenza dell’Unione già ebbe a esprimere verbalmente all’Eccellenza Vostra il proprio punto di vista. A tale riguar-do è stato da noi risposto alla Camera del Lavoro, facenriguar-do presente che, se come affermato, la detta Organizzazione si mostra pensosa degli organismi istituzionali dello Stato e della tutela dell’ordine giuridico, detti problemi lo-gicamente debbono essere risolti, ricorrendo ai normali mezzi di difesa posti a disposizione dalle leggi e non possono ovviamente formare oggetto di esame in sede sindacale, al di la e al di fuori dell’ambito dei contratti collettivi di lavoro»51. L’Unione Industriali pisana sembra dunque aggirare le richieste

fatte dalla Camera del Lavoro su almeno due aspetti, prima fra tutte quella di un incontro, che come riferisce il Prefetto in una lettera all’organizzazione sindacale:«Il diniego dell’Unione non può essere imputata a questo Prefet-to»52, a cui si aggiunge la messa in discussione stessa del ruolo del sindacato

come organismo di tutela e di verifica delle condizioni dei lavoratori e della legittimità dei contratti. Si evidenzia inoltre la volontà imprenditoriale di togliere alle rivendicazioni operaie ogni carattere non solo politico ma anche costituzionalmente riconosciuto, a cui si contrappone un generico e ambiguo «ricorso ai normali mezzi di difesa posti a disposizione dalle leggi», che ri-mandano a quella concezione del tutto giuridica e non sociale del conflitto,

50Fa parte della lettera che il 31/3/1953 il Prefetto Mocci Demartis invia all’Unione

Industriali Pisana, nella quale aggiunge: «La Camera Confederale del Lavoro mi ha fat-to tenere copia della lettera n°748, diretta in data 24 corrente a codesta Associazione, e mi ha rivolto premure per un mio intervento teso a favorire un abboccamento fra le due Associazioni, nel corso della quale dovrebbero essere chiariti alcuni orientamenti di code-sta Unione che presiedono all’adozione di provvedimenti, nei confronti dei lavoratori, che apparirebbero, sotto il profilo della legalità, lesivi dei diritti e delle libertà sindacali dei lavoratori stessi», ASPi , Gab. Pref. b. 47, catg. 18, f. “vertenze sindacali”.

51ASPi, Gab. Pref. b. 47, catg. 18, f. “vertenze sindacali”.

52ACCdL di Pisa busta 30, fascicolo “licenziamenti arbitrali, violazione libertà varie nelle

(24)

ampiamente condivisa dalla compagine governativa.

Ma è proprio per la mancata applicazione e per la noncuranza nei con-fronti di tali leggi che, sempre nel 1953, le Acli milanesi redigono un “libro bianco” sulle condizioni di lavoro in fabbrica. L’associazione giunge a denun-ciare, con accenti più che decisi, la retorica padronale: «La classe lavoratrice si avvia dunque a diventare la grande accusata, che boicotta la produzione e gli interessi della Nazione, che sovverte il regime di tranquillità, che vige-rebbe nel Paese, che non ha senso di responsabilità, che ha di gran lunga migliorato la sua situazione economica, ma che spreca in consumi voluttuari, anziché investire in risparmi, i guadagni marginali di stipendi e salari»53. Il

“libro bianco” dell’associazione cattolica si basa su un’ampia descrizione delle condizioni di lavoro nell’area milanese agli inizi degli anni Cinquanta, otte-nuta grazie ai questionari diffusi dalle stesse Acli in vari settori dell’industria, nelle denunce si legge:

– Si è sempre finora impedita qualsiasi organizzazione sinda-cale. Non si è mai lasciata organizzare la Ci. Si è ricorsi al licenziamento, alla paura, alle doppie buste per impedire l’organizzazione sindacale.

– Riguardo alle multe citerò soltanto il caso di un’operaia in stato di gravidanza che, sorpresa a mangiare del pane, è stata multata di L 100; a chi faceva rilevare al titolare le condizioni della donna, egli rispondeva che non era tenuto a sapere le condizioni di tutte le operaie. Ma la multa è rimasta54.

