Alla fine di settembre del 1952 la segreteria della Camera del Lavoro di Pisa invia un lungo memoriale al prefetto e all’Unione industriale pisana ri- guardante «la situazione dell’industria cittadina»89; il documento è in buona
parte il risultato dell’attività che fin dai mesi precedenti l’organo sindacale ha compiuto collaborando con le linee guida indicate dalla Commissione par- lamentare d’inchiesta sulla disoccupazione istituita nel dicembre del 195190.
Intorno ai dati elaborati la segretaria propone di affrontare «una seria e serena discussione tendente ad avviare i rapporti sociali su un terreno di distensione e creare alcune basi per un miglioramento della situazione attuale»; in primo luogo l’elemento su cui le altre istituzioni locali sono chiamate a confrontarsi riguarda «il determinarsi dei continui e sempre più preoccupanti tentativi di licenziamento di numerosi lavoratori delle aziende della provincia», tale feno- meno, prosegue il memoriale, «diventa sempre più preoccupante se si tiene conto dei dati della disoccupazione». Le cifre elaborate mettono in luce una realtà che avvalora ulteriormente le preoccupazioni della Camera del Lavoro: si legge infatti che «mentre nel novembre 1950 i disoccupati registrati al- l’Ufficio provinciale del Lavoro ammontavano a 12.662, al 31 dicembre 1951 risultano salire a 15.000, e al 31 agosto 1952 hanno raggiunto il numero di 15.200»; ai dati sulla disoccupazione si aggiungono quelli dei lavoratori «li- cenziati per cessata attività totale o parziale, calcolati in 705 unità, i 304 minacciati di licenziamento, e i 4000 operai che lavorano a orario ridotto; ri- sultano inoltre 3 aziende chiuse per cessata attività, 4 minacciate di chiusura e 5 grandi aziende che lavorano a orario ridotto». Per la Camera del Lavoro
89Il documento della Camera del Lavoro è contenuto in ASPi, Gab. Pref., b. 93, catg.
18, sottofasc. “Ordini del giorno”.
90Dalle carte della Camera del Lavoro emergono anche le diverse difficoltà che l’organiz-
zazione sindacale deve affrontare per condurre il memoriale; in una lettera che il 14/8/1952 la segreteria invia all’Ufficio Statistica della Cgil di Roma si legge ad esempio che «per quanto concerne le inchieste “Bilanci familiari” e “Forze di Lavoro” ci troviamo arenati nel lavoro per il semplice fatto che ci mancano alcune importanti istruzioni e direttive»; in ACCdL di Pisa, b. 29, fasc. “Documenti anni Cinquanta non riordinati”.
«la causa fondamentale della crisi che invade la nostra industria», va inoltre ricercata nel «progressivo immiserimento del mercato interno»; di fronte a ciò la segreteria propone di affrontare alcuni punti, tra cui: «il miglioramento del tenore di vita di tutto il popolo, come mezzo più efficace per risolvere la crisi; la Cassa integrazione per tutti i dipendenti delle aziende colpite da crisi; l’istituzione di scuole di qualificazione per i giovani lavoratori (in primo luogo alla Cmasa di Marina di Pisa); e l’inizio immediato dei principali lavori pubblici». Mentre da un lato viene rivendicato con forza il ruolo del sindacato “di classe” quale organo di difesa degli interessi dei lavoratori - riproponendo anche un indirizzo di crescita che rimanda in buona parte al Piano del La- voro del 1949 - dall’altro si afferma con altrettanta insistenza la necessità di porre le basi per un confronto generale, che coinvolga le principali autorità pubbliche ed economiche nella discussione di indirizzi di sviluppo economi- co, occupazionale e sociale che riguardano in primo luogo la struttura ed il tessuto stesso dell’intero territorio. Viene in tal modo delineato l’ulteriore sforzo e il tentativo di dare vita a quel modello sindacale che Di Vittorio evo- cava nel suo rapporto alla Costituente; affermando cioè il ruolo istituzionale del movimento operaio «posto a fondamento del processo di democratizza- zione»91, che assolvendo al contempo ad una funzione nazionale e sociale si
pone come legittimo interlocutore per la realizzazione di politiche sociali e di riforme economiche in direzione di una effettiva giustizia sociale. Tutta- via il confronto fortemente auspicato dalla Camera del Lavoro è destinato a rimanere completamente disatteso. Occorre infatti volgere lo sguardo verso le posizioni che vanno radicandosi all’interno della stessa Unione industriale pisana per comprendere il contesto entro cui si dispiegano i nodi problematici posti al centro dal memoriale del sindacato.
