Di fronte alle istanze di democratizzazione e alle rivendicazioni sociali che provengono dal movimento operaio e sindacale, le posizioni degli industriali pisani non si caratterizzano solamente per la loro unanimità, un’unanimità che si concretizza in un crescendo sempre più accentuato di licenziamenti e provvedimenti disciplinari nei confronti degli operai e dei militanti sindacali delle principali fabbriche della provincia, ma trovano il loro punto aggregan- te nel contesto più generale in cui si muove la parte maggioritaria del ceto imprenditoriale italiano nel suo complesso. D’altra parte già nei primi mesi del 1953 mentre vanno sostanziandosi in tutta la loro ampiezza «i più brutali rapporti di forza» all’interno delle fabbriche pisane - come sottolinea il già
132Adolfo Pepe, Il sindacato nel compromesso nazionale: repubblica, costituzione, svi-
luppo, in A. Pepe, Pasquale Iuso, Simone Misiani, La Cgil e la costruzione della democrazia,Vol. III, Roma, Ediesse, 2001, p. 64.
133Lettera del 21/4/1953 inviata all’Unione Industriale e alla Prefettura, in ACCdL di
richiamato esposto della Camera del Lavoro - l’Associazione degli Industriali della provincia di Genova dedica un ampio spazio dei suoi “Appunti informa- tivi”, una copia dei quali giunge mensilmente alla residenza ligure di Enrico Piaggio, agli scioperi che «in questa o quella regione vengono attuati per protestare contro la legge elettorale», per un motivo unicamente «politico, senza riferimento alcuno di carattere economico». Tale aspetto è reso possi- bile dalla “tolleranza” con la quale, secondo gli industriali genovesi, vengono affrontate le tesi della Cgil che, «cercando di spostare la discussione nella piazza», pretende di far affermare «il principio che nemmeno il Parlamento può limitare il diritto indiscriminato di sciopero»134. Anche se nella mag-
gior parte dei casi le sentenze emanate nei diversi gradi di giudizio, hanno ritenuto «lo sciopero politico come non inclusivo tra quegli scioperi a finalità sindacale dei quali la Costituzione all’articolo 40 ammette la liceità», per gli imprenditori liguri la soluzione migliore sarebbe comunque quella di adotta- re il “modello” tedesco il quale, «spingendosi anche più in là», prevede una disciplina giuridica che oltre a dichiarare la illiceità e la anticostituzionalità dello sciopero politico, è giunta «a considerare la responsabilità diretta delle organizzazioni sindacali nella proclamazione di uno sciopero politico e la Ma- gistratura ha riconosciuto il diritto alla parte danneggiata, ossia il datore di lavoro, di richiedere i danni derivati da uno sciopero politico». All’interno di queste condizioni pregiudiziali si misurano quindi le direttrici lungo le qua- li il ceto imprenditoriale è disposto a muoversi nei confronti del sindacato. Il conflitto sociale non solo può e deve essere evitato, ma la pubblicistica industriale non rinuncia ad esercitare tutta la sua pressione verso le stesse forze governo, considerate responsabili di mostrare ancora troppe incertezze sulla strada di una legislazione “forte” ed efficace, che restringa ulteriormente l’azione delle organizzazioni sindacali e in primo luogo della Cgil.
Mentre da un lato si sollecitano maggiori garanzie per superare quella che
134“Appunti Informativi” dell’Associazione degli industriali della provincia di Genova del
19/2/1953, n. 11, in Archivio Storico Piaggio (d’ora in poi AsP) Fondo Direzione Generale, Filza 121, fascicolo 1.
è apertamente considerata una «finzione giuridica insita nel riconoscimento stesso del diritto di sciopero», dall’altro sempre gli “Appunti informativi” si fanno carico di evidenziare in maniera perentoria che:
L’essenza del rapporto di lavoro rimane a carattere strettamente privatistico e tale deve rimanere, per tutelare la personalità stessa del lavoratore. Deriva da ciò che il rapporto di lavoro debba essere soggetto sempre a quei principi generali di diritto che reggono ogni obbligazione, tanto che per una anomalia giuridica quale è lo sciopero, circoscritto al rapporto di lavoro, è occorsa una norma costituzionale135.