A incentivare il governo italiano nel proseguire sulla strada intrapresa nei confronti del movimento operaio, si aggiungono le direttive poste

dall’amba-53La classe lavoratrice si difende. Dal “libro bianco” delle Acli milanesi all’Inchiesta

Parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, Milano, Acli, in Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, cit., p. 159.

54La classe lavoratrice si difende, in Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto

(25)

sciatrice americana a Roma, Clare Booth Luce; in un discorso tenuto negli Stati Uniti nel gennaio 1954, la signora Luce dichiarava: «bisogna che in Italia essere comunisti diventi una vergogna e un intralcio pratico»55. Le

priorità dell’ambasciatrice americana vengono manifestate anche in una riu-nione che si svolge nel febbraio del 1954 con il presidente della Fiat Vittorio Valletta, alla vigilia dell’esame da parte delle autorità Usa di nuovi aiuti al governo italiano e – sotto forma di rilevanti commesse militari – alle imprese del nostro Paese; l’ambasciatrice ricordava a Valletta che:

la situazione della Fiat è ben conosciuta favorevolmente dalle Au-torità Usa, [. . . ] però è ben certo che negli Usa e quindi anche presso molti elementi del Congresso americano può determina-re una sfavodetermina-revole impdetermina-ressione il fatto che nella formazione delle Commissioni interne operaie presso le aziende dei grandi centri continuino ad essere nominati degli iscritti alla Cgil ed alla Fiom e che non vi siano progressi nei voti raccolti dalle liste della Cisl e della Uil. D’altra parte si avrà pure sfavorevole impressione da parte delle Autorità Americane se il nuovo Governo italiano non farà qualcosa di sostanziale agli effetti della lotta anticomunista56.

Ancora nel 1954 infatti la Fiom-Cgil aveva alle elezioni delle Commissioni interne alla Fiat il 63% dei voti, contro il 25% della Cisl e l’11% della Uil. L’anno successivo, il 1955, la Fiom crollava al 36%, mentre la Cisl addirittura raggiungeva il 40% e la Uil il 22%57. In altre sezioni dove la Fiom aveva

man-tenuto, nonostante tutto, buoni risultati, come a Lingotto, la Fiat licenziò 350 operai58.

55In la Luce viene dall’Occidente, testo riprodotto nel numero monografico di “Rinascita”

intitolato “Inchiesta sull’anticomunismo, a. XI, n.8-9, agosto-settembre 1954, in Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia imperfetta, cit., p. 164.

56Gian Giacomo Migone, Stati Uniti, Fiat e repressione antioperaia negli anni

Cinquanta, in “Rivista di Storia contemporanea”, n. 2 aprile 1974, pp. 264-265.

57Questi dati sono riportati da Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture,

identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli, 1996, pp. 33-34.

(26)

In quello stesso 1955, il giorno dopo i risultati delle elezioni alla Fiat, iniziava a Torino il 31° congresso nazionale del Psi, e Pietro Nenni aprendo la sua relazione denunciava che: «L’intimidazione, il ricatto, la rappresaglia sono armi quotidiane e sistematiche [. . . ]. Gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi [. . . ]; si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso della fabbrica [. . . ]; gli agenti padronali sorvegliano gli operai oltre la cerchia della fabbrica [. . . ]; sono posti davanti all’alternativa o di votare come desidera l’azienda o di perdere il posto di lavoro»59.

La realtà delle affermazioni del leader socialista Nenni venne alla luce solo anni dopo, grazie alle iniziative dei pretori Angelo Converso e Raffaele Guariniello, con la scoperta di oltre 200.000 schede relative ai dipendenti Fiat, compilate fra il 1949 e il 1966. Erano redatte dall’Ufficio Servizi Generali della Fiat grazie alla collaborazione di funzionari di polizia, carabinieri, agenti del Sid60; una relazione della procura torinese osservava durante il processo in

corso che: «Tutori della legge dello Stato non solo fornivano alla Fiat notizie di carattere riservato, in quanto coperte dal segreto d’Ufficio, ma [. . . ] per tali prestazioni avrebbero ricevuto dalla società un compenso in denaro»61.