Già nell’aprile del 1952 infatti per l’Unione industriale si presentava evi- dente la necessità di inviare alle aziende associate una circolare con oggetto «rilevazioni scioperi e agitazioni»; nel documento si evidenziava che «la causa
perturbatrice del normale andamento produttivo», andava individuata «nel moltiplicarsi e nell’estendersi delle agitazioni»; per far fronte al dispiegarsi di tali avvenimenti l’organizzazione degli industriali si era impegnata:
ad effettuare, per le agitazioni medesime, una rilevazione statisti- ca che, meglio di quanto non sia stato fatto fino ad oggi, consenta di seguire il fenomeno nei suoi molteplici aspetti. Per la pratica realizzazione di tale fine pertanto la nostra Associazione confida nella consueta collaborazione delle Associate, alle quali è richiesto di provvedere a riempire in ogni sua parte e a restituire entro il più breve termine all’Unione il modulo del tipo di quello accluso92.
Nel “modulo” che l’Associazione - «allo scopo di rendere più agevole il compito delle aziende» - provvedeva direttamente ad inviare il giorno succes- sivo a «quello in cui si sarebbero verificate le agitazioni», venivano riservati degli appositi spazi in cui le direzioni dovevano indicare il numero comples- sivo dei dipendenti dell’azienda (suddivisi tra operai e impiegati), quello di coloro che avevano partecipato allo sciopero e infine di quelli rimasti al lavoro. Ricorrendo ad una rilevazione statistica degli scioperi, l’Unione industriale si propone così di coordinare il ripristino del «normale ordine produttivo» all’interno delle principali aziende della provincia. Un deciso impegno degli industriali verso queste iniziative indica l’accentuarsi di un’offensiva che mira in primo luogo a riportare la completa disciplina all’interno dei reparti, e ad individuare, «meglio di quanto non sia stato fatto» fino a quel momento, gli operai e gli attivisti sindacali che organizzano le attività rivendicative e si battono per vedere riconosciuti i legittimi spazi d’azione all’interno della fabbrica. D’altra parte la repressione nei confronti del diritto di sciopero e in particolare delle forme articolate di lotta, come gli scioperi a singhiozzo e a scacchiera - in cui gli operai alternano , nel tempo e nello spazio, periodi
92Contenuto in AsP, Fondo Direzione Generale, fil. 121, fasc. 1, Circolari “Unione
di interruzione a momenti di ripresa della prestazione lavorativa - viene ulte- riormente avvalorata dalla stessa giurisprudenza della Cassazione che, in una sentenza del marzo 1952, convalida le tesi di illiceità degli scioperi anomali facendosi portavoce della teoria del danno “ingiusto” e della corrispettività dei sacrifici. Questa interpretazione, come ha ricordato Claudia Finetti, giu- dica squilibrato in favore degli operai, e quindi iniquo, il rapporto tra perdite produttive e ricadute salariali tipico delle fermate parziali e irregolari. La stessa sentenza viene quindi ampiamente ripresa come un compendio di tut- ti gli argomenti che in questi anni suffragano la limitazione del diritto di sciopero93. Ma l’attivismo degli industriali pisani si inserisce inoltre in un
quadro più generale che proprio intorno al 1952 diventa il tratto distintivo di buona parte delle strategie imprenditoriali dei maggiori complessi produttivi; riferendosi ad esempio al contesto milanese e bresciano Lorenzo Bertucelli ha osservato che in questo periodo le restrizioni e i vincoli imposti ai militanti operai, e in primo luogo agli aderenti alla Fiom, assumono il carattere di ordinarietà:
configurando così la pratica repressiva non più solo come accen- tuazione delle rigidità disciplinari in occasione di momenti di ten- sione o di particolare necessità bensì come normale prassi ammi- nistrativa da attuare nei confronti di chiunque si ponga al di fuori dei percorsi delineati dall’azienda94.
I provvedimenti disciplinari e le pratiche repressive sembrano presentar- si nondimeno come elementi imprescindibili per la realizzazione delle grandi trasformazioni produttive e del rinnovamento tecnologico; per gli imprendito- ri infatti, come ha ricordato Berta, lo sviluppo e l’innovazione degli impianti potevano rappresentare «un obiettivo realistico soltanto se si accompagnava-
93Claudia Finetti, “O sapevamo dal prete o dal libretto di lavoro”. Conflitti per i diritti
politici e sindacali a Bologna negli anni cinquanta, cit., p. 312.