Da tale prospettiva l’azione di forza con la quale gli industriali si impe- gnano a combattere le istanze operaie e sindacali, e ad attuare una vasta opera di licenziamenti, non solo è pienamente legittima, in quanto tesa a contrastare una «anomalia giuridica, quale è lo sciopero», ma risponde in primo luogo alla riaffermazione del «carattere strettamente privatistico» su cui poggia «l’essenza del rapporto di lavoro». I principi ispiratori dei dettati costituzionali, «vere e proprie convenzioni tra forze politiche in contrasto»136,
nonché la robusta legittimazione del movimento operaio e sindacale quali sog- getti attivi della vita democratica, devono quindi cedere interamente il passo al ruolo delle élites industriali, uniche depositarie del progresso e dello svi- luppo economico del Paese, in quanto, come aveva già ribadito alla fine del 1949 lo stesso presidente di Confindustria Angelo Costa - un imprenditore genovese «dalle profonde convinzioni cattoliche e dalla radicata inclinazione al liberismo» - di fronte all’assemblea confederale:
Noi industriali, che teniamo il nostro posto, in forza della no- stra capacità di lavoro, selezionati più dai fatti che dagli uomi-
135“Appunti Informativi” del 13/1/1953, n. 3, in AsP, Fondo Direzione Generale, Fil.,
121, f. 1.
136Massimo S. Giannini, Rilevanza costituzionale del lavoro, in “Rivista giuridica del
lavoro”. 1949, n. 1, p. 9; riportato da Luca Baldissara, in Democrazia e conflitto, cit., p. 61.
ni, che dovremmo rappresentare la classe più rapidamente rinno- vatesi, abbiamo maggiori possibilità di operare nell’interesse di tutti e soltanto a questo titolo noi possiamo aspirare ad essere la vera classe dirigente senza la pretesa di considerarci superiori a nessuno, consci più delle nostre responsabilità che dei nostri diritti137.
É attraverso queste parole che si comprende, come ha efficacemente sotto- lineato Legnani, «la trionfalistica esaltazione della creatività imprenditoria- le», che «rappresenta l’elemento propulsivo e rivoluzionario all’interno del- l’azienda», laddove il lavoro, «preoccupato soprattutto dell’oggi», è invece «l’elemento conservatore»138. Da qui ne discende, come ovvio corollario, la
necessità di mantenere la direzione dell’impresa in un’unica mano. Viene in tal senso riaffermata in maniera netta la difesa intransigente dello status quo: la direzione «richiede prestigio e autorità piena in chi la svolge», perché «è arte che non si improvvisa e per cui non esistono regole fisse», ed è quindi incompatibile con il controllo da parte dei “subordinati”. Non vi è allora possibilità di uscire dalla rigida concezione della gerarchia aziendale, una ge- rarchia in cui l’iniziativa operaia è legittimata solo in quanto si mantenga entro le compatibilità di fondo stabilite da chi ha “naturalmente” il diritto di stabilirle, ossia il legittimo proprietario.
D’altro canto da parte degli imprenditori, già nell’immediato dopoguerra, più che su una rappresentazione negativa del conflitto sociale in quanto tale si insiste sui pericoli di una deriva degenerativa della dialettica tra le parti: la patologia è identificata nella «politicizzazione» di un confronto il quale, se mantenuto nel suo «naturale» alveo apolitico, sfocia senza troppi ostacoli in un’intesa. Già nel luglio del 1946, in uno dei momenti più aspri della vertenza sullo sblocco dei licenziamenti, Angelo Costa scrivendo alla Cgil aveva infatti
137Massimo Legnani, “L’utopia grande-borghese”. L’associazionismo padronale tra rico-
struzione e repubblica, in L’Italia dal fascismo alla repubblica. Sistema di potere e alleanze sociali,cit., p.182.
affermato: «Se ci dichiareremo reciprocamente i fini che ci proponiamo ci accorgeremo che i nostri fini non sono contrastanti e sarà facile raggiungere un accordo. Ma se una delle due parti, affermando dei fini economici, perse- guirà invece dei fini politici, l’accordo non potrà mai essere raggiunto»139. In
questo senso inoltre, ha osservato Baldissara, l’origine del conflitto sociale è individuata, come già nel prefascismo, nella politica; la quale piuttosto che contribuire a comporre o mediare i contrasti, li alimenta140. Sempre il presi-
dente confederale ribadisce infatti: «la buona organizzazione del lavoro è un problema puramente economico», e ancora: «Io non sono un uomo politico e non ho aspirazioni politiche; se tutti, in omaggio alla apoliticità delle no- stre organizzazioni, ci preoccupiamo, senza secondi fini, del problema della produzione, assicureremo lavoro e benessere a tutto il popolo italiano»141. Si
manifesta in tale concezione non solo l’ostilità, se non l’ulteriore rigetto, per l’azione sindacale di tutela degli interessi dei lavoratori; ma il disconoscimen- to del ruolo e del valore stesso del Lavoro, inteso come attività attraverso lo svolgimento della quale il cittadino-lavoratore consegue dignità sociale e realizzazione della personalità, come riconosciuto nella Costituzione. Dalla prospettiva imprenditoriale il lavoro è assunto come componente organica del sistema capitalistico: disconoscerlo significa, secondo Legnani, cancella- re «la storia che gli imprenditori ambiscono a scrivere di sé e del mondo cui si professano artefici. Ciò che conta è piuttosto negare la inevitabilità del conflitto sociale connaturato ai rapporti di produzione che il capitalismo crea, e dunque la contrapposizione frontale tra imprenditori e operai». E la premessa di tale negazione non può consistere che nella rivendicazione della «funzione progressiva dell’imprenditore, della garanzia che essa rappresenta per la fondazione di una società aperta al ricambio e all’affermazione dei meriti individuali»142.