Denaro e donazioni servivano a raccogliere una massa minuta di infor-mazioni che in primo luogo privilegiava le opinioni politiche dei dipendenti o di chi faceva domanda d’assunzione; inoltre come aveva rivelato lo stesso Valletta nel gennaio 1954: «L’atteggiamento della Presidenza e delle Dire-zioni tutte della Fiat di aperta lotta nei confronti degli attivisti comunisti è stato sviluppato con continuità di metodo e di azione negli anni dal 1946 in avanti [. . . ]. In ogni altra occasione di sospensione dell’attività aziendale o di scioperi politici, le Direzioni Fiat provvidero con licenziamenti indivi-duali o collettivi. Non potendosi certo allontanare quegli attivisti che pur

59La relazione di Nenni è in 31° Congresso Nazionale del Partito Socialista,

Milano-Roma 1995, riportato in Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 34.

60Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p. 34.

61Il testo è citato in Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat, Torino, Rosenberg &

(27)

essendo colpevoli non potevano nelle inchieste rigidamente condotte risultare tali, la Direzione Fiat ebbe ad istituire un’apposita officina di produzione di parti secondarie di ricambio per autoveicoli nella quale vengono trasferiti elementi ritenuti non desiderabili nelle officine di normale produzione»62. Le

“apposite officine”, cui si riferiva Valletta, erano dei veri e propri «reparti confino», che non solo escludevano i dipendenti colpiti da tale provvedimento dalla libertà di svolgere attività sindacale e politica, ma rendevano oltretutto impossibile ogni loro relazione con la maggior parte dei lavoratori, ponendo così un’esclusione, anche fisica, del loro diritto di appartenenza al territorio della fabbrica63. D’altra parte le politiche dei licenziamenti convivevano, alla

Fiat e in altri stabilimenti, con assunzioni sempre più massicce. La lotta nei confronti dei nuclei tradizionali e organizzati della classe operaia, protago-nisti della ripresa conflittuale del 1943-1945 e poi del secondo dopoguerra, si conciliava inoltre con la possibilità da parte padronale di ricorrere ad as-sunzioni e contratti di lavoro particolarmente vantaggiosi; lo documentava la stessa Camera del Lavoro di Pisa, che nel suo promemoria dei primi mesi del 1955 per la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni nelle fabbriche, ravvisava che: «Agevolati dal fatto che nella nostra provincia ci sono disoccupati totali e un numero imprecisato di disoccupati parziali, gli industriali cambiano il diritto al lavoro per una loro elargizione da distribuire secondo il modo di pensare del lavoratore e rendono il rapporto di lavoro il più instabile possibile, per poter meglio imporre la loro volontà e bassi salari alla massa dei lavoratori»64. Tale atteggiamento era inoltre in contrasto con

62Migone, Stati Uniti, Fiat e repressione antioperaia negli anni Cinquanta, cit., pp.

264-265.

63Lorenzo Bertucelli, nazione operaia: culture del lavoro vita di fabbrica a Milano e

Brescia 1945-1963, Roma, Ediesse, 1997, p. 109.

64Nel promemoria si legge anche: « Avvalendosi della disposizione che permette

l’assun-zione nominativa di specializzati e persone di fiducia, gli industriali della nostra provincia assumono largamente con tali metodi operai, che poi, una volta entrati nell’azienda per-dono sia specializzazione “che fiducia”, e diventano manovali»; contenuto presso ACCdL di Pisa, busta 30, fascicolo “licenziamenti arbitrali, violazione libertà varie nelle aziende della provincia di Pisa 1952-1956”.

(28)

l’accordo interconfederale del 3 maggio 1953 sulle Commissioni interne, il quale stabiliva che: «l’assunzione dei lavoratori “deve essere fatta in confor-mità delle norme di legge sul collocamento”, dando in questo modo possibilità alla Ci di poter controllare se la legge suddetta venga rispettata o meno, gli industriali, [. . . ] si sono sempre rifiutati di permettere un tale controllo»65.