94Lorenzo Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e
no al recupero del principio dell’unicità della gerarchia e della sua indiscussa autorità sulla gestione del personale»95.
Occorre a tal proposito volgere lo sguardo verso Pontedera, dove la Piag- gio non è più soltanto il “centro motore di attività pluricomunali” - come aveva dichiarato Maccarrone - ma si appresta a divenire il simbolo stesso della motorizzazione di massa, e la produzione della Vespa avanza quindi a ritmi accelerati, passando dai 91.048 modelli del 1951 ai 131.085 dell’anno dopo e incrementando ulteriormente la produzione nel 1953 con 171.200 mo- delli96. Questi dati - strettamente collegati agli investimenti volti al ricambio
delle attrezzature, dei criteri organizzativi, e del paesaggio complessivo della fabbrica - vanno oltremodo ad incidere in maniera determinante sulle “stra- tegie” che la direzione aziendale mette in campo nei confronti della forza lavoro operaia e delle organizzazioni sindacali di fabbrica. Mentre da un lato la direzione si propone di «non rispondere» alle richieste che proven- gono dalla Fiom, che presenta tra i diversi punti: miglioramenti economici; l’istituzione di una scuola aziendale per apprendisti; l’esclusione dei giovani dai lavori pesanti e il rispetto per le operaie del principio “a uguale lavoro uguale salario”97; dall’altro affida all’Ufficio di vigilanza il controllo capillare
delle attività e delle proposte che nello stesso periodo coinvolgono gli attivi- sti della Cisl, impegnati nella formulazione di una piattaforma rivendicativa «che consenta una più diretta partecipazione dei lavoratori agli indirizzi pro-
95Giuseppe Berta, Lo scontro, in Progetto archivio storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni
industriali alla Fiat. Saggi critici e note storiche, Fabbri Editori, Milano 1992, p. 191.
96Inoltre mentre durante il 1951 ogni operaio produce annualmente 30 Vespe, nel 1953 ne
produrrà 53. Tale risultato, come ha osservato Andrea Rapini, costituisce evidentemente «il risvolto della riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre uno scooter; tempo che in una manciata di anni passò da 120 ore a 30 ore», in La nazionalizzazione a due ruote. Genesi e decollo di uno scooter italiano, cit., pp. 174-175.
97Le proposte della Fiom vengono riportate nella lettera che il 18/9/1952 il direttore di
stabilimento Lanzara invia a Genova ad Enrico Piaggio, a tal proposito Lanzara riferisce che «abbiamo preso contatti con l’Unione industriale e saremo del parere di non rispon- dere, riservandoci l’opportunità o meno che l’Unione industriale risponda ad un eventuale sollecito», in AsP, Fondo Lanzara, fil. 179, fasc. 1.
duttivi dell’azienda» . Tra la fine di settembre del 1952 e per buona parte del 1953 attraverso le relazioni dell’Ufficio di vigilanza, il direttore di stabi- limento Lanzara è in grado di seguire con attenzione i contenuti e gli umori delle assemblee degli aderenti alla Fim-Cisl, ponendosi così nella preminente condizione di poter gestire di volta in volta le strategie e i metodi da mette- re in pratica nei confronti delle rivendicazioni sindacali. Nella relazione del 24 gennaio del 1953 si legge, ad esempio, «che il Consiglio della Fim crede opportuno, visto che la direzione non ha accettato le richieste, di mettere la questione nelle mani della Commissione interna», tuttavia il diniego posto alla richiesta di un premio di produzione, sembra suscitare reazioni rivelatri- ci delle strategie industriali in corso, «qualcuno - conclude la relazione - ha biasimato l’atteggiamento della direzione dicendo: “non dovevano trattarci così dopo quello che abbiamo fatto e quello che ci avevano promesso, e invece facendo così ci gettano nelle braccia dei comunisti”»99. I due organi sindacali
Fim e Fiom raggiungono così una piattaforma comune sulla richiesta di un premio di produzione, da cui sia comunque esclusa «ogni forma di propa- ganda insidiosa che possa urtare la direzione, e si astenga da agitazioni a carattere politico»100. Tuttavia «la prova di compattezza e di alta maturi-
tà sindacale dimostrata dalle maestranze»101.durante i due scioperi unitari
proclamati nel marzo del 1953, verrà definitivamente spezzata dall’intervento della direzione aziendale che nell’aprile condurrà un accordo separato con la Fim-Cisl, grazie soprattutto all’intervento diretto del segretario nazionale di categoria Sabatini. L’accordo, che in definitiva lascia «assolutamente insod- disfatti tutti i lavoratori e lo stesso Sabatini»102, crea all’interno delle diverse
98Lettera della Segreteria provinciale della Cisl inviata il 15/12/1952 alla direzione
Piaggio, in AsP, Fondo Lanzara, fil. 179, fasc. 1.