139Massimo Legnani, “L’utopia grande-borghese”, cit., p. 216. 140Luca Baldissara, Democrazia e conflitto, cit., p. 43. 141Massimo Legnani, “L’utopia grande-borghese”, cit., p. 216. 142Massimo Legnani, “L’utopia grande-borghese”, cit., p. 214.
L’affermazione di questi meriti assume quasi i tratti di una “apologia” della visione industriale nella trattazione che gli industriali genovesi, attra- verso gli “Appunti Informativi”, fanno «a proposito della celebrazione della festa del 1° maggio». Mentre viene respinta nettamente una concezione della Festa del Lavoro «classista e rivoluzionaria», gli industriali ritengono di poter «serenamente partecipare» ad una celebrazione della festa del lavoro, inteso questo «nel suo più ampio e più alto significato», in quanto:
Sono le categorie produttive che con maggior diritto possono esal- tare il lavoro non soltanto come fattore di progresso, ma anche come mezzo per affermare la personalità umana e per far sì che essa possa lasciare una duratura traccia nel cammino del progres- so. Tante e così profonde tracce ha lasciato la concezione classista nella vita politica se non nella vita del pensiero che è venuto a insi- nuarsi in molti l’idea che il cammino verso una maggiore giustizia sociale debba essere percorso soltanto tutelando ed esaltando il prestatore d’opera. Ne sono conseguiti, inevitabilmente, un am- biente quasi di diffidenza nei confronti dell’imprenditore ed un affievolirsi di quello spirito di iniziativa che di per sé è stimolo al formarsi delle imprese.
Ma la pretesa «classista» di proseguire verso una maggiore giustizia socia- le oltre a determinare «l’affievolirsi dello spirito di iniziativa», apre la strada a ben altri scenari altrettanto contrastanti e dannosi a quel cammino verso il progresso che «la libertà di intraprendere» e il «coraggio dell’iniziativa» stimolano e creano: difatti «laddove l’iniziativa libera è meno attiva o ha minore stimolo ad intervenire, è fatale che venga rimpiazzata dallo Stato». Quale sia la conseguenza degli interventi dello Stato nel processo produttivo o nella distribuzione - concludono gli industriali genovesi - è «ormai troppo nota per lunghe esperienze vissute»143. Vengono in tal modo ribadite alcu-
143“Appunti Informativi” dell’Associazione degli industriali della provincia di Genova del
ne delle principali trame argomentative intorno alle quali l’ala maggioritaria del ceto imprenditoriale italiano si è mostrata particolarmente sensibile fin dall’immediato dopoguerra, e che - in quel particolare contesto di frammen- tazione e fragilità del potere politico e istituzionale - hanno in buona misura contribuito al diffondersi all’interno della classe capitalistica di «una rappre- sentazione di sé come corpo distinto e alla pari, se non addirittura al di sopra, della sfera del potere politico»144. D’altra parte la ricusazione dell’interven-
to statale, tenacemente e altrettanto disinvoltamente perseguita attraverso «una continua richiesta di sottrazione dell’economia alla politica nel contesto di una sfrenata rivendicazione del “privatismo”, e del tentativo di dimostrare la capacità dell’organizzazione padronale di imporre la propria legge nelle fabbriche»145, costituisce uno dei caratteri fondanti attorno a cui si cemen-
ta quella “utopia grande-borghese” acutamente studiata da Legnani146, e al
tempo stesso rappresenta una delle costanti di lungo periodo della sua iden- tità collettiva, tant’è che a oltre trent’anni di distanza dalla fine della guerra l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli, voce certo non imputabile di «estremismo», poteva affermare che:
Gli imprenditori italiani non hanno mai considerato lo Stato come un’organizzazione sociale di cui essi fossero direttamente respon-
144Marica Tolomelli, Dalla negazione alla “ricostruzione” del conflitto. L’Emilia-
Romagna nell’Italia del 1943/48, in Democrazia e conflitto. Il sindacato nel consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, cit., p. 218.