A rafforzare il quadro di questa situazione sarà un’inchiesta del 1958 fatta dal giornalista Mario Pirani, sui metodi aziendali alla Piaggio di Pontedera, dalla quale emergerà che «Piaggio preferisce avere in fabbrica un coltivatore diretto della Lucchesia, che per qualche tempo non avanzerà rivendicazioni, piuttosto che uno dei 1200 disoccupati di Pontedera»66, aggiungendo che «Le

400 operaie che lavorano alla Piaggio al momento dell’assunzione hanno do-vuto impegnarsi a dare le dimissioni in caso di matrimonio, liberando così il padrone dalle noiose leggi sulla maternità»67.

La vittoria ottenuta dalla Cisl nel 1955 nelle Commissioni Interne dei maggiori stabilimenti, non aveva comportato l’affermazione dell”’ideologia produttivista”, tendente a stabilire uno stretto collegamento tra rivendica-zioni salariali e aumento della produzione68. A rilevarlo era nell’aprile del

1957 lo stesso organo delle Acli milanesi, “Incontro”, osservando che fra il 1948 e il 1955 la produzione industriale era aumentata del 95% senza pra-ticamente assorbire la disoccupazione, mentre l’aumento dei salari era stato solo del 6%, contro un aumento del valore degli impianti del 44% e degli utili

65ACCdL di Pisa, busta 30, fascicolo “licenziamenti arbitrali, violazione libertà varie

nelle aziende della provincia di Pisa 1952-1956.

66Ritaglio de L’Unità del 9 febbraio 1958, presso ASPi, Gab. Pref. , b. 146, catg. 16,

sottofasc. “Stampa”.

67Da L’Unità dell’8 febbraio 1958, riportato in Crainz, Storia del miracolo italiano, cit.,

p. 115.

68M. G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni della

guerra fredda, in Storia dell’Italia repubblicana, 1. La costruzione della democrazia, cit., p. 921; inoltre M. G. Rossi afferma che la neocostituita Libera Cgil, divenuta Cisl nel 1950: « dietro l’assunzione di schemi e metodi di derivazione americana, presenta una mitizzazione acritica della crescita economica e soprattutto una scarsa propensione al conflitto, vuoi in nome del suo superamento in chiave modernizzante, vuoi per il peso della vecchia cultura cattolica, ancora largamente prevalente nella base de militanti».

(29)

distribuiti del’86% . La rivista delle Acli criticava poi la pratica degli ac-cordi separati e concludeva: «occorre realizzare sul piano sindacale l’unione dei lavoratori in termini d’unità d’azione da ricercare di volta in volta su problemi e rivendicazioni concrete»70. Eppure era stato lo stesso segretario

della Cisl Pastore a ricordare qualche anno prima che «noi non consideriamo un autentico sindacato il sindacato comunista»; come d’altra parte era stato proprio il tema della “politicità” della Cgil unitaria a giustificare gli scissio-nisti nel luglio 1948, all’indomani dell’attentato al leader del Pci Palmiro Togliatti, portando di conseguenza la controparte padronale a privilegiare accordi separati con i rappresentanti della Cisl.

Nel 1958 si presentano infatti alcuni segnali di mutamento nel rapporto tra i diversi sindacati. Nel marzo di quell’anno, alla vigilia delle elezioni di Commissione interna alla Fiat, viene diffuso un opuscolo anonimo, non mol-to diverso da quelli distribuiti o inviati dall’azienda alle famiglie degli operai negli anni precedenti, che ammonisce: «Presentarsi candidato o scrutatore per la Fiom significa mettersi in lista di licenziamento»71. La Cisl interviene,

denuncia l’iniziativa della Fiat e dichiara che non si presenterà alla elezioni se non cessano le interferenze padronali; causando così la rottura con una parte consistente della Cisl torinese, facente capo ad Edoardo Arrighi, che di quel clima e di quelle interferenze non aveva mai fatto denuncia72. Anche allo

stabilimento Om-Fiat di Brescia, il gruppo aziendale della Cisl sconfessa i membri di Commissione interna «filopadronali» e a dicembre, la Fim-Cisl in-dice un’agitazione assieme alla Fiom-Cgil; anche se allo sciopero partecipano solo 21 operai, la portata del mutamento in corso è data qualche tempo dopo

69Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia (1943-1969): dalla Resistenza all’autunno

caldo, Bari, Laterza, 1974, p. 299.