99Relazione in merito all”Assemblea generale della Cisl di Pontedera tenuta il 18/1/1953,
in AsP, Fondo Lanzara, fil. 179, fasc. 1.
100Relazione in merito alla riunione del 29/1/1953 tra i rappresentanti della Fiom e della
Fim, in AsP, Fondo Lanzara, fil. 179, fasc. 1.
101Manifesto della Commissione interna della Piaggio del 22/3/1953, in AsP, Fondo
Lanzara, fil. 179, fasc. 1.
rappresentanze sindacali un clima di reciproca sfiducia e tensione che contri- buisce oltremodo ad accentuare le distanze tra i militanti cattolici e la parte più combattiva della Fiom; nondimeno l’esito della vertenza ci permette di cogliere in maniera più approfondita la pervicace volontà degli industriali di ristabilire con ogni mezzo quella unicità del comando, che costituisce uno dei tratti fondanti, e di lungo periodo, delle culture imprenditoriali. Anche quan- do le richieste vengono avanzate dai militanti cattolici della Fim-Cisl, quindi non condizionati da alcun filtro di tipo ideologico-culturale, che possa essere letto come pregiudizialmente favorevole alle ipotesi di tipo conflittuale, agli occhi degli industriali tali richieste richiamano l’idea di un contratto tra le parti, che comunque comporta l’accettazione di una compartecipazione sulle strategie aziendali. E questo elemento pare emergere con particolare effica- cia dalle strategie messe in campo dalla direzione della Piaggio soprattutto nei confronti della Fim. Riguardo al patrimonio culturale degli imprendito- ri, Lorenzo Bertucelli ha infatti osservato che anche quando all’interno della fabbrica gli operai aderenti alla Fiom sono sconfitti, o comunque rilegati in posizioni marginali, non si apre la strada della «trasformazione dell’impre- sa secondo la logica d’integrazione comunitaria» basata su regole definite, e secondo una politica di relazioni aziendali contrattata: gli imprenditori puntano al «ristabilimento dell’ordine»103.senza preoccuparsi di ottenere il
consenso dei lavoratori, instaurando un sistema che necessita anche dell’uso di pratiche repressive, e che:
richiedeva alla gran massa degli uomini soltanto l’obbedienza, perché credeva di poter fare a meno della loro intelligenza e della loro responsabilità attiva, non riusciva a scorgere nella rappre- sentanza dei lavoratori altro che una minaccia virtuale, un osta-
«fonte degna di fede ha riferito che lo stesso onorevole Sabatini non è rimasto soddisfatto, ma, ha accettato solo in vista di ulteriori richieste di miglioramenti economici», in ASPi, Gab. Pref., b. 48, catg. 11.
103Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita in fabbrica a Milano e Brescia,
colo da aggirare con mezzi disciplinari, attraverso i dispositivi d’autorità o grazie a una politica di piccole concessioni104.
Da questa prospettiva le posizioni del management Piaggio, e in primo luogo dell’amministratore delegato, sembrano quindi già configurare in ma- niera accentuata i tratti principali di quel padronato troppo vincente, ripren- dendo la definizione di Bertucelli, che soltanto sul finire degli anni Cinquanta farà riemergere una determinata disponibilità al conflitto anche fra ampi set- tori del sindacalismo cattolico105. D’altro canto per quanto attiene alla speci-
fica esperienza della classe operaia lo stesso Aris Accornero non ha mancato di evidenziare, anche grazie alla sua esperienza diretta, i tre aspetti principali che a suo avviso avrebbero definito il limite della lotta operaia di questi anni: la non centralità rivendicativa della fabbrica, la divaricazione tra dovere po- litico e interesse economico, l’assenza del meccanismo di fabbrica dagli ideali alternativi, che fanno sì che «ad una lotta serrata e instancabile contro deci- sioni, politiche ed espressioni del predominio capitalistico sul sistema sociale, si accompagna una contestazione blanda - non esplicita, non sistematica, non articolata - del potere di comando padronale sul lavoratore al lavoro»106.