145Luca Baldissara, Democrazia e conflitto. Gli anni Cinquanta come storia, cit., p. 42. 146«[. . . ]. Se si guarda al corso precedente della storia unitaria - ha ricordato Legnani - è
facile individuare nel modello privatista l’unico diffuso ed omogeneo terreno di cultura della grande maggioranza della borghesia italiana. Le stesse funzioni attribuite allo Stato, anche se si allargano, anche se acquistano la latitudine di una grande ristrutturazione dall’alto (come con il fascismo), sono pur sempre intese come misure di eccezione, strumenti volti a restaurare più che ad innovare. La cultura istituzionale dei ceti borghesi si inceppa e recalcitra quando viene sospinta a travalicare questo confine. [. . . ]. Il privatismo [. . . ] raccoglie voci diverse, dall’antistatalismo della tradizione cattolica (coniugato a nostalgie di “capitalismo popolare”) all’autonomismo di larghe zone della piccola e media borghesia democratica, pronta ad individuare – con ottica ancor più “ottocentesca” - nella figura del produttore indipendente l’antidoto ideale al processo di concentrazione e cartellizzazione accelerato dal fascismo», in “L’utopia grande-borghese”, cit., p. 132 e p. 134.
sabili, sia pure assieme agli altri gruppi sociali che compongono la comunità. Questo è stato probabilmente un vizio d’origine, molto grave, al quale rimontano non pochi dei mali e delle strutturali debolezze dei quali soffriamo147.
Tuttavia alla ferma volontà di precludere ogni forma di “intrusione” del potere politico in ambito economico, corrisponde, nella stessa logica azien- dalistica, la pretesa verso gli organi dello Stato del massimo impegno nella garanzia dell’ordine pubblico e della pace sociale. Ed è una pretesa che sem- bra farsi ancora più urgente all’indomani dell’insuccesso governativo nelle elezioni politiche del 7 giugno, con il riemergere di una conflittualità operaia che torna a minacciare la stabilità necessaria al «cammino verso il progres- so», come ricordato dagli stessi industriali genovesi. Sono ancora quest’ultimi difatti a tracciare un quadro efficace della posta in gioco: l’ «attuale fase di agitazioni» - scrivono alla fine di luglio del 1953 - «tende a ricreare nella vita economica italiana un nuovo elemento di disordine che pareva giusto ritenere ormai superato. Ciò trae con sé aumento dei costi, ma anche dimi- nuzioni produttive che di per sé sono elemento inflazionistico»148. Compito
dello Stato e delle forze politiche di governo è dunque quello di rimuovere, se necessario anche con l’uso della forza, ogni «nuovo elemento di disordine», per consentire all’iniziativa imprenditoriale di proseguire liberamente verso la strada della piena produttività e dello sviluppo economico. Scrive a tal proposito Legnani: «[. . . ] il ricorso alla repressione è allora non solo giu- stificato nell’ambito di singoli episodi, ma salutare espressione di una classe di governo conscia delle proprie responsabilità. Respinto come protagonista delle grandi scelte economiche, il potere politico viene rimesso sul piedistallo come garante della intangibilità della gerarchia sociale»149.
147Guido Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di Eugenio Scalfari, Roma-
Bari, Laterza, 1977, p. 71, citato in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 95.
148“Appunti Informativi” del 27/7/1953 n. 25, in AsP, Fondo Direzione Generale, Fil.,
121, f. 1.