70Turone, Storia del sindacato in Italia, cit., p. 286.

71Riportato da Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. p. 62.

72Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. p. 62; Crainz aggiunge: « Il gruppo di

Arrighi fonda un sindacato esplicitamente filo-padronale che alle elezioni di Commissione interna ottiene il 25% dei voti fra gli operai e il 31% in totale (considerando cioè operai e impiegati); la Cisl non va oltre il 13% (l’anno precedente aveva il 50%), la Fiom-Cgil ha il 25% in totale e il 32% fra gli operai (ove riconquista la maggioranza relativa)».

(30)

da un rapporto prefettizio, dove si dichiara: «La Cisl non disdegna criteri e mezzi di lotta che sembravano sin qui dover essere prerogativa della Cgil»73.

Sempre nel 1958 iniziava a delinearsi quel grande processo di trasforma-zione economico e sociale del Paese che nel giro di poco tempo avrebbe as-sunto i caratteri del “miracolo”; le dimensioni del fenomeno apparivano chiare già con qualche anno di anticipo al presidente dell’Unione Agricoltori della provincia di Pisa, che attraverso una relazione al Prefetto intendeva porre l’attenzione: «Su un problema la cui portata gravissima è tale da significare un regresso della produzione agricola. [. . . ] Si è manifestato con sempre maggior rilievo il fenomeno di componenti di famiglie coloniche i quali si al-lontanano dalla terra, dove hanno lavoro e pane assicurato, [. . . ] per andare, ottenuto il libretto di lavoro, ad ingrossare le file dei disoccupati dell’indu-stria, o a occupare posti, il più delle volte di manovalanza, negli stabilimenti industriali»74. L’abbandono delle campagne accompagnato dalla crescita

im-petuosa di nuovi settori produttivi e dall’affermazione di quelli già esistenti, creava così nuova manodopera, spesso disposta, come lamentava lo stesso presidente dell’Unione Agricoltori, a ricoprire mansioni di manovalanza con una quasi certa bassa retribuzione. Settori trainanti del “miracolo” erano poi rappresentati da nuove aziende di elettrodomestici, che spesso sorgevano nelle zone dove mancavano vere e proprie tradizioni sindacali75. Il modello

73Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. p. 63; dove sottolinea che: « Gli episodi

Torino e Brescia annunciano l’avvio di un processo per nulla lineare, segnato anche in seguito da arretramenti e sconfitte. Era però destinato a stravolgere il quadro che sem-brava consolidarsi alla metà degli anni cinquanta, con il generale arretramento della Cgil e con una profonda spaccatura fra le organizzazioni sindacali (sancita ovunque dal molti-plicarsi di accordi separati, da premi anti-sciopero, dal diffondersi di forme molteplici di discriminazione).

74ASPi, Gab. Pref., b. 93, catg. 18, f. “Passaggio di agricoltori all’industria”; per il

Presidente dell’Unione agricoltori per ridurre il dilagare di questo fenomeno: « L’unica efficace azione da svolgere in sede provinciale è rappresentata da una rigorosa disciplina dei libretti di lavoro».

75Sergio Paba, Reputazione ed efficienza. Crescita e concentrazione nell’industria

euro-pea degli elettrodomestici bianchi, Bologna, Il Mulino, 1991, citato da Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. p. 116.

(31)

di queste fabbriche era spesso incentrato sulle piccole dimensioni degli stabi-limenti, sulla flessibilità dei dipendenti, sul paternalismo degli imprenditori e sul basso costo del lavoro76; ne costituivano dei modelli esemplari la

Can-dy: dove lavoravano 200 dipendenti «con un orario di lavoro “incontrollato” costellato di infortuni e senza alcun riparo alla nocività [. . . ]. Naturalmente, di Commissione interna e di scioperi neanche l’ombra»77; e la Ignis dove:

«Una Commissione interna che si era costituita nel 1953 durò appena sei me-si, al termine dei quali nessuno più dei cinque membri che la componevano era ancora operaio alla Ignis. Non erano stati licenziati, ma promossi nello staff dirigenziale o “liberalizzati” con anticipo di capitali, per costituire altri laboratori artigiani satelliti»78.