Interpretando invece l’atteggiamento del movimento operaio e sindacale pisa- no, Giovanni Contini ha definito “i Cinquanta” come «gli anni della sconfitta sindacale», subita per lo più «senza riuscire a farne derivare una ristruttu- razione organizzativa, ed un processo di ripensamento collettivo»107, mentre
Fulvio Conti ha posto l’accento sulla «subalternità del sindacato» nei con-
104Berta, Le Commissioni interne nella storia delle relazioni industriali alla Fiat, in
Progetto archivio storico Fiat, 1944-1956. Le relazioni industriali alla Fiat. Saggi critici e note storiche, cit., pp. 33-34.
105Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita in fabbrica a Milano e Brescia,
1945-1963, cit., pp. 212-213.
106Aris Accornero, Gli anni ’50 in fabbrica, Bari, De Donato, 1973, pp. 66-68 e p. 81. 107Giovanni Contini, Gli anni Cinquanta: una risposta tradizionale ai problemi della
sconfitta?, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, cit., pp. 427-428.
fronti di un «primato organizzativo della politica» . Queste interpretazioni, che peraltro hanno contribuito in maniera rilevante ad approfondire la vicen- da storica della Camera del Lavoro di Pisa, le sue articolazioni, le culture e le strategie del movimento operaio, sembrano tuttavia lasciare sullo sfondo le forme concrete e le stesse dinamiche della conflittualità sociale, che proprio in questo periodo vanno dispiegandosi all’interno delle fabbriche, segnando il dilagare - come denuncerà l’esposto della stessa segreteria Camerale nel marzo del 1953 - dei «più brutali rapporti forza». D’altra parte nelle stesse testimonianze di molti operai e attivisti sindacali «tutti gli anni Cinquanta sono anni durissimi», in cui ricorda ad esempio Mario Mannucci, entrato alla Piaggio nel 1949:
Vivevamo sotto il peso di una discriminazione quotidiana, era una sorta di campo di concentramento. Non potevi muoverti. Se c’era l’azione di andare al gabinetto [. . . ], non c’erano sportel- li. I sorveglianti guardavano cosa facevi, giravano continuamente. Non potevi fare una parola, quando facevi pipì uno accanto al- l’altro perché se veniva la guardia ti multava [. . . ]. Erano veri e propri aguzzini comandati a fare questa repressione continua nei confronti degli operai. É tremenda. Fu un’esperienza che gridava vendetta109.
In tale situazione i sindacalisti operai sono quindi costretti a lottare non più per ottenere quote di potere decisionale, ma per «difendere le condi- zioni stesse di sopravvivenza dell’organizzazione e i più elementari diritti dei lavoratori, compresi quelli alla vita e alla possibilità di associazione»110.
108Fulvio Conti, Il primato della politica: le attività non rivendicative della Camera del
Lavoro di Pisa dalla ricostruzione all’autunno caldo (1944-1969), in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, cit., pp. 390-391.
109Catia Sonetti, Dentro la mutazione. La complessità nelle storie del sindacato in
provincia di Pisa, cit., p. 73.
110Mario G. Rossi, Una democrazia a rischio. Politica e conflitto sociale negli anni
della guerra fredda, in Aa. Vv., Storia dell’Italia repubblicana, I. La costruzione della democrazia, cit., p. 920.
Nondimeno è molto difficile uscire da una situazione di subalternità che an- zi, con la graduale istituzione nei maggiori stabilimenti, a partire dai primi anni Cinquanta, dei cosiddetti «reparti confino», diviene - in modo partico- lare per i militanti comunisti e socialisti - «impossibilità di relazione con la maggior parte dei lavoratori, esclusione, anche fisica, dal diritto di appar- tenenza al territorio della fabbrica»111. Lorenzo Bertucelli ha riportato ad esempio il caso della Falck di Sesto San Giovanni, dove gli attivisti confinati in un capannone vicino allo stabilimento Vulcano, «subiscono come puni- zione l’inedia, la giornata vuota, che è come un continuo lavoro ai fianchi che stronca»112. Anche quando questi reparti non sono così dequalificanti
come alla Falck, chi vi finisce subisce in ogni caso - oltre all’isolamento - discriminazioni nei passaggi di categoria, nella definizione delle qualifiche e di conseguenza nei salari; a tale scopo pare peraltro destinato il «reparto Corte» alla Saint Gobain, in cui «si guadagnano 400 Lire in meno al giorno», e gli operai che vi lavorano «sono tutti manovali comuni, sbattuti ora di qua