Eppure l’allarme lanciato dagli imprenditori liguri di fronte alla nuova «fase di agitazioni» mette in luce anche un altro nodo di lungo periodo nei rapporti tra capitale e lavoro: è un nodo rappresentato «dalle richieste ope- raie per ottenere miglioramenti di carattere economico e normativo», a cui si accompagnano, «in alcuni settori di grande importanza»150, le pressioni
per «una sospensione dei licenziamenti». Dal punto di vista degli industriali mentre la concessione di aumenti salariali «porterebbe ad un aggravio no- tevolissimo del costo della manodopera», l’eventualità di sospendere i licen- ziamenti si presenta addirittura come «una pretesa innaturale», in quanto «le riorganizzazioni aziendali» oltre a costituire un «indizio di progresso», sono «la base essenziale per mantenere sui mercati internazionali posizioni di concorrenza»151. In tale prospettiva il contenimento del costo del lavoro
e il ridimensionamento della stessa struttura occupazionale non sembrano quindi rispondere solamente all’esigenza padronale di «riconquistare» le fab- briche152. Utilizzando come base di ricerca le «iniziative imprenditoriali tra
anni Quaranta e Cinquanta» nel contesto emiliano e bolognese, Simone Selva ha infatti osservato che l’“unicità del comando in azienda” oltre ad essere fun- zionale ad un indebolimento dello stesso ruolo di contrattazione economica del movimento sindacale, rappresenta «una vera e propria strategia di cresci- ta alla quale la classe imprenditoriale affida prima il processo di ricostruzione
150Gli industriali liguri fanno riferimento in particolar modo ai settori aziendali a parte-
cipazione statale. Esemplare in tal senso è il caso della Ducati di Borgo Panigale, passata nel marzo del 1948 sotto il controllo del Fim (Fondo per l’industria meccanica). Proprio alla fine di giugno del 1953 il Consiglio d’amministrazione annuncia ben 960 esuberi del personale, pari al 40% circa delle maestranze. Di fronte alla fortissima tensione creatasi in fabbrica, nel quartiere e in tutta la città, l’azienda giunge inoltre, il 26 luglio, ad at- tuare una serrata. Per quanto riguarda la vicenda della Ducati facciamo qui riferimento ai saggi di Sandro Bellassai e Simone Selva, entrambi contenuti in Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, cit.,.
151“Appunti Informativi” del 27/7/1953 n. 25, in AsP, Fondo Direzione Generale, Fil.,
121, f. 1.
152Sandro Bellassai, Noi classe. Identità operaia e conflitto sociale in una democrazia
imperfetta (1947-1955), in Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, cit., p. 154.
e quindi la successiva fase di sviluppo». Nell’ottica imprenditoriale allora: si difendono i rapporti di forza esistenti non solo perché evitano di dover gestire rapporti di forza all’interno delle aziende svan- taggiosi per le imprese stesse, ma anche perché consentono di ge- stire il momento contrattuale e quello dei risanamenti industriali, considerati strumenti essenziali per “crescere”153.
Viene così a configurarsi, secondo Selva, una politica di taglio del costo del lavoro «a prescindere dall’andamento complessivo delle imprese», che mentre da un lato si traduce in una sorta di indisponibilità imprenditoriale a sostenere la domanda interna, dall’altro «si rivela strategia di lungo corso destinata a durare ben al di là della fase ricostruttiva e dunque svincolata da scelte industriali dettate dalle impellenze postbelliche»154.
4.5
Prospettive di una “democrazia protetta”
Alla luce di quanto finora osservato può risultare allora legittimo chiedersi, come ha fatto lo stesso Selva, «quanto il ricorso agli argomenti politici da par- te delle forze padronali costituisse il nerbo della ristrutturazione capitalistica o quanto piuttosto esso non fosse strumentale, o per lo meno strettamente le- gato, alle stesse strategie di crescita dei principali gruppi imprenditoriali»155.
Tale “strumentalità”, mentre di fatto permette di respingere con particolare intransigenza anche le forme più moderate di rivendicazione economica - le uniche peraltro considerate legittime dalla stessa pubblicistica industriale - è d’altra parte funzionale, o per meglio dire in sostanziale sintonia, con gli orientamenti delle forze di governo e dei pubblici poteri, sempre più impegna- ti nella messa a punto di un «muro istituzionale» nei confronti dei “nemici
153Simone Selva, Gli industriali bolognesi e la ristrutturazione postbellica. Scelte economi-
che e iniziative imprenditoriali tra anni Quaranta e Cinquanta, in Democrazia e conflitto. Il sindacato e il consolidamento della democrazia negli anni Cinquanta, cit., pp. 287-288.
154Simone Selva, Gli industriali bolognesi e la ristrutturazione postbellica., cit., p. 284. 155Simone Selva, Gli industriali bolognesi e la ristrutturazione postbellica, cit., p. 291.
interni”, e in primo luogo di un Partito comunista ormai insistentemente presentato all’opinione pubblica come «la “quinta colonna” di una potenza straniera», che dopo aver «fatto scempio di ogni norma di convivenza civile si è messo da sé, sostanzialmente, fuori legge»156. In tal senso appare esemplare
l’intervista che l’industriale Gaetano Marzotto rilascia nel maggio del 1952