Si facevano inoltre sempre più evidenti, anche grazie ad alcune inchieste giornalistiche, le regole e le leggi non scritte che muovevano intorno al grande mercato economico e produttivo dell’automobile, appariva infatti nell’inchie-sta che Mario Pirani nell’inchie-stava conducendo sulla Piaggio di Pontedera, che il grande successo produttivo dello stabilimento toscano e del suo management non si allargavano alla città e alla regione in generale, Pirani infatti osservava:

Negli uffici della Direzione Piaggio vi è un grosso armadio di me-tallo. Dentro vi sono ventimila fogli con ventimila firme diverse: sono le richieste di assunzione che piovono da tutta la Toscana. A studiarle una a una verrebbe fuori un quadro esatto della crisi economica e sociale di una regione che passa per una delle più floride del nostro Paese.

Rilevanti appaiono le motivazioni che Pirani ritrova dietro a questo qua-dro:

76Paba. Reputazione ed efficienza, cit.

77Gianfranco Petrillo, La capitale del miracolo economico. Sviluppo, lavoro, potere a

Milano, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 128, 281-282.

78Paolo Bracaglia, Tempo di catena alla Ignis di Varese, «Vie Nuove», 29 ottobre 1960;

(32)

La stragrande maggioranza delle domande resta inevasa. E non per la impossibilità della Piaggio di allargare radicalmente la pro-duzione, ma per la spietata legge del monopolio che governa le cose in Italia. Quattro o cinque anni fa cominciarono alla Piaggio gli esperimenti per costruire assieme allo scooter un’automobile utilitaria a basso prezzo. [. . . ] Infine per le strade della provincia vennero viste una decina di vetturette che i collaudatori dicevano perfette: “era nata la Vespa 400”. [. . . ] Ma presto voci sotterranee fecero correre le prime delusioni, [. . . ]. La Fiat che si apprestava a lanciare la “500” a prezzo più alto non voleva concorrenti e mi-nacciava la Piaggio di invadere il mercato con una motoleggera che facesse guerra alla Vespa. Piaggio avrebbe potuto affrontare la lotta [. . . ], ma preferì scegliere la strada dell’accordo, anche se ne sarebbe venuto un danno all’economia nazionale. Ed è così che la “Vespa 400” si costruisce in una fabbrica impiantata in Francia, nei pressi di Nevers dove gli operai sfornano già cento vetture al giorno [. . . ], ma con il divieto di esportarle in Italia»79.

L’inchiesta giornalistica di Pirani coglieva in questo modo le molte ombre e gli squilibri che si celavano nel percorso accelerato del “boom economico”80,

79L’inchiesta di Mario Pirani, da cui sono tratte le citazioni del testo, è riportata in un

ritaglio de L’Unità del 9 febbraio 1958, in ASPi Gab. Pref., b. 146, catg. 16, sottofasc “Stampa”; il titolo dell’articolo è “L’inchiesta de l’Unità sulla Piaggio di Pontedera. Piaggio guadagna un miliardo al mese: un suo operaio porta a casa 40.000 lire. 20.000 domande d’assunzione. La storia della “400” proibita in Italia”.

80Giovanni Bruno, Le imprese industriali nel processo di sviluppo (1953-1975), in Storia

dell’Italia repubblicana,

2* La trasformazione dell’Italia. Sviluppi e squilibri. 1. Politica, economia, società, Torino, Einaudi, 1995; dove Bruno sostiene che in quegli anni abbia prevalso: « Una concezione dell’interesse generale che tende ad identificarsi con il successo dei singoli ope-ratori economici e, quindi, nella volontà di non alterare le condizioni e le caratteristiche del processo di produzione e nelle sfiducia di poter ricollocare lo sviluppo del paese su basi diverse, attraverso la crescita della domanda interna, l’allargamento della base produttiva e la riqualificazione dell’offerta, anche utilizzando specifici strumenti di intervento pubbli-co. [. . . ] La stessa condizione di sostanziale piena occupazione raggiunta nel 1963, quando

(33)

un percorso che sembrava invece sostanziarsi e risolversi nelle grandi cifre della produttività industriale e del reddito nazionale81.

1.4

Conflitto sociale nella costruzione della

de-mocrazia:un approccio per l’analisi storica

L’intensità e la persistenza della conflittualità sociale negli anni Cinquanta ha posto alla ricerca storica l’interrogativo di inquadrare, in una prospettiva più ampia, le culture politiche e le strategie di potere realizzate dalle classi dirigenti e dai gruppi sociali fin dalla formazione della democrazia postfa-scista. In gran parte della storiografia e delle scienze sociali il ruolo del conflitto sociale nella storia italiana ha spesso oscillato tra la sua considera-zione come mezzo “obbligato” sulla via di una osteggiata democratizzaconsidera-zione, quale inevitabile prova di forza imposta dalla chiusura del sistema politico, oppure come elemento di “residualità” del caso italiano, che nel perdurare della conflittualità esprimerebbe l’incapacità di fissare delle regole stabili e coerenti.

Nel recente studio sul ruolo svolto dal sindacato nel consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, promosso dalla Fiom di Bologna, in riferi-mento sia al quadro nazionale che a quello più specificamente emiliano, Luca

il tasso di disoccupazione scende del 2,5%, scaturisce anche dall’incremento dei flussi mi-gratori verso l’estero e dalla capacità di tollerare ancora ampie zone di sottoccupazione e disoccupazione nascosta», p. 388.

81Un quadro generale del mutamento economico in cifre è indicato da Crainz, storia

del miracolo italiano, cit., che afferma: « Il reddito nazionale netto, calcolato a prezzi costanti del 1963, passa dai 17.000 miliardi del 1954 ai 30.000 miliardi del 1964: quasi si raddoppia, cioè, in un decennio. Nello stesso periodo il reddito pro capite passa da 350.000 a 571.000 lire. Gli occupati in agricoltura sono più di 8 milioni ancora nel 1954, meno di 5 milioni dieci anni dopo: scendono cioè dal 40% al 25% del totale degli attivi, mentre nell’industria gli occupati passano dal 32% al 40% e nei servizi dal 28% al 35%. [. . . ]. Importante è quanto si produce, ma anche cosa si produce: fra il 1959 e il 1963 la fabbricazione di automobili quintuplica, salendo da 148.000 a 760.000 unità, i frigoriferi da 370.000 diventano un milione e mezzo [. . . ] e i televisori (che non erano più di 88.000 nel 1954) 634.000»; p. 83.

Riferimenti

Documenti correlati

Nella pratica, nel 1951, il rimedio pratico fu quello di rendere obbligatorio il contratto 

Sono previsti stage di sperimentazione operativa presso istituzioni e/o enti e/o aziende primari, che si svolgeranno nei mesi di settembre ed ottobre 2015.. La prova

As a possible way out, we follow the proposal presented in [1], that relies on two main cornerstones: the dual process theory of reasoning and rational- ity [7,8,9], and

appare come il pianterreno non sia altro che il primo piano dell’organismo originario, consi- derato che la muratura sembra conservare le medesime fattezze degli elevati anche a

perché si fonda sul confronto sociale, ma anche perché esercita conseguenze sia su chi lo prova, sia 9. sul suo bersaglio (Parrot & Rodriguez

First of all, it is possible to assert that intentionality is a property of all acts: representations, judgements and hearth dispositions are intentionally lived experiences: they

Per il testo del provvedimento in discussione (schema di provvedimento legislativo n. Lo schema di provvedimento n. 3 del provvedimento, nella stesura ministeriale, era il seguente:

La prova finale, consistente nella discussione di un elaborato scritto, si svolgerà entro il 15 novembre 2019. E’ prevista l’iscrizione gratuita per